Movimento 5 stelle. L’inesperienza e il sistema sono giustificazioni?

Il Movimento 5 stelle non è riuscito a cambiare l’alleanza al Parlamento europeo: voleva passare dall’alleanza con lo UKIP, United kingdom indipendent party, di Nigel Farage dentro il gruppo EFDD, Europe of freedom and direct democracy (anti-europeisti), all’ALDE, Alleanza dei democratici e liberali per l’Europa, di Guy Verhofstadt (europeisti). L’ALDE, tramite il suo leader, ha rifiutato l’alleanza. Alessandro di Battista, uno dei leader del direttorio del Movimento 5 stelle, ha reagito affermando, o meglio riaffermando, poiché lo dice ad ogni smacco, che è colpa del sistema che non ha voluto i 5 stelle. Tale presa di posizione non è però più giustificabile a gennaio 2017.

Prima di un commento politico, si possono citare alcuni detti popolari a cui fare appello e che anche semplici persone di buon senso – non serve essere politici – avrebbero potuto tenere presenti, per evitare il fallimento dell’alleanza con l’ALDE, cioè “non dire gatto se non l’hai nel sacco”, oppure “non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso”. Questi detti aiutano a sottolineare che rigettare l’alleanza con l’EFDD prima di avere un accordo di ferro con l’ALDE è di un’ingenuità tale, che neppure un lavoratore qualsiasi avrebbe commesso: non si lascia un lavoro, senza averne prima un altro già firmato, figuriamoci se un errore del genere può commetterlo un politico. La politica è un’arte in cui la scaltrezza e la diffidenza, può non piacere, ma fanno parte del gioco, proprio perché gli attori in campo rispondono e perseguono interessi diversi.

Come secondo motivo non si può predicare la trasparenza e poi svegliarsi la mattina e, senza aver mai intavolato una discussione sulla nuova strategia europea, lanciare la proposta di un cambio totale (passare dagli antieuropeisti agli europeisti) e indire immediatamente una consultazione per ratificarla, senzache chi all’interno del movimento fosse stato contrario, avesse avuto la possibilità di esprimere le ragioni opposte a quelle di Beppe Grillo, e solo poi mettere ai voti. Quello che i 5 stelle giustamente predicano, la trasparenza, pare essere dunque la prima cosa che razzolano male, perché in democrazia il solo fatto di votare non esaurisce il campo della libertà: prima ancora del voto, è il confronto su ciò che si vota a dare quella consapevolezza ai votanti, che è il vero vento che spinge il voto verso il compimento della libertà democratica.

Altro motivo è che, probabilmente con realismo, i 5 stelle giudicano le categorie destra e sinistra ormai non più utilizzabili: esiste ormai il sistema e l’anti-sistema, l’establishment e l’anti-establishment, europeisti ed anti-europeisti, ma allora fare finta che anche le nuove categorie non esistano, dopo averle assecondate e averci costruito il proprio consenso è di nuovo un errore grave. Come ci si può alleare con gli anti-europeisti e poi cercare all’improvviso l’alleanza con uno dei gruppi storicamente più europeisti del Parlamento europeo? A Grillo potranno non importare le categorie e i valori politici, ma solo i singoli obiettivi di volta in volta perseguibili, ma se agli altri a cui si vuole unire invece quelle categorie importano, ne avrebbe dovuto tenere conto. Non farlo significa pensare di comandare in un mondo di stupidi, purtroppo chi in politica ragiona così, scopre poi che i presunti stupidi ti sconfiggono con un semplice no.

Ancora, come è possibile fare un errore del genere dopo due anni e mezzo di esperienza al Parlamento europeo? E’ gravissimo. In un qualsiasi posto di lavoro la prova dura un mese, e se proprio è un lavoro nuovo, si fanno dei tirocini di 6 mesi – forse un anno! -ma dopo due anni e mezzo commettere un errore tale da soli, è di unatale gravità,che qualsiasi datore di lavoro avrebbe licenziato il dipendente. Loro invece accusano il sistema, ma poiché hanno fatto tutto da soli, dopo due anni e mezzo non è l’inesperienza ad averli sconfitti, ma l’assenza di capacità, che si ha o non si ha.

Quanto nuovamente alla democraticità, forse Grillo, abituato a calare dall’alto le decisioni, pur dopo aver propagandato la libertà nuova e riconquistata del cittadino contro il sistema, si aspettava che Verhofstadt, altrettanto cinico, dopo aver stretto un accordo con lui, potesse altrettanto autoritariamente calarla dall’alto al suo gruppo e questo, come dentro i 5 stelle, avrebbe accettato. Non è successo perché in un gruppo di liberi, se il capo propone una cosa del tutto contraria a quello che è lo spirito del gruppo, il gruppo non obbedisce e respinge l’accordo. Inoltre in politica Grillo e i suoi esperti di due anni e mezzo di Parlamento europeo non sanno che un accordo è di ferro non solo perché i vertici si stringono le mani, ma anche perché i membri dei gruppi sono d’accordo. Lo avrebbe saputo se avessero conosciuto cos’è un movimento di gente libera. Pare, da come è andata, che non sappia nessuno cosa siauna vera libertà politica nei 5 stelle.

Gli errori dei 5 stelle

Il prezzo che i 5 stelle stanno pagando per questo errore sono la perdita della co-presidenza dell’EFDD, l’accettazione, dettata dallo UKIP, di indire un referendum in Italia sulla permanenza nell’area euro (legittima l’idea del referendum, non che siano gli inglesi a decidere cosa si fa in Italia tramite la sottomissione di una forza politica italiana che obbedisce), l’abbandono di due dei 17 membri del gruppo. Ogni europarlamentare 5 stelle ha firmato un contratto che prevede una penale in caso di abbandono del gruppo. Se Grillo sapesse che né in Europa né in Italia esiste il vincolo di mandato e che un contratto del genere è nullo, perché gli eletti rispondono agli elettori e non ad un’azienda privata, la Casaleggio Associati, se si fossero preparati meglio…

E per un movimento che si prepara a voler governare il Paese intero, per ora c’è solo la certezza che non ha né il sostrato culturale, né la preparazione politica, né la competenza tecnica, né un coerente gruppo di obiettivi per affrontare questo impegno. Forse vinceranno, ma vincere non necessariamente dimostra di essere i migliori, dimostra solo che la maggioranza delle persone lo crede. Credere ed essere sono una differenza che forse costerà cara al nostro Paese.

 

 

 

M’ALA o non M’ALA? Non M’ALA! Il rifiuto di Gentiloni a Verdini

ALA sta per Alleanza liberalpopolare-autonomie, partito di Denis Verdini, distaccatosi da Forza Italia e sostenitore ufficioso del passato governo di Matteo Renzi. Alcuni giorni fa Enrico Zanetti, ex vice-ministro dell’economia del detto governo ed ex segretario dell’ormai defunto partito politico Scelta civica, sia durante la formazione del Governo di Paolo Gentiloni, cioè nella scelta dei ministri, sia durante la conseguente scelta dei sottosegretari, ha sdegnosamente preso atto del rifiuto da parte del medesimo governo di accoglierli nella fila della nuova, ma solo formalmente, maggioranza di governo.

Cosa c’entra ALA? E soprattutto, chi è Zanetti? E’ una personalità curiosa: entra in Parlamento nel 2013 con Scelta civica, al cui vertice c’era l’ex presidente del consiglio e attuale senatore a vita Mario Monti, partito che si schiera per il governo di coalizione con il centro-destra di Forza Italia e poi con il nuovo centro-destra di Angelino Alfano. Quando Monti lascia (senza dirlo lui, ma probabilmente il dolore di non essere di nuovo presidente del consiglio deve averlo schiacciato) il partito elegge come nuovo segretario di Scelta civica Stefania Giannini, ormai ex ministro dell’istruzione del governo Renzi. La Giannini decide anch’ella di abbandonare il partito e di passare al partito democratico (di nuovo, senza dirlo lei si può sostenere che lasciò un partito senza prospettive per un posto nel carro del nuovo e apparentemente invincibile leader politico Renzi) insieme ad altri membri parlamentari del medesimo partito. Cosa che ovviamente lasciò il partito privo, in poco tempo e per ben due volte, dei propri vertici politico-parlamentari – da lì iniziò ad essere soprannominato Sciolta civica.

Fu eletto Enrico Zanetti come nuovo segretario. Segretario che sembrò voler puntare sulla riconquista di un’identità e di un peso del partito dopo quanto accaduto, tanto da apostrofaremalamente la Giannini, invitandola almeno ad un dignitoso silenzio. Quale spessore morale lasciò intuire il segretario! Pur se leader solo di una formazione parlamentare minima, esclusa ormai dal Senato, ma pronta a mantenere la propria dignità contro i propri stessi capi, che l’avevano tradita.

Poi… Già,poi… Poi Enrico Zanetti, da segretario (cioè nuovo vertice di Scelta civica) decide di traghettare il partito in una nuova formazione, insieme ai verdiniani di ALA, dando vita a Scelta civica verso i cittadini per l’Italia – maie (nome facile da ricordare, da vero comunicatore!). Già, peccato che a seguirlo, su 23 deputati, sono stati solo 3! Gli altri sono stati costretti a rinunciare al nome Scelta civica, anche se sono la maggioranza e anche se Mario Monti ha protestato, definendosi proprietario del simbolo e contrario, in quanto tale, alla cessione del nome al nuovo traditore, che in un colpo solo, da grande moralista ipocrita, pensa magari di non avere tradito sostanzialmente, perché il nome se l’è portato con sé. Il nome… ma non il partito, dettaglio abbastanza notevole da scordare per l’ambizioso Zanetti, che fondando un nuovo partito con Denis Verdini e i suoi, lo ha fatto entrare di fatto al governo di cui Zanetti faceva parte.

Era il 14 luglio del 2016, il 4 dicembre scorso, cioè pochi mesi dopo, il governo verso cui ogni capo di Scelta civica ha perso la dignità in cambio di una poltrona, cadde. Poveri Zanetti e Verdini! Hanno fatto tanto: il primo per assumere sempre più importanza, ma mantenere intatta l’immagine di non traditore, il secondo accettando da sempre anche quell’immagine, pur di entrare al governo, per poi ritrovarsi a dover negoziare di nuovo un posticino, che rifletta il loro ricatto numerico al Senato.

Gentiloni, nuovo presidente del consiglio, questa volta sì con un po’ di dignità, ha invece salutato Zanetti e Verdini. Forse perché, al contrario di Renzi, Gentiloni è meno ambizioso e più lucido e sa che i traditori, anche se dicono di volerti sostenere, prima o poi ti tradiscono, e farsi tradire per un governo destinato a durare poco, a fare poco ed ad essere in fondo poco, sarebbe stupido. Gentiloni è parso non esserlo. Per fortuna.

‘Post’. La verità diventa tragicommedia. Una storia seria dei laureati italiani

Ogni secolo ha la sua fede, la sua moda… e anche la sua parola. Il nostro secolo ha finalmente assistito all’insediamento della sua, post-verità. Il pontefice celebrante è stato l’Oxford English Dictionary. La chiamano era della post-verità. Il mio Paese ultimamente ha cercato in tutti i modi di insegnare ai laureati umanistici che la loro laurea è inutile, ci prova da almeno dieci anni. Gli dice “Non ci farete nulla”, e per essere sicuro che lo capiscano, il mio Paese ha diffuso la cultura generale che con la laurea umanistica “Anzi! Puoi farci tutto, ti rende elastico, flessibile, adattabile, il vero apice dell’evoluzione darwiniana, l’animale che sopravvivrà alla crisi”.

I laureati umanistici hanno sperimentato di essere in effetti finora sopravvissuti, ma anche la crisi, e più hanno cercato di combatterla con la laurea umanistica, più la crisi è sembrata rafforzarsi e loro indebolirsi. Insomma “puoi farci tutto” in Italia vuol dire “non ci farai nulla”. Mi accorgo che la loro facoltà si occupa della ricerca della verità, ma poi si sente dire che non siamo più nell’era della verità, siamo in quella della post-verità: questo mi permette di inquadrare meglio il motto “con la laurea umanistica puoi farci tutto”, che io pensavo non fosse vero, cioè, nel mio povero pensare umanistico, ritenevo che una cosa non vera fosse falsa, ma sbagliavo, ho studiato troppo, e troppo mi sono illuso, non è falsa… è post-vera. “Puoi farci tutto” significa dire post-veramente che “non ci farai nulla”.

Io pensavo non ci fosse nulla che potesse essere vero quanto la verità, non pensavo ci potesse essere un post vero, ma a dire il vero (d’ora in poi dovremmo cambiare in“a dire il post-vero”) io pensavo che non ci fosse neppure una pre-verità, né una sopra-verità o una sotto-verità, né una lato-verità. Sbagliavo, la verità non è più qualcosa di semplice. Prima la verità era dire “le cose stanno così”, “oppure colà”, ora invece la verità è una giungla, è verde dappertutto, quindi le cose stanno così’, ma anche così, e pure così, e se vi girate scoprirete che sono anche così, giratevi ancora… sono di nuovo anche così, guardate in alto… sì, sono anche così, ma anche se guardate in basso, sono diversamente e contemporaneamente anche così: non importa dove guardate, né cosa guardate, è tutto vero, cioè post-vero.A questo punto, se volete riposarvi, potete anche chiudere gli occhi: ops, vedete buio? Vuol dire che le cose stanno anche così. Quindi le cose stanno così, che con la laurea umanistica puoi fare tutto, ma stanno anche così, che non puoi farci nulla, la prima è la post-verità della seconda.

Dato quanto appena detto, viene da chiedersi: “Ma esiste qualcuno che sbaglia?”. Se tutto è post-veramente vero, cos’è l’errore? Io che credevo al vero e non al post-vero, vi ho appena detto che sbagliavo, ma oggi scopro, per fortuna, che post-sbagliavo, quindi non avevo in realtà torto a credere al vero, è che contemporaneamente dovevo impazzire e accedere al nirvana del post-vero, nell’eterno riposo dell’eguaglianza delle mille post-verità. E io, post-veramente disoccupato, finalmente affrancato dal mito che “se non paghi, il cibo non lo compri”,  mi reco post-veramente al supermercato, e cerco di pagare alla cassa con… Sorpreso più che mai dal fatto che la cassiera conta ancora in euro, e non in post-verità (questa primitiva), chiamo la polizia, e indignato affermo di avere ragione (post-ragione), sulla base del fatto che la mia mente ha effettuato già l’accesso, riservato a pochi, nel mondo della post-verità, e pretendo pertanto il privilegio di pagare senza l’uso troglodita della cartamoneta. Purtroppo ho beccato poliziotti ancora succubi dell’ombra della verità, e in preda alla follia, dicevano che chi non paga non può comprare e deve andarsene.

Io me ne vado, ma non si accorgono che il cibo, perlomeno qualcosa, l’ho messo in tasca; ebbene sì, in un frammento di mondo che cerca ancora di essere vero, ho dovuto rubare… ma in fondo non è rubare, oggi posso dire che ho post-rubato e poi post-mangiato… anzi no, in realtà questa cosa l’ho fatta come la facevo prima: ho proprio mangiato, e solo dopo aver mangiato non ho avuto più fame… finalmente avevo raggiunto il nuovo approdo della sazietà (pardon… della post fame).

Dialoghi impossibili: Pirandello e D’Annunzio su Paolo Gentiloni

Vedi Gabriele, Paolo Gentiloni è come una vecchia. – cerca di spiegare Pirandello al suo vecchio quasi compagno di Partito PNF, Gabriele D’Annunzio.

D’Annunzio: Come una vecchia?

Pirandello: Sì una vecchia, non ne conosci nessuna?

D’Annunzio: Mi vanto di non averne mai conosciuta nessuna!

Pirandello: che domande faccio!… Comunque, la vecchia ce l’hai presente?

D’Annunzio: Ma chi Gentiloni o le vecchia in generale?

Pirandello: In generale.

D’Annunzio: Sì, presente.

Pirandello: Ecco, Paolo è proprio una vecchia: età, idee, governo. E’ vecchia. Io su una vecchia ho scritto proprio, hai mai letto quello che ho scritto sulla vecchiaia? E poi c’è Renzi, hai presente?

D’Annunzio: Renzi chi? Quello che voleva cambiare l’Italia?

Pirandello: Sì, ma non l’ha cambiata, lui anche è una vecchia, però come quella di cui ho scritto, una vecchia che non vuole sembrare di esserlo, così ha mascherato vecchie ricette politiche con slide, velocità… Gentiloni. In effetti, Gabriele, anche tu sei un po’ così.

D’Annunzio: Coooosa!? Io non sono mai stato vecchio, io sono eterno, vincitore, non come Renzi. Anche se ha osato e non mi dispiace per questo, viva il decisionismo…Memento audere semper!!!

Pirandello: Sì, sì, ma quindi a Fiume hai vinto?

D’Annunzio: In effetti no.

Pirandello: Insomma questo Gentiloni è la brutta copia di Renzi, poi è chiaro che ognuno di noi non è solo una cosa, può esserne centomila. Diciamo che potrebbe succedere anche l’inverso: Renzi potrebbe diventare la brutta copia di Gentiloni, se lui facesse bene.

Proprio in quel momento Gentiloni, finito il discorso al Senato, passa loro davanti, vicino agli spalti e, mentre sta camminando, Pirandello e D’Annunzio vedono che i capelli grigi si muovono tutti verso il basso…

Pirandello: E’ una parrucca! Sotto, i capelli sono… mori! Poi lo sentono dire all’autista: – <<Oh tu lo sai che ho fame, andiamo a la hasa, che l’ho proprio fame>>.

Pirandello: Caro Gabriele, imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti…

D’Annunzio: L’importante è che siano di femmine non asessuali!

 

 

 

E sarebbero giornalisti? Il giornalismo televisivo e il contraddittorio nullo

Siamo in una fase in cui ancora una larga parte della popolazione, forse più che larga, accede alle informazioni tramite la televisione. Chiunque tuttavia sa che la vera informazione è neutra, obiettiva, o può perlomeno tentare di esserlo, e lo è nel momento in cui la sua vicinanza al fatto è il più possibile effettiva. Nel caso dell’informazione televisiva (giornalismo televisivo) l’informazione è gestita da qualcuno, i giornalisti appunto, e indirizzato a qualcun altro, il pubblico. Il potere risiede nelle mani di chi gestisce l’informazione; è sempre stato così, ma oggi si assiste ad un’involuzione.

Se prima la distorsione dei fatti in nome di una rappresentazione ideologica, di qualsiasi colore politico essa fosse, avveniva attraverso un intervento diretto del giornalismo, ora il giornalismo televisivo italiano sembra aver lasciato questo ingrato compito a più che felici politici, contenti e ormai abituati ad avere dei porta-microfono davanti. In quasi tutti i talk show televisivi, ripeto quasi tutti, da Ballarò, a Di martedì, a Matrix, a In onda, si assiste ad un finto contraddittorio, anche se la scena apparentemente è la stessa di quando esso sussisteva effettivamente: c’è un conduttore (un giornalista) e gli ospiti, politici o commentatori di qualsiasi specie (soprattutto incompetenti, come spesso i politici del resto, senza voler cadere nel sono tutti uguali, etc…). Ora, si assiste al fatto che un ospite dica qualcosa e per sostenerla citi dei dati, ma li cita e basta, non ha dei fogli da far controllare al conduttore, che lo mostrino onesto nel riportarli; l’altro ospite, del fronte avverso, cita altri dati da altre fonti altrettanto autorevoli, e il pubblico a casa, spaesato, riconoscendo autorevolezza ad entrambe le fonti – che sono autorevoli o appaiono tali a causa del meccanismo psicologico, che riconosce valore ad un nome di per sé “pesante” come il termine fonte, che evoca competenza tecnica – si ritrova a credere che le cose presentino una doppia verità, come quella kantiana, l’antinomia, ovvero due affermazioni, entrambe vere o presunte vere, ma al tempo stesso in contraddizione tra loro.

Come capire quale sia vera? Semplice, penserebbe uno spettatore di buon senso, c’è il conduttore, che dovrebbe essere un giornalista, cioè un esploratore e conoscitore di fatti, che tira le somme di quanto detto e ha l’ultima parola nel dire chi dei due sta dicendo la cosa corretta, o perlomeno la più corretta, analizzando quali elementi siano veri dell’affermazione dell’uno, e quali in quella dell’altro.

Qui è il vero colpo di scena… non lo fa! E non lo fa per diverse ragioni, a sua volta producendo diversi effetti. La prima ragione è quella più deprimente, cioè neanche il giornalista sa qual è la verità, perché non si è premurato di cercarla, è entrato nell’ottica di condurre un programma, che lui traduce con condurre un gruppo (meglio dire circo) di ospiti: è diventato un gestore del personale, non un capofila nella ricerca del vero fatto e della vera informazione. Questa realtà la si desume dal fatto che il non intervento dei giornalisti nel correggere certe assurdità dette dagli ospiti è talmente ripetuto, da far dedurre appunto che lui non si accorga che sono assurdità. Inoltre ha capito che la logica televisiva è che i soldi, in un programma di informazione, non li portano le informazioni, né il conduttore, ma gli ospiti: più loro dicono cose provocatorie, false, ma suggestive, più appassionano il pubblico: per questo uno Sgarbi continua ad essere invitato, nonostante intervalli la sua competenza artistica con vomiti di insulti e intemperanze caratteriali ampiamente oltrepassanti il fossato dell’ingiuria personale (cit. capra, imbecille, per dire i più lievi).

Ovviamente questo tipo di interventi non corretti dal conduttore generano e trasformano il pubblico a casa in un pubblico ormai assuefatto alla realtà che il programma di informazione non serva ad informare, ma a distrarre, quasi fosse un fiction comica (e le somiglianze in effetti sono molte). Diventa un pubblico poco attaccato al vero, e lo si vede già dal pubblico in studio, che è una categoria ormai a parte, che vive nel limbo televisivo, quello dell’esserci, ma di non contare, di emettere rumori, emettere appunto, come il battito di mani: in una logica sensata esprimerebbe assenso, mentre il non battere a certe affermazione esprimerebbe dissenso, ma il pubblico in studio, questi nuovi esseri televisivi, battono sempre le mani;ad esempio lo stesso numero e le stesse persone, che battono le mani all’opinione dell’ospite A, ripeto, non solo lo stesso numero di persone (che potrebbe essere il restante 50%, che prima non aveva battuto), ma proprio le stesse persone, battono le mani anche all’opinione assolutamente contraria dell’ospite B, il tutto per esaltare con uno zelo,che va oltre quello richiesto nel momento della chiamata a pubblico televisivo, l’ospite opinionista che, così appagato nel suo poter dire qualsiasi cosa, si sente incoraggiato a  ritornare per altre puntate e ad esagerare nelle assurdità ancora di più. Quale ospite, che fa aumentare lo share, potrebbe mai essere limitato nei suoi sproloqui, addirittura contraddetto? Si offenderebbe, non tornerebbe, e allora addio share e forse addio programma (come se perdere un programma di informazione, che non faccia informazione, fosse una cosa spiacevole).

Ovviamente il tappeto rosso steso dal battito di mani onnipresente e onniassordante e dal silenzio complice e compiaciuto del conduttore spinge, con un effetto di ritorno, a trasformare l’ospite stesso, che ora si convince di poter diventare non più solo un’opinionista, ma un eroe dell’opinione, un vero dispensatore di verità, un profeta, riducendosi in realtà a quelle vecchie della canzone di De André, Bocca di rosa:

Si sa che la gente dà buoni consigli
Sentendosi come Gesù nel tempio
Si sa che la gente dà buoni consigli
Se non può più dare cattivo esempio

Così una vecchia mai stata moglie
Senza mai figli, senza più voglie
Si prese la briga e di certo il gusto
Di dare a tutte il consiglio giusto

Questo effetto di ritorno finché trasforma i politici, ha, pur assurdamente, una sua comprensibilità, ma coinvolge gli stessi ospiti giornalisti e in alcuni casi i conduttori. Senza necessità, né volontà di schierarsi politicamente contro un giornalista di una certa corrente, piuttosto che di un’altra, credo che tutto ciò esprima al massimo il divismo patologico degli artisti del dire nulla, ma non esserne neppure più coscienti, come se, ormai invidiosi dell’immensa libertà del dire tutto e il contrario di tutto concessa agli ospiti, ne volessero anche loro.

Che immagine della democrazia esce da questa realtà giornalistica? La democrazia è sì, e giustamente, aggiungerei sacralmente, il diritto di tutti di dire tutto, ma far valere questo diritto non annulla il diritto dello spettatore di essere informato correttamente e dunque il diritto di aspettarsi dal conduttore e da un qualsiasi giornalista, in quanto persona neutra e informata, che filtri lui quello che il politico afferma. Tanto varrebbe altrimenti andare direttamente ad un comizio di quel politico, se il giornalista regge solo il microfono, tanto varrebbe far condurre il programma al politico, se il programma stesso non cerca, perché non crede più che i fatti siano in sé unici e quindi vadano riportati per come sono. La democrazia deve essere democrazia della consapevolezza. La consapevolezza non è data solo dalla libertà di accesso all’informazione, ma da una classe giornalistica ingrado di esprimerla in modo obiettivo, a costo di contraddire il potente, lo share, o la propria patologica relazione con il proprio narcisismo televisivo. Spesso in Italia si confonde il cercare l’informazione più vera, con l’accettare l’informazione che piace di più. Li chiamerei gli informatori della pancia, solleticatori professionisti del gusto, auto-trasformatisi in protagonisti e non veri conduttori dei veri protagonisti, che siamo noi, la popolazione, e loro, i nostri rappresentanti politici. La contraddizione è un diritto di chi riceve l’informazione, e un dovere del giornalista di attuarla laddove necessario.

Ridateci un vero giornalismo e con esso la democrazia. O fatevi daparte.

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