Il bacio di Lesbia, la vita romanzata di Catullo

Il bacio di Lesbia è un romanzo del 1937 dello scrittore Alfredo Panzini che si presenta come conclusione del laborioso cursus professionale dello scrittore romagnolo. Il viaggio nel tempo sulle tracce  del mito umano e letterario di Catullo si inserisce in maniera coerente nell’orbita ideologica di Panzini, ovvero un intellettuale di stampo carducciano la cui matrice umanistica soffre  i cambiamenti strutturali che hanno sconvolto il microcosmo culturale e sociale nel quale lo scrittore si è formato.

Tuttavia ne Il bacio di Lesbia, Panzini rivela il suo lato più privato, lasciandoci intendere che per lui il mondo esterno esiste solo fino ad un certo punto, attraverso la vita romanzata di Catullo. Come ha affermato Debenedetti, lo scrittore cerca negli aspetti e nelle persone dei pretesti per dei suoi commenti alla cronaca umana, e ciò spesso provoca nel lettore seduzione e respingimento al contempo, basti pensare a Santippe. Ciò accade anche ne Il bacio di Lesbia.

La poesia latina ha conosciuto una sola avventura romantica, quella rappresentata per l’appunto da Catullo con la sua intensità e passionalità e Panzini ha scritto un romanzo di poesia, quello della passione di Catullo per Clodia, meglio conosciuta col nome di Lesbia che diede e poi tolse l’amore al poeta innamorato: la breve felicità, poi il dramma dell’abbandono, le rivolte, le miserie fino a giungere alle preghiere rivolte agli dei per mettere fine alle pena d’amore. Vi è il ricordo di una primavera asiatica, un desiderio di viaggiare e il congedo dalla navicella che ha varcato tutti i mari.

Panzini ritrova nei carmi di Catullo una linea suggestiva, lo si nota quando egli parla dei viaggi per l’Asia come dei viaggi di fuga dalla disperazione d’amore, della primavera come una sorta di rinascita, del ritorno a Sirmione come di un ultimo viaggio, quasi fosse un saluto alla figura materna, formando in questo modo un canto di morte riconciliato con l’aggiunta da parte dell’autore di una breve fantasia per concludere la favola:

“Tu andavi dove lei ti conduceva”, ovvero verso la morte. Il contrappunto di Amore e Morte prepara soavemente l’accordo finale e Panzini lo affronta sollecitando dolcemente i testi, combinando le citazioni dei poeti come gli autori del genere teatrale dei vaudevilles che alterna prosa e arie di canzoni conosciute. Panzini immagina che dopo aver letto il poema di Catullo, Lesbia, donna sensibile,  si penta e scriva al suo ex amato richiamandolo a se.

In quest’opera Panzini dimostra tutto il suo stile e il suo gusto sfociando però  in errori, in spiritosaggini da operetta, nel tentativo di attualizzare poeticamente ciò di cui parla attraverso toni sentimentali, insinuazioni, filastrocche, inversioni, richiami interni e aggregazioni linguistiche (“Sono venuto a Roma per vedere le belle puelle”). Panzini qui mette in evidenza tutto il suo narcisismo, i suoi vezzi, le sue smorfie: Se in D’Annunzio (non di certo apprezzato da Panzini) l’amore per una materia sconfina nella corruzione e nella lussuria, nello scrittore romagnolo il gusto per la materia semplice sfocia della leziosità. In effetti Panzini e al contempo frivolo e serio: egli infatti crede nell’amore casto e questo aspetto riguarda strettamente la stesura del romanzo e attraverso l’amore di Catullo, vuole celebrare il suo ideale di amore. Nel primo colloquio con Lesbia, come ha notato giustamente Debenedetti, Panzini vuole che che Catullo esalti la castità di Saffo: “Nam castum esse decet pium poetam”, “Si addice al pio poeta d’essere casto”. Proprio su questa tematica ruota l’interpretazione panziniano della passione di Catullo e non v’è dubbio che per Panzini i poeti rappresentano ancora il caso ideale della vita. Proprio quest’ultimo aspetto rappresenta invece il punto di forza de Il bacio di Lesbia, il quale, oltre che rappresentare uno dei maggiori punti di riferimento per quanto riguarda la biografia di Catullo, ci fa sentire come il letterato, per salvarsi debba credere nei propri amori, quegli amori che ci fanno volare nei cieli del sublime, dell’ideale e del misterioso, abbandonando le cose comuni, senza lasciarsi mai abbagliare dalle tentazioni.

 

“The river” di Loretz, un esempio di film retorico

Il regista Pare Lorentz ha realizzato il film documentaristico e retorico The river nel 1938 per conto dell’Ente per la Sicurezza Agricola del governo degli Stati Uniti. Nel 1937 il Paese stava facendo dei progressi per uscire dalla grande crisi e durante il l’amministrazione di Roosevelt, il governo federale aveva dato inizio a lavori pubblici affinché procurassero impiego alla grande quantità di disoccupati. Sebbene sia opinione abbastanza comune che le politiche di Roosevelt fossero giuste, all’epoca vi fu una notevole opposizione nei suoi confronti.

The River ha accolto la Tennessee Valley Authority come soluzione ai problemi locali di sfruttamento agricolo ed inondazioni. Il film ha un taglio ideologico ben definito in quanto è servito a promuovere le politiche di Roosevelt (il quale ovviamente apprezzò il film) attraverso 11 segmenti:

Titoli di testa

1. Un prologo che espone il soggetto del film.

2. Una descrizione dei fiumi che si gettano nel Mississipi e poi nel Golfo del Messico.

3. Una storia del primo utilizzo agricolo del fiume.

4. I problemi del Sud causati dalla guerra civile.

5. Una sezione dedicata alle segherie e alle acciaierie del Nord.

6. Le inondazioni provocate dalla sfruttamento sconsiderato della terra.

7. Gli effetti dell’accumulo di quei problemi sulla gente.

8. Una piantina con la descrizione del progetto TVA.

9. Le dighe della TVA e i loro benefici.

Titoli di coda.

 

The River suggerisce subito al pubblico che i suoi realizzatori sono affidabili e professionali e che questo è un resoconto fondato su fatti storici e geografici. La stessa cartina illustra il prologo nel breve segmento iniziale del film: “Questa è la storia di un fiume”. Tale affermazione dissimula l’intento retorico del film, implicando che il film tratterà di una storia narrata oggettivamente. Il secondo segmento introduce immagini del cielo, dei fiumi e dei monti, la voce del narratore, profonda e autorevole, spiega che l’acqua affluisce al Mississipi dai lontani Idaho e Pennsylvania. Mentre le immagini mostrano i fiumi diventare a mano a mano che confluiscono più grandi, il narratore comincia ad intonare nomi di altri fiumi, facendo appello al patriottismo dello spettatore e implicando che l’intero Paese dovrebbe essere unito e compatto nell’affrontare questo tipo di problemi.

Lo svolgimento del film è rivolto alla restaurazione della bellezza idilliaca dei fiumi e delle montagne. Il terzo segmento è dedicato ai fatti della storia americana relativi ai problemi generati dal Mississipi. Qui, invece delle montagne, possiamo scorgere squadre di muli e carrettieri, balle di cotone caricate sui battelli a vapore che mostrano la potenza originaria degli U.S.A. esportatore di merci.

Nel quarto segmento il film inizia ad introdurre i problemi che la TVA dovrebbe risolvere mostrando le conseguenze della guerra civile e il tono morale diviene molto evidente. Sulle immagini di persone ridotte in miseria scorre una musica triste che si ispira ad una melodia folk, Go Tell Aunt Rhody. Nel quinto segmento viene adoperata di nuovo la narrazione con le ripetizioni poetiche per descrivere la crescita dell’industria del legno dopo la guerra civile. Il sesto segmento cambia tono e dà al via una lunga serie di contrapposizioni alle parti precedenti; viene riproposta  anche un’altra battuta del monologo ma con l’aggiunta di una frase: “Noi abbiamo costruito cento città e mille paesi…ma a che prezzo”. Ora ci viene mostrato come il ghiaccio si stia sciogliendo, erodendo i fianchi rocciosi e gonfiando i fiumi durante le piene. Progressivamente il film ci allontana dalla bellezze naturali per affrontare la questione centrale intorno alla quale è fondata la sua argomentazione: si vedono ora scene di inondazioni, la distruzione, la gente tratta in salvo che vive nelle tendopoli,ecc. Tuttavia il film continua a lasciare in sospeso la soluzione del problema, mostrando  gli effetti delle inondazioni sulle persone.

Veniamo al settimo segmento che descrive gli aiuti che nel 1937 che il governo ha stanziato per le vittime delle inondazioni; esso lascia ancora intendere che il problema di fondo esiste ancora. In questo caso il film usa un sillogismo retorico oscuro: “Le terre povere fanno poveri gli uomini-gli uomini poveri fanno povere le terre”.

Tornando ai segmenti, possiamo notare come nei primi abbiamo visto come la popolazione americana abbia costruito una grande potenza agricola e industriale. Ma questi eventi non sono semplici fatti storici, essi infatti sono cruciali per l’argomentazione del film che racconta in sintesi di come il popolo americano sia in grado di costruire e di distruggere. Si tratta di un caso in cui una soluzione viene presa per la soluzione. Tuttavia, col senno di poi, non si può affermare con certezza che la serie di dighe costruite dalla TVA sia stato il miglior provvedimento adottato per fermare le inondazioni.

The River ha avuto successo nel perseguire i propri obiettivi, come ha scritto, all’epoca, il critico Gilbert Seldes:

“È come se  le immagini catturare dal signor Lorentz si fossero disposte da sole in un ordine tale da servire da se la loro argomentazione, e non come se fosse stata un’argomentazione concepita in anticipo a dettare l’ordine delle immagini”.

 

 

Bibliografia: Cinema come arte, di D. Bordwell e K. Thompson.

 

10 libri natalizi da leggere

Volete immergervi totalmente nell’atmosfera natalizia leggendo un libro in tema? Quali sono i capolavori da leggere sotto l’albero di Natale o da regalare ad amici e parenti? Proponiamo una classifica dei 10 libri natalizi da leggere durante le festività.

1. Partiamo con l’intramontabile Canto di Natale di Charles Dickens, il libro più importante della serie Libri di Natale di Dickens, serie di storie che comprende anche Le campane, Il grillo del focolare, La battaglia della vita e Il patto col fantasma. Come dimenticarsi dell’arido e avido Ebenezer Scrooge!  Il romanzo è uno degli esempi di critica di Dickens della società oltre ad essere una delle più famose e commoventi storie sul Natale nel mondo. Lo scrittore unisce al gusto del racconto gotico l’impegno nella lotta alla povertà e allo sfruttamento minorile, attaccando l’analfabetismo.

2. Il pianeta degli alberi di Natale di Gianni Rodari, un classico per bambini e ragazzi, una favola a metà tra fantascienza e i mondi alla rovescia tanto amati dall’autore italiano:

Dove sono i bambini che non hanno

L’albero di Natale

Con la neve d’argento, i lumini

E i frutti di cioccolata?

Presto, presto, adunata, si va

Nel Pianeta degli alberi di Natale,

io so dove sta.

 

Che strano, beato Pianeta…

Qui è Natale ogni giorno.

Ma guardatevi attorno:

gli alberi della foresta,

illuminati a festa,

sono carichi di doni.

Crescono sulle siepi i panettoni,

i platani del viale

sono platani di Natale.

Perfino l’ortica,

non punge mica,

ma tiene su ogni foglia,

un campanello d’argento

che si dondola al vento.

[…]

3. Alla poesia attribuita allo scrittore americano Clement Moore, The night before Christmas, dobbiamo  la concezione contemporanea di Babbo Natale, del suo aspetto fisico e della consegna dei regali sulla slitta. Del medesimo autore segnaliamo anche Uno stupido angelo, nel quale Moore immagina un Natale ben lontano dalle atmosfere fiabesche. Moore infatti dà vita ad un racconto dissacrante e parodistico con un Babbo Natale che risorge dall’oltretomba per fare una carneficina. Divertente, a tratti anche volgare, ma sicuramente originale.

4. One wintry night, di Ruth Bell Graham  è una storia di speranza: narra di un ragazzo che scopre il grande progetto di Dio per gli uomini attraverso la natività.

5. Fuga dal Natale, di John Grisham è un romanzo divertente e spensierato che affronta con ironia le vicende di una coppia intenzionata a saltare il Natale per non ritrovarsi travolta dallo spirito consumistico che purtroppo caratterizza questo periodo.

6. The best Christmas pageant ever, di Barbara Robinson è un romanzo non convenzionale che narra di sei terribili fratelli che sono lo spauracchio di ogni bambino della scuola. Quando gli Herdman sentono parlare della recita di Natale, si mettono in testa di accaparrarsi i ruoli principali, pur non avendo mai messo piede in una Chiesa.

7. Per chi ha voglia di mistero consigliamo la lettura de Il Natale di Poirot, di Agatha Christie, un giallo pieno di colpi di scena e dai mille indizi.

8. L’albero di Natale, del grande favolista Hans Christian Andersen (noto soprattutto per le fiabe La sirenetta, Mignolina, La principessa sul pisello, Il brutto anatroccolo), che racconta di un piccolo abete che non vede l’ora di crescere per diventare grande e bello come gli altri abeti che lo circondano. Vuole andare via anche lui, come quegli alberi maestosi che all’avvicinarsi del Natale i boscaioli tagliano e caricano sui carri.

9. The Polar Express, di Chris Van Allsburg, romanzo pieno di buoni sentimenti, reso celebre dall’omonimo film d’animazione firmato Robert Zemeckis.

10. La più grande storia mai raccontata, di Fulton Oursler che narra la storia dei Vangeli del Nuovo Testamento per una versione romanzata ricca di messaggi sociali.

La semiotica delle passioni e delle emozioni

La semiotica delle passioni, terminologia suggestiva e che riguarda tutti noi, nasce dalle ipotesi teoriche della semiotica generale; lo studio delle dimensione pragmatica e cognitiva dei discorsi infatti lasciava da parte l’aspetto più legato ai sentimenti, alle emozioni e alla passioni che occupano un posto molto importante nei discorsi. Tuttavia le passioni implicavano un riferimento alla soggettività ed è per questo motivo che esse sono state introdotte con molta prudenza. La ricerca semiotica quindi considera come “effetto di senso inscritto e codificato nel linguaggio”.

Vi sono due approcci semiotici alla questione delle passioni: il primo mette in evidenza la dimensione passionale della semiotica dell’azione, considerando l’universo passionale dal punto di vista sintattico; tale approccio è illustrato nell’opera di Greimas e Fontanille, Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo (1991). Il secondo approccio fonda la dimensione passionale a partire dallo statuto del soggetto della passione, in quanto si oppone al soggetto del giudizio, riattivando in questo modo la categoria topica passione-ragione. Esso è illustrato nell’opera di Coquet, La quiete del senso (1997).

Il modello narrativo di ricerca di conseguenza, è incentrato sui rapporti tra soggetto e oggetto dove gli enunciati di giunzione costituiscono l’operazione di base della sintassi della semiotica delle emozioni, fondata sulla discontinuità tra stati. Per quanto riguarda il lessico della passione, ci si rende conto dell’importanza assunta dalla relazione giuntiva: in questo modo l’incapacità abituale a contenersi rimanda alla definizione della pazienza intesa come “disposizione d’animo di una persona che sa attendere, conservando la calma”. Trasferita nel metalinguaggio semiotico, l’impazienza esprime lo stato iterativo di un soggetto disgiunto che virtualizza sul modo dell’intensità la propria congiunzione con un oggetto desiderato. La collera invece esprime la frustrazione di un soggetto in relazione ad un oggetto del quale è privato e al quale crede di avere diritto. Tale stato intensifica la disgiunzione.

Lo spazio passionale è fatto di tensioni il cui statuto ancora non è stato precisato, data la sua natura continua che si colloca intorno alla trasformazioni narrative. Tornado ai due saggi menzionati, prendiamo in considerazione quello di Coquet, il quale, nella Prefazione a La quiete del senso, alludendo al potere della fenomenologia, afferma l’importanza della materialità sensibile del significante che individua una struttura della passione, la quale passione è ricondotta all’istanza del non-soggetto, il quale è essenziale in virtù dei rapporti dialettici che intrattiene con il soggetto. Coquet associa l’identità fenomenologica di Merleau-Ponty, fondata sull’irriflesso della presenza sensibile del mondo, e l’identità enunciativa di Benveniste che  invece è fondata sull’affermazione dell’ego. La passione è ricondotta all’istanza del non-soggetto, perché, secondo Coquet, l’atto del giudizio interviene solo “in una sequenza successiva al momento dell’esperienza passionale”.

Coquet inoltre assegna una grande priorità al discorso in atto, responsabile del modo il cui il soggetto è presente nel mondo; la semioticità cui dà vita è definita appunto come una fenomenologia discorsiva. In sintesi il non-soggetto “classe attanziale costruita a partire  dall’esclusione del giudizio”, designa l’attante che esegue solamente ciò per cui è programmato. Tuttavia il non soggetto caratterizza anche l’istanza del soggetto passionale, ad esempio: il lupo della favola è analizzato con un non soggetto che, sottoposto alla programmazione meccanica della propria natura predatrice, tenta inutilmente di sottrarsi al proprio statuto. attanziale. Anche il soggetto patemico non può prescindere dal suo essere intrinseco a se stesso ed è alimentato dagli imperativi sensibili del proprio corpo, che è l’istanza del non soggetto.

Il percorso passionale si sviluppa dando luogo a uno schema il quale è stato sviluppato da Greimas e Fontanille in Semiotica delle passioni e si presenta invece come la concatenazione di quattro sequenze:

disposizione→sensibilizzazione→emozione→moralizzazione, o meglio: contratto→competenza→azione→sanzione.

Alla disposizione corrisponde lo stato iniziale, ovvero la disposizione del soggetto ad accogliere l’uno o l’altro effetto passionale. Quanto all’emozione, è la fase alla quale corrisponde la crisi passionale che attualizza la sensibilizzazione che è il momento della vera e propria”patemizzazione”, manifestato ad esempio nel discorso appassionato.

Lo studio della dimensione patemica del discorso, dunque non riguarda tanto la trasformazione degli stati di cose (di questo se ne occupa la narratività), ma la variazione degli stati del soggetto, gli stati d’animo (gelosia, collera, ambizione, ecc.)

 

 

Intervista a Dorian Dyler, autore emergente

Dorian Dyler è un poeta emergente, la cui raccolta Stelle cadenti, spiazza per verità e durezza, come colpisce la sua definizione di poesia: “La poesia è un mare di sangue dentro a una goccia di verità” e la consapevolezza che i poeti passano ma i versi rimangono. Un giovane autore che si distingue per profondità ed umiltà tra chi presuntuosamente e azzardatamente si definisce un talento emergente nel panorama letterario italiano.

 

 

Quando hai iniziato a scrivere poesie?

Quando tutto cominciò ero solo un bambino di sei anni; allora non potevo rendermi conto;ricordo ancora quei giorni, i miei cartoni animati preferiti come Banner lo scoiattolo, Conan, Mazinga e poi qualche poesia; scrivevo e nascondevo tutto, ancora oggi mi capita di trovare delle poesie nei quaderni delle scuole elementari, tanti sono andati persi, altri no; da allora non ho mai smesso

 

Cos’è per te “poesia”?

La poesia è un mare di sangue dentro a una goccia di verità. I poeti passano, i versi rimangono; questo mondo è stracolmo di poesia, di vera poesia; è nei diari dei ragazzi che ancora vanno a  scuola, è nelle scritte sui muri dei paesi di provincia,è nelle lettere che ognuno di noi scrive ma poi va’ a finire che non le spedisce mai, è negli occhi di tutti coloro che temono di tenerli aperti a lungo perché hanno paura di ciò che potrebbero riconoscere. Credo che dinanzi a una pagina bianca siamo tutti uguali; quando abbassi gli occhi e prendi in mano una penna  non ci sono più barriere , né ricchi né poveri, né fortunati o sfortunati;conta solo quello che scrivi.

 

Dalla finanza alla poesia, un bel salto. Ci vuole molto coraggio?

Non so  se si tratti di coraggio o chissà cos’altro: io ho sempre fatto quello che ho voluto, penso che le regole siano per i matematici, per chi risolve equazioni e per chi lavora alla NASA; per chi come me non può fare a meno di tenere una mano in tasca e l’altra sul cuore…beh..mi rendo conto della fortuna che ho ad essere ancora vivo. Credo che la vita sia fatta di stanze, quando né lasci una devi entrare in un’altra; la stanza della finanza è chiusa, nessun rimpianto.

 Con quali poeti senti di avere delle affinità?

Di poeti ne ho letti ( non so se troppo o troppo poco) ma ho cercato di non permettere a nessuno di entrarmi dentro; se lo avessi fatto avrei perso i miei versi. Leggo solo chi purtroppo non è più a questo mondo, chi è già morto da un pezzo. I poeti moderni non mi interessano e sinceramente nemmeno li conosco; a dirla tutta non sò nemmeno quali siano i loro nomi.

 

Chi si cela dietro lo pseudonimo Dorian Dyler?

Sono soltanto un ragazzo che fa quello che può; tutto qui. Per anni ho provato un inaudito senso di inadeguatezza nei confronti del mondo, celare ciò che scrivevo mi ha messo al riparo ma infondo ormai non conta più di tanto: un uomo è il suo carattere. Io sono quello che sono, nel bene e nel male. Non ho nulla da insegnare, io non scrivo per chi legge poesie ma per chi non lo ha mai fatto o ha smesso di farlo. Non faccio parte del giro, non partecipo a concorsi letterari, non salgo in cattedra e l’unico piedistallo su cui stò sono le mie scarpe.

 

 La poesia ha ancora un valore oggi?

La poesia non è una ricchezza nelle mani dei cosiddetti “saggi” che se la tirano solo perché  sanno citare questo o quel poeta, o perché imperversano in qualche salotto televisivo, o perché  hanno vinto un concorso ; la poesia  sta nella cassaforte del cuore di ogni essere umano, la poesia è nelle scritte sui muri dei ragazzi, nelle loro ribellioni, nei loro sogni e nelle loro speranze.La poesia non è di chi dice di essere un poeta ma è di tutti coloro che non sanno nemmeno di esserlo.

 

Nelle tue poesie si avverte un’amara presa di coscienza della nostra contemporaneità e al contempo un desiderio di rinascita…

La verità è che io scrivo senza starci a pensare; è un flusso continuo che magari non ha alcun valore, ma cosi è. Scrivo e poi nemmeno rileggo. Far entrare la ragione nella stanza del cuore significherebbe solo creare un gran casino! Insomma come si potrebbe arrivare al cuore (che non ha regole ) scrivendo poesie  che rispettano certe regole? Mi sembra un controsenso..

 

Il poeta è un uomo che soffre più degli altri?

Mentirei se non dicessi che fa male ma chi è che quando si mette a nudo non si sente in bilico fra questo e l’altro mondo? A questo mondo se vivi con il cuore in mano va’ a finire che prima o poi il cuore ti cade per terra; ok fà male…ma è l’unico modo che conosco per non sporcare la coscienza e chissà….magari salvarsi l’anima.

Il cinema “di conflitto” di Elia Kazan

(Kayseri, 7 settembre 1909 – New York, 28 settembre 2003)

Non si può parlare di Elia Kazan senza il grande drammaturgo Tennessee Williams, fondatore insieme a Kazan del celebre Actor’s Studio e suo sceneggiatore, il primo un ragazzo beffardo che arriva in America dalla Grecia con il sorriso ingannatore di chi è deciso a farcela a tutti i costi, anche con il  rischio di risultare ipocrita e servile, sorriso descritto dallo stesso Kazan in una sua autobiografia e in un suo film che doveva intitolarsi The Anatolian Smile (chiamato poi America America, il ribelle dell’Anatolia), il secondo un ragazzo del Mississippi che non si è mai sentito amato dal padre perché omosessuale, lontano dal prototipo del maschio sano e sportivo americano e dilaniato dalla paura di diventare schizofrenico come sua sorella, ridotta ad un vegetale dopo essere stata lobotomizzata.

Kazan, sostenitore del Metodo, ha avuto il merito di lanciare star mondiali come lo sfacciato e rude Marlon Brando, l’inquieto James Dean (diretto da Kazan nella trasposizione in chiave psicoanalitica della storia di Caino e Abele, La valle dell’Eden e nel cult Gioventù bruciata), icona ribelle negli anni Cinquanta, simbolo di una generazione, morto prematuramente, in un incidente automobilistico e il dolce Warren Beatty (diretto da Kazan in Splendore nell’erba, straziante melodramma sul primo amore e primo film americano che ha posto l’accento sulla sessualità adolescenziale).

Kazan è stato un genio riconosciuto nell’ambito sia cinematografico che teatrale, il traduttore perfetto dei drammi di Williams,un lottatore nato,un narcisista, un uomo sempre in conflitto con sé stesso che ha incontrato l’animo fragile di un altro uomo perseguitato dai suoi fantasmi, che soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita ha dato vita a delle messe in scena innovative e di rara fattura, rubando dalla propria vita e da quella di Kazan. Si portano sul set  le frustrazioni, gli ideali, il conflitto tra amore per la vita e desiderio della morte, le nevrosi, le paure, il vitalismo sessuale, i rimpianti, un certo auto disprezzo soprattutto da parte del regista. Frustrazioni le sue, molto probabilmente collegate alla vita politica: la sua fama infatti è stata segnata da numerose polemiche e critiche per il fatto che Kazan aveva denunciato dei suoi compagni comunisti alla Commissione per le attività antiamericane del senatore  McCarthy.

L’uomo dal sorriso ingannatore che aveva preso d’assalto Hollywood, che pur di arrivare a diffondere la sua arte e le sue idee, si era finto umile, per poi fregare l’America, ha denunciato colleghi, rovinando delle carriere:

«Sono stato membro del partito comunista per un anno e mezzo. Non mi è piaciuto ciò che ho visto in quel periodo, e ho deciso di dire ciò che pensavo. Ero d’accordo con certe cose, ma non con i metodi. Come iscritto al partito, volevo cambiare l’America, renderla migliore: ho lasciato il partito perché, ripeto, non ne condividevo i metodi, ma quell’idea di fondo mi è rimasta. Amo l’America».

Ecco il conflitto interiore, la finzione, e poi finalmente l’espiazione o la furbata a seconda dei punti di vista, attraverso la realizzazione del film Fronte del porto (1954), “l’autodifesa mascherata”: è emblematica la scena in cui Marlon Brando, coraggioso combattente contro un’organizzazione criminale, viene preso a cazzotti. L’apologia del tradimento a fin di bene.Terry Malloy (Brando), è uno scaricatore di porto ed ex pugile, apparentemente senza umanità, che ha come fratello il pezzo grosso di una gang che controlla il sindacato dei portuali di New York; grazie ad una faticosa presa di coscienza, all’amore per la sua ragazza (Eva Marie Saint) e alla Chiesa (rappresentata da un parroco d’assalto), testimonia contro la sua associazione criminale. Kazan mescola le carte ad arte, ed Hollywood gradisce molto, tanto che il film vince meritatamente ben sette Oscar. Fronte del porto è un film coraggioso per l’epoca, un noir con forti connotazioni melodrammatiche girato quasi tutto all’esterno, a New York.

Da questo momento Kazan diviene il regista più corteggiato di Hollywood, del quale sorprende una dichiarazione che però non collima con il suo conflitto interiore mai negato:

“Non ho una vasta gamma, non vado bene con la musica, i classici sono oltre la mia portata … sono un mediocre regista, tranne quando una pièce teatrale o un film tocca una parte delle mia esperienza di vita, ma  ho coraggio, qualche volta anche un po’ di temerarietà. Sono capace di parlare agli attori, di farli lavorare al meglio”.

 

Il regista va sul torbido insieme a Williams con il film Baby doll, (il meno riuscito della coppia Kazan-Williams), un concentrato di erotismo molto spinto per l’epoca, costruito tutto su sguardi, atmosfera, e suggestioni carnali non su atti espliciti, ricercatissimi invece nel cinema di oggi. Per buona parte della critica moralista è risultato un film irritante; ma senza dubbio si è di fronte ad un qualcosa di mai visto prima e viene da chiedersi: perché i due collaboratori insistono sulle suggestioni suddette, senza tregua? La risposta si può facilmente ricercare nella vita privata di Kazan e nella sua ossessione per la famiglia e per il sesso: ha avuto tre mogli e moltissime amanti tra cui anche la Monroe prima di sposarsi con il drammaturgo Miller, dichiarando di non poter fare a meno di portare via le fidanzate agli amici.

Grande successo invece per La gatta sul tetto che scotta (1958): la gatta in questione è Maggie la bellissima moglie interpretata da Liz Taylor, di Brick (Paul Newman), ex atleta nevrotico che si rifiuta di dormire con la moglie. Ed il tetto scotta per via delle incomprensioni e discussioni, parole celate, menzogne, tra Brick, suo padre, ricco ed autoritario proprietario terriero del Sud, l’avido fratello e la sua odiosa moglie. Qui sono i dialoghi resi a regola d’arte che svelano il vissuto e la psicologia dei personaggi, le loro inquietudini. Memorabile lo scambio di battute tra padre e figlio, la rievocazione dei ricordi, la sensualità misteriosa di Maggie che cerca di squarciare la freddezza sospetta di suo marito. Kazan evoca e rappresenta un mondo in disfacimento materiale e morale, il famoso Sud che in questo film odora di morte, ricoperto da polvere e muffa, ma tenuto ancora in vita da una sensualità esasperata.

Ma già nel 1951 Kazan e Williams avevano messo in scena quei nuovi fermenti del cinema americano ,che vuole accostarsi a temi considerati scottanti, cercando di liberarsi di quell’impalcatura spesso fittizia e perbenista dell’industria cinematografica. In Un tram che si chiama desiderio, la coppia fa sfoggio del dramma di una donna nevrotica e con turbe sessuali, Blanche Dubois (una strepitosa e commovente Vivien Leigh), ma fragile, insicura e dal passato travagliato. Va ad abitare della piovosa e cupa New Orleans, dalla sorella Stella (Kim Hunter) che nel frattempo si è sposata con il rude Stanley (un indimenticabile Marlon Brando). Blanche cerca di farsi sposare da un suo corteggiatore, ma instaura gradualmente un ambiguo e pericoloso rapporto con il cognato che scivolerà nella follia.

Kazan usa la cinepresa come uno strumento di indagine psicologica,volta a filmare, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola, il senso di morte presenta nella casa di Stella e di suo marito e la progressiva devastazione interiore di Blanche, la sua paura di invecchiare, di non riuscire a dimenticare il suo passato, pur volendo ricostruirsi una vita. Kazan fa parlare il fisico scultoreo esibito con tracotanza di Brando, fa di lui un cattivo- vincente. La cifra del film è tutta incentrata sulla scenografia scarna, sulla potenza della parola e sull’espressività dei protagonisti.

Il 1951 è stato anche l’anno del dramma La rosa tatuata, divenuto un film nel 1956 diretto da Mann con la nostra italiana Anna Magnani. Un grande successo. Tre anni dopo è la volta della messa in scena di Improvvisamente l’estate scorsa, film ambiguo di  Mankiewicz, incentrato sulla lobotomia, tema caro a Williams, reso con una curiosa contaminazione tra una sorta di giallo americano e dramma europeo. Seguono La dolce ala della giovinezza, con Paul Newman e La notte dell’iguana, girato con Huston, in un periodo di straordinaria prolificità letteraria. E poi Fango sulle stelle, rievocazione degli anni 30 americani, indirettamente autobiografica,che riflette sulla figura dell’intellettuale di fronte ai problemi sociali,che ci consegna un Kazan forse più sereno e contemplativo, nonostante non mancasse mai la polemica contro l’arroganza dei ricchi,la lotta sociale, il garantismo; tutti temi che sono presenti in maniera più forte nei suoi film iniziali come Un albero cresce a Brooklyn (1945), Barriera invisibile (1947), e i successivi Un volto nella folla, Il compromesso, I visitatori, Gli ultimi fuochi.

Elia Kazan ha trasferito sul grande schermo le proprie ansie, i propri conflitti e le proprie frustrazioni, facendo della settimana arte uno strumento di terapia.

 

La Gilda del Mac Mahon, “l’Addolorata” di Giovanni Testori

La Gilda del Mac Mahon è una raccolta di racconti del 1959 di Giovanni Testori, tra gli autori più complessi ed importanti del Novecento (ma poco ricordato), successiva al Ponte della Ghisolfa. In un quartiere della Milano proletaria del dopoguerra, povera ma piena di speranza per il futuro, una donna dalle fattezze sinuose e provocanti che somiglia vagamente alla famosa diva americana Rita Hayworth, detta “l’Atomica”, vive vicino al Ponte della Ghisolfa, che era all’epoca l’estrema periferia a nord della città meneghina. Gilda si innamora di un balordo, finito in carcere per ricettazione, e lo “mantiene come un signore” vendendo il proprio corpo.  

Ma ogni volta che un uomo l’avvicina, si sente prendere da un’ansia e da un timore che confinano con la vertigine, come se si trattasse sempre del primo. Mestiere, quello della Gilda? Come dice lo stesso Testori, se è perché le ha dato da vivere, anzi, nei momenti più difficili, da sopravvivere, lo è; ma  per il resto, no di certo, anche perché per sopravvivere si può scegliere di fare anche altri mestieri. Tuttavia lo scrittore milanese fa della sua protagonista una figura straziante e, un’Addolorata profana, lontana dalle ciniche e arriviste escort di oggi, nella Milano di periferia che cerca di rialzare la testa dopo la guerra; Gilda, chioma bionda e abito rosso lungo tempestato di strass, è una donna pura di cuore con un corpo seducente come quello della Hayworth e attraverso lei, Testori vuole ritrarre l’umanissimo microcosmo dei poveri cristi che popola la Milano misera ma generosa del dopoguerra, che sarebbe stata spazzata di li a poco dalla corsa sfrenata al boom economico. La Gilda è una sorta di espediente per Testori, per raccontare con malinconia un mondo, un’Italia che già non c’era più, nel quale ci si aiutava, si era probabilmente più solidali e umani.

I personaggi della Gilda, sono emblemi della “gioventù bruciata” che abitava le periferie milanesi nel dopoguerra; essi vivono di sogni, di speranze, di illusioni, di amori consumati, di delusioni, e solamente le luci del varietà, lo sfavillante mondo dello spettacolo, venditore di sogni e di miti, riescono per un attimo, a sollevare le grigie e sofferenti vite delle varie Gilde, dei Lino (capo di una banda di ragazzini), dei Gino (fidanzato della Gilda), e di tutti i protagonisti delle storie testoriane che fanno da eco alle vicende dei ragazzi di borgata di Pasolini, omosessuale come Testori e come lui, espressione di un mondo di sinistra sicuramente molto distante da quello cattolico tradizionale, sebbene Testori, a differenza di Pasolini, fosse un cattolico tormentato, ma ardito. Entrambi hanno trattato in maniera esplicita temi e argomenti mai affrontati prima (pensiamo alla morbosità sessuale che all’epoca faceva scalpore). Ma il caso intellettuale di Giovanni Testori, ossessionato dal conflitto tra ortodossia e personalismo, risulta più complesso rispetto a quello di Pasolini.

La Gilda del Mac Mahon è un racconto incentrato molto sulla fisicità, sulla sensualità e sull’ironia, dove emerge un certo l’amore dello scrittore per il gusto linguistico: Testori infatti si avvale di francesismi, di termini gergali, il romanzo d’amore.

La protagonista bellona è assunta a mito della cultura di massa per i ragazzotti del quartiere che, sedotti dalle sexy soubrettes e dalle super prestazioni, si avventurano in imitazioni patetiche. Come accade anche oggi. Ma Testori non ha dubbi: giudica la cultura di massa grossolana, alimentatrice di illusione e produttrice di squallore e solitudine.

20 anni senza Gian Maria Volonté

Venti anni fa, esattamente il 6 dicembre 1994 si spegneva in Grecia, a 61 anni, il grande attore Gian Maria Volonté. Stava girando il suo ultimo film, Lo sguardo di Ulisse per la regia di Theo Anghelopoulos.

Volonté è la dimostrazione di come il mestiere di attore possa contrapporsi al mero intrattenimento, costituendo il valore di un lavoro e attivismo che non fossero solo semplice arte recitativa, ma affermazione di un vero e proprio diritto alla riflessione e alla profondità. Un “pensattore”, come è stato giustamente definito, un volto serio, un volto di chi crede nel potere dell’arte e in quello che fa, simbolo della fusione tra impegno civile e arte, il duttile e scontroso attore nato a Milano ma cresciuto a Torino, ha sempre sposato in pieno le cause dei suoi film, diventando tra i più importanti protagonisti della migliore stagione cinematografica italiana, permettendosi di dire anche dei no a registi come Bernardo Bertolucci che lo voleva nel suo Novecento, a Federico Fellini per Casanova e a Francis Ford Coppola per Il Padrino.

Diplomatosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma nel 1957, dopo tre anni di duro e intenso lavoro tra teatro, con le opere di Goldoni e di Shakespeare, e televisione, con L’Idiota di Dostoevskij e il Caravaggio, si aprono per lui  le porte del mondo del cinema.

Nel 1964, dopo aver preso parte a film che non hanno lasciato il segno, se si esclude un piccolo ruolo nel film La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini, accanto a Claudia Cardinale, è chiamato da Sergio Leone nel cast del western Per un pugno di dollari e la sua interpretazione del cattivo fa storia. Ma Volonté non vuole rimanere imbrigliato in ruoli di genere e dà vita ad una serie di personaggi indimenticabili, in un periodo dove furoreggiano attori del calibro di Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman: pensiamo a Paolo Laurana, l’intellettuale di sinistra di A ciascuno il suo (1967) per la regia di Elio Petri, uno dei primi film italiani sulla mafia, al commovente Bartolomeo Vanzetti  di  Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo, ma soprattutto al “dottore” capo della Sezione Politica che uccide l’amante che lo tradiva con uno studente facente parte della contestazione attiva che, invece di occultare le prove le rende sempre più evidenti, convinto, nel suo delirio di onnipotenza che invece tradisce profonda insicurezza, che il Potere gli permetta di essere al di sopra di ogni sospetto, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) ancora di Petri, al memorabile Lulù Massa, l’operaio contestatore de La classe operaia va in paradiso (Petri, 1972), primo film italiano che è entrato in fabbrica suscitando molte polemiche, soprattutto a sinistra, e Palma d’oro a Cannes ex aequo con Il caso Mattei, anch’esso interpretato magistralmente da Volonté, per la regia di Rosi che dirigerà ancora l’attore in Cronaca di una morte annunciata nel 1987.

Sono degne di nota anche le seguenti pellicole: Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Giordano Bruno e Lucky Luciano (1973), Il sospetto (1975), il controverso e profetico Todo modo (1976), Cristo si è fermato a Eboli (1979), L’attentato (1973), Il caso Moro (1986), L’opera al nero (1988), il sottovalutato Tre colonne in cronaca (1990), Porte aperte (1990), Una storia semplice (1991). Meno degno di nota il modaiolo (per l’epoca), fazioso e antimilitarista Uomini contro di Rosi (1970), che stravolge il senso del romanzo (Un anno sull’altipiano) di Lussu, da cui è  stato tratto.

Gian Maria Volonté si è posto la questione dell’essere attore a livello esistenziale, stabilendo un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita per cercare di sfuggire alle fauci del potere, come affermava lui stesso, votandosi ad un’idea di giustizia e di tolleranza contro la cultura della morte citando le maschere del potere, dell’ambiguità, della violenza, del torbido, della reticenza, anticipando tutto. Non è mai sceso a compromessi Volonté, è stato un uomo morale, che viveva i suoi personaggi e non si lasciava affascinare dai riti stupidi dello spettacolo. Che sia stato poliziotto, contadino meridionale, magistrato, sindacalista, operaio settentrionale, Volonté è sempre riuscito a far comprendere al pubblico, grazie al suo essere camaleontico, i ruoli sociali chiave e l’Italia stessa, con lucidità, condensando psicologia e cultura; non impersonava i personaggi, ma ne svelava le peculiarità, le nevrosi più nascoste, in un periodo dove il cinema italiano stesso era coraggioso.

Ideologo? Sicuramente, ma non per partito preso, perché fosse testardamente di sinistra (e scomodo anche per la sinistra stessa, che non era e non è immune al malaffare e al malcostume), ma perché ha voluto confrontarsi, calarsi in personaggi straordinari, nel bene e nel male, destreggiandosi tra le tante sfumature dell’animo umano. A 20 anni di distanza, di Volonté oggi mancano soprattutto lo sguardo malinconico, la gestualità e mimica, la tecnica, il modo di costruire i personaggi, l’essere ribelle (spesso litigava con i registi con cui lavorava), l’imporsi contro la struttura stessa dello spettacolo.

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