Gaetano Profenna: ‘Senza maschera’, un complesso viaggio emotivo

Gaetano Profenna nasce a Napoli il 30 gennaio 1966. È responsabile nel settore della ristorazione presso un noto ristorante al Vomero, Napoli. La sua prima raccolta Senza maschera, pubblicata per il gruppo Albratros il filo, è un complesso viaggio emotivo tra le pieghe dolorose del suo cuore. Egli utilizza la poesia come arma contro le ingiustizie sociali, il dolore e la miseria umana. I suoi versi richiamano un mondo musicato tipicamente napoletano e rispettano a pieno le tradizioni e il folklore di un popolo a cui restituisce dignità.

La raccolta non rispetta l’ordine cronologico di composizione: si apre con una poesia del ’98 A’ maschera, che si pone come chiave di lettura di tutta la raccolta, attraversando un arco temporale che va dal 1993 al 2013. La presenza della maschera nel titolo crea un gioco di doppi e di rimandi costanti con la prima poesia della raccolta, manifesto della sua poetica. Con un forte gioco di contrapposizione legato alla presenza e all’assenza della maschera, Profenna (mutuando l’altisonante denominazione da Salvatore Bova) vuole denudarsi, liberarsi dalle oppressioni dei ricordi dolorosi, dalle ingiustizie della vita, cercando una soluzione nelle profetiche e divine risposte dell’amore.

L’autore alterna versi in italiano e napoletano, dimostrando di onorare la terra da cui proviene. È proprio l’utilizzo della lingua napoletana che dà il via libera, fa scrivere senza filtro (come direbbe l’autore senza maschera), ma solo con la voce dell’anima. Un’eco che non si dissolve nel tempo moderno malato di distrazione, ma resterà per sempre padrone dei suoi ricordi e dell’amore. Di questo si parla, dell’amore come motrice dirompente che spezza gli inganni del nostro tempo.

Il leitmotiv amoroso crea un filo rosso che in punta di piedi passa nella cruna dell’ago, ridestando i ricordi per una madre ormai scomparsa. Il dolore è una costante che sfiora ora con violenza le strade di Napoli con la poesia Napule:

Napule cara… napule mia/ che tristezze pè stì vvie/ Si turnasse Masaniello, e guardasse stà città/ addò mettess’e mmane po’ mmale ca cè stà? […] Napule cara… Napule mia… Adderizzele stì vvie […] Napule cara… Napule bella… Turnammo à cantà à tarantella!

Ora si ricongiunge al ricordo di una madre addolorata, per un figlio che invoca il suo perdono:

Ho visto quello che ogni uomo/ non vorrebbe mai vedere/ ho visto piangere una madre […] piangi ancora dolce madre ma/ Perdona chi ha colpito/ perché tu fosti perdonata/ Da chi al silenzio e al dolore/ La morte ha preferito! (Da Dolce madre)

Profenna non mette in scena solo esperienze personali, ma è in grado di oggettivarle, creando un collegamento tra testi con rimandi spesso molto forti. Da Madre natura leggiamo:

Nun à facimme murì, essa nun cè hà fatto/ niente, anzi… ce ha dat’à vita, e nun è poco.

Dolce madre e Madre natura sono indiscutibilmente collegate dalla volontà di esprimere, attraverso i dolorosi ricordi, l’universalizzazione del concetto madre ed elevarla a una visione eterea (perché impressa nella memoria) e ultraterrena, ovvero cristallizzata in un tempo eterno, ma che sia anche emblema dell’universalizzazione del dolore.

Guido Gozzano: il poeta desolato

Guido Gozzano  nasce a Torino da una famiglia borghese benestante: il padre Fausto ingegnere e la madre Diodata Mautino figlia di un patriota mazziniano. Trascorre la sua vita a Torino, dove consegue con scarsi risultati il diploma liceale. Nel 1900 perde il padre e tre anni dopo s’iscrive alla facoltà di giurisprudenza, preferendo però seguire i corsi di letteratura italiana alla facoltà di lettere. All’università conosce molti scrittori tra cui Massimo Bontempelli, Giovanni Cena e Francesco Patonchi e in seguito costituirà il gruppo dei crepuscolari torinesi. Nel 1907 pubblica una raccolta di trenta poesie La via del rifugio grazie alla quale riscuoterà un discreto successo dalla critica. Nello stesso anno gli viene diagnosticata una lesione polmonare all’apice destro che lo costringe a viaggiare nella speranza di ottenere in climi marini e più miti un miglioramento del suo stato di salute.

Nella primavera del 1907 inizia un intenso rapporto d’amore con Amalia Guglielminetti, poetessa che incarna il modello di donna colta e sofisticata, conosciuta l’anno prima presso la Società di Cultura a Torino. Le Lettere d’amore di Guido e di Amalia testimoniano l’amore per la poetessa e rappresentano uno dei documenti più intensi della biografia gozzaniana. Nel 1909 abbandona definitivamente gli studi giuridici per dedicarsi alla poesia e nel 1911 pubblica il suo più importante libro, I colloqui, che rimangono il suo capolavoro. A causa della malattia giunge sino in India, alla ricerca di una miracolosa guarigione che non arriverà mai. L’India gli offre lo spunto per pubblicare un resoconto del suo viaggio, con la Stampa, sotto il nome di Verso la cuna del mondo. Muore a soli 32 anni nell’agosto del 1916.

Gozzano è considerato l’ultimo dei nostri classici, poiché è un autore che ha modellato una materia già esistente in modo del tutto personale. Parte infatti dalla poesia dannunziana per poi distaccarsene, attuando un processo di conversione anche spirituale, tutto volto a Dio. Distaccandosi dall’estetismo e riducendo al minimo le componenti dannunziane, modifica il suo stile, rendendolo sempre meno lirico e più prosaico.

Il verso di Gozzano è quindi narrativo e funzionale, nel senso che, anche, isolandolo o inserendolo in un’altra poesia, non perde la sua funzione, anzi ne dona una nuova. Gozzano è stato un poeta romantico-verista-borghese, che è riusito a narrare con una certa aulicità di cose più quotidiane, definite da egli stesso “buone cose di pessimo gusto”.

Il rifiuto del modello dannunziano influenzerà molti scrittori del ‘900, tanto da creare la corrente letteraria, detta crepuscolarismo.

È utile evidenziare le differenze tra Gozzano e D’Annunzio, non solo sull’aspetto stilistico, ma anche per quanto riguarda la biografia, per inquadrare al meglio la poetica del poeta torinese:

D’Annunzio condusse una vita “inimitabile”, dedita agli eccessi. Ciò si ripercuote nella sua poetica, attraverso la libertà formale e la ricchezza dei temi. D’Annunzio è orgoglioso di essere poeta.

Guido Gozzano, invece, ha avuto una vita breve ed infelice, come si può constatare anche nelle sue poesie: gli schemi metrici sono chiusi, da inquadrare entro strutture fortemente classiche, nei quali introduce dei rinnovamenti stilistici, come l’utilizzo delle rime a orecchio e l’ironia. I temi borghesi e intimistici di Gozzano lo portano a vergognarsi di essere poeta, definendosi “un coso a due gambe”. Egli rifiuta la poesia, ritenendola incapace di affermare un qualsiasi proposito positivo sia nel presente che nel futuro e decide di dedicarsi alla letteratura per scrivere coscientemente della fine della letteratura stessa. Va comunque sottolineato che, ciò nonostante, il modello di D’Annunzio ha influito molto nell’autore: difatti anche il rovesciamento o il rifiuto di un modello ne comporta la presa in considerazione, quanto meno per confutarlo.

Per comprendere al meglio la poetica di Guido Gozzano,e di un qualsiasi poeta, è bene far sempre riferimento alle opere, che risultano essere la testimonianza più limpida e concreta del loro pensiero.

 

Jean-Paul Sartre: dalla Melancholia di Dürer a “La nausea”

La nausea è un romanzo di Jean-Paul Sartre, scritto nel 1932 e pubblicato nel 1938. In origine l’opera prendeva il nome di Melancholia, in onore dell’incisione del 1514 di Albrecht Dürer. Sartre usa gli oggetti come espressione dell’esistenzialismo dell’uomo e probabilmente scelse quest’opera per la rappresentazione di alcuni oggetti: una bilancia, un cane scheletrico, attrezzi da falegname, una clessidra, un solido geometrico (un “troncato romboedrico” o “poliedro Dürer”), un putto, una campana, un coltello, una scala a pioli, che rappresentano alchemicamente la difficoltà di tramutare il piombo in oro. È possibile compararli con il protagonista Antoine Roquentin che non riesce a portare a termine una tesi di storia su un avventuriero del XVIII secolo, il signor de Rollebon.

Altri simboli all’interno dell’incisione, quali l’arcobaleno e la cometa ci rimandano al sentimento di malinconia che Sartre probabilmente tramutò in nausea: un malessere che scava nella dimensione psicologica nei confronti dell’esistenza dell’uomo, in relazione all’ambiente circostante. Gli oggetti quindi diventano claustrofobici, castrano l’io e rappresentano quel “troppo” che non ci fa vivere serenamente, ma con un peso allo stomaco, tipico della nausea. Non sono solo gli oggetti che opprimono l’io sartriano, ma anche la società, che stabilisce con le sue regole fisse che un individuo esiste solo se un altro sa della sua esistenza. In accezione pirandelliana, anche Sartre compie riflessioni sull’io:

Forse è impossibile comprendere il proprio viso. O forse è perché sono solo? Le persone che vivono in società hanno imparato a vedersi, negli specchi, esattamente come appaiono ai loro amici. Io non ho amici: che sia per questo che la mia carne è così nuda? Si direbbe… sì, si direbbe la natura senza gli uomini.

È evidente come l’assenza di persone che possono ben identificarlo, in questo caso gli amici, comporta il sentirsi solo carne, per giunta nuda, che sottintende l’esistenza umana, ma senza umanità.

Albrecht Dürer, Melancholia

Soffermiamoci su un altro oggetto: le chiavi che rappresentano la conoscenza in grado di liberare l’uomo dal suo stato melanconico, e, insieme al pipistrello, simbolo della luce che spazza le tenebre, forniscono una soluzione all’esistenza umana. Sartre ci offre una soluzione al suo stato di nausea, nel finale del romanzo che, più propriamente, chiamerei diario filosofico: attraverso un costante richiamo alla canzone Some of these days (indelebile capolavoro), ci offre la possibilità di giustificare la propria esistenza.

Non resta che svincolarsi dalle logiche sociali precostruite dalla società e produrre un’opera indimenticabile, così da lasciare una traccia di sé che perduri ab eterno. Superando l’assenza di una donna, Anny, che contribuisce ad acuire il vuoto esistenziale, Sartre ci offre la soluzione per non avere ripugnanza del proprio passato e dell’esistenza vissuta in solitaria:

Forse un giorno, pensando precisamente a quest’ora, a quest’ora malinconica in cui attendo, con le spalle curve, che sia ora di salire sul treno, sentirei il mio cuore battere più in fretta e mi direi: quel giorno a quell’ora è cominciato tutto. E arriverei – al passato, soltanto al passato – ad accettare me stesso.

Non è l’amore, né la condizione sociale di accettazione dell’io che appaga Antionio Roquentin, bensì l’autoerotismo derivato dalla produzione di un’opera d’arte.

Camillo Sbarbaro, una vita ad occhi chiusi

Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967), nato in provincia di Genova, si trasferisce nel 1904 con la famiglia a Savona dove consegue il diploma di licenza. Nel 1910 trova lavoro in un’industria siderurgica. Il suo esordio poetico avviene un anno dopo con il volumetto di poesie dal titolo “Resine”, che sarà rifiutato dall’autore stesso.

Nel 1914 pubblica “Pianissimo” la sua raccolta più significativa. Nello stesso anno si trasferisce a Firenze dove conosce Papini, Campana e altri artisti che facevano parte della rivista “La voce”: proprio grazie a loro collaborerà con la rivista. Quando scoppia la grande guerra, Sbarbaro lascia l’impiego e si arruola come volontario nella Croce Rossa Italiana e nel febbraio del 1917 viene richiamato alle armi. A luglio parte per il fronte. Scrive in questo periodo le prose di “Trucioli” che verranno pubblicate nel 1920 a Firenze da Vallecchi. Lasciato il lavoro nell’industria siderurgica, si guadagna da vivere con le ripetizioni di greco e di latino, appassionandosi sempre di più alla botanica e dedicandosi alla raccolta e allo studio dei licheni, sua vera passione.

Camillo Sbarbaro ha condotto una vita appartata, sostentata dopo l’abbandono dell’industria con ripetizioni di latino e greco. Muore nel 1967. La sua poesia rientra nell’espressionismo più per i temi che per lo stile: le scelte formali sono lontane dalla tensione violenta degli espressionisti contemporanei. Il lessico è banale e quotidiano, e lo stile prosastico con l’influenza della metrica tradizionale. Anche se la materia è autobiografica Sbarbaro riesce a scrivere poesie che trattano con distacco la sua stessa vita, dovuta evidentemente da una scarsa vitalità. Il protagonista degli episodi narrati si presenta come un fantoccio o un sonnambulo che vive la vita alienante in condizione di oggetto e non di soggetto. Al poeta non resta altro che guardarsi dall’esterno diventando spettatore di sé: è questo il tema dello sdoppiamento che caratterizza tanto la poetica di Camillo Sbarbaro.

La freddezza della poesia di Sbarbaro è sicuramente un’auto repressione dovuta al contrasto del desiderio di una vita autentica e la sua impossibile realizzazione. Così come il protagonista è arido così il paesaggio in cui vive, la città è un deserto in cui è impossibile interagire con le persone e gli oggetti della civiltà moderna.

Negli anni 20 del ‘900 conosce Eugenio Montale che gli dedicherà un saggio nella raccolta “Auto da fè”: fu tale l’elogio che indusse Montale alla confessione di aver scelto il titolo della sua raccolta “Ossi di seppia”, proprio in onore di Sbarbaro e della sua poetica dello scarto. La poesia ormai è un residuo, è stata messa ai margini e ormai non può rispondere all’agonia del mondo. È questo il motivo che indusse i poeti al forte soggettivismo autobiografico. Camillo Sbarbaro diventa così un paradigma per Montale, poiché con la sua poetica rivive e fa rivivere la condizione di crisi del poeta nel 900.

I temi centrali della poetica sbarbariana sono quindi il doppio, lo scarto e la chiaroveggenza, intesa come la consapevolezza di un poeta sincero e onesto che ha imparato a conoscere sé, nel tentativo di risvegliare il distratto viandante che non si volta. È evidentemente una denuncia sociale nella quale egli non nega uno spiraglio di salvezza per l’uomo, ma neppure l’afferma.

Le due raccolte più importanti di Sbarbaro sono “Trucioli” e “Pianissimo”:

Pianissimo” è un canto cupo di sconforto per la condizione del poeta e dell’uomo in generale. è una poesia della disperazione e della sofferenza tutta personale. I motivi ricorrenti in questa raccolta sono dunque: lo sconforto universale e la condizione di sofferenza individuale. La critica che muoverà Montale alla raccolta, volta a riconoscerne il limite, è l’impossibilità e l’inadeguatezza di Sbarbaro di coniugare questi due aspetti: egli non riesce a farsi carico di una voce universale, tema tanto caro a Montale.

“Trucioli” sono pagine di diario, fogli volanti, in cui il tema centrale è lo scarto, visibile dal nome stesso della raccolta. Sbarbaro cammina “con un terrore da ubriaco” tra la gente che non comprende, in un luogo che non sente familiare. Egli galleggia come il sughero sull’acqua. Il poeta riesce a descrivere la condizione di sofferenza personale, soffermandosi anche sulla Natura che però è vista come mondo crudele. Per questo motivo è possibile rinvenire Leopardi e i poeti francesi del 900 per il tema della solitudine.

Dalla raccolta “Pianissimo” proponiamo “Taci, anima stanca di godere”:

Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno e all’altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

d’una rassegnazione disperata.

 

Non ci stupiremmo,

non è vero, mia anima, se il cuore

si fermasse, sospeso se ci fosse

il fiato…

Invece camminiamo,

camminiamo io e te come sonnambuli.

E gli alberi son alberi, le case

sono case, le donne

che passano son donne, e tutto è quello

che è, soltanto quel che è.

 

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

È evidente in questa poesia la principale aspirazione anti-dannunziana che ha come obiettivo la sliricizzazione del verso. Già i crepuscolari e Gozzano aprono la via per questa strada, ma Camillo Sbarbaro è il poeta che forse ha raggiunto i risultati più mirabili. Come afferma Mengaldo, Sbarbaro è “il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’ eloquenza tradizionale”. La lingua è assai vicina a quella del parlato quotidiano, con assenza di fenomeni polisemici e un uso parco di metafore. Queste scelte stilistiche sono il simbolo di un pacato colloquio con se stesso, che rappresentano la pietrificazione e inaridimento interiore, che fanno di Sbarbaro l’esempio calzante della crisi della coscienza moderna.

 

Carlo Emilio Gadda: l’ingegnere “aggrovigliato”

Nato a Milano in una famiglia borghese, la vita di Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) è stravolta dalla morte del padre, nel 1909, poiché la madre costringe i propri figli a durissimi sacrifici per mantenere un regime di vita adeguato alle apparenze della borghesia lombarda. Simbolo di questo desiderio sociale è la Villa di Longone, costruita dal padre con investimenti folli, per ostentare l’alto tenore di vita borghese. Ogni decisione familiare è subordinata alla ricerca di persistere in quello status symbol: è per questo che Gadda è costretto ad abbandonare le vocazioni letterarie per iscriversi a ingegneria. Tali elementi biografici sono alla base della nevrosi dell’autore, diviso tra l’amore per la propria madre, e l’odio per la stessa.

Gli studi universitari furono interrotti nel 1915 per la chiamata alle armi. Le esperienze della guerra in trincea e della prigionia si rivelano decisive per la formazione della personalità gaddiana, aggravando la sua depressione già resa insostenibile dalla morte del fratello Enrico, visto da sempre come un vero e proprio mito personale contro il quale misurare la propria impotenza e inutilità. Ottenuta la laurea in ingegneria, si guadagna da vivere facendo l’ingegnere, lavoro che lo porta a viaggiare molto, sino a Firenze, dove entrerà in contatto con l’ambiente di “Solaria” e con Montale, da sempre considerato un mito verso il quale si considera “goffo”. È l’inizio dell’esperienza letteraria di Gadda, pubblicando le sue prime prose narrative. Alla morte della madre,  lo scrittore vende la villa di Longone e avrà i soldi e il tempo per dedicarsi a un’opera rimasta incompiuta, che ripercorre la sua giovinezza e i difficili rapporti con la madre. Tra il 1940 e il ’50 vive stabilmente a Firenze, dove trascorre uno dei periodi più fertili e creativi della sua vita, infatti tra il ’46 e il ’47 pubblica a puntate su <<Letteratura>> la prima edizione di “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, ripubblicato poi in un volume unico nel 1957.

Nel 1950 si trasferisce a Roma, dove inizia a lavorare come responsabile culturale nei programmi Rai. Dedica gli ultimi anni della sua vita a un intenso lavoro di risistemazione e pubblicazione delle sue opere, sempre avvolto nell’isolamento e nella sofferenza causata dalla nevrosi. Muore nel 1973.

La formazione culturale di Gadda è influenzata dall’illuminismo, imperniata sull’amore per la razionalità e l’ordine tipico della borghesia imprenditoriale, in contrasto con l’intricata situazione familiare e sociale del giovane  scrittore. Tuttavia, dopo la delusione bellica, l’autore si scaglia contro la borghesia che, ai suoi occhi, assume le sembianze di un’inetta attrice di un tradimento storico: in ogni opera critica i ceti dominanti e ogni modello concreto di ordine con parodia e sarcasmo, in favore di modelli e valori del passato, riprendendo il concetto di stato di Cesare. Da qui la celebrazione di tutte le forme di vitalità (per di più adolescenziali e femminili) orientate contro la morale repressiva borghese: benché Gadda fosse spaventato da ogni forma di disordine si trova alla fine a patteggiare per chi sovverte ogni sistema. In conclusione, tanto l’ordine quanto il disordine spaventano l’autore in egual misura.  Egli si fa portavoce del declino degli intellettuali tra la prima guerra mondiale e il fascismo, rifiutando con disprezzo l’idea del poeta vate dannunziano. Scrivere rappresenta la dura lotta con la realtà esterna con cui l’io deve misurarsi.

per lui il mondo è un groviglio caotico di cose e fenomeni che rende impossibile e ridicolo ogni tentativo dell’io di fondare giudizi sulla propria soggettività, dato che è lo stesso soggetto ad essere elemento di disordine e irrazionalità all’interno di un caos infinito. Se, dunque la scrittura è conoscenza del reale, l’unica realtà conoscibile per mezzo della lingua è proprio la realtà linguistica, per questo Gadda, attraverso un linguaggio sia tecnico che gergale, aspira a ricostruire le innumerevoli relazioni della realtà, mescolando i codici linguistici, abbandonando la lingua unica, in favore della frammentarietà linguistica che serve per rappresentare la frammentazione caotica della realtà e delle sue possibili chiavi interpretative.

Contini  ha definito la scrittura di Gadda con il termine francese <<pastiche>>. Infatti, l’effetto artificiale della lingua gaddiana ha la funzione di mettere in rilievo, grazie allo straniamento linguistico, il non senso della normalità.

Lo stesso corpus dell’opera gaddiana si presenta come un caotico groviglio, anche i racconti più importanti sono spesso definiti porzioni di scritture più vaste, parti di un tutto che manca. Accade così che anche l’insieme dell’opera gaddiana partecipi alla rappresentazione del caos e l’impossibilità di dominarlo, proprio come accade in ogni singola sua composizione. Questi elementi hanno fatto accostare Gadda a scrittori come Rabelais e Joyce.

OPERE

 

la cognizione del dolore

 Morta la madre nel 1936, Gadda affronta la propria nevrosi familiare scrivendo nel 1937 “La cognizione del dolore”. Il libro si apre con una immaginaria conversazione tra Autore ed Editore e si chiude con la poesia Autunno, definito il testamento di Gadda. La mancata adesione alla struttura tradizionale del giallo, fa si che al lettore sia consegnato un testo lirico anziché l’assassino. La vicenda è ambientata in un immaginario paese del sud America (facilmente identificabile con l’Italia) uscito vincitore dalla guerra contro un paese confinante (evidentemente l’Austria). I protagonisti della vicenda sono Gonzalo ingegnere nevrotico e depresso (doppio di Gadda) e sua madre, chiamata “La signora”. Questi dopo la perdita del capofamiglia e di un fratello di Gonzalo vanno a vivere in una villa (chiaro richiamo alla biografia dell’autore milanese e alla villa di Longone).

La madre intende aprire le porte della propria villa per impartire lezioni di francese alla gente del posto, per colmare il vuoto lasciato dalla morte precoce degli altri componenti della famiglia, Gonzalo è del tutto restio a questa apertura, e intende lo spazio domestico come il luogo chiuso nel quale trova protezione dall’orrore e dalla volgarità del mondo esterno. In questo desiderio nevrotico di chiusura convergono: il timore che la madre vecchia e ammalata, possa aggravarsi e una gelosia evidentemente edipica. L’uccisione della madre avviene in situazioni misteriose e Gadda non ci fornisce la risoluzione del caso. Una delle probabili soluzioni è il matricidio: l’uccisione della madre si presenta come folle possibilità di liberazione dal vincolo nevrotico. La nevrosi di Gonzalo denuncia i limiti della società borghese e i suoi malati rapporti d’affetto. Questa condizione pare alludere a quella del ceto intellettuale nel ventennio fascista, con un pessimismo senza riscatto: se la letteratura è forma di conoscenza (e quindi di cognizione) l’unica realtà da essa conoscibile sarà quella del dolore.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

 Nel 1946 Gadda decide di lavorare a un racconto giallo, “Quer paticciaccio brutto di via Merulana” prendendo spunto da un fatto di cronaca: l’omicidio ad opera di un ex-domestica, di due vecchie signore romane. Nello stesso anno l’opera esce sulla rivista <<Letteratura>> in 5 puntate per poi uscire nel 1957 in un edizione unica priva di conclusione. Sebbene Gadda avesse promesso un continuo dell’opera con un altro libro, vi rinuncia dichiarando che l’opera è letterariamente compiuta, poiché essa è espressione di quel pasticciaccio cui allude il titolo: il nodo, groviglio o gnommero (gomitolo in romanesco) degli eventi fortemente correlati e privi di una risoluzione. “Il pasticciaccio” è il delitto di via Merulana emblema del caos e della terribilità delle cose.

La vicenda si svolge a Roma, nel febbraio del 1927, anno in cui Mussolini instaura il regime fascista: l’ordine deve regnare ovunque. Il commissario Ciccio Ingravallo, 35enne dai capelli neri arruffati, simbolo di quel garbuglio si occupa di un furto ai danni della Contessa Menegazzi avvenuto in Via Merulana, zona ricca e borghese. Pochi giorni dopo si consuma un orrendo delitto nell’appartamento di fronte a quello del furto: l’uccisione di Liliana Balducci, amica di Ingravallo per la quale egli prova ammirazione e amore quasi viscerale.

“Il pasticciaccio” è stato un vero e proprio caso letterario, incentrato soprattutto sull’utilizzo del dialetto. Da quel momento qualsiasi esperimento linguistico doveva fare i conti con Gadda e i continuatori di questa scuola furono chiamati da Alberto Arbasino i nipotini dell’ingegnere”.

Molte sue opere  inedite vengono pubblicate durante la Neoavanguardia : “I viaggi e la morte”, “Verso la certosa”,   “Eros e Priapo”, “La meccanica”.

 

Massimo Sacco: “L’ultimo segreto di Roma”

L’autore Massimo Sacco

Massimo Sacco nasce a Genova, luogo in cui tuttora vive, il 14 dicembre 1956. Frequenta il Liceo Classico “G. Mazzini” e si laurea nel 1983 in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Genova. Nel 1999 consegue il Diploma Universitario di Educatore professionale. Dal 1986 lavora presso una Cooperativa di Servizi Sociali come educatore professionale: inizialmente con i minori e in seguito con i disabili. Dal 2012 diventa direttore tecnico con funzioni di coordinamento della struttura per disabili; è appassionato di musica, in particolare classica e jazz, ama la lettura, la fotografia ed è appassionato di viaggi.

 “L’ultimo segreto di Roma” è il romanzo d’esordio dell’autore genovese edito da “Imprimatur”.

Il VI secolo d.C. vede l’Europa in balia delle invasioni barbariche e il disfacimento dell’impero romano d’occidente. Alla morte dell’imperatore Teodorico, il nipote Atalarico prende il trono, ma essendo troppo piccolo per governare, si affida alla madre Amalasunta, favorevole ad un accordo con Giustiniano ma osteggiata dai Goti che non vedono di buon occhio la rinascita dell’impero in Italia. Morto Atalarico, Amalasunta, essendo donna, non può regnare ed è costretta a sposare il cugino Teodato, favorevole a un accordo con i Goti. Teodato fa strangolare la moglie, vista come un ostacolo. L’Italia diventa una provincia di Bisanzio, fino al 568 quando fu conquistata dai Longobardi. La storia si snoda attraverso monasteri e città, la Gallia e la lontana Britannia fino a perdersi nelle brumose nebbie del nord. La storia di Martinus monaco e guerriero, ci conduce in un emozionante viaggio ai confini del mondo, verso luoghi non ancora conosciuti dalla civiltà. Solo grazie ad un recente ritrovamento archeologico, la sua storia è svelata, sconvolgendo parte delle certezze del mondo occidentale. Come può un castrum romano risalente al VI secolo d.C. affiorare dalle acque di un lago canadese?

E chi sono i barbari guerrieri che dopo averlo fatto prigioniero alla fine di una furibonda battaglia, lo conducono in schiavitù a latitudini dove mai nessun essere civilizzato ha messo piede? Che rapporto ha Martinus con il sito archeologico scoperto in Canada?

Il lettore lo scoprirà trascinato in un’appassionante odissea in cui barbarie e passione, amore e avventura s’intrecciano all’insegna di una rigorosa ricostruzione storica del periodo.  Martinus, il monaco guerriero, Titus lo schiavo liberato, la tenera Claudia e il burbero Cornelius ci faranno rivivere un’epoca scomparsa e affascinante, in cui il mondo della realtà e quello della fantasia si fondono armoniosamente. Martinus, giunto alla fine dei suoi giorni, ci racconta la sua storia in prima persona.

 Martinus, il protagonista del romanzo, è nato nel 511 e all’inizio del libro ha 19 anni, la storia dunque si svolge tra il 530 e il 580. Martinus vive ad Attetium, dove il padre, un aristocratico romano già foederatus di Teodorico, possiede vaste terra.

A seguito della morte di un mugnaio avvenuta per causa sua, Martinus, che ha ereditato una profonda sensibilità dalla madre Valeria, sconvolto, decide di recarsi in penitenza presso l’abbazia di C. a dieci giorni di cammino verso Nord. Qui rimarrà tre anni sotto la tutela del frate Simeone, l’ideatore del complesso monastico, che lo invoglierà a perfezionare la sua cultura.

Martinus prende, infine  i voti e si appassiona a molti libri di geografia e di astronomia che a quel tempo ancora si potevano trovare nei monasteri. trova alcuni progetti romani di architettura riguardanti la costruzione di castra, acquedotti e ponti che lo affascineranno. Grazie alla innata passione per i viaggi, accetta la missione di Legatus affidatagli dall’abate, di portare un prezioso reliquiario presso l’abbazia del fratello, abate anch’egli, in un monastero nei pressi di Acquae Sulis (Bath) in Britannia. Al suo ritorno verso la Gallia, la nave sulla quale viaggiava viene assalita da guerrieri nordici, progenitori dei vichinghi che lo rapiscono e lo conducono a nord.

Dopo molti anni di schiavitù Martinus, con un manipolo di compagni riesce a fuggire nel tentativo di tornare in patria. Diversi fortunali, però, fanno naufragare la nave prima in Groenlandia a poi in Canada, dove fonda una colonia di tipo romano.

L’introduzione del romanzo storico datata 1994, viene rappresentata da alcuni articoli di giornale che annunciano una scoperta sensazionale in Canada: presso un lago in cui si stanno allestendo dei magazzini vengono rinvenute delle mura, che si scoprirà poi essere esempi rudimentali di architettura romana del VI sec. d.C. Più avanti verrà trovato anche un manoscritto di un tal Martinus.

Questo ovviamente sconvolge tutte le teorie storiche sulla scoperta dell’America. “L’ultimo segreto di Roma” ovvero: “C’è un mistero da scoprire”. Consigliato soprattutto a chi  volesse imparare un pò di storia medievale senza annoiarsi.

Federigo Tozzi: il “disoccultore” della realtà

Federigo Tozzi (Siena, 1 gennaio 1883- Roma, 21 marzo -1920) nasce da una trovatella e Ghigo (soprannome di Federigo), un uomo violento pronto ad esibire il proprio potere sino ad imporre il proprio nome al figlio, quasi a stabilire il proprio dominio su di lui. La madre, donna debole, non riesce a opporsi ai tradimenti del marito e alle violenze contro il figlio.

Federigo Tozzi sin da giovane si opporrà al padre rifiutando di occuparsi della trattoria e dei poderi di famiglia. È indisciplinato e frequenta diverse scuole senza successo. Durante la continua ricerca di sé, nel 1900 si scrive al partito socialista pur dichiarando di essere anarchico. È utile fare un appunto sul concerto di anarchia per Tozzi, poiché egli non crede nel termine come concetto politico, bensì come una condizione dell’uomo cui è arrivato. Egli raggiunge tale concezione in opposizione alla censura del padre, attraverso un evidente complesso edipico non risolto e grazie agli studi letterari. In questo periodo legge Poe e Joyce, nel pieno della sua passione per la psicologia. Intanto una malattia venerea lo costringe all’isolamento che culminerà con una conversione religiosa iniziando a scrivere poesie aforismi e racconti.

Alla morte del padre eredita i poderi e la trattoria che non riesce ad amministrare; da questo materiale trae il romanzo “Il Podere”. La sua scrittura è inizialmente influenzata da D’annunzio e Nietzsche. Il 1913 è l’anno della svolta, poiché si libera dall’influenza dannunziana e fonda la rivista “la Torre” ispirata al cattolicesimo e al sogno del potere assoluto del papa.

Dal 1914 si trasferisce a Roma frequentando Pirandello con cui condivide l’impegno di fondare la narrativa su basi nuove e non più tradizionali. La poetica di Tozzi emerge in particolare dal suo articolo “come leggo io”. Essa è fondata sullo svuotamento della trama tradizionale: apparentemente Tozzi lascia la struttura tradizionale della letteratura (impalcatura) che però è svuotata dall’interno. Trae spunto dal flusso di coscienza di Joyce ma, proprio perché mantiene la struttura tradizionale del romanzo, se ne differenzia.

Il punto di vista narrativo è tutto calato nella dimensione onirica-grottesca e deforme, tanto da paragonare Tozzi a Kafka.

È importante specificare che il cattolicesimo di Tozzi ha come Dio un padre persecutore, identificabile con la figura del padre biografico. La vita resta incomprensibile e va accettata dall’uomo che ha nella propria anima questo Dio. Lo scrittore toscano vede nell’anima sia la manifestazione del sentimento religioso sia la sede dell’inconscio per cui la scrittura psicologica è sempre scrittura religiosa. Dunque se il mondo è per Tozzi un mistero egli lo rappresenta come tale, anche se la materia narrativa è quella dei romanzi veristi. Il podere, infatti, richiama Verga.

L’autore rappresenta un precursore del naturalismo che non si ferma alla spiegazione oggettiva del reale ma ne dà una propria, deformante e grottesca. La sua cultura psicologica non si rifà a Freud ma solo a Joyce, il quale sollecita Tozzi a registrare, ma non a spiegare la psiche. È per questo che lo scrittore  è estraneo alla scrittura ironica e razionale di Svevo, al quale però si avvicina per la sua polemica contro i “frammentisti vociani” e il tentativo di ricostruire i generi da loro abbandonati: la novella e il romanzo. La sua funzione storica è stata appunto quella di rifondare il romanzo e tra gli autori della sua generazione è stato l’unico ad avvicinarsi a Svevo e Pirandello.In Federigo Tozzi la pressione dell’inconscio, superando la censurare, crea angoscia, si potrebbe dire che dall’impossibilità di mostrare certi contenuti e la volontà di farlo, nasce una formazione di compromesso rinvenibile nelle rappresentazioni dei personaggi. Per questo i personaggi tozziani risultano “brutti” e non tanto per la conferma di una diagnosi clinica o di un giudizio morale del narratore, come avveniva per la narrativa naturalistica. In Tozzi i personaggi sono brutti indipendentemente dal giudizio dell’autore su di loro.

La finalità del romanzo di Federigo Tozzi è divenuta quella di “disoccultare un oltre”, mostrando sulle facce dei personaggi l’angoscia dettata dall’inconscio. È  estremamente utile concludere con la celebre citazione debenedettiana su Tozzi. Il critico afferma che <<il naturalismo narra in quanto spiega, Tozzi narra in quanto non può spiegare>>.

Romanzi

Con gli occhi chiusi

“Con gli occhi chiusi” (1919) è la storia di Pietro, figlio di Domenico, un padre dispotico che cerca di imporre al figlio il lavoro nel podere di famiglia. La madre di Pietro è una donna mite, che non riesce a ribellarsi alla durezza del marito. La storia si sviluppa prevalentemente nel podere di Poggio a Meli, dove Pietro si innamora di una giovane contadina di nome Ghìsola. La relazione di Pietro con Ghìsola non è accettata dal padre, che con la sua sola presenza riesce a inibire i due. La relazione tra i due giovani, in realtà non si consuma, poiché Pietro scopre la vera natura di Ghìsola. “Con gli occhi chiusi” è il romanzo che rappresenta maggiormente lo svuotamento dell’impalcatura tradizionale del romanzo, riempita questa volta da contenuti apparentemente dislocati tra loro, che in realtà rappresentano un unico filo conduttore: l’inconscio.

Tre croci

Tre croci (1918)

È la storia dei tre fratelli Gambi: Giulio, che possiede una libreria, Niccolò, che traffica oggetti falsi di antiquariato, Enrico che lavora come rilegatore. I tre fratelli cadono in rovina, dopo aver vissuto un breve periodo di benessere economico, grazie ad un lascito paterno. Il declino economico avviene a causa della falsificazione su tre cambiali della firma del cavaliere Orazio Nicchioli, il quale si era  proposto come garante solo per una cambiale. L’imbroglio viene svelato dalla banca e Giulio dalla vergogna si suicida in libreria. Niccolò morirà dopo poco a causa della gotta, mentre Enrico morirà pazzo in una clinica.

Il Podere

Il Podere (1921)

Remigio Selmi è il figlio del proprietario del podere, che decide di non occuparsi della proprietà di famiglia, a causa dei rapporti conflittuali con il padre, e accetta un lavoro nelle ferrovie. La sua vita cambia in frette a causa della morte del padre, che di fatto consegna il podere di famiglia nelle sue mani. Totalmente incapace di gestire il podere e i rapporti con i contadini, Remigio inevitabilmente porta il podere alla rovina. Berto, un contadino al culmine della sua ira nei confronti di Remigio lo uccide.

È evidente che i tre maggiori romanzi di Federigo Tozzi abbiano come spunto di analisi la biografia dell’autore.

Italo Svevo, tra sospetto e realtà

Italo Svevo  (Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928)   nasce  in un’agiata famiglia ebrea, vive a Trieste, crocevia culturale, che dà all’autore la possibilità di formarsi con i grandi maestri del sospetto: Schopenauer, Nietzsche e Freud. Lo pseudonimo stesso di Ettore Shmitz, ovvero Italo Svevo, rivela la duplicità culturale dello scrittore: per metà italiano e per metà tedesco. Egli vive a cavallo tra la fine della grande tradizione ottocentesca e l’affermazione della psicoanalisi e dello studio sull’inconscio: non si crede più nella realtà, dunque si inizia a sospettare il mondo e l’uomo. Sono gli stessi anni in cui Lacan parla dell’inconscio come linguaggio. Non esiste più una sola verità cui credere e la fiducia nella scrittura inizia a vacillare. Possiamo distinguere nella sua vita e nella sua attività letteraria tre fasi:

Italo Svevo: giovinezza e formazione letteraria

Nel 1880 in seguito ai dissesti finanziari del padre, Italo Svevo è costretto ad impiegarsi in una banca di Trieste. Il suo interesse letterario lo porta a leggere i romanzi francesi (Balzac e Zola) e i classici italiani (da Boccaccio a Guicciardini). In questo periodo ha una relazione con Giuseppina Zergol (l’Angiolina di “Senilità”). Alla morte del fratello nel 1886 non si allontana dagli interessi letterari e lavora a un romanzo intitolato dapprima “Un inetto”, poi “Una vita” (1892). Alla morte del padre, incontra la cugina Livia Veneziani, che sposerà quattro anni dopo: figlia di un grande industriale, che dirige una fabbrica di vernici per navi. Livia appartiene a quella borghesia solida e ricca di fine 800, classe sociale a cui Svevo sente di non appartenere. Da qui, si fa forte la consapevolezza della distanza culturale che intercorre tra lui e la moglie che resta ignara di tali inquietudini.

Nel 1898 Italo Svevo pubblica a puntate sullIndipendente” il suo secondo romanzo “Senilità”, ma il matrimonio con Livia sembra destinato ad allontanarlo dalla letteratura. Nel 1889 entra a far parte della ditta di famiglia annunciando solennemente il proposito di abbandonare la letteratura, impegnato com’era nell’attività industriale, che lo porta sino in Inghilterra dove conosce James Joyce, di cui diventa un amico intimo.

“Una vita” (1892): protagonista è l’impiegato Alfonso Nitti, che si sente diverso dai sui contemporanei e vorrebbe apparire superiore dato che legge  il latino e ama le poesie. Egli invece di perseguire la funzione dell’uomo intellettuale (idea ormai decaduta) è costretto a fare il copista in una banca, con mansioni ripetitive e automatiche. Volenteroso di un riscatto sociale decide di sedurre la figlia del padrone della banca, anche lei fervida lettrice. Ma a questo punto, il meccanismo dell’affermazione sociale s’inceppa, perché il protagonista è un inetto, incapace di approfittare delle situazioni favorevoli. Preso da un’inspiegabile paura, senza avvertire Annetta, scappa dalla madre (che trova morta), pur essendo consapevole del fatto che a causa della sua fuga e del suo silenzio perderà la donna amata. Annetta, infatti, sposa Macario, un giovane brillante e disinvolto, rivale di Alfonso Nitti. Il protagonista, invano, cerca di riallacciare i rapporti con la donna, scrivendole una lettera che è interpretata dai suoi familiari come un tentativo di ricatto.

Il fratello di Annetta decide di sfidare Alfonso a duello, ma lui, rifiuta la lotta, preferendo il suicidio. In questo primo romanzo sveviano manca del tutto la componente estetica e decadente di fine 800, tipicamente dannunziana. Svevo appare come un moralista senza una morale, ed è completamente assente un’ideologia precostituita.

“Senilità” (1898): il protagonista Emilio Brentani pur essendo un letterato come Alfonso Nitti, non si oppone alla “normalità”, ma accetta la sua condizione di borghese. Egli è consapevole di vivere in un conflitto che non è più tra l’io e la società, come in “Una Vita”, bensì tra desiderio e repressione. È presente una lotta che si svolge tutta all’interno del personaggio il quale, trovandosi dinanzi ad una scelta, finisce per piegarsi sulla repressione del proprio piacere. Emilio Brentani trascorre un’esistenza senile, opaca e grigia. Sogna però un’avventura “facile e breve” come quelle di cui è esperto l’amico Stefano Balli, scultore fallito ma dongiovanni fortunato. Quando Emilio conosce Angiolina, una bella popolana, sembra che la vita gli conceda finalmente tale possibilità. Finisce per idealizzare la donna e quando si rende conto che la ragazza in realtà non ha nulla di angelico, gli appare solo come rozza e volgare. Tenta invano di lasciarla ma non riesce più a fare a meno della sua giovinezza. Angiolina s’innamora di Balli, il quale amore è corrisposto. Emilio decide per questo di allontanare l’amico dalla sua casa, e Amalia, sorella di Emilio travolta dal dispiacere ricorre all’etere, contraendo una grave polmonite.

Emilio decide di abbandonare anche Angiolina, e si troverà solo senza le due donne: si chiude in un’ermetica senilità dalla quale non è mai uscito per davvero. Emilio è privo di coraggio e decisione, l’unico modo per sconfiggere la senilità sarebbe stato mettere in discussione la propria vita normale e piatta, cosa che non riesce a fare. Avverte la spinta dell’Eros, ma vorrebbe renderlo disciplinato e stabile. Il romanzo è costruito su un quadrilatero perfetto di personaggi: da un lato due uomini contrapposti: Balli ed Emilio; dall’altro due donne altrettanto contrapposte: Angioina e Amalia, che rispecchia mali e debolezze del fratello.

Il silenzio letterario (1889-1918)

Nel 1889 annuncia solennemente di abbandonare la letteratura. Il suo silenzio però è tutto da interpretare: egli aveva provato a essere un grande scrittore in stile ottocentesco, con i romanzi “Una vita” e “Senilità”, ma non ebbero il successo sperato. Si può affermare, infatti, che D’annunzio e Svevo pur essendo coetanei siano diametralmente opposti: il primo chiude il vecchio mondo letterario ottocentesco, il secondo ne apre uno nuovo, fondato sul romanzo d’avanguardia, ispirato a Proust e Joyce.

Svevo non abbandona mai la penna, infatti, scrive note, appunti, scarabocchi, persino un diario. In una pagina del suo diario del 1902 ci fornisce la prova più lampante di quanto non voglia smettere di scrivere: l’autore scrive di aver chiuso con la scrittura ma contemporaneamente ne sta scrivendo. Non può chiudere i conti con la letteratura perché essa è il nostro infinito in terra (Leopardi). Dal momento che l’uomo scrive, la sua memoria resta ai posteri, diventa eterna. Lo scrittore triestino non smette di scrivere, affermando che scribacchiando scribacchiando la penna trascese, è proprio da qui, che prende vita “La coscienza di Zeno”.

Il ritorno alla letteratura

Nel giro di tre anni Italo Svevo scrive “La Coscienza di Zeno” pubblicata nel 1923. Fu Joyce ad adoperarsi per far conoscere l’opera tra i critici francesi, mentre in Italia, fu Montale a farlo conoscere al pubblico, grazie ad un articolo sulla rivista “Solaria”. Sino ad allora Svevo è relegato nell’oblio letterario, sia perché ritenuto fuori dalle tendenze imposte tra le due guerre (letteratura aurea, e lirica pura), sia perché il pubblico italiano del 1923 è ancora lontano dalla teoria freudiana, dunque non ha le basi per poter comprendere il grande capolavoro sveviano.

LA COSCIENZA DI ZENO (1923): Nella prefazione il dottor S., psicoanalista di Zeno Cosini, afferma di voler pubblicare per vendetta le memorie del suo paziente. Zeno Cosini, il protagonista del romanzo, proviene da una famiglia agiata, vive nell’ozio e nel rapporto conflittuale con il padre. Egli prova un costante senso d’inquietudine e inadeguatezza che interpreta come sintono di una malattia nevrotica. Sulla base di ciò egli compirà delle scelte che possono sembrare frutto del Caso. Infatti Augusto Buzzi interpreta il romanzo attraverso la chiave di lettura del Caso, affermando che non lo si deve confondere con la casualità.

Zeno sceglie in prima persona le proprie azioni, ma è il Caso a definirne le conclusioni. Ciò è chiaro quando Zeno cerca moglie e sceglie la casa Malfenti, come luogo in cui trovarla; ma lascia al Caso la decisione su quale delle tre figlie debba essere sua moglie. Se mi è concesso un appunto, mi soffermerei in particolar modo sull’interpretazione di Mazzacurati che paragona l’ordigno di cui parla Svevo, con la penna. Per questo motivo in un senso freudiano potremmo affermare che non è il Caso a decidere, bensì l’esplosione costante di un ordigno che apre le porte dell’inconscio e permette la fuoriuscita di quei desideri spesso dannosi. Infatti, la penna di Italo Svevo è come un bisturi che incide in profondità e infetta con le sue manie chiunque tocchi.

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