Cinquant’anni dopo che Roland Barthes e Michel Foucault hanno avviato la demolizione del concetto di autore, sottolineandone l’inadeguatezza come fonte di significato, la critica cinematografica oscilla ancora tra approcci devoti e cauti alla questione. I primi, come se fossero improvvisamente liberati dalla repressione del loro entusiasmo, abbracciano con tutto il cuore l’autore come pratica euristica e propongono di usarlo come fonte di analisi esplicativa. I secondi, spesso allineati al pensiero post-strutturalista, cercano di delineare i modi in cui gli autori influenzano la circolazione della loro opera senza cadere nella trappola di difendere la reificazione borghese della loro posizione. Tra questi ci sono stati tentativi di affrontare i contesti storici e istituzionali degli autori, che hanno spesso ridotto la loro funzione a meri partecipanti alla commercializzazione del cinema, insieme a una ripresa di studi che si aggrappano ancora alla capacità dell’autore di mobilitare aspetti dell’identità, ad esempio, attivando fantasie sulla capacità degli spettatori di avere il controllo del significato ed esprimersi.
In questo contesto il cinema dell’inossidabile Clint Eastwood ha diviso e divide la critica in chi si crogiola in accuse di antisemitismo, razzismo, mascolinità eccessiva, autoritarismo, rudezza e chi esalta il coraggio del pluripremiato cineasta nel non essersi mai lasciato sedurre da sperimentalismi, continuando a proporre se stesso con grande rigore e autenticità.
Anche l’ultimo pregevole legal thriller di Eastwood si colloca nel solco del rigore stilistico e della classicità. Giurato numero 2 va dritto al punto senza giri di retorica: Verità/inno al ragionevole dubbio, giocando abilmente col motivo del visibile e dell’invisibile, dell’evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero ‘accecato’ dalla carriera. Le zone d’ombre sono tutte messe in luce da Eastwood, che mostra quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce grazie alla fotografia è limpida, l’illuminazione uniforme, l’inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. E qui risiede la profondità del film, molto più che nel dilemma morale che deve affrontare il protagonista e che richiede una sola scelta giusta, senza possibilità di sbagliare.
Justin Kemp, giovane uomo con un passato da alcolista e un futuro da papà – la moglie aspetta la loro bambina -, è convocato come giurato in un caso di omicidio alle porte di Savannah, in Georgia. La vittima, Kendall Carter, è stata presumibilmente picchiata a morte e abbandonata in un fosso dopo una violenta discussione con il suo ragazzo, membro pentito di una gang di quartiere. Il colpevole ideale per i dodici giurati e per il procuratore della contea in piena campagna elettorale.
Justin, giurato numero 2, realizza progressivamente la propria colpevolezza nella tragedia avvenuta un anno prima, nel cuore della notte, sulla stessa strada dove si era convinto di aver investito un cervo. Sotto una pioggia battente di ricordi, il marito perfetto si scopre omicida involontario e si ritrova difronte a un dilemma morale: confessare, scagionando l’imputato, o sottrarsi alla giustizia, condannando un innocente?
Il film cita il Sidney Lumet de La parola ai giurati quando entra nella stanza della giuria, formata da gente normalissima con convinzioni precostituite, mentre Justin che tenta di salvare la propria coscienza man mano scardina le loro convinzioni colpevoliste. Tuttavia, in Lumet Henry Fonda era l’eroe americano senza macchia, mentre in Giurato numero 2, il marito perfetto è anche l’inquieto colpevole, per quanto involontario, di una tragedia più grande di lui.
Qualcuno ha avuto una relazione o conoscenza con l’imputato prima di oggi? Chiede il giudice.
È stato passeggero del mio bus, risponde la giurata.
Gli atteggiamenti verso la rilevanza dell’autorialità corrono paralleli a una diffusa ansia nella cultura contemporanea causata dalla tensione tra il desiderio di trovare modelli di identità coerenti per guidare la nostra identificazione e la consapevolezza che le società postmoderne non offrono molto in tal senso, ovvero il conflitto tra un’adattabilità al cambiamento richiesta socialmente e il bisogno, anch’esso originato dalla società, di un’identità personale stabile e forte che possa sopravvivere a quello stesso cambiamento senza dissolversi in esso.
Tale conflitto può essere visto come la tensione creata dalla richiesta sociale di identità che sono allo stesso tempo deboli e forti, un conflitto visibile nei discorsi creati dal cinema americano e che risulta più visibile in quei film che sono associati ad autori con una potente presenza culturale, acquisita attraverso una lunga carriera di regista o attraverso la loro contemporanea condizione di attori di punta. Clint Eastwood, uno dei più importanti autori di questo genere nel cinema hollywoodiano contemporaneo, si erge come un prodotto culturale sintomatico di quella tensione, poiché i significati che ha accumulato nel corso della sua lunga carriera. includono fantasie sia sull’autosufficienza che sulla flessibilità del soggetto contemporaneo.
Le diverse fantasie offerte dal cinema di Eastwood, Giurato numero 2 compreso, spaziano dal sé maschile determinato a quello duttile e si combinano tra loro in vari modi, attestando le tensioni che attraversano le società contemporanee in merito alla formazione e alla circolazione dell’identità, mostrando i modi in cui la cultura statunitense riflette l’ansia maschile causata dalla pressione di adattarsi a una nuova sfera sociale in cui la malleabilità e l’identità come stile di vita sono più richieste rispetto al tradizionale ethos maschile di lavoro ed efficienza. Tale tensione è articolata dai film attraverso il ricorso allo status culturale di Eastwood come autore e rappresentante del maschio statunitense.
La sua circolazione come voce autoriale mostra l’impatto di tale necessità di adattarsi ai tempi che cambiano, con conseguenti fantasie di espressione che suggeriscono allo spettatore una varietà di interventi autoriali. Sebbene i film di Eastwood siano pervasi dai significati
portati dalla sua potente presenza come attore, funzionano anche producendo fantasie su di lui come autore di cinema d’azione-spettacolo, di film indipendenti, di tentativi di revisione attraverso il melodramma e in generale su di Eastwood come autore con una visione del mondo molto personale. Del resto, chi oggi parla di ambiguità morale al cinema con il rigore di Eastwood, trattando contemporaneamente, senza partorire un guazzabuglio, politica, sistema giudiziario americano, vicenda personale, fede, fiducia della legge?
Parlando di indipendenza artistica, è utile sottolineare come la stessa società di produzione di Eastwood, inoltre, la Malpaso, illustra l’ambigua relazione dei suoi film con il mainstream: il suo ufficio si trova all’interno dei terreni della Warner Bros. dal 1976, a testimonianza della relazione di complicità e opposizione di Eastwood con Hollywood, che è fondamentale per comprendere il suo lavoro e il suo significato culturale. Un’ambiguità simile ha definito la connessione delle produzioni indipendenti con le major negli ultimi vent’anni, al punto che la comparsa all’interno dei grandi studi di divisioni specializzate in progetti dall’aspetto indipendente ha costretto gli studi cinematografici a ripensare il significato del cinema indipendente. Una volta che l’indipendenza economica è diventata un’utopia, l’etichetta indipendente è diventata un’ulteriore nicchia commerciale per l’industria, designando ora uno stile diverso caratterizzato dall’attenzione alla costruzione del personaggio, alla sovversione della struttura narrativa.