Strega 2025. Vince il memoir psicoanalitico ‘L’anniversario’ di Bajani, l’uomo che contesta il patriarcato. Chi altrimenti?!

Tralasciando le polemiche legate all’assenza del ministro Giuli, alle dichiarazioni di Emanuele Trevi (che ha proposto il libro vincitore del Premio Strega 2025), all’immancabile grido di “Palestina libera!”, è sempre bene ribadire che il premio Strega è quasi sempre il risultato di una solida lottizzazione fra case editrici. Quest’anno era il 70esimo anniversario della Feltrinelli e quindi doveva vincere un libro Feltrinelli.  Dopo la vittoria dell’opera L’anniversario, Bajani ha dichiarato: “Mi hanno insegnato che la letteratura deve contestare la versione ufficiale e troppo spesso questa versione è quella patriarcale. Con L’anniversario ho avuto la necessità di contestarlo dal punto di vista di un maschio”. Naturalmente. Peccato la sua non sia letteratura.

L’anniversario, infatti, è una storia rarefatta e ripetitiva  su un uomo che rievoca una relazione finita tornando ogni anno nello stesso hotel. Lo stile di Bajani è asciutto, come la storia. La cifra stilistica non è pervenuta: l’autore si avvale di un linguaggio scolastico e astratto per mostrare quanto lui, maschio italiano, lotti contro il patriarcato.

L’anniversario sembra un libro scritto come esercizio per autoterapia, uno sfogo furbissimo che celebra il trionfo della salvezza individuale a scapito delle relazioni umane, persino della propria madre. Perfetto per questa epoca di superficialità.

Tra romanzo e autofiction, Bajani, strizzando l’occhiolino all’inarrivabile Roth, tenta di fare luce (inutilmente) i micidiali intrecci di una famiglia opprimente e disfunzionale con un doppio passo: da un lato il racconto dell’inferno domestico, dall’altro il distacco di chi pensa di poter dire la sua, magari la verità, portandosi dietro il senso di colpa di essere uomo e la convinzione che la famiglia non conti più nulla.

Non si capisce quali siano i reali e gravi motivi della rottura definita del protagonista con la sua famiglia, se non la voglia dell’autore di far prevalere il tema di attualità sulla narrazione e sullo stile, con spietatezza, usufruendo della sponsorizzazione di Emanuel Carrère nella fascia in copertina. Un memoir irritante che demolisce padre e madre senza un minimo di “pietas”. Due figure, quella del padre – padrone – fascista (ovviamente) e della madre casalinga succube (ovviamente), tratteggiate a tinte fosche.

Un romanzo che non decolla mai ma che si stagna nella palude del risentimento. Marginali anche la figura della sorella e delle due compagne, accompagnate da riferimenti a malattie oncologiche. Bajani ha dichiarato di aver superato  il suo problema dopo aver chiuso per 10 anni i rapporti con i genitori, confermando che il suo è più un resoconto psicoanalitico ruffiano che un’opera letteraria.

Sicuramente L’anniversario non aggiunge nulla al tema dei rapporti tra genitori e figli (vedesi ad esempio Padri e figli di Turgenev), né rappresenta un’opera di narrativa di livello, sebbene molte recensioni si sono lanciate in elogi sperticati.

Dietro Bajani, Elisabetta Rasy con “Perduto è questo mare” (Rizzoli), con 133 voti, e Nadia Terranova con “Quello che so di te” (Guanda) con 117 voti. Chiudono la cinquina dei finalisti Paolo Nori con “Chiudo la porta e urlo” (Mondadori) con 103 voti e Michele Ruol con “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” (TerraRossa) con 99 voti.

Come il fantasy ha alimentato la controcultura degli anni ’60

È il 1965. Studenti con giacche dell’esercito sono nel loro dormitorio mentre suona un disco di Bob Dylan. La guerra in Vietnam si sta intensificando. Le cartoline di leva arrivano nelle cassette della posta, amici e vicini scompaiono. Tra i volantini antibellici e i libri di testo universitari, c’è un tascabile economico di colore rosso vivo che viene passato di mano in mano. Non è una lettura assegnata. Non è nemmeno del tutto legale. Il libro è Il Signore degli Anelli e, per ragioni che nessun professore ancora comprende, è diventato il testo sacro della controcultura degli anni Sessanta.

I tascabili pirata di Tolkien hanno colpito come una bomba nei campus degli anni Sessanta. La copia pirata fu stampata grazie a una scappatoia nella legge sul copyright e divenne rapidamente un fenomeno di culto, vendendo oltre 100.000 copie solo nel 1965. I più grandi fan del libro sembravano essere gli hippy, i manifestanti e le rockstar.

A metà degli anni Sessanta, il sogno americano si era inaridito. La macchina del progresso si era rivoltata contro i suoi creatori. Le fabbriche avvelenavano i fiumi. Il governo mandava in guerra i giovani di 18 anni. La disuguaglianza era ovunque. La cultura popolare puntava su laser, L.E.D., torri di uffici illuminate da luci fluorescenti, energia nucleare, telefoni a pulsante, cene in TV e razzi spaziali. In un mondo che sembrava accelerare verso l’annientamento, le società preindustriali cominciarono ad apparire come un rifugio, forse addirittura come una tabella di marcia. La gioventù disincantata cercava il progresso nel passato.

Il Medioevo, almeno come rei-mmaginato negli anni Sessanta, offriva un mondo precapitalistico e incantato di comuni e trovatori. Sebbene oggi stereotipizziamo l’estetica del Medioevo come una sorta di polenta grigia piena di suore, ciò non è esatto. Lo storico Jacques Le Goff descrive “grandi gioielli inseriti nelle tavole delle rilegature dei libri, oggetti d’oro scintillanti, sculture dipinte in modo brillante… e la magia colorata delle vetrate”. Fantastico. A differenza della sterile tecnocrazia della Guerra Fredda, questa visione dei tempi passati dava alla gente qualcosa di cui entusiasmarsi. Il Medioevo offriva l’artigianato, l’autosufficienza, le piccole comunità e il rispetto per l’erboristeria (comunque la si voglia interpretare). È diventato un quadro di riferimento per immaginare un futuro migliore. Con queste basi già in atto, aveva senso che Il Signore degli Anelli fosse un successo per gli hippy.

Per gli estranei, questo fascino per elfi e orchi poteva sembrare un’evasione infantile. Ma per molti, la Terra di Mezzo era molto simile all’America. Mordor era un paesaggio industriale infernale, forse gestito dallo stesso tipo di uomini che arruolavano adolescenti in Vietnam. L’Anello, una forza corruttrice di puro potere, divenne una controfigura delle armi nucleari, dell’imperialismo, delle dita striscianti della commissione di leva. Gandalf sembrava più affidabile di qualsiasi figura politica reale. Ancora oggi, il fantasy medievale viene spesso liquidato come evasione, ma fornisce una lente attraverso la quale le persone possono criticare il presente.

Ciò che seguì fu un re-incanto culturale. La frase FRODO LIVES iniziò a comparire nei graffiti della metropolitana. I manifestanti indossarono spille con la scritta GANDALF FOR PRESIDENT. La fantasia, un tempo considerata infantile, fu travolta dalla rivoluzione.

Il Medioevo, o almeno una sua approssimazione allucinogena, era tornato. Gli arazzi decoravano le pareti dei dormitori, i flauti sostituivano i sassofoni e, alla periferia di Los Angeles, un ex insegnante di liceo stava per lanciare quella che sarebbe diventata una delle eredità più durature del movimento: la Renaissance Faire.

Il legame tra la paura rossa e i californiani in braghetta che vendono cosce di tacchino può sembrare tenue, ma l’evoluzione è stata piuttosto organica. Phyllis Patterson aveva insegnato inglese e teatro a Los Angeles negli anni ’50, quando la lista nera dell’era McCarthy incombeva sui creativi californiani. Gli scrittori, gli attori e gli insegnanti di sinistra venivano eliminati dai posti di lavoro pubblici. Le restrizioni si stavano accumulando su Patterson, controllando ciò che poteva insegnare, così lasciò il suo lavoro per avviare la prima Ren Faire. I creativi in lista nera si riunirono in una valle piena di querce per rievocare un passato più libero, più strano e più comunitario.

Qui, tra i giullari e i pali di maggio, la controcultura trovò un luogo per immaginare nuove forme di comunità, radicate saldamente al di fuori della portata del nazionalismo o del conformismo della Guerra Fredda. Il medievalismo, sotto questa luce, non era nostalgia. Era un’insurrezione.

I costumi delle Faires attingevano dal pozzo dei Preraffaelliti, un movimento artistico britannico del XIX secolo che idolatrava il mondo medievale. Lo si vede anche nell’estetica che gli hippy scelsero di adottare. Invece di capelli spelacchiati e cappelli architettonici, hanno optato per qualcosa di più simile a una maga dei boschi con le maniche a sbuffo. Gunne Sax, la linea di abbigliamento lanciata da Jessica McClintock, ha trovato un pubblico entusiasta tra le donne che volevano apparire come se potessero inciampare in una radura della foresta per incontrare un unicorno.

I musicisti rock di quest’epoca sembravano innamorati del fantasy. I Led Zeppelin facevano riferimenti a Mordor e a Gollum (che ruba la ragazza a Robert Plant in Ramble On). Marc Bolan dei T. Rex si atteggiava a cavaliere glam con una corazza di pelle, cantando di maghi, draghi e amore cosmico. Si dice che gli stessi Beatles abbiano sognato di recitare in un adattamento de Il Signore degli Anelli, interpretando Paul come Frodo, Ringo come Sam, George come Gandalf e John come Gollum.

Ma ogni epoca mitica ha il suo crepuscolo. A differenza dei libri fantasy da cui è nata, questa estetica era destinata a una fine triste e senza cerimonie. Alla fine degli anni ’70, il suo bagliore si era affievolito. La guerra del Vietnam si era conclusa in maniera amara e dolorosa, lasciando i suoi veterani, sconvolti, a dormire sui marciapiedi. Il sogno di una rivoluzione controculturale si era in gran parte dissolto in una nebbia di burnout, esplosioni e discoteca. Per molti idealisti, il mondo incantato che avevano immaginato non sopravvisse al giorno dopo. La Contea non era stata salvata. I draghi non erano stati uccisi. Il mondo reale rimase ostinatamente moderno, meccanizzato e ingiusto.

Persino Frodo non era riuscito a mantenere il suo status di mascotte dei fuorilegge. Quando arrivò il nuovo millennio, che portò con sé un adattamento cinematografico del Signore degli Anelli, Frodo era in omaggio con un pasto combinato di Burger King. Il testo sacro del 1965 si era trasformato in merchandising di massa: oggetti da collezione Sideshow, repliche dell’Unico Anello, portachiavi e pantofole con i piedi da hobbit. Nell’era degli iPod, di MySpace e dei primi anni di Internet.

Per molti la guerra in Iraq è sembrata un’altra volta il Vietnam, ma negli anni Duemila lo stato d’animo era diverso. C’era un cinismo estremo che non c’era stato nel 1968. La vecchia controcultura era stata per molti versi assorbita dal mainstream. I simboli della pace erano ormai diventati dichiarazioni di moda. Le citazioni degli Hobbit erano stampate su tazze da caffè scontate. Per alcuni, “Frodo ha fallito” non era solo una battuta contro Bush. Era un’ammissione che la rivoluzione non era arrivata. Il mondo non era cambiato. L’Anello aveva solo trovato un nuovo portatore.

Per quanto possa sembrare deprimente, c’è qualcosa di rincuorante nella resistenza del fantasy come protesta. Quando la realtà sembra insopportabile, la fantasia diventa sia rifugio che spada. Il fantasy tratta spesso temi di rivoluzione: re corrotti, distribuzioni ingiuste del potere e improbabili eroi che si ribellano agli imperi. Ci ricorda che il mondo può essere rifatto, che l’oscurità può essere sfidata e che la resistenza, per quanto piccola o strana, è ancora importante.

‘Storia di due amici e dei Dik Dik’ di Pietruccio Montalbetti. Un omaggio a Lucio Battisti

Un racconto autobiografico che riporta alla luce gli esordi, l’amicizia profonda con Lucio Battisti e l’epopea dei Dik Dik: la storia di una generazione, scritta da chi l’ha vissuta. Bologna, 6 giugno 2025 – Cosa succede quando a scrivere è chi ha vissuto in prima persona l’inizio di un’epoca? Succede che il racconto si fa vivido, personale, nostalgico e appassionato. È quello che accade in “Storia di due amici e dei Dik Dik”, il nuovo libro di Pietruccio Montalbetti edito da Minerva (con una prefazione di Marco Buticchi), che è al tempo stesso un’autobiografia, un omaggio all’amico Lucio Battisti, e un percorso musicale e umano attraverso i decenni più travolgenti della musica italiana.

Con uno stile diretto e sincero, Pietruccio – fondatore e storico chitarrista dei Dik Dik – rievoca il tempo delle radio pirata, delle prime chitarre sognate e sudate, delle notti passate a provare nelle sale parrocchiali e dei lunghi viaggi in Cinquecento, con strumenti caricati fino al soffitto, pur di suonare in qualche balera di provincia.

Ma soprattutto, racconta Lucio. Non il mito, non il personaggio riservato che poi tutti avrebbero conosciuto, ma “l’uomo”, l’amico. “Quando sento la parola ‘amicizia’, mi viene in mente solo un nome: Lucio”, scrive l’autore. L’incontro con Battisti, avvenuto quasi per caso in uno studio di registrazione, dà il via a un rapporto profondo e duraturo, fatto di stima reciproca e condivisione. Un rapporto che precede la fama, e che proprio per questo è autentico, schietto, commovente.

“Lui suonava e cantava cose sue, alcune acerbe, altre sorprendenti. Mi chiese un parere e io, forse con un pizzico di benevolenza, gli dissi che erano belle. Ma una mi colpì davvero. Decisi di inciderla nel nostro primo disco. Era Se rimani con me. E fu il primo brano a portare ufficialmente la firma di Lucio Battisti”. 

Questa storia è anche quella di una band che ha fatto la storia: i Dik Dik. Dagli inizi sotto il nome “I Dreamers”alle prime audizioni alla Ricordi, dalle prove con l’amplificatore nel pianerottolo fino ai successi in classifica, il libro attraversa la parabola di un gruppo che ha segnato la colonna sonora di una generazione. “Sognando la California”, “Il vento”, “L’isola di Wight”canzoni diventate inni, specchi fedeli di un’epoca fatta di ribellione, ideali, amori e viaggi interiori.

“I Dik Dik – scrive Marco Buticchi nella prefazione – hanno accompagnato la mia generazione: ci hanno fatto crescere, innamorare, contestare, sognare. E la meraviglia è che quel vento soffia ancora. Quelle canzoni sono leve invisibili, come direbbe Archimede, capaci di sollevare mondi interiori”. 

Montalbetti racconta tutto con lucidità e ironia: i provini andati male, i produttori improbabili, le notti senza un soldo e la voglia incrollabile di “fare un disco”. Le pagine scorrono tra aneddoti gustosi, incontri fortuiti, piccoli grandi miracoli della vita. Come la madre di Pietruccio, che per sostenere il figlio durante le prove diventa una presenza costante nella sala parrocchiale. O come don Angelo, il viceparroco che firma una lettera di raccomandazione alla Ricordi pur di aiutarli a ottenere un provino. Una Milano popolare, viva, solidale, fa da sfondo a queste storie: una città in cui tutto sembrava possibile.

“Storia di due amici e dei Dik Dik” è un libro per nostalgici, una dichiarazione d’amore alla musica, all’amicizia, alla giovinezza vissuta intensamente. E anche un promemoria che, dietro ogni grande canzone, ogni mito, ci sono incontri fortuiti, passioni feroci, prove ed errori, e soprattutto persone.

“Lucio era timido, profondo, ossessionato dalla musica – ricorda Montalbetti –. In quella prima giornata passata insieme mi raccontò di suo nonno, che gli aveva costruito il primo flauto con le sue mani. Poi si addormentò, come fanno i bambini piccoli. Era un’anima bella. Non potevi non volergli bene”. 

Un libro che emoziona, diverte, commuove. E che lascia in chi legge il desiderio di tornare a quei giorni in cui tutto era da costruire. Pietruccio Montalbetti ci consegna non solo un pezzo di storia della musica italiana, ma anche – e soprattutto – un pezzo della sua vita. E, per estensione, della nostra.

L’autore

Pietruccio Montalbetti Storico chitarrista dei Dik Dik, il gruppo musicale fondato nel 1965 e mai tramontato nel cuore degli italiani, è nato a Milano nel 1941.Tra i loro più grandi successi: Se rimani con meSognando la CaliforniaIo mi fermo qui, Senza luce, Il vento, Il primo giorno di primavera, L’isola di Wight, Come passa il tempo e molte altre. Con la band ha all’attivo ben quattro partecipazioni al Festival di Sanremo, più una come solista. Ha collaborato con artisti del calibro di Lucio Battisti, Mogol, Rita Pavone, Ricky Gianco, Caterina Caselli, Donatello, Giorgio Faletti, i Camaleonti e Maurizio Vandelli. Appassionato da sempre di viaggi, è stato in Colombia, a Cuba, in Messico, Belize,

Guatemala, India, Nepal, Thailandia, Birmania, Ecuador, alle Galapagos, in Perù, Venezuela, nella Guyana, in Africa e nel Sahara. E’ autore dei libri: Sognando la California, scalando il Kilimangiaro (2011), Io e Lucio Battisti (2013), Settanta a settemilaUna sfida senza limiti di età (2014), I ragazzi della via Stendhal (2017), Il mistero della bicicletta abbandonata (2021).

 

La prima tappa del world fashion tour di Mary Rosati al Gotan Club di Roma

Lo scorso 21 giugno è stata inaugurata a Roma la 1° tappa del World Fashion Tour evento di moda e cultura. Il progetto, ideato ed autofinanziato da Mary Rosati fondatrice del Brand Mary Rose Couture che ha iniziato la sua carriera nella moda come assistente personale del Maestro Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti alla Maison Valentino nonché collaboratrice del noto imprenditore Matteo Marzotto, è stato presentato presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati il giorno 10 giugno 2025 alle ore 11:30 e prevede diverse tappe in Italia ed all’estero.

Le varie tappe racconteranno gli usi ed i costumi di varie Nazioni valorizzando quelli che sono i punti di forza di ogni Paese e gli aspetti più o meno conosciuti al grande pubblico attraverso la moda vista come forma di creatività ed espressione principale e primordiale unita alla danza, musica, pittura ed arte.

La 1° tappa del 21 giugno u.s., organizzata e pianificata dall’esperto di comunicazione ed eventi Marco Casciani in collaborazione con la Scuola Internazionale ONE LANGUAGE CENTRE di Roma ed il Brand di alta moda MARY ROSE COUTURE, ha visto l’Argentina come Paese protagonista ispirante sia la collezione di abiti ideati e disegnati da Mary Rosati che la location.

Il Gotan Club una milonga ricavata da un’antica villa nobiliare che ricorda un le “villas” tipiche argentine degli anni 30 di proprietà di Paolo Persi e Francesca Del Buono, ha fatto da cornice alla manifestazione.

Il World Fashion Tour si è aperto con i saluti Istituzionali del Consigliere Comunicale Mariano Angelucci Presidente della Commissione Moda, Turismo e Relazioni Internazionali e con i ringraziamenti all’On. Fabio Porta Deputato Commissione Affari Esteri Eletto in Sud America nonché al Dott. Gianni Lattanzio Segretario Generale ICPE Istituto Cooperazioni Paesi Esteri presenti entrambi in sala.

Il WFT (World Fashion Tour) ha ottenuto il gratuito Patrocinio dalla Regione Lazio ed ha portato in scena più di 20 abiti unici ispirati al tango con prevalenze cromatiche sui toni del nero e del rosso.

I materiali ecologici di riutilizzo e la manifattura di grande pregio ed artigianale Made in Italy costituiscono il punto di forza del Brand Mary Rose Couture che getta le basi per imporsi a livello Internazionale nel settore dell’alta moda femminile.

Gli ospiti presenti hanno potuto ammirare le linee femminili e ricercate degli abiti arricchiti da pizzi, merletti, ricami artigianali e tessuti di gran pregio impreziositi da cristalli e perle. Per l’occasione è stata offerta la possibilità a Cristina Magrelli Mental Creator Bijoux di realizzare per la stilista Mary Rosati sue creazioni di gioielli in abbinamento agli abiti del WFT.

Dati i numerosi abiti realizzati, la sfilata si è svolta 3 tempi ed è stata accompagnata dalle performance della compagnia teatrale “Voci tra le tele” fondata da Diletta Maria D’Ascanio e di cui fanno parte Beatrice Chiapelli, Eleonora Zavaglia, Antonio Calogero e Fabrizio Ginocchi.
Sempre inerente al tema del rosso, è stata allestita un’area all’interno della location dallo scenografo ed illustratore Luca Muscio conosciuto come Luca Musk con retrospettive ispirate a celebri film dove la donna è al centro delle scene.

Durante la manifestazione è stato anche presentato il personaggio iconico di Evita Peron raffigurata nell’opera realizzata con un acrilico su tela del celebre pittore e scrittore Claudio Calabrese che vive a Merano ed ha all’attivo numerose esposizioni e mostre personali e collettive in Italia ed all’Estero con importanti critiche e riconoscimenti.

Evita Peron è stata anche celebrata attraverso alcuni versi scritti ed interpretati dalla Prof.ssa Franca Katia Ranieri e tramite il prezioso abito di punta della collezione indossato dalla cantante ed attrice Eleonora Zavaglia che ha deliziato gli ospiti con le note di “Don’t cry for me Argentina” della celebre cantante Madonna.

Tra i numerosi ospiti intervenuti al World Fashion Tour, era possibile riconoscere importanti figure Istituzionali quali il Vice Prefetto Fulvio Rocco De Marinis ed il Cav. Maria Antonia Spartà Vice Questore della Polizia di Stato di Roma, l’Ambasciatore Angelo Spano, la Principessa Conny Caracciolo, il Prof. Ciro Maddaloni, l’On. Fabio Porta, il Dott. Gianni Lattanzio, il Presidente Mariano Angelucci, il filoso e scrittore Luciano Bernazza con Graziella Moschetta, la produttrice ed attrice Sasha Alessandra Carlesi, l’attore Ciro Buono, le attrici Costantina Busignani, Claudia Dezio ed Elena Russo, la conduttrice ed attrice Arianna Cigni, alte rappresentanze dell’Università La Sapienza di Roma, noti imprenditori tra cui Stefano Roncaccia, Rita Castellucci, Gino Foglia e tanti altri ospiti illustri.

Alla serata hanno partecipato anche la nota esperta di wellness e make up artist per tv e cinema Sonia Sculco e l’Hair Stylist Valentina Maglio che hanno curato le modelle, le attrici e Mary Rosati nonché la responsabile della sartoria Alessandra Carosi. Il fotografo ufficiale del WFT è stato il conosciutissimo Michele Crispino e le musiche sono state curate dai Deejay Alessandro Pizzuti e Carmine Del Prete.

Al termine della manifestazione è stata infine annunciata la 2° tappa del WFT che si svolgerà con molta probabilità nella splendida cornice dell’Alto Adige con location e collezione di abiti ancora top secret.

 

Antonio Carulli, autore di ‘Contro la scuola progressista’: ‘No alla scuola come vettore di mobilità sociale’

Quante volte sentiamo dire che la scuola italiana è in crisi, che i docenti hanno perso la propria autorità e che i ragazzi ne sanno sempre meno? Dove risiede la causa della decadenza della scuola italiana?

Secondo il prof. pugliese Antonio Carulli, nella concezione della scuola come ascensore sociale, con la sua falsa inclusività, omologazione culturale, che significa abbattere la meritocrazia e la selezione, risiede il motivo principale delle gravi problematiche che attanagliano la nostra scuola, definita “progressista”.

Antonio Carulli, partendo da una serie di analisi frutto dell’esperienza quotidiana, denuncia questa situazione anomala e propone alternative nel libro “Contro la scuola progressista” (Passaggio al bosco), analizzando in una invettiva incandescente, le dinamiche di un disastro che ha preso forma nello spazio di un ventennio, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Spiegando il senso dell’insegnamento, Carulli offre la modalità per scoprire il significato vero della parola cultura e indica anche una riflessione razionale su ciò che registra giorno dopo giorno: la fine dell’eccellenza italiana.

Il libro si sofferma sugli aspetti culturali del problema, tralasciando quelli di natura economica (fondi) e logistica, per affermare l’importanza di rifondare una scuola che non può scadere nel servizio sociale, in quanto essa è luogo di relazioni umane, di socializzazione e di apprendimenti, di conoscenza e trasmissione del sapere snaturata anche dalle teorie nuoviste di matrice aziendalista.

La soluzione per Carulli è far studiare se si vuole iniziare ad alzare il livello qualitativo della scuola.

 

1 Nella sua visione, cosa non dovrebbe mai essere la scuola?

Semplicemente, un luogo dove non si fanno mandare più le poesie a memoria, dove non si traduce più, dove non si boccia più, dove si fa educazione civica intesa malamente come contestazione sterile del governo in carica al posto di storia, dove la storia dell’arte è vista come una materia inutilmente complementare.

2 Qual è il principale problema che affligge la scuola italiana?

Burocrazia, interessi privati, docenti che non aprono un libro da quarant’anni, docenti che fanno gli psicologi e gli amici degli studenti e, peggio ancora, dei genitori degli studenti, docenti che contestano sistematicamente le scelte del ministero dell’istruzione, docenti che giocano a fare i bastian contrari in nome di una non meglio precisata nozione di democrazia perennemente attentata, gli evangelizzatori dell’anti-tradizione, dell’esotico, dell’arcobaleno, dei diritti senza doveri, di mondi, stati e stadî lontani, dell’eccezione perenne senza norma sottesa trasgredita.

3 Spesso in molti ci si lamenta che la scuola non è mai stata fondata sul merito. Cosa ne pensa?

I primi a non volerlo mi pare siano quei docenti che scambiano il rispetto delle regole per autoritarismo, l’appiattimento per democrazia, le regole introdotte a difesa del pubblico ufficiale per deriva dittatoriale.

4 La scuola progressista danneggia i più deboli? E’ in contrasto dunque con il concetto stesso di meritocrazia?

La storia dell’Italia della seconda parte del Novecento ha mostrato come la maggior parte delle persone proveniente da contesti culturali indubbiamente non disastrati, epperò non propriamente abbienti, alla fine sia riuscita ad assurgere a buoni livelli della macchina professionale. Siamo la seconda generazione dopo la prima che ce l’ha fatta.  Il problema semmai va cercato fuori della scuola, magari nelle conventicole. Il solito problema dell’Italia dove tutti conoscono tutti. Il tema, più supposto che reale, dell’appianamento delle difficoltà iniziali su cui possa disputarsi la partita del merito non è affare dell’istituzione scolastica ma della politica in genere. La scuola deve istruire non occuparsi del lavoro, perlomeno non primariamente. La scuola come vettore di mobilità sociale ha svuotato di senso l’insegnamento e fatte deserte le università.

5 Come fare per alzare il livello qualitativo?

Far studiare. Ma perché ciò accada occorre che i docenti per primi tornino farlo. L’educazione è mimetica.

6 Quali autori sono imprescindibili (e che però vengono snobbati o trattati superficialmente) per la formazione dei ragazzi?

Ce n’è un sacco. Basti qui semplicemente ricordare come viene trattato Manzoni (ovviamente da quelli che non l’hanno mai letto integralmente) o lo stesso D’Annunzio che non si studia perché sarebbe stato genericamente fascista quando poi fascista non è mai stato. O Giovanni Gentile, che da essere il nostro filosofo teoreticamente più agguerrito, è solo due righine nei libri di storia, l’autore della riforma e l’ucciso dai partigiani.

7 Cosa si augura per il suo libro? E cosa spera venga recepito soprattutto da ragazzi?

Sono ormai troppo adulto per credere che un libro possa chissà che. I giovani invece mi pare siano le vittime incolpevoli di questo sistema, non solo scolastico. Che finge di salvarli al solo scopo di salvare i propri privilegi. Quelli i quali rifiutano i titoli e/o le desinenze di genere o i dettami di ciò che può essere unicamente detto e fatto  (e ce ne sono, per grazia di Dio) sapranno ben recepire questo libro. Ne ho avuto già qualche esempio.

Guerra Israele-Iran. L’autorevole versione del filosofo Bernard-Henri Lévy

Tra gli svergognati antioccidentali accasati tra i diritti e i privilegi che L’Occidente offre, tra i docenti che sui social parlano di terza guerra mondiale per colpa di Israele mentre esibiscono foto con l’immagine con la bandiera palestinese che nulla ha a che vedere con l’Iran, tra i pacifisti ipocriti, tra gli ignoranti e gli esitanti che si preoccupano solo dell’economia e dell’inflazione, tra i celebratori di chissà quale diplomazia (mai indicata), tra i giornalisti che sostengono che non ci sia nessuna prova che l’Iran volesse fabbricare l’atomica per sostenere che Israele è guarrafondaio, si alza una voce autorevole e coraggiosa, quella del filosofo Bernand Lévy, che si spinge oltre l’attualità, le ipocrisie, la retorica.

«Questa guerra tra Israele e Iran è storica». Con queste parole, Bernard-Henri Lévy ha lanciato un monito che va ben oltre l’attualità immediata. In suo recente post su X, il filosofo francese afferma che se Stati Uniti ed Europa non sosterranno Israele con “tutte le loro forze”, l’asse totalitario — composto da Russia, Cina, islamisti radicali come il Pakistan, e forse in futuro anche la Turchia — potrebbe intervenire in favore di Teheran. Da quel momento, scrive, «entreremo in un altro mondo, in una nuova era della nostra storia».

È un messaggio che, pur nella sua drammaticità, interpella direttamente le classi dirigenti occidentali. La guerra scoppiata tra Tel Aviv e Teheran, con bombardamenti mirati su siti nucleari e reazioni verbali e operative da parte iraniana, segna un punto di svolta. Non solo nel fragile equilibrio del Medio Oriente, ma nella geopolitica globale.

Per l’Unione Europea, il bivio è sempre lo stesso: restare spettatrice di un disordine crescente o farsi finalmente soggetto geopolitico. Le cancellerie del continente, finora, hanno adottato un profilo basso. Dichiarazioni prudenti, appelli generici alla de-escalation, ma nessuna vera strategia. Eppure, se davvero ci troviamo di fronte a una trasformazione epocale, la neutralità potrebbe risultare una colpa, non una virtù.

Nel momento in cui Israele si trova esposto a una minaccia sistemica, l’Europa dovrebbe interrogarsi non tanto sulle mosse del governo Netanyahu – che restano legittimamente oggetto di critica – ma sul proprio ruolo in un mondo in cui l’equilibrio tra libertà e autoritarismo rischia di rompersi.

Questa guerra, come suggerisce il filosofo francese, è storica perché rappresenta una soglia. O l’Occidente riscopre la propria coesione, la propria visione, la propria determinazione strategica. Oppure verrà progressivamente marginalizzato, reso irrilevante da potenze che non hanno remore nell’uso della forza e nella manipolazione del caos.

Israele sta facendo il lavoro sporco per l’Occidente, anzi il suo attacco ripristina la credibilità dell’Occidente, in crisi di identità soprattutto grazie ai portatori insani di cancel e woke culture, ai complessati di colpa, a chi non comprende nemmeno la differenza abissale tra la questione di Gaza e quella dell’Iran, tra chi muore in guerra e chi viene massacrato casa per casa, a chi non conosce il significato della parola genocidio, a chi non si chiede perché Hamas non mette al sicuro la popolazione palestinese nei propri tunnel, a chi si indigna solo per i bambini morti a Gaza e non dei 15 milioni di bambini sudanesi affamati e profughi, a quelli del Darfur, a chi non si chiede perché Hamas non libera gli ostaggi, se davvero tiene davvero per la vita degli abitanti di Gaza invece di optare per il martirio di massa.

Perché prima di indignarsi, giustamente, per le morti degli innocenti palestinesi dando la colpa a Israele, non ci si pongono anche queste legittime domande, che nulla tolgono alla gravità dell’azione di Netanyahu?

Chi sbraita per una guerra intelligente e senza vittime civili, è un ipocrita. Chi protesta contro Israele e per la Palestina, come per l’Iran, e poi sale sui carri del pride e manifesta contro il patriarcato, è un ipocrita. Chi pensa che il sistema culturale e “valoriale” di Paese come l’Iran sia superiore a quello occidentale, che gli ayatollah e i mullah perlomeno difendano il ruolo della religione, è un povero ignorante rinnegato.

L’Europa ha oggi l’occasione – e forse l’ultima possibilità – per dimostrare che le sue aspirazioni globali non sono solo retorica. Servono decisioni, coraggio, visione. Soprattutto, serve smettere di credere che la storia sia finita, e accettare che il futuro si sta già scrivendo, con o senza di noi.

Carlo Tortarolo, autore de “Lo scultore di uragani’: ‘Viviamo in una civiltà triste’

Carlo Tortarolo ama stupire e provocare, pungolando il politicamente corretto che sempre più spesso corrode la nostra società. Lo fa pungolando il lettore con l’opera Lo scultore di uragani”, Coniglio editore, 2025, con uno stile incisivo e metaforico, che non lascia troppo scampo a scappatoie intellettive.

Lo scultore di uragani è una storia scritta di volta in volta dall’autore insieme al lettore invitato a collaborare alla riflessione di Tortarolo, poliedrica e divertente costruita su saggi pungenti, aforismi alla Leo Longanesi e racconti-parabole evocativi, offrendo ai lettori una chiave di lettura originale per interpretare le sfide della società contemporanea e le sue storture, soprattutto ideologiche.

Frutto di recupero di racconti precedenti, cui si sono aggiunti altri, Lo scultore di uragani, vive di ironia amara, di giochi di parole, di intuizioni illuminanti che descrivono la tristezza della nostra civiltà, dell’Occidente che, come ormai si sente dire da decenni, è come un treno nella notte la cui corsa va sempre più accelerando in direzione del baratro mentre «L’uomo occidentale  è come il passeggero del Titanic che […] (aveva) l’illusione di essere a bordo di una nave inaffondabile». Ma è possibile pensare ad un futuro diverso senza dover ripetere sempre che l’Occidente è morto o sta morendo, esibendosi solo come cantori dello sfacelo dell’Occidente?

Per Tortarolo la strada risiede proprio nel senso di possibilità insito dell’animo umano, nel riscoprire la nostra linfa vitale che ci permette istintivamente di comunicare vita, passione, visione del futura, anche attraverso la letteratura, contro la cultura mortifera post strutturalista.

 

 

1 Perché hai deciso di scrivere questo libro?

Non l’ho deciso. Mi è stato chiesto. L’editore mi ha domandato se avessi qualcosa di pronto e io ho risposto col disordine delle mie prime scritture. Ho recuperato i racconti usciti su Satisfiction, li ho riscritti, ne ho aggiunti altri, e li ho lasciati esplodere insieme.

2 Qual è la principale crisi che stiamo vivendo, la madre di tutte le altre, secondo te?

La crisi della felicità.

Abbiamo trasformato ogni desiderio in un diritto, e ci siamo trovati infelici lo stesso.

Viviamo in una civiltà triste, che ha perso il gusto per le piccole cose, per la serata senza smartphone, per il silenzio non monetizzato.

Siamo in lutto per la morte del presente.

3 È stato complicato pubblicare questo libro?

No. Ho avuto la fortuna rara che Coniglio Editore mi abbia cercato.

La vera difficoltà è stata scegliere cosa pubblicare. I racconti erano la forma giusta: tagliano, scivolano, si possono leggere come mine o come specchi.

4 Ad un certo punto fai dire ad un personaggio: “Vede Gilberti, gli italiani non sono ancora a pronti ad accettare la verità”. Quale verità per gli italiani è la più difficile da mandare giù?

La più indigesta è questa: non siamo mai stati davvero liberi, e non ce ne frega nulla.

L’Italia è un algoritmo emotivo: riesce a coniugare l’essere col non essere, il furto con la retorica, il disincanto con l’autoassoluzione.

La nostra verità è un compromesso che ci consente di sopravvivere senza fare i conti con noi stessi.

5 Quali sono i tuoi punti di riferimento letterari? Tre nomi

Dante, Céline e Longanesi.

Dante per la bellezza che non chiede permesso.

Céline per la dissezione dell’uomo e il furore stilistico.

Longanesi perché sapeva fuggire da ogni forma di banalità come fosse peste.

6 Cosa pensavi o speravi mentre scrivevi “Lo scultore d’uragani”?

Pensavo di fare male. Ogni racconto è un colpo: secco, chirurgico, fastidioso.

Scrivo per disturbare la stasi, per svegliare da quella pseudovita narcotizzata che non ha più bisogno dell’intelligenza umana.

Questo libro è un atto di resistenza contro l’idea di un uomo ridotto a entità gestibile da un’élite di debosciati.

Il libro li disegna. Li espone. Li brucia.

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