Chazelle

‘Babylon’ di Chazelle: il facsimile delirante di ‘C’era una volta a Hollywood’ di Tarantino

E tu futuro spettatore sei massimalista o minimalista? La partita di “Babylon” di Chazelle si gioca tutta qui perché il film ha diviso la critica e dividerà il pubblico per le sue smisuratezze, dal costo di ottanta milioni di dollari alla durata di tre ore e dieci, dallo stile frenetico e survoltato al cast capeggiato da Brad Pitt e la regia firmata dal rampante Chazelle divenuto nel 2016 con “La La Land” il più giovane regista della storia degli Oscar a vincere il premio.

Che tiri aria di scontro, per fare un esempio, lo indica il dato che i voti ottenuti sui magazine specializzati oscillino da 1 a 9, ma pesa anche l’appartenenza al genere del cinema sul cinema, ovvero un repertorio sterminato, abusato, celebrato e autocelebrativo fitto di molti capolavori e molti bluff, talvolta addirittura più incisivo se utilizzato a margine, fuori contesto e finanche per traslato (vedi la sequenza finale di “The Fabelmans” con la battuta di John Ford).

Per suo conto Chazelle ha concepito il kolossal come una tavola da surf che non prevede mezze misure e consente solo di salire o scendere anche perché il periodo storico s’adatta alla perfezione ai toni prescelti. Ci ritroviamo infatti alla fine dei ruggenti anni Venti, al momento del passaggio dal muto al sonoro che trasformò Hollywood da una sorta di avamposto bohémien e decadente, rifugio di avventurieri dediti a festini e sparatorie, focolaio di scandali sessuali, ambizioni spropositate e destini miserabili –la capitale del peccato descritta dal mitico libro Hollywood Babilonia e a livello più alto da quelli di Scott Fitzgerald- in un polo industriale imponente e futuristico.

Senza un attimo di tregua a partire dal prologo, un megaparty orgiastico sorvolato dalle acrobatiche riprese con la Steadicam, estenuante full immersion nella droga e la lussuria da cui emergono i tre protagonisti: Jack (Pitt), divo bizzoso, Nellie (Robbie), concupita stellina e Manny (Calva), factotum messicano, quest’ultimi pronti a tutto pur di scalare lo showbiz. Seguirà un profluvio d’incubi e deliri in un climax di perversioni individuali e di gruppo che moltiplica le sequenze crude e grottesche dalla comparsa che s’impala su una lancia a Nellie che deve piangere a comando, dal mostruoso obeso che ingoia topi vivi al produttore depresso che ficca la testa nel water.

Per il buon peso non mancano, certo, i flash sul tema del passaggio dal cinema muto al sonoro in modo da permettere a Chazelle di fare la faccia gentile rievocando sotto pseudonimo celebrities come Thalberg, Warner, Hearst, “Fatty” Arbuckle (che si fa orinare addosso da una ragazza che poi sviene per la coca) e i super allupati Charlie Chaplin e Gary Cooper o anche le prime di “Il cantante di jazz” e con licenza poetica “Cantando sotto la pioggia” uscito nel ‘52.

Quello che peraltro ci disturba è l’atteggiamento sostanziale del regista, attratto dai baccanali per punirli, interessato ai personaggi per sacrificarli, nostalgico della vecchia Hollywood per svergognarla. Sai che novità. A questo punto potremmo straripare elencando i modelli del centone zeppo a pari merito di presunzione e di talento, ma per rispetto del lettore che giustamente detesta i riferimenti enciclopedici dei critici ne facciamo uno solo, facile e recente: “Babylon” sembra infatti il facsimile di “C’era una volta Hollywood” di Tarantino. Stessa struttura corale attorno a tre personaggi a caccia di un posto al sole, stesse star -Pitt e Robbie-, stessa ambientazione sotto il cielo della California. Ma vogliamo mettere?

 

Babylon

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