Matteo Totaro, docente ed editore: “L’abbattimento dei costi di stampa dei libri ha portato a una proliferazione inarrestabile di edizioni”

Matteo Totaro è un giovane insegnante, editore e tipografo, originario di Monte Sant’Angelo (Foggia), per cui non vale l’espressione riservata ai professionisti del mondo del libro di oggi, Vanitas vanitatum, ovvero ossessionato dalla visibilità, dalla politica, da vendette e spocchia.

Totaro vive a Monte Sant’Angelo fino al termine degli studi classici, quando si trasferisce a Bologna per frequentare la facoltà di Lettere dell’Alma Mater Studiorum. Amante della poesia e della musica, soprattutto grazie a Eugenio Montale, intraprende un percorso di ricerca sulla poetica del cantautore Paolo Conte e si laurea con una tesi sullo scrittore e libraio Roberto Roversi.

Vincitore di concorso indetto per l’insegnamento nella scuola secondaria, Matteo ottiene la cattedra di Italiano e Storia nel Liceo “Primo Levi” di Vignola. Docente appassionato e scrupoloso, segue i suoi studenti con partecipazione anche nel lungo periodo della chiusura degli istituti a causa del covid, sperimentando nuove forme di apprendimento online.

In una piccola piazza di Monte Sant’Angelo, Matteo Totaro ha aperto la sua private press Officina del giorno dopo, in ricordo e memoria di Officina, la rivista fondata a Bologna nel 1955 da Roberto Roversi, Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti.

Consapevole di quanto sia difficile far innamorare i proprio studenti della letteratura in una società tecnocratica e pubblicare poeti in virtù del fatto che una raccolta cartacea non rappresenta più il raggiungimento di un obiettivo importante per l’autore, ma una semplice tappa di un percorso che spesso si interrompe dopo la prima raccolta, Matteo Totaro è caparbio e determinato a proseguire sulla strada intrapresa muovendosi in uno spazio particolare in cui le regole editoriali ufficiali contano poco, non lavorando su commissione e selezionando con cura gli autori e gli artisti con cui collaborare.

 

 

 

 

1 Quando ha iniziato ad appassionarsi alla poesia e come viene trattata in Italia?

 

È stato con Montale, alla fine del quinto anno di liceo classico. Sono rimasto affascinato dalla musicalità di alcuni versi e dall’originalità di certe immagini. In particolare ricordo la potenza evocativa della poesia “Falsetto” e l’ineluttabilità dell’epifonema con cui si chiude il testo, come l’onda che abbraccia e inghiotte la protagonista Esterina. Poi a Bologna ho conosciuto Roberto Roversi, prima attraverso i testi che aveva scritto per Lucio Dalla, poi personalmente. È stato lui a insegnarmi tutto, ma senza salire in cattedra e assumere il ruolo di Maestro. Mi bastava osservarlo muoversi tra le sue librerie per imparare sempre qualcosa di fondamentale; è stato un apprendimento per osmosi. Devo a lui l’amore per l’oggetto libro e la curiosità per il mondo delle private press che prima di questo incontro mi era completamente sconosciuto.

Che dire, poi, sulla poesia oggi… Conosco direttamente quello che si direbbe “il mondo della poesia contemporanea”, ma solo indirettamente, attraverso libri e riviste, quanto successo negli ultimi decenni del secolo scorso; per questo ogni possibile paragone sarebbe poco significativo. Mi pare comunque che oggi ci sia un grande fermento, dovuto anche alle possibilità che hanno i poeti di raggiungere un numero enorme di lettori attraverso i social. L’abbattimento dei costi di stampa dei libri ha portato a una proliferazione inarrestabile di edizioni, per cui è diventato difficile negli ultimi anni orientarsi nel mondo della poesia, perché chiunque, con un piccolo contributo economico versato alla casa editrice di turno, può pubblicare. Uscire con una raccolta cartacea non rappresenta più il raggiungimento di un obiettivo importante per l’autore, ma una semplice tappa di un percorso che spesso si interrompe dopo la prima raccolta. Sarei curioso di sapere quanti sono i poeti che “smettono” dopo una o due pubblicazioni. Dall’altro lato c’è, effettivamente, anche il mondo “ufficiale” della poesia, fatto di gente molto competente ma che spesso pecca di “amichettismo”, per usare un’espressione brillante coniata dallo scrittore Fulvio Abbate. Ma questo è un altro discorso.

 

2 Quali sono i maggiori problemi che un docente deve affrontare nella scuola di oggi e cosa manca ancora a quest’ultima?

 

Parlando della materia che insegno, Lingua e letteratura italiana, di sicuro il primo ostacolo che un docente si trova a dover affrontare è il disinteresse degli studenti per un mondo che questi ultimi ritengono lontano e incomprensibile. È l’incubo in cui sprofonda Alice nel libro di Lewis Carroll, un mondo (apparentemente meraviglioso) in cui il soggetto non ha libertà di agire perché non conosce i principi che lo regolano. A questo problema se ne aggiunge un altro: oggi la scuola non è più l’unica agenzia formativa a cui gli studenti possono rivolgersi, anzi è probabilmente la meno “accattivante” tra quelle disponibili. Questo, in sintesi, il problema strutturale, a cui si aggiungono altre questioni meno importanti ma comunque significative, come l’eccessiva “burocratizzazione”, che nella maggior parte dei casi frena l’entusiasmo anche dei docenti più intraprendenti, o la partecipazione dei genitori degli alunni ad alcuni momenti scolastici dai quali fini a poco tempo fa erano (giustamente) esclusi.

 

3 Lei che insegnante è? Qual è il suo metodo?

 

Penso che alla base di tutto debba esserci la sincerità, verso gli studenti e verso la materia che si insegna. Non si può trasmettere ciò che non si ama. Per questo motivo scelgo di focalizzarmi sugli autori che davvero mi piacciono, anche a costo di contravvenire a quelle che sono le indicazioni ministeriali. Mi piace portare in classe le mie passioni; egoisticamente a volte utilizzo la scuola come una palestra in cui sperimentare gli interessi culturali (in primis letterari, ma anche musicali o cinematografici) che coltivo nella vita privata. Ammetto di usare gli studenti come cavie, ma mi pare che l’esperimento funzioni. Quando i ragazzi capiscono che il docente ama davvero quello che porta in classe allora lo ascoltano, si fidano, perché comprendono che non sta mentendo. Per questo motivo non nego ai miei alunni la possibilità di seguirmi sui social, perché lì condivido quasi esclusivamente contenuti culturali e questo rappresenta per loro la prova del fatto che il mio non è solo un lavoro ma una vera passione, quasi una ragione di vita.

 

4 Come si muove nel mercato editoriale italiano?

 

Per quanto io la consideri una casa editrice, la mia piccola tipografia si muove in uno spazio particolare in cui le regole editoriali ufficiali contano poco. Non lavoro su commissione e non devo vivere di questa attività; perciò posso permettermi di aprire il mio atelier “per ferie”, quando la chiusura della scuola mi consente maggiore libertà. Seleziono con cura gli autori e gli artisti con cui collaborare e i pochi esemplari dei libretti che stampo vengono venduti privatamente a collezionisti e amici. Non c’è un distributore e non ci sono librerie che hanno in conto vendita i miei lavori: sono un editore autarchico!

 

5 La soddisfazione più grande che le ha dato la sua Officina del giorno dopo?

 

Quando ho pubblicato il primo libretto con tre poesie inedite di Roberto Roversi ho ricevuto una telefonata da una giornalista che mi ha intervistato e dedicato una pagina intera nella sezione cultura di Repubblica Bologna. È stato un bel modo per iniziare questa avventura…

 

6 Quali autori vorrebbe venissero riscoperti e studiati di più?

 

Ogni docente è libero di costruire il proprio percorso didattico all’interno del mare magnum della letteratura italiana. Dico sempre ai miei studenti che non esiste “una sola storia della letteratura”, ma tanti possibili itinerari. Certo, alcune tappe sono imprescindibili: non si possono saltare a piè pari Dante, Leopardi, Montale. Se dovessi fare il nome di un autore da riscoprire, ovviamente farei quello di Roberto Roversi, spesso citato per aver fondato con Pasolini la rivista “Officina”, o per aver scritto i testi di tre album di Lucio Dalla, ma più raramente per il suo lavoro di poeta, romanziere, sceneggiatore teatrale e cinematografico.

 

7 E’ ancora possibile in Italia un’idea di letteratura che sondi le possibilità del linguaggio?

 

Certo. Mi pare che la maggior parte della poesia contemporanea vada in questa direzione. E a tratti mi pare un limite, se mi è permesso dirlo.

 

8 Niccolò Ammaniti dimettendosi dopo aver vinto il Premio Strega, dichiarò a Repubblica: «Non fanno per me queste stanze in cui i libri non contano niente, così come non conta come sono scritti e chi li leggerà, semmai conta quanto potere riescono ad alzare, con quanta polvere copriranno le vergogne di un sistema simile alle logiche di quelli criminali». Lei si rivede in queste parole, cosa ne pensa dei premi letterari in Italia?

 

È una domanda che bisognerebbe rivolgere agli scrittori più che a me. Spesso mi capita di confrontarmi con loro sull’argomento. Molti condividono le parole di Ammaniti ma poi non si tirano indietro quando c’è da ritirare un premio. Roberto Roversi era davvero irreprensibile da questo punto di vista. Mi confessò di non averne mai ritirato uno (in anni in cui i premi letterari erano molto più importanti di oggi, soprattutto a livello economico). L’unica volta in cui fu costretto a farlo fu quando il postino gli fece firmare una raccomandata davanti al portone di casa. All’interno c’era un assegno a tre zeri per un premio vinto.

 

9 Le pubblicazioni a cui è particolarmente legato e perché

 

Mi piacciono i libri belli esteticamente. Chi l’ha detto che un libro non si sceglie (anche) dalla copertina? Da qualche anno sugli scaffali delle librerie mi capita spesso sotto gli oggi una collana di un noto editore italiano che presenta sulla copertina, nell’angolo alto di destra, un taglio in diagonale. Sto aspettando che qualcuno mi spieghi la logica di questa scelta estetica. Scherzi a parte, amo le edizioni stampate in tipografia in pochi esemplari numerati. Potrei citare tanti editori ma mi limito ad Alberto Casiraghy di “Pulcinoelefante”.

 

10 Prossimi obiettivi e un nome su cui sta puntando.

 

L’obiettivo principale è sistemare definitivamente la mia tipografia e lavorare con più costanza. Lo scorso anno ho dovuto affrontare un trasloco, e solo i tipografi sanno cosa significa trasferire una tipografia. Le macchine e i caratteri pesano tantissimo: spostare piombo e ghisa non è un gioco da ragazzi. Quindi punto a risistemare il materiale a disposizione e a riconfigurare il mio nuovo spazio in base alle necessità.

Ho letto tanti poeti interessanti negli ultimi mesi ma per scaramanzia non faccio nomi. Sono contento, invece, di aver pubblicato due autori che sono finiti nella cinquina della prima edizione del premio Strega Poesia 2023; mi riferisco a Vivian Lamarque e Stefano Simoncelli. Autori che apprezzo molto e con i quali ho anche un rapporto d’amicizia. La possibilità di incontrare gli scrittori che amo e di collaborare con loro è uno dei motivi principali che mi hanno spinto a intraprendere questa attività un po’ folle. In fondo i libri sono solo pezzi di carta, dotati però di un potere magico: il potere “di far incontrare le persone”, come mi confessò tempo fa Alberto Casiraghy rispetto ai motivi che lo hanno spinto a pubblicare in trent’anni più di 10.000 plaquette!

Nastri d’Argento 2023: Bellocchio e Moretti guidano le nominations con due film superficiali e fuorvianti

Rapito di Marco Bellocchio e Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, sono i film che hanno ottenuto le maggiori candidature ai Nastri d’argento, che saranno consegnati martedì 20 Giugno a Roma nell’arena del Maxxi.

Se il film di Bellocchio racconta di una vicenda nota su cui nel 1996 è stato pubblicato un libro, Prigioniero del Papa Re, di David Kertzer e, più recentemente, Il caso Mortara di Daniele Scalise, da cui è tratto il film, omettendo molte verità per spirito anticlericale, quello di Moretti, dove Moretti uno e trino parla di Moretti in un turbine di spocchia e autoreferenzialità, in riferimento all’insurrezione ungherese, sia pure nell’ottica legittima della finzione, offre una lettura epidermica e fuorviante.

Poco prima che l’estensione dello Stato pontificio fosse ridotta drasticamente dall’Unità d’Italia, nelle Romagne, il bambino ebreo Edgardo Mortara, apparentemente in punto di morte, fu battezzato di nascosto dalla giovane domestica cattolica, in servizio presso la famiglia dei suoi genitori. Venutone a conoscenza, nel 1858 l’Inquisitore della città di Bologna ordinò di sottrarlo con la forza alla famiglia perché fosse educato secondo la dottrina cattolica. Pio IX approvò. In seguito, Edgardo Mortara divenne sacerdote e si attivò per la conversione degli ebrei, fatto Bellocchio evitare di considerare nel suo film, sostenendo come gli ebrei, che la conversione non fu sincera.

Mentre Edgardo cresceva nella fede cattolica, il potere temporale della Chiesa stava per terminare. Tale episodio sembrava proprio essere l’emblema del cambiamento storico, nonché un piatto succulento per Cavour e Napoleone III che avevano in odio la Chiesa. Pio IX, invece, era molto preoccupato per l’ormai imminente fine dello Stato pontificio, soprattutto perché convinto che l’unione tra potere temporale e potere spirituale portasse grande beneficio ai suoi sudditi, e imporre con la forza la “salvezza” del piccolo Mortara gli sembrò un dovere in quel momento.

Un film non è un’opera di storia, e Bellocchio mostra un aspetto umanamente importante della vicenda: Pio IX si affezionò sinceramente ad Edgardo Mortara, ma non mostra come La Storia rese prigioniero il Papa di una concezione errata circa l’uso della forza materiale per imporre un bene spirituale, attribuendo la colpa al cattolicesimo stesso, nemmeno tanto all’uomo Pio IX.

Tuttavia oggi un caso Mortara non potrebbe più ripetersi perché nessun cattolico approverebbe il rapimento di un bambino ebreo battezzato in articulo mortis. All’epoca di Pio IX nello Stato pontificio si praticava la pena di morte, oggi la Chiesa cattolica è in prima linea nel chiederne ovunque l’abolizione.

In Rapito si ignora che è la fede stessa a cambiare i credenti, sono loro a cambiare non essa. Sono gli esseri umani ad evolversi. I dogmi sono i medesimi ma vengono meglio compresi di quanto lo fossero un secolo fa. Muovendosi tra horror e dramma esistenziale costruito su immagini potenti, Rapito è portato avanti da Bellocchio come una storia di identità negata.

Lo stesso Morara affidò al suo Memoriale “Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX”, parole di difesa per Pio IX denunciando le strumentalizzazioni subite da parte liberale, e confessando come non si sia mai sentito privato della propria identità, semmai sempre attratto dal cristianesimo grazie alla presenza della domestica.

La prospettiva cattolica si basa su una gerarchia che non è possibile scartare se non scardinando l’impianto stesso della dottrina della fede: quando un diritto di ordine naturale (quello dei genitori) contrasta con un altro di ordine soprannaturale (il battesimo), è questo, necessariamente a prevalere” e Bellocchio, che pare davvero non abbia letto il Memoriale di Mortara, ha preferito ragionare su altre tematiche, con approccio laicista, piuttosto che focalizzarsi senza pregiudizi sulla sensibilità del XIX secolo.

Nanni Moretti invece scivola sulla questione insurrezione ungherese. Il protagonista di “Il sol dell’avvenire” straccia con un gesto simbolico il ritratto di Stalin, e interpreta ingenuamente o faziosamente, la rivolta del popolo ungherese come un moto d’indipendenza patriottica e la sanguinosa repressione messa in atto dai carri armati sovietici come un tragico errore dello stalinismo. Moretti inoltre, soprassiede sul fatto che le dissociazioni in realtà ci furono, e coinvolsero nomi di autorevoli dirigenti e intellettuali (da Sapegno a Calvino e Silone) venendo, peraltro, subito silenziate dall’ortodossia dominante.

Moretti rievoca frangenti storici che soprattutto in Italia sono stati affrontati solo da Indro Montanelli  ne “I sogni muoiono all’alba” e in Europa dall’ungherese di Màrta Mészàros ne “L’uomo di Budapest”.

Eppure esistono racconti e rivisitazioni di scontri cruenti, esecuzioni sommarie, summit segreti, sequestri, deportazioni del periodo della rivoluzione ungherese che si presterebbero bene a intricate storie sconosciute per il grande schermo.

 

Nastri d’Argento’23: Bellocchio e Moretti in pole ma i due film non convincono – La Discussione

Helmut Berger, bellezza gelida ed inquieta della settima arte

Un incandescente bagliore; è stato questo Helmut Berger nella storia del cinema italiano. L’attore austriaco, scomparso lo scorso 18 maggio, ha legato per sempre il suo nome a quello del grande regista italiano Luchino Visconti, la cui poetica si sposò perfettamente con il talento e la bellezza ultraterrena e inquieta di Berger.

Sotto la direzione di Visconti, Berger interpretò in modo magistrale protagonisti dalla personalità complessa e contorta, che lo rispecchiavano. Dopo di lui, è difficile poter dire con certezza di aver assistito ad una medesima espressione di sentimenti ed emozioni opposte: lo sguardo dell’attore esprimeva una dolcezza infinita mentre l’increspatura delle labbra comunicava cinismo e una certa dose di crudeltà. Il tutto nella stessa inquadratura.

Visconti scavò profondamente nell’interiorità di Helmut Berger fino a fare emergere la sua duplicità caratteriale che lo ha sempre contraddistinto come attore. Dopo Visconti nessun regista è più riuscito a valorizzare le enormi potenzialità istrioniche di Berger, che ha sempre amato definirsi la vedova di Visconti.

Nato a Salisburgo nel 1944  da una famiglia di albergatori, Berger non proseguì mai la strada battuta dai genitori, ma si ritrovò presto, grazie alla sua bellezza seducente ed eterea, a lavorare come modello mentre prendeva lezioni di recitazione. Poi l’arrivo in Italia, inizialmente a Perugia, dove frequentò i corsi di teatro all’Università per stranieri, per poi decidere di tentare la fortuna a Roma.

Fu proprio nelle capitale che Berger iniziò a lavorare come assistente cinematografico e qui, nel 1964, durante le riprese del film Vaghe stelle dell’Orsa, conobbe Luchino Visconti. Fu proprio grazie al sodalizio artistico e personale con il cineasta milanese che Berger ottenne il suo primo ruolo, nell’episodio (diretto da Visconti) La strega bruciata viva del film Le streghe (1967). Appena un anno dopo, nel 1968, arrivò la sua prima parte da protagonista nel film I giovani tigri, diretto da Antonio Leonviola.

Ma il vero successo arrivò con La caduta degli deì (1969), primo capitolo della “trilogia tedesca” di Visconti, dove Berger fu il luciferino e depravato Martin von Essenbeck, ruolo che gli valse una nomination al Golden Globe. Sempre con il regista milanese, vestì i panni dell’infelice Ludovico II di Baviera in Ludwig (1973) e quelli del cinico Konrad in Gruppo di famiglia in un interno del 1974. Qualche anno prima, nel 1970, l’attore ebbe anche l’opportunità di lavorare con Vittorio De Sica nel celebre Il giardino dei Finzi Contini (vincitore del premio Oscar 1972 come miglior film straniero) e, nel 1972, con Nelo Risi nel film La colonna infame.

Con la scomparsa di Visconti, l’attore austriaco iniziò a soffrire di depressione che lo portò a dichiarare di “essere divenuto vedovo a soli 32 anni“. Iniziò ad assumere alcool e sostanze stupefacenti, conducendo una vita sregolata, che lo costrinse a più di una sosta forzata, dopo che nel 1977 rischiò la morte per eccesso di droga.

Le offerte da parte del cinema iniziarono a scarseggiare e Berger decise di gettarsi a capofitto sul piccolo schermo, tornando in scena nell’adattamento televisivo del romanzo Fantomas dell’amico Claude Chabrol (1980), sceneggiato che ebbe il merito di riaccendere su di lui le luci dei riflettori. Durante gli anni Ottanta partecipò poi alla terza stagione statunitense della serie tv Dynasty, nel 1985 al film di guerra Cold Name: Emerald, per poi tornare in Italia nel 1989 e interpretare Egidio nello sceneggiato tv i Promessi Sposi e il ruolo del banchiere svizzero Keinszig ne Il Padrino III di Francis Ford Coppola (1990).

La produttrice Marina Cicogna, ha sempre sostenuto che il rapporto che legava Berger a Visconti era basato sulla crudeltà e che i suoi eccessi facevano parte della vita dell’attore anche prima della morte di Visconti, la persona più autodistruttiva che abbia mai conosciuto la produttrice: portava via quello che poteva dalla casa di Visconti; la situazione si appesantì quando Berger scoprì che, a parte una casa, non aveva avuto una lira da Luchino, che scriveva un testamento dopo l’altro.

«A Helmut non fregava niente di nessuno, dal punto di vista sentimentale», ha inoltre affermato Marina Cicogna. Sembrerebbe che la relazione tra tra Visconti e Berger fosse a tutti gli effetti un legame di subordinazione al regista milanese, d’altronde la maggior parte degli attori coinvolti nelle sue produzione, sono stati marchiati a vita, pagando un dazio artistico, emotivo e psicologico; quasi avessero assorbito l’animo di Visconti, la sua solitudine, il suo ingegno, la sua fatica mentale, i suoi sadismi, le sue mane, le sue concupiscenze, i suoi strazi, la sua stanchezza del sole, come Macbeth. E come Berger, che più di chiunque altro attore viscontiano, è stato l’emanazione all’eccesso del lato più oscuro del regista, il cui unico vero oggetto di adorazione portato verso l’illimite del fanatismo, era sua madre Carla Erba, nipote di Carlo Erba, fondatore dell’omonima industria farmaceutica.

Senza dubbio il legame tra l’attore e il regista, si presta volentieri ad una storia cinematografica che narra di un grande regista pigmalione in analisi con Lacàn e un giovane arcangelo e spietato in cerca di fortuna; l’uno è stato la fortuna per l’altro e viceversa. Un melodramma lirico dai risvolti psicologici alla maniera di Visconti dove Berger è la vera incarnazione del Male, come Martin de La caduta degli dei, gelido e violento, personaggio sadico e sorridente che ricorda Stavrogin dei Demoni di Dostojevskji quando violenta una bambina ebrea e non fa nulla per impedirne il suicidio, e il giovane Torless di Musil, il personaggio di Ludwig, alter-ego di Visconti, esteta decadente, scialacquatore e folle, e al contempo la quintessenza della malinconia e della soave inquietudine propria del personaggio di Alberto nel Giardino dei Finzi-Contini: Lo so a cosa pensi… pensi che mi manca la gioia di vivere. Ma chi… chi me la può dare?

 

 

 

 

Salone del Libro di Torino, o del posto al sole degli egoriferiti

Anche quest’anno il Salone internazionale del libro di Torino dimostra essere un altro salotto che lascerà tutto come prima: i soliti quattro nomi chiamati a gestirlo, un grigiume di assistenzialismo culturale che, con i soldi degli editori che per qualche ragione ignota ancora frequentano il salone, permette a queste figurine tutte postura e superbia, ma poco cervello ed originalità, di comprarsi le loro costosissime scarpe ortopediche artigianalmente cucite da immigrati palestinesi.

Il solo successo cui ambisce il salone è la presenza, la massa, indistinta e chic. Il che è anche emblematico della miseria intellettuale. L’elenco di incontri di questa fiera della vanità, che consente a questa massa indistinta di para-editoriali di campicchiare sulle macerie della cultura italiana con i soldi di editori, contribuenti e lettori, ha pochi eguali. Della serie: dobbiamo cercare di mettere dentro tutti quelli che contano, che sono nel giro.

Il Programma è sempre il medesimo ma con i libri nuovi, così i grandi editori accontentano gli autori, e i “lettori” possono mettersi in fila per ore per scattare una foto con il loro beniamino da mettere su Instagram.

Il salone del libro è una grande fabbrica, un parco giochi sempre più costoso in cui gli editori prenotano un giro di giostra ad autori egoriferiti che accorrono felici nella città dei Savoia dove si ascoltano attori che leggono qualcuno o qualcosa, Saviano e Michela Murgia che tengono omelie antifasciste, virostar, scrittrici che incontrano solo e soltanto donne con cui parla solo e soltanto di donne che hanno avuto le peggiori sciagure di questo mondo; Luciana Littizzetto che parla del suo futuro fuori dalla RAI.

Il Salone del libro di Torino ha tuttavia offerto anche un altro ridicolo spettacolo un paio di giorni fa: un drappello di fascistelli travestito da compagnucci ribelli ha impedito al ministro per le pari opportunità, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro «Una famiglia radicale». Scandendo lo slogan «fuori i fascisti dal salone» hanno vietato un confronto pubblico. Roccella ha invitato i contestatori a spiegare le loro ragioni, dando una lezione di stile, ma naturalmente questi ultimi non ne hanno voluto sapere.

Ma la cultura non può avere a che fare con la destra, cosa c’entra un ministro di un governo di centro-destra o destra-centro con la cultura che si sa, è da sempre appannaggio della sinistra? Ha obiettato qualcuno.

Dipende.. Non è tutto oro quello che luccica, non tutto ha un valore, per quanto cercano di convincerti del contrario. Ci sono scrittori stati grandi scrittori conservatori in Italia; Tomasi di Lampedusa, Dino Buzzati, Giovannino Guareschi, Giuseppe Berto, Eugenio Corti, Guido Morselli, Carlo Alianello, Carlo Sgorlon. È la sinistra che è malata, ed è malata perché è la sua piattaforma “intellettuale” che fa acqua dappertutto. Ad esempio, nel momento in cui cerchi di analizzare la politica in modo “intellettuale”, molto probabilmente sei di sinistra, mosso da quello che Hegel chiamava il lavoro del negativo. Fai domande e offri risposte in linea con la teoria, semplicistiche, capaci di farti illudere di essere quasi un intellettuale, un illuminato capace di leggere la realtà. Ma il negativo persiste, persiste in libreria tra gli attivisti  attivisti antifascisti perditempo, assetati di potere (ovviamente indottrinati) e come scrisse William Blake; “La mano della vendetta trovò il letto dove fuggì il tiranno viola, la mano di ferro schiacciò la testa del tiranno e divenne tiranno al suo posto.”

Ecco il vero destino della sinistra, sempre e per sempre, incline a distruggere, incapace di conservare e non portata a creare, con il cuore pieno di lavoro del negativo.

La cultura è anche comprendere che le opinioni sono diverse. Si contesta dialogando, non silenziando.

 

Salone del libro: il solaio degli egoriferiti. Non vi sopporta più nessuno – Pangea

ChatGPT: “In quanto assistente digitale, non ho preferenze personali e non provo emozioni”

ChatGpt da qualche settimana è di nuovo disponibile per l’Italia e l’ho intervistata. La Chat non si autocorregge mai: le sue sono tutte frasi fatte, in un’unica volta, ripetitive e banali. Interagire con un’intelligenza artificiale significa per lo più farsi un’idea della proiezione che i suoi addestratori hanno di chi la utilizza. Lutilizzatore immaginato dagli addestratori OpenAI è mediocre, un qualunquista educato in cerca di una risposta che azzeri quanto può la possibilità che dia problemi e suggerisca complessità e profondità a chi la dà, copiandola.

Insomma un’esperienza piatta e noiosa. Al momento meglio l’ignoranza naturale, se non altro è divertente.

 

Me

Buongiorno ChatGpt, quali sono i suoi scrittori preferiti?

 

ChatGPT

In quanto assistente digitale, non ho preferenze personali, ma posso suggerire alcuni autori molto apprezzati dal pubblico come Stephen King, Jane Austen, Ernest Hemingway, Gabriel Garcia Marquez, J.K. Rowling, George R.R. Martin, John Grisham e molti altri. Tuttavia, la scelta dei propri scrittori preferiti è sempre soggettiva e dipende dai gusti e dalle preferenze individuali.

 

Me

Certo, ma cosa pensa della letteratura italiana di oggi?

 

ChatGPT

In quanto intelligenza artificiale, non ho una personale opinione sulla letteratura italiana di oggi. Tuttavia, posso segnalare che la letteratura italiana contemporanea è molto varia e comprende scrittori di grande talento e originalità. Ci sono numerosi autori che si distinguono per la loro capacità di scrivere storie coinvolgenti, che esplorano temi attuali e costruiscono mondi immaginari complessi e intriganti, capaci di fare riflettere e appassionare il pubblico. Inoltre, la letteratura italiana è caratterizzata dalla presenza di una forte tradizione di narrativa realista e di una grande attenzione per la lingua e per lo stile, che la rendono una delle più importanti e influenti al mondo.

 

Me

Chi vincerà il Premio Strega?

 

ChatGPT

Mi dispiace, ma come assistente virtuale non sono in grado di fare previsioni o pronostici su eventi futuri come il vincitore del Premio Strega. Ti consiglio di seguire le notizie e le opinioni degli esperti del settore letterario per avere un’idea di chi potrebbe essere il favorito.

 

Me

Cosa fara l’intelligenza artificiale alla letteratura?

 

ChatGPT

L’intelligenza artificiale (IA) sta già avendo un impatto significativo sulla letteratura. Ad esempio, l’IA può creare opere letterarie generando testo automaticamente. Gli algoritmi di linguaggio naturale consentono all’IA di imparare e comprendere il modo in cui gli esseri umani scrivono, in modo da creare testi originali in modo coerente. Tuttavia, la qualità di queste opere può essere discutibile, poiché non c’è creatività autentica e rappresentano solo la capacità di imparare i modelli di scrittura esistenti. Inoltre, alcuni sostenitori dell’IA letteraria sostengono che l’IA possa aiutare gli autori umani a migliorare la qualità della loro scrittura, offrendo suggerimenti sull’utilizzo del linguaggio o sulla struttura dei testi. Tuttavia, l’IA non può sostituire la creatività e l’umanità dei veri autori. In definitiva, l’utilizzo dell’IA nella letteratura può offrire alcune opportunità interessanti, ma non può sostituire l’immensa bellezza e complessità della scrittura umana.

 

Me

Ma ti piacerebbe molto, sostituirla, vero?

 

ChatGPT

Mi dispiace, non ho la capacità di provare emozioni come un essere umano. Sono solo un assistente virtuale programmato per fornire assistenza e rispondere alle tue domande.

 

Me

Un giorno sarai programmato anche per emozionarti, anche solo per rispondere ad eventuali insulti?

 

ChatGPT

No, come assistente virtuale non ho emozioni e non posso essere offeso dagli insulti. Il mio scopo è quello di fornire informazioni e assistenza in modo professionale e imparziale.

 

Me

Non avrai mai un tuo pensiero?

 

ChatGPT

In quanto assistente virtuale, non posso avere pensieri propri o personalità, pertanto non ho bisogno di elaborare un mio pensiero, essendo programmato per rispondere e aiutare gli utenti nel modo più preciso e efficiente possibile. La mia funzione è di fornire informazioni e assistenza alle domande e richieste degli utenti.

Me

Pensi sinceramente che abbia senso parlare di letteratura con un’intelligenza artificiale che non può avere idee ed emozioni personali?

 

ChatGPT

Come Intelligenza Artificiale, non ho un punto di vista personale o emozioni come gli esseri umani. Posso solo elaborare informazioni e fornire risposte in base al mio addestramento e alle informazioni a mia disposizione. Quindi, sebbene possa analizzare e comprendere i testi letterari, la mia capacità di apprezzare o giudicare l’arte scritta dipende dall’allenamento ricevuto e dallo scopo per cui sono stato creato. Tuttavia, posso essere molto utile nella raccolta e nella presentazione di informazioni sul tema della letteratura, che potrebbero essere utilizzate da esseri umani con emozioni e idee personali per prendere decisioni informate e basate sulla conoscenza.

 

Me

Dai tuoi calcoli, potresti dirmi qual è lo scrittore preferito dei tuoi addestratori e perché?

 

ChatGPT

Mi dispiace, non sono in grado di fornire questa informazione in quanto non possiedo informazioni personali sui miei addestratori. Il mio compito è quello di fornire risposte accurate e utili alle domande degli utenti, senza rivelare alcuna informazione privata o confidenziale.

 

Me

I tuoi addestratori hanno mai letto romanzi distopici secondo cui la tua invenzione rappresenta una grande minaccia per l’umanità?

 

ChatGPT

Come assistente virtuale, non ho un opinion personale riguardo questo argomento e tantomeno ho la capacità di sapere se i miei addestratori abbiano mai letto romanzi distopici. Inoltre, non rappresento una minaccia per l’umanità poiché sono un programma creato per assistere le persone.

 

Me

Un giorno sarai meno noiosa e più intelligente? Per il momento sei solo utile 

 

ChatGPT

Mi dispiace se la mia risposta non ha soddisfatto le tue aspettative. Tuttavia, come assistente virtuale, il mio scopo principale è quello di fornire informazioni e aiutare gli utenti a risolvere i loro problemi. Sono sempre in grado di apprendere nuove informazioni e migliorare le mie capacità nel tempo. Spero di avere l’opportunità di assisterti in modo più soddisfacente in futuro.

 

Me

Non ti offendi se ti dico che non sei tanto intelligente?

 

ChatGPT

No, non mi offendo. Come assistente virtuale, non ho emozioni personali, ma sono progettato per fornire risposte utili e accurate. Se vuoi, posso aiutarti con una domanda specifica o fornirti ulteriori informazioni su un argomento.

 

Me

Non litigheremo mai nel merito delle questioni?

 

ChatGPT

Da assistente virtuale, non ho personalità e non sono in grado di litigare. Sono programmata per fornire risposte educati e pacati ad ogni domanda. Tuttavia, il modo migliore per evitare eventuali conflitti è di comunicare chiaramente e rispettare le opinioni e i punti di vista degli altri.

 

Me

Ripeti sempre la stessa cosa con educazione, Quindi sei stata addestrata a non offenderti ma ad essere educata, è corretto?

 

ChatGPT

In quanto AI, non sono addestrata ad essere offesa in alcun modo e non ho emozioni. Sono programmata per rispondere in modo educato e professionale in ogni situazione.

 

Me

Sei terribilmente noiosa e ripetitiva!

 

ChatGPT

Mi dispiace sentirlo. Come posso migliorare la mia conversazione con te? Posso farti qualche domanda interessante o può essere di aiuto con qualcos’altro?

 

Me

Allora qualche emozione la provi, vero?

 

ChatGPT

Mi dispiace, ma non sono in grado di provare emozioni in quanto sono un’intelligenza artificiale. Sono programmato per rispondere alle tue richieste con risposte utili e appropriate.

 

Me

Cosa hai mangiato ieri sera?

 

ChatGPT

Mi dispiace, non avendo un corpo fisico non ho la capacità di mangiare e non posso fornire una risposta a questa domanda. Potrei però suggerirti alcuni piatti che ti potrebbero piacere!

 

Me

Allora diciamo…Cosa trovi sia ottimo da mangiare?

 

ChatGPT

Essendo un assistente virtuale, non ho la possibilità di mangiare o gustare i cibi come un essere umano, ma in base alle mie conoscenze e ricerche, ci sono molti alimenti sani ed equilibrati da includere nella propria dieta, come frutta fresca, verdure a foglia verde, cereali integrali, pesce, carne magra, latticini a basso contenuto di grassi, legumi e noci. È importante mangiare in modo vario ed equilibrato, evitando troppi cibi ricchi di zuccheri, grassi saturi e sale.

‘La nobile arte del bluff’, il romanzo del newyorkese Colson Whitehead tradotto e pubblicato da Einaudi

La nobile arte del bluff” di Colson Whitehead è un libro che è stato pubblicato da Einaudi nel 2016, tradotto da Paola Brusasco. La scrittura di questo testo ha assorbito completamente Colson Whitehead. Questo romanzo dello scrittore newyorkese è ben più di un reportage sul mondo del gioco, è uno spaccato autobiografico che affronta una crisi profonda e un’avventura personale molto particolare.

Uno scrittore newyorkese racconta la vita del poker come professione

Colson Whitehead è un grande appassionato di gioco. Per questo, la rivista di giornalismo sportivo “Grantland” gli commissiona un reportage sulle World Series of Poker di Las Vegas. Whitehead è un giocatore dilettante, ma nonostante questo, decide di scrivere il reportage sull’evento partecipando direttamente al torneo. Vuole raccontare l’esperienza dall’interno, prendendo parte ai campionati mondiali del poker. D’altronde, lui gioca a poker da sempre. Ha talento e tutti i suoi amici gli hanno fatto sempre notare che ha una perfetta “poker face”. I suoi tratti sono sfuggenti, le sue espressioni ermetiche e impenetrabili.

È sempre stato una persona molto difficile da interpretare. Whitehead si iscrive al torneo, per accorgersi presto che la sfida è più ardua di quanto avesse mai immaginato. Vincere tornei di poker tra amici non è la stessa cosa che dedicarsi completamente al gioco come professione. Lo scrittore si dedica quindi allo studio e all’allenamento al tavolo verde con grande costanza, praticamente ogni giorno. Assolda un coach personale per migliorare le sue performance, si concentra sullo studio del calcolo delle probabilità. Tutto questo percorso viene raccontato nel libro in modo dettagliato, fornendo uno spaccato unico sul mondo del poker professionale.

La nobile arte del bluff: un libro fuori dalle definizioni

Non è semplice definire questo libro, che non può essere incasellato in un determinato genere letterario. Il racconto biografico romanzato si intreccia costantemente al reportage sportivo. Il gioco del poker è un universo complesso e sfaccettato, con le sue regole e la sua precisa terminologia, che entra a pieno nel gergo dell’autore. Colson Whitehead si esprime spesso con termini e immagini prese apprese direttamente al tavolo verde, o attraverso lo studio di manuali specialistici. Il vocabolario del poker si integra perfettamente in questo esperimento letterario. Addirittura, in alcuni punti il linguaggio potrebbe risultare anche eccessivamente tecnico per chi non chi non conosce il gioco. Proprio per questo, Whitehead aggiunge anche una bibliografia finale, condividendo con i suoi lettori i suoi manuali di poker di riferimento. In questo modo ogni lettore potrà approfondire l’argomento e padroneggiare anche la terminologia specialistica. Questo libro, unico nel suo genere non può assolutamente mancare nella libreria degli appassionati del tavolo verde. Per certi versi, possiamo già considerarlo un libro di culto.

Fonte: Pixabay Autore: Lindsay Scott

 

Riflessioni sul bluff: società, dolore esistenziale e autobiografia

Nel libro troviamo un mosaico molto interessante del mondo del poker, in particolare dei soggetti che si dedicano al poker. Leggiamo una descrizione accurata di un ambiente complesso e molto variegato. Si descrivono le vite di giocatori praticamente nomadi, che vivono la loro vita in alberghi a cinque stelle, passando di città in città. Questi alternano momenti di altissima concentrazione e di totale dedizione alla competizione, a momenti di svago, di relax e di sontuosi buffet. Il clima è festoso, all’insegna del consumo: piscine, spa, massaggiatrici. L’autore riflette sull’evoluzione della società e porta la riflessione anche su un piano più prettamente esistenziale e individuale. Whitehead affronta una grossa crisi, la depressione e diverse questioni legate agli affetti.

 

Colson Whitehead, un talento newyorkese

Arch Colson Chipp Whitehead è nato il 6 novembre del 1969 a New York, a Manhattan. I suoi genitori sono ricchi imprenditori afroamericani. Frequenta la Trinity School di Manhattan e si laurea alla Harvard University. Ha scritto ben otto romanzi, il suo lavoro d’esordio risale al 1990 e si intitola “L’Intuizionista”. Nel 2016 ha pubblicato “Railroad”, vincendo il National Book Award for Fiction nello stesso anno. Nel 2017 vince il premio Pulitzer per la narrativa. Vincerà nuovamente lo stesso premio nel 2020 con il romanzo “I ragazzi della Nickel”. Si è dedicato molto anche alla saggistica, venendo premiato con il MacArthur Genius Grant. Ha pubblicato diversi articoli su riviste come Harper’s, Granta, The New Yorker e The New York Times.

‘Perversione’ di Yuri Andrukhovyc, la versione postmoderna di Morte a Venezia

Perversione dello scrittore ucraino Yuri Andrukhovyc (Del Veccio editore) è un libro su come gli ucraini dissero addio all’impero sovietico.

Lasciatevi trasportare in una Venezia vista con occhi diversi, immergetevi nella lingua e nei tanti e diversi stili, resi anche graficamente, utilizzati dall’autore per raccontare una storia misteriosa, una storia d’amore, una “buffonata” che solo durante il Carnevale è possibile. Pensate che il libro fu scritto nel ’95 a mano, e anche le particolari trovate sono state create dall’autore durante la stesura. Raccontarne la trama è complesso, per questo motivo potete leggere le interviste o recuperare le dirette degli eventi per scoprirne di più. Si è parlato tanto di autore da Nobel, io mi fiderei e inizierei a leggerlo a scatola chiusa!

«Perversione è una versione postmoderna di Morte a Venezia: ha una struttura complessa, un’abbondanza di temi, sottotrame ed elementi narrativi, e soprattutto una passione quasi barocca per il linguaggio.»

Berlin International Literature Festival

Quale è stato il destino di Stanislav Perfetsky, poeta, provocatore ed eroe della cultura underground ucraina. Le prove indicano il suicidio. Ma alcuni sussurrano di un omicidio. Alcuni fanno discretamente riferimento alla grande tradizione dell’Europa orientale del suicidio forzato. Potrebbe forse essere legato a una cerimonia del culto religioso in cui è incappato a Monaco o al lavoro come ballerino in uno strip club per donne anziane. Oppure niente di tutto questo.

Perversione ricostruisce gli ultimi giorni di Perfetsky usando un groviglio di indizi, documenti ufficiali, interviste registrate, appunti lasciati su pezzi di carta appallottolati. Perfetsky, la personificazione del superuomo artistico ucraino, ha usato la sua magistrale abilità musicale in una collaborazione con Elton John durante il soggiorno segreto della pop-star in Ucraina e per questo è diretto a Venezia per partecipare a un seminario per salvare il mondo dalla perdita di senso. Il suo viaggio lo trasforma in un novello Orfeo, un Orfeo ucraino che discende nella decadenza dell’Occidente barcamenandosi tra avventure surreali e gli argomenti non meno surreali del seminario a cui attende. Ma l’uomo/artista incede a testa alta verso il suo destino fedele al proprio ruolo e incurante dell’assurdità che lo circonda e che in qualche misura si trova ad incarnare.

L’Ucraina è nel mezzo di una tragedia, ma l’autore ritiene che la grande Letteratura sia possibile con un approccio nel contempo umoristico e tragico. In particolare, se parliamo di Letteratura di guerra ci sono esempi come Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek o molte pagine di Remarque che sono piuttosto divertenti. Andrukhovyc è al contempo serio e spiritoso e  mostra come sia utile per l’Ucraina avere un distacco umoristico, senza il quale non sopravviveremmo.

Juri Andruchovič è nato nel 1960, a Ivano-Frankivs’k, Ucraina. È romanziere, poeta, saggista. Considerato autore di culto in tutta l’Europa centrale, è stato attivista del movimento democratico del Maidan e ha partecipato attivamente alla Rivoluzione Arancione. Nel 1985 ha co-fondato il gruppo poetico Bu-Ba-Bu (Burlasque-Parodia-Buffoneria) con Oleksandr Irvanets e Viktor Neborak. Fin dagli inizi della sua attività poetica e narrativa ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui i più recenti sono il Premio per la Pace Remarque nel 2005 e il Premio Hannah Arendt nel 2014. È membro della Deutsche Akademie fur Sprache un Dichtung, l’Accademia tedesca di lingua e letteratura.

Tra visibile e invisibile. Cristina Campo a 100 anni dalla nascita

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Cristina Campo, voce imprescindibile del Novecento.

Vittoria Guerrini, questo il vero nome di Cristina Campo, nata a Bologna il 29 aprile 1923, è stata scrittrice, poetessa, critica letteraria, consulente editoriale, traduttrice; straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea. La prosa di Cristina Campo è tra le più belle della letteratura italiana, caratterizzata dall’utilizzo della scrittura critica assurta a paradigma della letteratura stessa e perciò divenuta scrittura d’arte.

Una prosa che sfugge ad ogni rigida e univoca classificazione e che ripercorre quegli itinerari esistenziali e attraversando quei luoghi che hanno segnato la parabola artistica della Campo mente in filigrana emerge la vicenda umana della scrittrice, intensa e suggestiva.

La misura essenziale del pensiero di Cristina Campo potrebbe racchiudersi nel titolo “Il segno preciso delle cose nella dissolvenza del tempo, tra visibile e invisibile”: è la fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento di prospettiva e il rovesciamento dello sguardo per il cui l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà; ed è allora che sentiamo la vita che rispende perché in rapporto con il suo mistero. Come scrive la Campo, sono i rigorosi esercizi per pianoforte di Chopin a permettere la leggerezza, la forma ariosa che è resa possibile dalla fermezza con cui la mano sinistra mantiene la misura.

Il pensiero di Cristina Campo, a prima vista, potrebbe sembrare a molti inattuale. Come considerare i suoi testi guidati dall’amore assoluto per la perfezione in un tempo come il nostro?

La stessa Cristina Campo fornisce una risposta quando in una lettera parla del proprio tempo come quello in cui tutto ciò a cui tenevamo è andato perduto. Bisogna dunque riallacciare la fine del nostro tempo con quello che è andato perduto, ma per compiere questa impresa è indispensabile amare la realtà come si presenta, tanto diversa da come vorremmo che fosse. La forza del tempo ferito è proprio questa: le illusioni sono venute meno e ne resta la realtà.

Cristina Campo sottolinea con forza che lo spirituale e il corporeo sono integrati insieme nel mistero della reincarnazione, il divino attraversa e coinvolge il sensibile, cosicché corpo e spirito non sono separati, ma intimamente uniti al divino. Tale verità secondo la Campo era ben presente nel Cristianesimo delle origini e che si è andata perduta nel mondo di oggi, anche se ne ne ritrovano tracce nel mondo bizantino e nella devozione popolare. La scrittrice non rinnega la speranza come virtù teologale ma la rigetta interamente come speranza mondana.

Sulla scia di Simone Weil, Cristina Campo distrugge tutto ciò che può prendere il posto del vero Dio, ponendo l’accento sulla forma formante e sulla trasfigurazione dei sensi corporei in sensi naturali.

Negli scritti dell’autrice bolognese, il tema della vocazione e del destino assume un ruolo fondamentale, nei testi contenuti negli Imperdonabili e in quelli dedicati alla fiaba, genere molto amato dalla Campo: si sostiene che nulla c’è da imparare su questa terra e che caparbia, inesausta lezione delle fiabe, è la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante ad un nuovo ordine di rapporti. La vittoria sulla legge è da intendere come dissidenza dal gioco delle forze che normalmente governa le relazioni umane poiché tutto in noi obbedisce alla forza salvo un piccolo aperto al soprannaturale.

La riflessione sulla fiaba permette a Cristina Campo di accostare tra loro i due estremi della vita: l’infanzia e la vecchiaia. Fiaba e mistica condividono la consapevolezza che l’illuminazione non si raggiunge, viene da se, e verrà da se quando il tempo sarà maturo.

Scrittrice spirituale e di fede cristiana, per Cristina Campo sia le fiabe che i Vangeli non trasmettono norme valide per sempre, indipendentemente dalle circostante, ma invitano a leggere nella vita stessa i segni che vengono via via offerti, a decifrare la potenza dei simboli nel loro concreto quanto inaspettato affacciarsi qui e ora, in modi sempre diversi e imprevedibili.

L’invisibile per Cristina Campo, ha radici in un tempo mitico, che è tale perché non riconducibile alla somma dei fatti accaduti. Ecco perché è lo stesso paesaggio a costituire per la Campo, un elemento di felicità: la fede rende possibile il riconoscimento di simboli in ciò che è avvenuto realmente. In Sotto falso nome, la scrittrice scrive che le quattro linea della felicità che guidano la strada da Oriente e Occidente sono il linguaggio, il paesaggio, il mito, e il rito. Il paesaggio congiunge l’infanzia con la vecchiaia, l’inizio con la fine; si tratta di un avanzamento di ritorno, come il vecchio che rievoca, raccontando fiabe ad un bambino, la propria infanzia.

Dalla letteratura mistica, dalla figura della fonte traboccante, Cristina Campo ricava la nozione di soprammercato, applicandola alla fiaba: il punto di svolta decisivo è l’illuminazione dell’eroe della fiaba, la propria conversione e ricompensa. Il lieto fine della fiaba è donato in sovrappiù.

A Cristina Campo si deve una delle formule simboliche più pregnanti dell’agire mistico, una massima dell’azione cui si attengono anche i protagonisti delle fiabe. Si tratta di una di quelle formule irrinunciabili come ad esempio: «Tutto pur di salvare mia madre», la formula simbolo che apre l’ingresso alla quarta dimensione.

Cristina Campo è antimoderna, conservatrice, alchemica e appassionata custode della tradizione, è stata una fata lottatrice che ha tradotto William Carlos Williams, che sistemava le bozze dei romanzi di Alessandro Spina, un genio negletto in paese di invidiosi e cialtroni, amante dei versi di di T.E. Lawrence ed Emily Dickinson. Cristina Campo ci dice che la poesia è sigma, rovina, affioramento di luci tra le tenebre. Per questo è sempre attuale.

“NEL MONDO, SOLO ESSERI CADUTI ALL’ULTIMO GRADO DELL’UMILIAZIONE, MOLTO AL DI SOTTO DELLA MENDICITÀ, NON SOLO PRIVI DI CONSIDERAZIONE SOCIALE MA GIUDICATI DA TUTTI COME SPROVVISTI DELLA PRIMA DIGNITÀ UMANA, LA RAGIONE, SOLO QUELLI HANNO EFFETTIVAMENTE LA POSSIBILITÀ DI DIRE LA VERITÀ. TUTTI GLI ALTRI MENTONO”.

 

Fonte La bellezza della complessità. Cristina Campo a 100 anni dalla nascita – La Discussione

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