‘Perversione’ di Yuri Andrukhovyc, la versione postmoderna di Morte a Venezia

Perversione dello scrittore ucraino Yuri Andrukhovyc (Del Veccio editore) è un libro su come gli ucraini dissero addio all’impero sovietico.

Lasciatevi trasportare in una Venezia vista con occhi diversi, immergetevi nella lingua e nei tanti e diversi stili, resi anche graficamente, utilizzati dall’autore per raccontare una storia misteriosa, una storia d’amore, una “buffonata” che solo durante il Carnevale è possibile. Pensate che il libro fu scritto nel ’95 a mano, e anche le particolari trovate sono state create dall’autore durante la stesura. Raccontarne la trama è complesso, per questo motivo potete leggere le interviste o recuperare le dirette degli eventi per scoprirne di più. Si è parlato tanto di autore da Nobel, io mi fiderei e inizierei a leggerlo a scatola chiusa!

«Perversione è una versione postmoderna di Morte a Venezia: ha una struttura complessa, un’abbondanza di temi, sottotrame ed elementi narrativi, e soprattutto una passione quasi barocca per il linguaggio.»

Berlin International Literature Festival

Quale è stato il destino di Stanislav Perfetsky, poeta, provocatore ed eroe della cultura underground ucraina. Le prove indicano il suicidio. Ma alcuni sussurrano di un omicidio. Alcuni fanno discretamente riferimento alla grande tradizione dell’Europa orientale del suicidio forzato. Potrebbe forse essere legato a una cerimonia del culto religioso in cui è incappato a Monaco o al lavoro come ballerino in uno strip club per donne anziane. Oppure niente di tutto questo.

Perversione ricostruisce gli ultimi giorni di Perfetsky usando un groviglio di indizi, documenti ufficiali, interviste registrate, appunti lasciati su pezzi di carta appallottolati. Perfetsky, la personificazione del superuomo artistico ucraino, ha usato la sua magistrale abilità musicale in una collaborazione con Elton John durante il soggiorno segreto della pop-star in Ucraina e per questo è diretto a Venezia per partecipare a un seminario per salvare il mondo dalla perdita di senso. Il suo viaggio lo trasforma in un novello Orfeo, un Orfeo ucraino che discende nella decadenza dell’Occidente barcamenandosi tra avventure surreali e gli argomenti non meno surreali del seminario a cui attende. Ma l’uomo/artista incede a testa alta verso il suo destino fedele al proprio ruolo e incurante dell’assurdità che lo circonda e che in qualche misura si trova ad incarnare.

L’Ucraina è nel mezzo di una tragedia, ma l’autore ritiene che la grande Letteratura sia possibile con un approccio nel contempo umoristico e tragico. In particolare, se parliamo di Letteratura di guerra ci sono esempi come Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek o molte pagine di Remarque che sono piuttosto divertenti. Andrukhovyc è al contempo serio e spiritoso e  mostra come sia utile per l’Ucraina avere un distacco umoristico, senza il quale non sopravviveremmo.

Juri Andruchovič è nato nel 1960, a Ivano-Frankivs’k, Ucraina. È romanziere, poeta, saggista. Considerato autore di culto in tutta l’Europa centrale, è stato attivista del movimento democratico del Maidan e ha partecipato attivamente alla Rivoluzione Arancione. Nel 1985 ha co-fondato il gruppo poetico Bu-Ba-Bu (Burlasque-Parodia-Buffoneria) con Oleksandr Irvanets e Viktor Neborak. Fin dagli inizi della sua attività poetica e narrativa ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui i più recenti sono il Premio per la Pace Remarque nel 2005 e il Premio Hannah Arendt nel 2014. È membro della Deutsche Akademie fur Sprache un Dichtung, l’Accademia tedesca di lingua e letteratura.

Tra visibile e invisibile. Cristina Campo a 100 anni dalla nascita

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Cristina Campo, voce imprescindibile del Novecento.

Vittoria Guerrini, questo il vero nome di Cristina Campo, nata a Bologna il 29 aprile 1923, è stata scrittrice, poetessa, critica letteraria, consulente editoriale, traduttrice; straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea. La prosa di Cristina Campo è tra le più belle della letteratura italiana, caratterizzata dall’utilizzo della scrittura critica assurta a paradigma della letteratura stessa e perciò divenuta scrittura d’arte.

Una prosa che sfugge ad ogni rigida e univoca classificazione e che ripercorre quegli itinerari esistenziali e attraversando quei luoghi che hanno segnato la parabola artistica della Campo mente in filigrana emerge la vicenda umana della scrittrice, intensa e suggestiva.

La misura essenziale del pensiero di Cristina Campo potrebbe racchiudersi nel titolo “Il segno preciso delle cose nella dissolvenza del tempo, tra visibile e invisibile”: è la fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento di prospettiva e il rovesciamento dello sguardo per il cui l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà; ed è allora che sentiamo la vita che rispende perché in rapporto con il suo mistero. Come scrive la Campo, sono i rigorosi esercizi per pianoforte di Chopin a permettere la leggerezza, la forma ariosa che è resa possibile dalla fermezza con cui la mano sinistra mantiene la misura.

Il pensiero di Cristina Campo, a prima vista, potrebbe sembrare a molti inattuale. Come considerare i suoi testi guidati dall’amore assoluto per la perfezione in un tempo come il nostro?

La stessa Cristina Campo fornisce una risposta quando in una lettera parla del proprio tempo come quello in cui tutto ciò a cui tenevamo è andato perduto. Bisogna dunque riallacciare la fine del nostro tempo con quello che è andato perduto, ma per compiere questa impresa è indispensabile amare la realtà come si presenta, tanto diversa da come vorremmo che fosse. La forza del tempo ferito è proprio questa: le illusioni sono venute meno e ne resta la realtà.

Cristina Campo sottolinea con forza che lo spirituale e il corporeo sono integrati insieme nel mistero della reincarnazione, il divino attraversa e coinvolge il sensibile, cosicché corpo e spirito non sono separati, ma intimamente uniti al divino. Tale verità secondo la Campo era ben presente nel Cristianesimo delle origini e che si è andata perduta nel mondo di oggi, anche se ne ne ritrovano tracce nel mondo bizantino e nella devozione popolare. La scrittrice non rinnega la speranza come virtù teologale ma la rigetta interamente come speranza mondana.

Sulla scia di Simone Weil, Cristina Campo distrugge tutto ciò che può prendere il posto del vero Dio, ponendo l’accento sulla forma formante e sulla trasfigurazione dei sensi corporei in sensi naturali.

Negli scritti dell’autrice bolognese, il tema della vocazione e del destino assume un ruolo fondamentale, nei testi contenuti negli Imperdonabili e in quelli dedicati alla fiaba, genere molto amato dalla Campo: si sostiene che nulla c’è da imparare su questa terra e che caparbia, inesausta lezione delle fiabe, è la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante ad un nuovo ordine di rapporti. La vittoria sulla legge è da intendere come dissidenza dal gioco delle forze che normalmente governa le relazioni umane poiché tutto in noi obbedisce alla forza salvo un piccolo aperto al soprannaturale.

La riflessione sulla fiaba permette a Cristina Campo di accostare tra loro i due estremi della vita: l’infanzia e la vecchiaia. Fiaba e mistica condividono la consapevolezza che l’illuminazione non si raggiunge, viene da se, e verrà da se quando il tempo sarà maturo.

Scrittrice spirituale e di fede cristiana, per Cristina Campo sia le fiabe che i Vangeli non trasmettono norme valide per sempre, indipendentemente dalle circostante, ma invitano a leggere nella vita stessa i segni che vengono via via offerti, a decifrare la potenza dei simboli nel loro concreto quanto inaspettato affacciarsi qui e ora, in modi sempre diversi e imprevedibili.

L’invisibile per Cristina Campo, ha radici in un tempo mitico, che è tale perché non riconducibile alla somma dei fatti accaduti. Ecco perché è lo stesso paesaggio a costituire per la Campo, un elemento di felicità: la fede rende possibile il riconoscimento di simboli in ciò che è avvenuto realmente. In Sotto falso nome, la scrittrice scrive che le quattro linea della felicità che guidano la strada da Oriente e Occidente sono il linguaggio, il paesaggio, il mito, e il rito. Il paesaggio congiunge l’infanzia con la vecchiaia, l’inizio con la fine; si tratta di un avanzamento di ritorno, come il vecchio che rievoca, raccontando fiabe ad un bambino, la propria infanzia.

Dalla letteratura mistica, dalla figura della fonte traboccante, Cristina Campo ricava la nozione di soprammercato, applicandola alla fiaba: il punto di svolta decisivo è l’illuminazione dell’eroe della fiaba, la propria conversione e ricompensa. Il lieto fine della fiaba è donato in sovrappiù.

A Cristina Campo si deve una delle formule simboliche più pregnanti dell’agire mistico, una massima dell’azione cui si attengono anche i protagonisti delle fiabe. Si tratta di una di quelle formule irrinunciabili come ad esempio: «Tutto pur di salvare mia madre», la formula simbolo che apre l’ingresso alla quarta dimensione.

Cristina Campo è antimoderna, conservatrice, alchemica e appassionata custode della tradizione, è stata una fata lottatrice che ha tradotto William Carlos Williams, che sistemava le bozze dei romanzi di Alessandro Spina, un genio negletto in paese di invidiosi e cialtroni, amante dei versi di di T.E. Lawrence ed Emily Dickinson. Cristina Campo ci dice che la poesia è sigma, rovina, affioramento di luci tra le tenebre. Per questo è sempre attuale.

“NEL MONDO, SOLO ESSERI CADUTI ALL’ULTIMO GRADO DELL’UMILIAZIONE, MOLTO AL DI SOTTO DELLA MENDICITÀ, NON SOLO PRIVI DI CONSIDERAZIONE SOCIALE MA GIUDICATI DA TUTTI COME SPROVVISTI DELLA PRIMA DIGNITÀ UMANA, LA RAGIONE, SOLO QUELLI HANNO EFFETTIVAMENTE LA POSSIBILITÀ DI DIRE LA VERITÀ. TUTTI GLI ALTRI MENTONO”.

 

Fonte La bellezza della complessità. Cristina Campo a 100 anni dalla nascita – La Discussione

‘Tempoforma’, la personale di Rae Martini a Milano

Federico Rui Arte Contemporanea è lieta di presentare la personale di Rae MartiniTempoforma”, in cui vengono presentate 12 opere inedite dedicate a due cicli di opere recenti, i Modulari e i Sistemi di interazione. La mostra inaugura martedì 9 maggio e sarà visitabile fino al 30 giugno, dal martedì al venerdì alle 15 alle 19 (e sabato su appuntamento).

Il titolo Tempoforma nasce proprio per evidenziare la continuità tra due elementi fondamentali nella pratica dell’artista, oggi giunta ad un notevole livello di definizione: il linguaggio e il tempo, elementi processuali e formali dell’indagine di Rae Martini, risultato di un percorso sorvegliato, coerente e sperimentale che si colloca in una produzione trentennale, così spiegata dall’artista stesso: “partendo dalla lettera, poi indietro alla struttura, poi indietro alla parola, fino al segno, alla superficie (urbana), al segno del tempo, al tempo stesso e al suo scorrere. Negli attuali Modulari domina il concetto della successione temporale e della sua manifestazione”.

Attraverso una rigorosa selezione di opere appositamente realizzate per il percorso espositivo a cura di Ilaria Bignotti, la mostra da Federico Rui Arte Contemporanea introduce il pubblico per la prima volta assoluta nella ricerca di Rae Martini: i Modulari sono formati da una composizione di carte lavorate dall’artista che provengono da libri di almeno due secoli addietro. L’artista, affascinato dalla materia che essi portano con sé, segno della loro sopravvivenza all’usura del tempo, ne seleziona decine di pagine per comporre un pattern visuale formato da più elementi accostati, sulle quali poi interviene con operazioni di pittura, incollaggio, combustione: “la carta di cui sono fatti reagisce al fuoco con grande dignità, resiste, quasi come si difendesse… Il calore liquefa l’inchiostro stampato sulle pagine che in alcuni punti si trasferisce sulla tela come se quel testo volesse sopravvivere in una nuova forma, timbrandosi a nuova vita in maniera spontanea, come una memoria che si rifiuta di scomparire”, commenta l’artista. Nella loro successione, come fotogrammi di un racconto scampato alla dimenticanza, “I moduli si susseguono regolarmente, da spaziali mutano a temporali scorrendo come i secondi nei minuti, i giorni negli anni, le decadi nei secoli. Scrivo lo scorrere del tempo, ritraendolo. I Moduli hanno tutti la stessa dimensione (o durata) e la stessa “matrice”, ma nessuno è uguale ad un altro”.

Dietro all’impianto concettuale radicato nella poetica creativa di Rae Martini, si disvela “un processo di ricerca che in un certo senso ha guardato e fatto propria la grande lezione del linguaggio consegnatagli dal diluvio delle avanguardie del Novecento, dalle parole tratte con il lancio dei dadi di Guillame Apollinaire alle mappe impazzite di Alighiero & Boetti agli Atlanti ritrovati di Luigi Ghirri, a tutta quella epica della pelle dei muri che si estende lungo l’avventura europea del Nouveau Réalisme, con in testa i “predatori urbani” francesi Jacques Villeglé, Raimond Hains e François Dufrêne, in compagnia dell’italiano Mimmo Rotella”, scrive Ilaria Bignotti nel saggio in catalogo. Assieme a queste opere, in mostra sono presentati anche alcuni Sistemi di interazione che rappresentano l’ultima fase di ricerca di Rae Martini: anche questi lavori sono formati da carta antica, intrecciata in complesse reti che diventano metafora di un sistema relazionale umano, ma anche, più ampiamente, di un modo di intendere lo scorrere del tempo, l’innescarsi dei fatti, il determinarsi delle vicende, il mistero della vita. In queste ultime opere, la riflessione di Rae Martini sta abbracciando le teorie scientifiche della fisica quantistica: trovando, in queste discipline, una formula di lettura della contemporaneità vicina al suo modo di intendere il processo artistico e la riflessione concettuale che lo sostiene.

 

 Rae Martini

Rae Martini (Milano, 1976) è un artista visivo contemporaneo che opera a livello internazionale, analizzando e ricercando interazioni estetiche e concettuali tra differenti media. Partendo dalla forma mentis matematica applicata agli studi delle strutture/stili di scrittura/lettering avanzati (stylewriting) dipinti come interventi non autorizzati nello spazio pubblico urbano, appartenenti alle prime decadi della sua produzione (1989/2010), fino all’uso successivo e attuale della materia e tecnica mista (combustioni, carta antica, smalto, catrame, cemento, solvente, fotografia) utilizzata come strumento di sviluppo. Il suo lavoro recente assume il disegno scientifico del mondo come base del pensiero contemporaneo, investiga lo stato dinamico della materia e la manifestazione della successione temporale, utilizza la ripetizione dei singoli elementi lavorati e l’insieme generato come moltiplicatore comune dei temi sui quali è basata la propria ricerca. La sua opera è in collezione permanente al MUCEM – Musée de civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, Marsiglia, Francia ed è stata esposta in numerose sedi italiane e internazionali, tra le quali il MAC-Contemporary Art Museum of San Paolo, in Brasile, il MAmBo-Museo d’arte moderna e contemporanea di Bologna e il PAC – Padiglione d’arte contemporanea di Milano. Vive e lavora a Milano.

 

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INFORMAZIONI
Titolo mostra: Tempoforma

Artista: Rae Martini

A cura di: Ilaria Bignotti

Comunicazione e ufficio stampa: Vera Canevazzi

Luogo: Federico Rui Arte Contemporanea, via Turati 38, Milano

Opening per la stampa e il pubblico: martedì 9 maggio 2023, ore 18:00

Periodo mostra: 9 maggio – 30 giugno 2023

Orario galleria: dal martedì al venerdì, dalle 15 alle 19; sabato su appuntamento

 

Intervista a Ilaria Palomba, autrice di ‘Vuoto’, presentato al Premio Strega 2023

Leggere Vuoto, il nuovo libro della scrittrice pugliese Ilaria Palomba, è come addentrarsi in vari punti indefiniti dell’io, percorrere la via incandescente della Letteratura, vivere una profonda esperienza emotiva.

Tuttavia si ha l’impressione che dietro la scrittura cruda di Palomba si celi una solida disciplina intellettuale (dovuta ai suoi studi) che contribuisce alla riuscita dell’opera, lucida e di grande impatto sul lettore. Un’opera che è fragile e abissale, in cui l’autrice fa emergere l’inconscio e il rimosso che reclamano la loro parte di vita. Come Sylvia Plath, Ilaria Palomba si sottrae alla vita, al mondo ostile impastando delicatezza, sangue e sensazioni urticanti; come Amelia Rosselli, la prosa poetica di Palomba è musicale, densa, affascinante, disturbante.

Vuoto, edito da Les Flaneurs ha per protagonista Iris, trentenne che ha da poco festeggiato il suo compleanno con Federico; entrambi hanno un disturbo di personalità e insieme parlano di vari argomenti oltre che delle loro paure. Si amano, si sposano, confliggono. Compare Giulio, presenza costante, quasi fosse un fantasma. I personaggi sono in un appartamento romano, poi in un altro luogo, poi in Salento. Iris è molte vite, passato e presente che si alternano in un flusso che trasporta il lettore in molti posti, in strade fisiche, a Conca Specchiulla, in via Accademia degli Agiati, in luoghi dell’animo che si alternano in un ciclo di stagioni: estate, fine dell’estate, autunno, inverno, fine dell’inverno, primavera, estate, senza tempo. Il vuoto, appunto.

Il Salento è un luogo interpretato da Ilaria Palomba, filtrato dall’inconscio dell’autrice che dà vita ad una scrittura cruda e diamantina, popolata di visioni, sensazioni, percezioni, che è tessuto vivo, corpo rivelatore vivente e morente, vulnerabile e miracoloso.

La vocazione di Ilaria Palomba, la quale, non sentendosi investita di un compito, scrive per se e poi per gli altri, è quella dell’artista atemporale, fisionomia che la renderà sempre attuale, a differenza di molti scrittori italiani perennemente sotto tiro dei grandi poli editoriali, malati di narcisismo e salottismo.

Vuoto dimostra che i libri possono ancora essere materia incandescente e pericolosa, che le idee comportano una scelta, e soprattutto insegna a non avere paura di niente, mostrando come il Cervello sia più ampio del Cielo, parafrasando un verso di Emily Dickinson.

Ilaria Palomba è una scrittrice, saggista e poetessa pugliese. Ha pubblicato: Fatti male (Gaffi, 2012: tradotto in tedesco), Homo homini virus (Meridiano Zero, 2015: premio Carver), Disturbi di luminosità (Gaffi, 2018), Brama (Giulio Perrone Editore, 2020), Città metafisiche (Ensemble, 2020), Microcosmi (Ensemble, 2022). Alcuni dei suoi racconti sono stati tradotti in lingua straniera, come inglese, francese e tedesco.

 

1 Come nasce “Vuoto”?

Nasce nel 2020, contemporaneamente a L’umana fragilità, che uscirà l’anno prossimo per d editore. In teoria, L’umana fragilità sarebbe dovuto essere un romanzo per il pubblico e Vuoto un testo personale di annotazioni sulla vita e sulle letture che stavo facendo. Poi, una serie di vicissitudini, non ultimo il mio incidente e la permanenza di sette mesi in ospedale tra rianimazione e unità spinale – Vuoto nel frattempo era diventato un testo molto più complesso di quanto credessi -, ho deciso di pubblicarlo al primo sì: quello di Annachiara Biancardino e Alessio Rega di Les Flaneurs.

2 Qual è la sua visione del mestiere di scrittore?

Non lo so, ho sempre tentato di fare in modo che diventasse un mestiere, ma ogni volta per me si è trattato di un esordio che non superava un certo numero di vendite per cui il libro successivo sarebbe stato un nuovo esordio. Ho compreso che il mio modo di scrivere è di nicchia, devo puntare sull’autorialità non sulle vendite. Non può essere un mestiere perché non mi permette un rientro economico sufficiente. Dunque, per me la scrittura è una vocazione, l’ascolto e la trasmissione di una voce. Non un compito. Non scrivo ogni giorno, e potrei non scrivere per anni. Senza quella sacra necessità non lo farei.

4 Qual è stata la sua ultima scoperta esistenziale, spirituale, letteraria, mentre scriveva Vuoto?

Mentre scrivevo Vuoto leggevo Musil, imparavo la lentezza, l’osservazione. Praticavo il buddismo di Nichiren, che ora ho abbandonato. Vivevo tutto come una rivelazione, un dono. Scoprivo me stessa; la scrittura del sé porta alla coscienza realtà invisibili e indicibili. È emerso il sommerso.

5 Sembra che questo suo ultimo libro rappresenti una sorta di preludio ad un nuovo lavoro che affronti che conduca il lettore in un luogo “meno sospeso”, è così?

Dopo Vuoto uscirà L’umana fragilità per d editore, che è un romanzo epistolare basato sulla storia di una donna che ho intervistato. Nel frattempo, in unità spinale, ho scritto una silloge che non so se sarà mai pubblicata, ma è stato catartico scriverla
per affrontare la lunga degenza ospedaliera e la paura di perdere l’uso delle gambe. È una silloge che racconta una rinascita, in un certo senso, un miracolo.

6 <<Dentro le cose vive ci sono le cose morte e dentro le cose morte ci sono le cose vive. Non si può prescindere dalla vita nella morte, oltre è il vuoto>>, si legge nel suo libro. E’ questo il tratto principale della realtà secondo lei? Per evitare il vuoto bisogna tuffarsi nel dolore?

No, non bisogna tuffarsi nel dolore, anzi, io penso che il dolore vada quanto più possibile evitato; ma non sempre è possibile. Se vogliamo, è l’opposto: il vuoto si raggiunge dopo una involontaria eccessiva immersione nel dolore, non sempre siamo noi a decidere. Vita e morte non sono mai del tutto separate, la vita è intrisa di morte e viceversa; talvolta i morti sono più presenti dei vivi. Il vuoto non si può evitare, bisogna piuttosto attraversarlo così come si attraversa il deserto o l’abisso: la linea d’ombra oltre la quale si diventa maturi.

7 Si può annichilire il nichilismo?

Per me il nichilismo è sempre stato una via di fuga da un mondo ostile. Io vivo bene solo separata, nel mio eremo. Stare con gli altri mi è possibile solo a piccole dosi. Per superare il nichilismo bisogna potersi fidare, e per potersi fidare è necessario che l’altro si avvicini a noi con delicatezza e umanità.

8 Che rapporto ha con l’inconscio? Perlustrarlo è faticoso ma utile o è impossibile comprendere totalmente la propria psiche e raggiungere maggiore consapevolezza di se?

Sono un’eterna analizzata, quindi ho scandagliato l’inconscio in diverse sfaccettature, e lo faccio quando scrivo, mi viene spontaneo. Sì, ho raggiunto mediante la scrittura una consapevolezza che prima non avevo. Eppure, la consapevolezza non è tutto. È necessario anche il rapporto con il corpo: per me è sempre stato un problema, ora più che mai. La consapevolezza non basta, è necessario poter essere nel mondo e sentire per scrivere, soprattutto sentire.

9 La sua scrittura è visionaria, priva di retorica, cruda, a tratti sanguinante. Si tratta di una scelta deliberata, frutto di raziocino o la naturale “conseguenza stilistica” di una insofferenza nei confronti della realtà da restituire alla parola?

Non sono realistica, non sono narrativa, non sono una divulgatrice di fatti. Penso nietzscheianamente che non esistano fatti, solo interpretazioni. Tutta la mia scrittura è una scrittura di visioni e interpretazioni, un lavoro analitico, un inabissamento nell’inconscio e nell’onirico. Non esistono fatti, quindi non esistono neanche fatti miei; ciò che scrivo attinge alla sfera del profondo ma è sempre universale, uno specchio deformante della realtà, non la realtà, non la mia. La vita è solo un pretesto.

10 Vuoto è stato presentato al Premio Strega 2023. Cosa pensa in generale dei premi letterari in Italia e dell’editoria?

Per arrivare in finale bisogna essere pubblicati da un grande gruppo editoriale, per entrare nei dodici bisogna conoscere un po’ di persone. Io sono un’eremita, essere stata presentata dalla professoressa Donnarumma è per me una sorpresa e un onore. Nel 2015 vinsi il premio Carver con Homo homini virus (Meridiano Zero) senza conoscere nessuno. Quest’anno sono finalista al Nabokov con la silloge Microcosmi (Ensemble). Degli altri premi non so molto.

 

Acquista il libro qui Vuoto – Les Flâneurs Edizioni (lesflaneursedizioni.it)

Ilaria Palomba: Libri dell’autore in vendita online (ibs.it)

Oscars 2023. Vince ‘Everything Everywhere All At Once’, ma meritava ‘Gli spiriti dell’isola’. Questione di conscience washing

Al Dolby Theatre di Los Angeles è andata in scena la 95ª edizione dei premi Oscar, la nottata di premiazione più attesa dell’anno. Quest’anno c’è stato un film dominatore in assoluto, Everything Everywhere All at Once che si è aggiudicato ben 7 statuette su 11 candidature.

Il film, costruito su più livelli, intrattiene con il suo montaggio e le scene action esilaranti benché sia ridondante e incontrollato. Everything Everywhere All at Once mescola tutti le vite e i generi possibili: kung-fu, wuxia, mélò, fantasy, commedia. È un film di fantasmi che compaiono e spariscono. Tuttavia sembrava la storia di due amici vestita di echi che sembrano provenire da Brecht, Buzzati e Beckett, quella più meritevole della vittoria. Gli spiriti dell’isola è un film sull’amicizia e le sue contraddizioni, ma è anche un film che parla dell’attesa di qualcosa che forse non verrà mai.

Una storia di sconfitti e reietti che però non hanno la consapevolezza di essere percepiti come tali e che dunque, agli occhi degli spettatori, si traformano in eroi comici che vorremmo facessero parte delle nostre vite.

Gli spiriti dell’isola è un gioiello di regia e sceneggiatura, che racconta l’insensatezza della guerra e del genere umano. Troppo banale e noioso? No, perché nemmeno l’acclamato vincitore sul multiverso che strizza l’occhio a Matrix,  non ha il coraggio di essere elegantemente sovversivo ed originale come questa tragicommedia sulla condizione umana.

Gli Oscars come tutti i premi, valgono quello che valgono, ma l’impressione che l’Academy abbia sfruttato al volo l’occasione per saldare alcuni debiti con la comunità e la cultura asiatiche; è la culture woke che lo chiede. D’altronde anche L’Oscar al bravissimo Brendan Fraser come miglior attore protagonista sa di risarcimento.

Se davvero si avesse voluto premiare il cinema, avrebbero premiato Gli spiriti dell’isola, appunto, o magari il sottovalutato Women Talking che ha vinto un meritatissimo Oscar per la sua sceneggiatura, quella non originale, mentre sempre a proposito di sceneggiature originali è l’Oscar a quella dei Daniels preferita a quella di McDonagh davvero imbarazzante.

 

Oscars 2023: i vincitori

 

Miglior film
Niente di nuovo sul fronte occidentale
Avatar: La via dell’acqua
Gli spiriti dell’isola
Elvis
Everything Everywhere All at Once
The Fabelmans
Tár
Top Gun: Maverick
Triangle of Sadness
Women Talking

Miglior regia
Martin McDonagh, Gli spiriti dell’isola
Daniel Scheinert e Daniel Kwan, Everything Everywhere All at Once
Steven Spielberg, The Fabelmans
Todd Field, Tár
Ruben Ostlund, Triangle of Sadness

‘Nero Ferrarese’, il romanzo tra noir e pulp di Lorenzo Mazzoni

Una Ferrara ancora scossa per l’omicidio di Federico Aldrovandi piomba nella paura di attentati politici: in prossimità delle Mura è stato rinvenuto il cadavere di un ragazzo appartenente a un’organizzazione di estrema destra, crivellato da colpi d’arma da fuoco. Chi sono gli esecutori del delitto? Pietro Malatesta, protagonista del nuovo romanzo di Lorenzo Mazzoni, Nero Ferrarese (Mille Battute Edizioni), ispettore atipico della Squadra Mobile, con un passato da teppista, che gira solo in bicicletta e che divide la casa con la madre tossica, l’ex moglie, un figlio nullafacente e il Boy, il palestrato zero-cerebro che sta con la sua ex, dovrà afferrare il bandolo della matassa. Tra feste di studenti universitari, bar popolati da veterani del tifo da stadio, set pornografici e concerti di musica punk, lo “sbirro anarchico” cercherà il senso delle rivendicazioni firmate “Spontaneisti Armati Combattenti”, misterioso gruppo eversivo che alza sempre più il livello della violenza in città, mostrando l’anima oscura di Ferrara.

“Preferisco pensare a me come a un giusto che lavora per un’organizzazione ingiusta”. Pietro Malatesta

Tre colpi d’arma da fuoco: mano sinistra, petto e spalla. Così si presenta il corpo del ragazzo di estrema destra trovato morto nell’auto. Una Ferrara ancora sotto shock per l’omicidio Aldrovandi piomba nella paura di attentati politici. Pietro Malatesta, ispettore di polizia e anarchico di natura, si troverà̀ a indagare su un omicidio dalle dubbie motivazioni. Brigate rosse? NAR? Ferrara cerca la sua verità̀. Un giallo che rimane in perfetto equilibrio tra le indagini e la movimentata vita privata dell’ispettore, fatta di scarse amicizie poco raccomandabili, e di una passione per la Spal. Con affianco Gavino Appuntato, l’unico poliziotto che riesce a lavorare con Malatesta, l’ispettore tenterà̀ il tutto per tutto per risolvere il caso.

Lorenzo Mazzoni è nato a Ferrara nel 1974 e ha abitato a Londra, Istanbul, Parigi, Sana’a e Hurghada. Scrittore, saggista e reporter, ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui Apologia di uomini inutili (Edizioni La Gru, 2013), Quando le chitarre facevano l’amore (Spartaco, 2015; con cui ha vinto il Liberi di Scrivere Award), Un tango per Victor (Edicola, 2016), Il muggito di Sarajevo (Spartaco, 2017) e In un cielo di stelle rotte (Miraggi, 2019). I suoi reportage e i suoi racconti sono stati pubblicati su Il Manifesto, Il Reportage, East Journal, Scoprire Istanbul, Reporter, Torno Giovedì e in diverse antologie. È docente di scrittura creativa di Corsi Corsari e consulente per diverse case editrici. Collabora con Il Fatto Quotidiano.

“Non ci resta che Massimo” – Domani in edicola con “Il Mattino” il Libro per i 70 anni di Massimo Troisi

Da Carlo Verdone a Ferzan Ozpetek, da Massimo Ranieri a Maria Grazia Cucinotta. Ci sono le testimonianze di numerosi personaggi della cultura e dello spettacolo nel nuovo volume, “Non ci resta che Massimo”, che il quotidiano “Il Mattino” darà in omaggio ai suoi lettori sabato e domenica 18 e 19 febbraio per celebrare i 70 anni dalla nascita di Massimo Troisi (San Giorgio a Cremano, 19 febbraio 1953 – Roma, 4 giugno 1994).

La presentazione del volume si è svolta all’Università Suor Orsola Benincasa, sede dal 2015 di una prestigiosa Scuola di Cinema e Televisione diretta dal produttore de “La grande bellezza” Nicola Giuliano.

“Dopo le fatiche de “Il postino”, non è stato disatteso il tuo ultimo, spontaneo, genuino saluto: quel “Ricordatevi di me”, sussurrato come un fruscio di foglie, è rimasto appiccicato alla leggerezza della tua anima e ti lascia vivere. Quella richiesta è diventata “legge morale”, capace di dissetare – per noi di questo mondo – l’arsura della tua mancanza”. Le toccanti parole della sorella Rosaria, contenute in una lettera a Massimo Troisi raccolta all’interno del libro de “Il Mattino” hanno aperto la presentazione grazie al reading attoriale di Nadia Carlomagno, direttore del Master in Teatro, pedagogia e didattica dell’Università Suor Orsola Benincasa.

Ricomincio da tre e mai da zero – ha spiegato il Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro – deve essere la lezione di Troisi da seguire anche per lo sviluppo di una “Scuola pubblica dei mestieri del cinema” in Campania di cui si discute in questi giorni. Una scuola che potrà certamente ‘ricominciare’ il suo lavoro ripartendo dalle istituzioni pubbliche e private già attive da anni in Campania nell’alta formazione nel settore cinema come l’Accademia di Belle Arti di Napoli e l’Università Suor Orsola Benincasa“.

Parole commosse nel ricordo di Massimo Trosi da parte dei curatori del volume. Titta Fiore nel suo intervento ha ricordato l’umiltà e la sobrietà con cui Troisi ritirò alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1989 l’indimenticabile Coppa Volpi che divise ex aequo con Marcello Mastroianni per la miglior interpretazione maschile in “Che ora è” di Ettore ScolaFederico Vacalebre ha ricordato lo straordinario sodalizio amicale e musicale con Pino Daniele che firmò l’indimenticabile colonna sonora di “Pensavo fosse amore …invece era un calesse”.

“Ieri, oggi e domani” è il titolo della collana di libri con la quale da anni il quotidiano “Il Mattino” sta raccontando i personaggi che hanno fatto la storia della città di Napoli attraverso la cultura, il cinema, il teatro o lo sport (da Totò a Maradona, da Sophia Loren a Paolo Sorrentino). E Troisi, come ha ricordato lo storico critico cinematografico de “Il Mattino” Valerio Caprara, “sotto il Vesuvio si trova in un ideale piedistallo su cui troneggiano con lui le icone di Totò ed Eduardo”.

Un attestato di stima travolto dal lunghissimo applauso della Sala degli Angeli del Suor Orsola che ha riunito per il settantesimo compleanno di Troisi giornalisti, studenti, docenti, attori, musicisti e semplici appassionati di ‘Massimo’. Rimasto nel cuore di tutti, come ha ricordato il direttore del Mattino, Francesco De Core, che ha firmato la prefazione del volume “Non ci resta che Massimo” sintetizzandone il senso. “Confesso: non so immaginarmelo Troisi a settant’anni. Magari con i riccioli più radi e imbiancati, e quel volto un po’ scavato che lo avrebbe reso simile a Eduardo. Ma almeno questo la morte, a dispetto della sua lugubre indecenza, può lasciarci a futura memoria: un volto eternamente giovane a far tenera compagnia alle stagioni che passano. Massimo, con le sue intuizioni, le sue battute, il suo spleen, la sua risata, il suo garbo. La mia, la nostra vita, quella di quanti lo hanno conosciuto e sono stati attraversati dalla sua magia, oggi riuniti in questo libro che è insieme omaggio e ricordoSì, davvero: non ci resta che Massimo“.

Ricordando James Joyce a 131 anni dalla nascita attraverso il suo capolavoro ‘Ulisse’

Il 2/2 del ’22, il 2222, fu una specie di esplosione verbale di cui s’ode ancora l’impeto, imperiale: nessuno, da lì in poi, può prescindere dal “super-romanzo” di James Joyce, per sottomissione o ribellione. Una storia dell’influenza di Ulisse nella letteratura occidentale del Novecento finisce grosso modo per coincidere con la letteratura occidentale del Novecento: T.S. Eliot – pur usandolo per tirare il carro alla propria estetica – aveva capito tutto, “Usando il mito e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”; seguiva, per capirci, il paragone con “le scoperte di un Einstein”. Insomma, il ‘metodo’ di Joyce era equivalente alla teoria della relatività generale di Einstein (che nel 1921 aveva ricevuto il Nobel per la fisica).

Da allora, nulla sarebbe stato più come prima. Virginia Woolf legge Ulisse irritandosi – “Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario” –, Ezra Pound lo esalta esalando urla: “Tutti gli uomini dovrebbero «unirsi per elogiare Ulisse»; chi non lo farà potrà accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori; non voglio dire che tutti debbano elogiarlo a partire dallo stesso punto di vista, ma tutti i seri uomini di lettere, che ne scrivano o meno una critica, dovranno di certo concepirne una per loro uso e consumo”. William Faulkner, dopo una gita tra bordelli italiani vari, atterra a Parigi, nel ’25, e sogna di vedere Joyce dalla vetrata di un cafè, in Place de l’Odéon: la lezione di Ulisse gli è necessaria per giungere a L’urlo e il furore.

Nel 1932, per onorare i cinquant’anni di JJ, Hermann Broch, a Vienna, dà lettura del suo saggio, James Joyce und die Gegenwart (poi pubblicato nel 1936; in Italia è uscito come James Joyce nel 1983, da Editori Riuniti): lo stesso editore tedesco dell’Ulisse pubblicherà il capolavoro di Broch, La morte di Virgilio, che usa, a modo suo, il ‘metodo’ di Joyce. L’Ulisse è testo assoluto e seminale: inimitabile, ha mutato le geografie fino ad allora sperimentate dal genere romanzo; una specie di rivoluzione quantistica. Ne Il gioco degli occhi, Elias Canetti racconta quando ha incontrato Joyce, a Zurigo, nel 1935: fu una fuga nel frainteso. Canetti aveva letto, in pubblico, la sua Commedia della vanità, di cui Joyce aveva recepito solo alcuni frammenti. “Nell’intervallo fui presentato a Joyce”, scrive Canetti, “il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: ‘Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!’”. Nella Commedia si accennava agli specchi, al loro inesorabile enigma, ma quella di Joyce pare una frase che nasconda un cabbalista, dai sensi irritati e sovrapposti. Spesso i biografi ricordano che dopo aver pubblicato Ulisse, Joyce subì “nuovi disturbi agli occhi”, quasi che vi fosse una coincidenza tra scrittura e cecità.

“Leggere l’Ulisse,” opera realistica e burlesca al tempo stesso, come scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva, “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”. Solo immergendosi senza riserve nella scrittura il lettore potrà uscirne davvero, alla fine, inondato di tutta la luce che questo romanzo concentra in sé.

Ciò che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma si ha sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert si hanno banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non si hanno soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese.

“Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro” J. Joyce

Mr Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno.

Il tema principale del capolavoro di Joyce va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse.

 

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