Veronika decide di morire, di Paulo Coelho

Veronika, pur avendo una vita normale, non è felice. Decide di morire, ingerendo una dose eccessiva di sonniferi. Ma il tentativo fallisce, e la ragazza viene internata in una clinica psichiatrica dove conosce una realtà di cui nemmeno sospettava l’esistenza. Veronika decide di morire si ispira a un drammatico episodio della vita di Paulo Coelho quando, nel 1965, a diciotto anni, venne ricoverato in una clinica psichiatrica.

“L’11 novembre 1997, Veronika decise che era finalmente giunto il momento di uccidersi. Riordinò accuratamente la camera che aveva affittato presso un convento di suore, spense la stufa, si lavò i denti e si coricò”. Incomincia così il libro di Paulo Coelho, uno dei più illustri e conosciuti scrittori nato a Rio de Janeiro nel 1947. Considerato uno degli autori più importanti della letteratura mondiale, le sue opere pubblicate in più di centocinquanta paesi e tradotte in sessantatré lingue, hanno venduto ottantacinque milioni di copie. Tra i premi più recenti ricevuti dall’autore vi sono il “Crystal Award 1999”, conferitogli dal World Economic Forum, il prestigioso titolo di Chevalier de l’Ordre National de la Legion d’Honneur, attribuitogli dal governo francese, e la Medalla de Oro de Galicia. Dall’ ottobre del 2002 Paulo Coelho è membro dell’Academia Brasileira de Letras, nonché autore di una rubrica settimanale diffusa in tutto il mondo.

Tra le opere di Coelho che Bompiani ha pubblicato con enorme successo appare Veronika decide di morire (1999). Coelho venne a conoscenza della storia di Veronika tre mesi dopo , mentre cenava in un ristorante algerino di Parigi con un’amica slovena; anche lei si chiamava Veronika, ed era la figlia del medico responsabile di Villete. Veronika aveva orrore per ciò che suo padre aveva fatto, soprattutto considerando che era il direttore di un’istituzione che pretendeva di essere rispettabile, e che lavorava ad una tesi che avrebbe dovuto essere sottoposta all’esame di una comunità accademica. “Sai da dove viene il termine asilo?” domandò Veronika al suo amico. “Risale al Medioevo, al diritto del singolo individuo di trovare rifugio nelle chiese, nei luoghi sacri. ‘Diritto di asilo’: un’espressione che ogni persona civilizzata capisce! E allora come mai mio padre, direttore di un ‘asilo’, può agire in questa maniera nei confronti di qualcuno?”

Paulo Coelho volle sapere in dettaglio tutto ciò che era accaduto. Salvata per caso, “Veronika la matta” si risveglia tra le mura dell’ospedale psichiatrico di Villete, con il cuore stanco e sofferente per il veleno che lei gli ha somministrato. In pochi giorni a Villete, Veronika scopre un universo di cui non sospettava l’esistenza. Conosce Mari, Zedka, Eduard, persone che la gente “normale” considera folli e soprattutto incontra il dottor Igor, che attraverso una serie di colloqiui cerca di eliminare dall’organismo di Veronika l’Amargura, l’Amarezza che la intossica privandola del desiderio di vivere. Veronika spalanca le porte ad un nuovo mondo, un mondo che, attraversato con la consapevolezza della morte, la spinge sorprendentemente, alla consapevolezza della vita. Fino alla conquista del dono più prezioso: saper vivere ogni giorno come un miracolo. In questo straordinario romanzo, Paulo Coelho riversa la sua personale esperienza, i ricordi di tre anni consecutivi di ricovero in un ospedale psichiatrico, dove lo scrittore venne rinchiuso solo perché considerato “diverso”. E riesce ancora una volta a mostrare come il dono della serenità possa essere conquistato in qualsiasi luogo, attraverso la riscoperta della propria consapevolezza che non ci rende più timorosi nei confronti della vita e dei nostri luoghi dell’anima più oscuri. Veronika ci insegna la normalità di essere folli.

 

Il trattato delle carezze, di G. Leleu

La necessità, il piacere, l’arte della carezza. Il trattato delle carezze (2014) di Gérard Leleu è un testo che descrive quali sono i diversi significati che una carezza può avere perché, secondo Leleu una carezza dà sicurezza, calore, conforto, ci dice che non siamo soli. Ma la carezza è anche un messaggio di amore, di desiderio, di passione. Può essere innocente, timida, dolce o rasentare anche l’aggressione. Accarezzare non è un gesto semplice necessita di tempi, ritmi, pressioni, movimenti particolari e soprattutto del momento e dell’atmosfera giusta. Una carezza o un contatto tattile  sviluppa una forma di linguaggio alternativa alla parola, ma probabilmente molto più veritiera.

Molti dizionari riportano più o meno la seguente definizione di carezza: <<Tenera dimostrazione di amorevolezza o di benevolenza manifestata con atti, ma più comunemente fatta lisciando col palmo della mano>>. Un gesto perlopiù delicato quindi, al quale sembriamo esserci disabituati, cercando tragressione ed emozioni più forti.

Questo libro in maniera scientifica ma non eccessivamente tecnica, ci dice assolutamente tutto su questo tenero linguaggio del corpo; esso vuole essere un invito ad andare oltre la pura comunicazione verbale razionale per iniziare, finalmente a parlarci davvero. L’autore si interroga sul perché delle carezze, su cosa sia la pelle, la sua struttura, la sensibilità, il dolore, il rapporto tra il corpo e la psiche. Gli argomenti che tratta Leleu sono molteplici e di una importanza predominante, descrivendoci il complicato processo interiore di un bambino accarezzato male, di un adulto accarezzato male, ci parla dell’anoressia, l’anoressia della pelle quelli che non amano dare e ricevere carezze, della bulimia del bambino il cui bisogno di contatto non sia stato soddisfatto nel periodo preverbale.

Gérard Leleu si interroga su chi ha bisogno di carezze, su quello che pensano le donne e quello che invece dicono gli uomini giungendo ad un’unica soluzione: “la carezza è un’arte” visibile oppure no, dato che esiste anche la carezza dell’anima. Si è visto come i cuccioli degli animali, in mancanza di carezze languiscono e addirittura deperiscono fino a morire inoltre presentano disturbi psichici. Accade lo stesso agli uomini. I contatti meccanici, oltre a produrre un senso di privazione emotiva, portano alla privazione sensoriale. Sembrava che il sesso non avesse più segreti, sappiamo come risolvere specifici problemi conosciamo le posizioni per “vivacizzare” i rapporti, i cibi e le sostanze per essere più efficienti. Ma allora perché spesso tanta insoddisfazione? Perché quel senso di non completo appagamento? Forse abbiamo dimenticato che una felice comunicazione amorosa non è il risultato meccanico della somma di tecniche e pratiche ma esige una diversa attenzione, condivisione, vicinanza “pelle a pelle”. E che anche nell’amore adulto ricerchiamo in fondo quella sicurezza e quel calore legati al rapporto primario con la madre e mai sostituiti. Questo libro propone un gesto, la carezza come vera comunicazione d’amore.

 

“Tutto in fondo può essere possibile con le carezze,
  soggiogare la collera, disarmare la distruzione, quella materiale e quella pasicologica.
  Tuttavia il regno della carezza resta quello dell’amore”

Gérard Leleu, medico ‘naturista’, è nato e lavora in Francia. La sua esperienza di ‘medico di campagna’ e i suoi studi lo hanno condotto a ritenere l’ansia e molti altri disturbi frutto dell’insoddisfazione sessuale, o meglio, sensuale. Su questi argomenti e sulla salute in generale ha pubblicato numerosi libri.

Lettera a un bambino mai nato, lo struggente monologo di Oriana Fallaci

Lettera a un bambino mai nato (1975) è un commovente e struggente monologo con cui la scrittrice Oriana Fallaci, sola ed indipendente, riflette sulla maternità ponendosi spinosi interrogativi.

Il libro comincia così: “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto , in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: si c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo”.

Lettera a un bambino mai nato non è solo commozione ma anche dramma, quello di una donna che aspettando un bambino, non sa di lui il nome, l’indirizzo, l’età, di cui non si conosce nulla eccetto il fatto che vive sola, indipendente, forte e che deve affrontare il dilemma se dare alla luce il proprio bambino o continuare la sua brillante carriera senza alcun ‘intoppo’.

Il monologo ha inizio proprio dal momento in cui lei scopre di essere incinta ed ecco che allora inizia a porsi innumerevoli dubbi: basta volere un figlio per metterlo al mondo? E se a lui non piacesse nascere? Meglio uomo o donna? Il monologo procede diviene quasi una confessione, una confessione di una madre forte e coraggiosa ma anche impaurita al proprio figlio, mentre questo dramma matura entrano in scena altri personaggi. Tutti testimoni incoscienti di quel rapporto che oscilla tra la rabbia e l’amore fino ad arrivare all’accettazione di quella maternità.

Cosa si cela in realtà dietro a questi interrogativi? Egoismo? Paura di non essere all’altezza? Di vedere la propria vita stravolta? La maternità è un dovere morale? Nascere è davvero meglio di non nascere? E se il mondo non piacesse al nuovo venuto? Non sarebbe allora una spietata violazione? Perchè una donna dovrebbe rinciare alla propria libertà che ha inseguito per tutta la vita? L’unico modo per proseguire il proprio cammino sarebbe quindi archiviare il problema, e quindi eliminarlo, ma  non si tratta forse, anche in questo caso, di una brutale prevaricazione?

Leggendo questo libro è impossibile non commuoversi, non rabbrividire dinnanzi ad una donna sola che si trova ad affrontare la gioia più grande ma anche la più terribile: se dare o meno la vita ad un bambino. Oriana Fallaci è una donna intelligente che non ha la presunzione di chiedere a se stessa se vuole o meno questo figlio ma che vorrebbe invece capire anzitutto cosa vuole questo essere che porta in grembo. Il libro rappresenta l’emblema di un rapporto indissolubile che si crea fra una madre e il proprio figlio prima ancora che questo venga alla luce, una vita che si nutre di un’altra vita di cui non potrà mai farne a meno, di cui avrà bisogno per sempre. La sfida più grande è affrontata da sola, da una donna spietata contro questo uomo che  le chiede inizialmente di dare via il bambino, una donna che mentre si chiede se dare la vita o negarla a questo piccolo esserino che cresce dentro di sé ha già deciso proteggendolo da un padre che non lo vuole, che non intende accettare questa sfida, una donna che rifiuta l’idea di aver amato un uomo che non ama il proprio figlio. Gli altri personaggi sono solo delle comparse: il padre, appunto, l’amica, i genitori, i medici e il commendatore. Alla fine il bambino le darà a sua madre la risposta che tanto attende.

Non è ancora la Oriana aspra e dura de La rabbia e l’orgoglio o de La forza della ragione, ma in questo libro riconosciamo la Oriana non corretta politicamente, le cui parole colpiscono la nostra coscienza, mettendoci in confusione, e quindi qual è la cosa giusta? Considerare il feto già bambino e quindi uomo, dato che il dna è scritto, oppure ritenere che in fondo non è altro che un uovo, non un essere umano e quindi si può fare a meno di lui? La Fallaci non dà risposte definitive, è una donna di dubbi, non di certezze. Ma la certezza è che non importa di cosa una persona sia convinta, in questo straordinario libro si legge il proprio credo e anche quello più lontano dal nostro e quando giungiamo all’ultima pagina, ci ritroviamo a pensare e ripensare. Certamente chi è estremamente religioso, ha un approccio diverso verso gli eventi della vita, rispetto a chi la affronta laicamente e quindi crederà che il feto sia già un bambino, magari anche senza riflettere, senza porsi quesiti esistenziali ma solo perché l’aborto lo si considera un peccato, così come alcune lo ritengono una libera scelta in virtù delle lotte femministe, e di un diritto che mette nelle condizioni una donna si essere in questo modo, al pari di un uomo, di non reputarsi inferiori, in quanto libere di scegliere se dare o meno la vita.

Lettera a un bambino mai nato è la storia di una scelta. Dare vita ad un altro essere umano è il miracolo più grande della vita e questo libro merita  assolutamente di essere letto, che siamo madri o meno, donne o uomini.
Decidere se dare la vita o negarla, quando non si ha fede, non si crede in Dio (la Fallaci si è sempre considerata un’atea, ma nell’ultimo periodo dell sua vita si è molto avvicinata alla Chiesa Cattolica grazie all’amicizia con Mons. Fisichella) vuol dire dover percorrere da soli una strada ancora più difficile, piena di contraddizioni e lacerazioni interiore che solo una grande fede può alleggerire.

La Fallaci è una madre piena di tenerezza, il suo è un amore puro, non imposto dallo Stato, dalla società, dalla religione, è una madre capace di difendere il suo bambino contro tutto e tutti, ma forse non da se stessa: “Dormiamo insieme, abbracciati. Io e te, io e te… Nel nostro letto non entrerà mai nessun altro”.
Ma il mondo deve entrarci con le sue leggi e con le sue ipocrisie, e infatti la scrittrice poi dice: “Tu che non conosci ancora la peggiore delle verità: il mondo cambia e resta come prima”.
Anche questo è il compito di una madre: preparare il figlio a lottare, a difendersi dalle prepotenze, insinuargli il dubbio, insegnarli a mettere in discussione tutto.
Ma su questo terreno scivoloso del dubbio lei stessa finisce per inciampare, e i pensieri ostili ed egoisti di una donna che non risparmia nemmeno se stessa, prendono il sopravvento: “Ti insinuasti in me come un ladro, e mi rapinasti il ventre, il sangue, il respiro. Ora vorresti rapinarmi l’esistenza intera. Non te lo permetterò”.

Qui viene fuori l’Oriana indipendente donna in carriera abituata agli spazi aperti e costretta all’immobilità da una gravidanza difficile,  ma forse è solo un momento di stizza, disturbante ma necessario. La Fallaci approda ad una speranza piena di disillusione: “Il dolore non è il sale della vita. Il sale della vita è la felicità, e la felicità esiste: consiste nel darle la caccia”.

Oriana Fallaci rimane e rimarrà per sempre una straordinaria donna prima che scrittrice di enorme successo, il suo linguaggio struggente, chiaro e comprensibile per chiunque (ogni parola è pesata), fa di lei una delle scrittrici più amate e conosciute al mondo; l’immagine che si scorge di lei in tutte le sue opere è quella di una donna forte che non si piega al maschilismo, una donna che ha combattuto contro una grave malattia e che, nonostante i suoi dolori e i suoi drammi, è diventata il simbolo di tutte quelle donne che hanno dovuto combattere contro le ingiustizie del mondo.

 

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne

 

 

Sorelle Materassi di Palazzeschi: la nostra Italia che fu

“Hai presente la pulizia di quelle case di vecchie zie dove la tragedia piu’ grande e’ stata quella del gatto che ha rotto il vaso di vetro spacciato per cristallo di Boemia ?” Questa frase racchiude in se la storia delle Sorelle Materassi, raccontata da Aldo Palazzeschi.

Aldo Giurlani, in arte Aldo Palazzeschi, autore della celebre opera  il piu’ delle volte citata erroneamente come Le sorelle Materassi anzichè Sorelle Materassi, è uno degli spiriti più liberi del Novecento e riflette nella sua opera la propria vita priva di qualsiasi preoccupazione culturale, religiosa, politica e sociale.

L’inizio delle Sorelle Materassi coincide con un racconto minuzioso e prolisso di una delle più belle città d’Italia a tutti nota come la ‘culla del Rinascimento’, ovvero Firenze. Palazzeschi si perde inizialmente in una spasmodica descrizione della bellezza percepita dai suoi occhi di questa incredibile citta’ e cerca dunque di trasmettere ai lettori tale senso di meraviglia, cercando di diffondere la straordinaria bellezza di cui si riempiono i suoi occhi dinanzi a luoghi che tutti conosciamo come incantevoli. Dopo aver descritto in modo leggermente  pedante il paesaggio, l’opera si alleggerisce passando alla descrizione dei protagonisti il tutto ambientato a Santa Maria a Coverciano.

Le sorelle Materassi conosciute in tutto il paese sono due zitelle ricamatrici, Teresa e Carolina, l’una forte e decisa talmente rigida da essersi privata di quella femminilità che invece si ritrova ancora in Carolina. A rendere l’opera decisamente viva è la figura attualissima del giovane viziato e bellissimo Remo, orfano di madre e di padre, cresciuto in condizioni di benessere e assecondato dal padre per ogni sua frivolezza; spensierato, capriccioso e soprattutto senza alcuna voglia di lavorare non riesce a distaccarsi dai suoi cari e dalla sua nullafacenza compiaciuta prima dal padre e poi dalle due zitelle.

Remo diviene il fulcro attorno al quale si articola l’intera opera, è interessante capire come un libro scritto molto tempo fa sia in grado di rispecchiare totalmente, ancora oggi alcuni vicoletti del bel paese; il Sud della nostra Italia infatti è stracolmo di case di questo genere. L’ immaginario collettivo si concentra in particolar modo sulle due zie zitelle che sono sedute curve a ricamare per la gente del paesino e a chiacchierare dei nipoti degli altri volendo in tal modo coprire il non voler far nulla del proprio, il fallimento celato tra le mura della loro abitazione con altri fallimenti, la loro magra consolazione è data dalle sfortune altrui.

Palazzeschi ci offre uno straordinario spaccato dell’Italia che fu, la nostra Italia con le sue piccole e grandi virtù: il senso del pudore, del decoro, del risparmio, della misura, lo spirito di sacrificio, l’operosità, l’imbarazzo celato dal rossore. Esiste ancora questa Italia per qualche si prova della nostalgia oggi? Da qualche parte probabilmente persiste e sopravvive, soprattutto nei piccoli paesi, ma in eterno connubio con il bigottismo e il pregiudizio, oggi come un tempo.

Colpisce anche la figura di Remo, la cui bellezza può essere motivo di orgoglio ma certamente non un merito. Leggendo le Sorelle Materassi si ha la sensazione di vedere una di quelle abitazioni dove le luci sono quasi sempre spente, dove la cucina è sempre pulita e le finestre non si aprono; per vedere ciò che accade fuori si preferisce spostare la tenda… Solo quando c’è il bel Remo la casa comincia a funzionare e guai ad offenderlo, a lui tutto è concesso e se torna tardi non fa nulla, nemmeno se combina qualche guaio, tanto ci sono le zie.

Chissà quante donne a quei tempi hanno desiderato che un Remo arrivasse dietro la loro porta a rendere le loro esistenze più leggere e frivole senza sapere che noi altre avremmo potuto godere in abbondanza di li a poco di certi personaggi, e che avremmo dovuto svuotare i nostri portafogli e che alla fine sarebbe stata la nostra piccola ricchezza ad esser prosciugata; un personaggio moderno e raro a quei tempi quello di Remo…oggi  non ci sconvolgerebbe. Remo finisce per spendere più di quanto guadagnano le due zie, ma  l’unico motivo per cui la decadenza economica non è per le zitelle un grosso problema sta tutto nell’ esuberanza di questo giovane che tra una macchina nuova e qualche bella fanciulla sembra dare l’illusione a queste povere signore di partecipare ad una vita a cui loro non hanno potuto accedere neppure con l’immaginazione, d’altronde sarebbe stato vergognoso a quei tempi.

Lo stile di Palazzeschi è comico e tragico al tempo stesso, ricco di metafore e similitudini, aggettivi aulici, divertente il lettore che si trova davanti ad una storia grottesca ed angosciante, racchiudendo in sè tutti i colori della cultura fiorentina. Da rileggere e rivalutare questo romanzo ormai dimenticato di uno scrittore che ingiustamente viene indicato come “minore”.

 

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