«Non abbiamo ormai detto tutto su vicende di 70 anni fa? Ha senso ritornarci sopra ad ogni ricorrenza? Ebbene sì, ha senso. Riconciliazione non significa rinuncia alla memoria». Queste le parole dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione delle celebrazioni per la Giornata del Ricordo delle Foibe del lontano 2013, degne di un Capo di Stato responsabile e attento a voler tenere vivo nel ricordo di tutti il dolore che ancora provano le vittime delle persecuzioni titine. Eppure, quando nel febbraio 2011 l’Unione degli Istriani denunciò pubblicamente la presenza del maresciallo Tito tra i cavalieri di Gran Croce della Repubblica, nessuno si indignò. «Chiedo al presidente della Repubblica di voler procedere all’annullamento immediato della benemerenza», il presidente dell’associazione in questione, Massimiliano Lacota, scrisse proprio a Giorgio Napolitano. «È semplicemente orribile e disgustoso che lo Stato italiano riconosca il dramma delle Foibe e allo stesso tempo annoveri tra i suoi più illustri insigniti proprio chi ordinò i massacri e la pulizia etnica degli Italiani d’Istria, ovvero il dittatore comunista Tito».
Ma quello sfogo non sortì alcun effetto. La grande stampa, la politica moraleggiante e Napolitano quasi si nascosero, ignorando l’appello di chi, ancora ferito, si sentiva umiliato dalla permanenza del proprio carnefice nell’elenco più importante dei benemeriti della Repubblica. Fa rabbia pensarlo. Il suo successore, Sergio Mattarella, ha impiegato settimane intere per comunicare chiaramente la volontà di ricevere al Quirinale le associazioni di esuli, dopo giorni e giorni di silenzio assordante. Non solo, come sottolinea in una nota che dovrebbe essere riconciliatoria Giovanni Grasso, direttore dell’Ufficio stampa e Comunicazione del Quirinale, Mattarella nel 2015, appena insediatosi, si limitò ad intervenire alla Camera con due note sull’accaduto, mentre lo scorso anno era in visita a Washington. Quest’anno, ancora una volta, si trova all’estero, a Madrid.
Non proprio due grandi esempi di autorevolezza istituzionale da parte degli ultimi due presidenti della Repubblica, ecco. Ma ciò che getta ancor più nello sconcerto è constatare come questa non sia ancora la più grande delle ingiustizie perpetrate ai danni delle vittime di quella pulizia etnica. Peggio ancora del parlare nel modo sbagliato di una tragedia è, infatti, non parlarne affatto. Ed è proprio il silenzio su questo tema che ha caratterizzato la storia repubblicana del nostro Paese: ignorare, apporre una pagina completamente bianca sui libri di storia. Ciò che ha cancellato per anni la tragedia del popolo giuliano-dalmata è stata anzitutto un’operazione culturale.
Scrive Nicola Imberti su Il Tempo: “Il Trattato del 1947 chiedeva all’Italia di «restituire» alla Jugoslavia l’Istria, con le città di Fiume e Zara e le isole di Cherso e Lussino (836.129 abitanti). Nonché prevedeva il diritto da parte jugoslava di requisire tutti i beni dei cittadini italiani. A luglio il testo approdò davanti all’Assemblea Costituente per la ratifica. E fu un plebiscito: su 410 presenti 262 votarono sì, 68 no, mentre in 80 si astennero. Storico (e citato nel libro) resta il discorso pronunciato in quell’occasione da Vittorio Emanuele Orlando che sottolineò tutta la drammaticità di un’Italia che si vedeva «amputata» di città e territori dove «l’italianità è più profonda, più intima, più pura».
A settembre il Trattato entrò in vigore ed iniziò una lunga e travagliata vicenda. In realtà già nel 1945 il presidente del Consiglio Ferruccio Parri e il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi avevano denunciato la scomparsa di 8.000 deportati italiani in Jugoslavia.
Insomma sapevano. Sapevano che, dopo la fine del conflitto, i vincitori jugoslavi avevano utilizzato qualsiasi mezzo per ottenere la «slavizzazione» della Venezia Giulia. I bilanci peccano spesso in difetto, ma si calcola che tra il 1945 e il 1956, circa 350.000 italiani fuggirono dall’Istria, da Zara, Fiume e dalle isole, e si ritrovarono profughi lungo la Penisola.
Il «Parere sull’importanza dell’insegnamento della Storia e del ruolo del docente» scritto dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nel settembre del 1960 recitava testualmente: «la trattazione dei fatti contemporanei… dovrà essere svolta… ai fini di apologia democratica, pacifista, antifascista».
Gli infoibati, non rientrando nella suddetta categorizzazione, restarono alla stregua di veri e propri fantasmi. Parlarne diveniva quasi controproducente, si rischiava di essere additati, etichettati, messi ai margini.
Qualcosa cambiò nel 1996 quando l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, con decreto ministeriale, stabilì che i programmi dovessero «contemperare l’esigenza di fornire un quadro storico generale». Da qui la «necessità di studiare l’intero Novecento e non solo la parte che possa far piacere, senza omettere, ma anche senza dimenticare che non si fa opera di verità confondendo vittime e aguzzini».
Da quel momento qualcosa iniziò a smuoversi, timidamente. La celebrazione di questa tragedia storica diventò man mano una questione politica: da destra si premeva affinché venissero riconosciute le responsabilità dei partigiani titini, da sinistra si gridava all’apologia di fascismo. Fino ai giorni nostri il dramma delle foibe ha rappresentato tutta l’immaturità dell’uomo moderno nel non saper rispettare, con il silenzio del cordoglio e non con quello dell’indifferenza, le vittime dell’ingiustizia, a prescindere dalle circostanze e dal periodo storico.
Proprio questa è la più importante testimonianza di come si debba parlare delle vittime delle foibe ancora per molto, in tutti i modi possibili, visto che per troppo tempo un popolo intero si è reso complice dell’infamia del silenzio che ha mietuto vittime del tutto prive di colpa.