Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV
Non vogliamo girarci intorno e diciamo schiettamente che la vittoria annunciata (avrebbe meritato “Invernale” di Dario Voltolini) del romanzo della scrittrice abruzzese Donatella di Pietrantonio, L’età fragile, pubblicato da Einaudi e già vincitore dello Strega giovani, è in linea con la qualità libraria italiana degli ultimi decenni: abbastanza mediocre.
Anche quest’anno il Premio Strega è partito sotto l’egida dell’analfabetismo funzionale, esordendo con una dichiarazione quanto mai imbarazzante e irrispettosa del Presidente della Fondazione Bellonci Stefano Petrocchi, il quale a chi, ha fatto giustamente notare l’assurdità del regolamento del Premio Strega, con 81 libri proposti da leggere in 30 giorni, ha risposto citando nientemeno il film “American Fiction”, premiato agli Oscar 2024. American Fiction è un film satirico sull’assurdità del momento storico in cui viviamo; American Fiction di una cultura ancella dell’ideologia, dove non conta la qualità dell’opera ma il ruolo sociale dell’autore, dove la retorica dell’inclusività è diventata strategia di marketing, per cui nelle librerie ci sono le etichette sugli scaffali con la scritta “libri scritti da donne”.
E infatti il protagonista viene invitato – in quanto nero, – a far parte della giuria del premio in questione; dove ascolta boriosi intellettuali lanciarsi in lodi che sono concentrati di retorica, mentre i giurati si lamentano della grossa mole di libri che tocca loro leggere, arrivando ad un accordo per leggere solo le prime 100 pagine di ogni volume.
Eterogenesi dei fini. La medesima situazione del Premio Strega, ben illustrata dal Presidente della Fondazione Bellonci l quale dimostra, secondo lui, che tutti sanno che i giurati dei premi non leggono davvero i libri, e solo chi ha una concezione “stupida” della lettura può pensare il contrario.
il Direttore ha seguitato nel vantarsi di quanto il Premio Strega sia “inclusivo”, di quante donne siano candidate e non da oggi, dimostrando ancora che chi ha dato adito a quel modo di pensare è esattamente l’oggetto della satira di “American Fiction”,
Incredibile ma vero. Come è vero che ha vinto un libro la cui autrice, certamente ha un ruolo sociale importante nella comunicazione e nei salotti italiani che contano. Senza trascurare il fatto che è una donna.
L’età fragile è un romanzo modesto, dispersivo, contorto e involuto soprattutto a causa dell’insistenza dell’autrice di concentrarsi spesso su piccoli concetti cominciati e mai portati a termine.
Anche l’operazione di spostamento della narrazione dallo “sfondo” al “primo piano”, risulta poco convincente e inefficace giacché Di Pietrantonio usa sempre la prima persona singolare e il presente indicativo e il passato prossimo.
La tecnica narrativa adottata da Donatella Di Pietrantonio si rifà alle forme del new journalism americano che confida nell’io-narrante per la resa della storia per raccontare un dramma famigliare e il difficile rapporto dell’“io narrante” madre con l’inquieta figlia Amanda, che si trova nell’età fragile, appunto.
La vicenda famigliare si unisce alla lotta per la difesa del proprio territorio dalla speculazione edilizia. Anche in questo romanzo è presente l’Abruzzo dell’autrice, la novità, tuttavia, rispetto ai precedenti romanzi, è nello spostamento dello sfondo dall’asse città-paese a quello paese-bosco di montagna, luogo ideale dove si consumano fatti oscuri e dare in questo modo una pennellata noir alla storia.
Ma Di Pietrantonio mischia troppi generi (addirittura nella parte finale fa capolino il fantasy) perché ne possa prevalere uno in maniera risolutiva, come se l’autrice volesse dire che in fondo l’esito della storia non può avere un senso.
Senza dubbio ancora una volta l’autrice dimostra l’impossibilità di tagliare il cordone ombelicale con la propria terra, presentando personaggi bizzarri che appaiono e scompaiono, con i quali è difficile empatizzare.
L’età fragile è uno sfogo di mugugni, recriminazioni, incomprensioni. Un groviglio espositivo con diverse forzature. Perché una ragazza di venti anni che non studia, non lavora, dorme tutto il giorno per poi vagare per casali altrui è fragile? Se la causa della fragilità di sua madre Lucia è da trovare in un fatto di cronaca nera (avvenuto nel 1997 per mano di un pastore macedone che uccise due ragazze padovane), non si riesce a capire i motivi della “fragilità” di Amanda che sembra essere la classica ragazza svogliata che sublima il proprio malessere.
Inoltre l’esperienza personale del rapporto con la propria madre in un determinato momento storico fa testo solo per la persona che lo racconta. Le variabili sono molte: la geografia, la società, la cultura, l’economia, la politica. Il contesto dell’Età fragile è diverso da quello di oggi e di conseguenza la storia narrata non può configurarsi come un modello universale, come una memoria collettiva profonda.
Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana. Il non apprezzare molti libri di oggi, spacciati dai grandi giornali nazionali come capolavori, non è solo una questione di stile e di trame dispersive, ma di rifiuto delle mode nella scelta delle tematiche trattate con retorica e superficialità, al servizio di storie quotidiane ripiegate su se stesse, intrise quasi sempre di autobiografismo e ruffianeria.
Qualche settimana fa sono cominciate le prove per gli esami della Maturità 2024, tra le polemiche dei soliti che si dichiarano antifascisti da quando al governo c’è il centro-destra. Vedere giovani che inneggiano ai regimi comunisti più duri, nostalgici dei terroristi degli Anni di Piombo o dello stalinismo mentre vivono comodamente nel capitalismo fa sempre sorridere per non piangere. I gruppi Cambiare Rotta e Osa rappresentano le aggregazioni giovanili di Potere al Popolo e della Rete dei comunisti italiani, animatori delle proteste di piazza pro-Palestina e in difesa dell’ambiente tra un imbrattamento ad un monumento e scontri con la polizia, hanno deciso, dall’alto della loro sapienza che anche le tracce d’esame assegnate sono motivo di lotta, perché secondi loro, sarebbero propagandistiche.
Ungaretti e Pirandello tra le tracce d’esame: vade retro fascista!
Dunque la traccia di Giuseppe Ungaretti sula brutalità della Prima guerra mondiale è propaganda perché i “governi occidentali e il nostro ci portano nella nuova guerra mondiale, mandiamo armi e mezzi militari in Ucraina e Yemen, la Lega (di cui fa parte Valditara) propone la reintroduzione della leva militare per i giovani dai 18 ai 26 anni“. A proposito dei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, opera di Luigi Pirandello in cui lo scrittore svolge, disallineandosi dallo spirito positivista dei tempi, una sua polemica contro la macchina, colpevole, ai suoi occhi, di mercificare la vita e la natura, i rappresentanti di Osa hanno delirato: “Gli studenti sono mandati a morire in Alternanza e i tecnici e professionali sono stati fatti diventare delle appendici delle aziende”, scrivono i rappresentanti di Osa.
Ungaretti e Pirandello furono fascisti, ma non per questo non devono essere studiati e bannati alla maturità. Se gli studenti che gridano alla propaganda avessero studiato senza la lente della bieca ideologia di oggi il fascismo, ma soprattutto se lo avessero fatto prima i loro insegnanti, avrebbero compreso che i primi simpatizzanti del fascismo furono in realtà gli stessi antifascisti, come scrisse Longanesi nel suo celebre “In piedi e seduti”, e che certamente ci fu molto opportunismo come nell’adesione compatta dei professori universitari. Ciononostante le motivazioni degli intellettuali fascisti furono complesse e l’opportunismo non fu l’unica tra queste.
Rinfacciare a scrittori e scienziati l’adesione al PNF oggi, è da ignoranti livorosi che non hanno elaborato un pensiero maturo e libero, pensando di poter cancellare un pezzo di cultura italiana barricandosi nell’antifascismo. Nani disperati che vogliono mettere all’indice i giganti.
Tuttavia è bene ricordare che Ungaretti rimase legato al regime almeno fino all’annuncio dell’Armistizio con gli Alleati nel settembre 1943 e che l’ammirazione per Mussolini non impedì al poeta di solidarizzare con scrittori antifascisti ed ebrei in difficoltà. Con questo stesso approccio, nel dopoguerra, Ungaretti si avvicinò poi alla Democrazia Cristiana chiedendo – proprio come aveva fatto con Mussolini– attenzione per sé e per tanti artisti da lui apprezzati. Ungaretti non fu un servo del fascismo come tanti che poi si proclamarono antifascisti a Duce morto.
Per quanto riguarda Pirandello, gli studenti indignati, dovrebbero sapere che il grande autore siciliano, era contrario a un’arte fascista, in aperto dissenso con Mussolini. Questa clamorosa difesa della libertà dell’arte, contenuta in una ignorata intervista del 1927, restituisce dignità al ritratto consegnato da Sciascia di un Pirandello debole e opportunista sebbene speranzosi di ricevere supporto per il suo teatro. Pirandello aveva subordinato l’adesione al Partito fascista alla condizione che il suo nome fosse escluso dalla lista dei senatori, proprio per evitare che il suo gesto potesse apparire interessato.
Profetiche le parole Giuseppe Berto, altro scrittore del ‘900 dimenticato: <<Per gli antifascisti, infatti, avere qualsiasi forma di colloquio con qualcuno diverso da loro è segno di fascismo>>.
Giovedì 20 giugno alle ore 18:30 presso la Casa Russa a Roma si terrà il terzo salotto letterario-musicale. Questa volta l’incontro sarà dedicato al 225º anniversario della nascita del grande poeta russo Aleksandr Puškin, fondatore della lingua letteraria russa moderna.
Il significato del lavoro del poeta russo per la letteratura mondiale racconterà Vadim Polonskij, esperto dell’Accademia Russa delle Scienze, direttore dell’Istituto di Letteratura Mondiale A.M. Gor’kij. Da parte italiana, al salotto letterario-musicale parteciperà Giuseppe Ghini, professore universitario, slavista e scrittore, curatore e traduttore dell’edizione italiana recente del poema di Puškin “Evgenij Onegin” (2021). Le romanze e le poesie del poeta su musiche di Michail Glinka, Pëtr Čajkovskij, Aleksandr Dargomyžskij, Sergej Rachmaninov, Anton Rubinštejn, Aleksandr Vlasov saranno eseguite dalle vincitrici dei concorsi internazionali le soprano Elizaveta Smirnova, Maria Smirnova e Natalia Pavlova, discendente di Aleksandr Puškin. Al pianoforte Sebastiano Brusco.
Come ha affermato Giuseppe Ghini,
Puškin ha disegnato personaggi che sono divenuti modelli con cui un russo colto non può non confrontarsi. Questo è vero soprattutto per tutto il periodo – fino al 1905 – in cui in Russia praticamente non esiste altro che la letteratura: impedita ogni altra forma di riflessione pubblica – filosofica, sociologica, politica – la letteratura e la critica letteraria diventano tutto, e gli scrittori sono “pensatori” nel senso più ampio. Per esempio, Onegin incarna, con i suoi pro e i suoi contro, la figura dell’“uomo superfluo” nella particolare realizzazione che assume al tempo della servitù della gleba: però il tema della distanza tra potere e cultura, la responsabilità dell’intellettuale engagé o dedito all’otium, sono questioni non aggirabili. Molto concretamente, leggendo la letteratura russa ti accorgi che spesso risuonano parole dell’Onegin, che alcuni personaggi disputano con gli eroi del romanzo di Puškin.
Le opere di Pushkin sono incredibilmente varie: odi classiche, poesie romantiche, lirica d’amore e civile, romanzi in versi, drammi storici, narrativa realistica, favole, racconti, fiabe e appunti di viaggio.
In programma anche le famose Lettere di Tat’jana e Onegin dall’omonimo poema, opere di Wolfgang Amadeus Mozart, Francesco Paolo Tosti, Franz Schubert, Fryderyk Chopin, un brano musicale della contessa Zinaida Volkonskaja, che fu all’origine della tradizione dei Salotti Letterari. Il pubblico avrà la possibilità di recitare le poesie del grande poeta russo.
Guardando American Pastoral, film diretto da Ewan McGregor e uscito nei cinema statunitensi nel 2016, la struggente bellezza della storia raccontata da Philip Roth nell’omonimo romanzo del 1997 si percepisce a tratti e la pellicola colpisce più dal punto di vista emotivo che non artistico.
Non è certo una scelta facile esordire con l’adattamento di American Pastoral, un’opera nota, monumentale, forse troppo dark per un pubblico cinematografico esteso. Adattare un tale colosso della letteratura al linguaggio del cinema significa riuscire a rendere l’atmosfera, le emozioni, le sensazioni, i pensieri e il non detto che aleggia in tutta la storia non usando le parole ma le immagini, gli sguardi degli attori e le loro interpretazioni.
Per iniziare, è interessante soffermarsi sull’ingranaggio che avvia il racconto della gloria e dell’improvvisa caduta dello Svedese : se nel film questo momento non è che poco più di un pretesto narrativo- lo scrittore Nathan Zuckerman incontra Jerry Levov, il fratello minore di Seymour (da poco deceduto) e suo amico di infanzia, alla quarantacinquesima riunione degli ex allievi del liceo di Weequahic a Newark, e da lui apprende la tragedia che sul finire degli anni Sessanta aveva travolto l’eroe della sua infanzia – nel romanzo è un’impalcatura imponente, una solida cornice narrativa in cui Roth, nei panni del narratore Zuckerman, suo alter ego, dice molto di sé e del proprio background socio-culturale.
Già nell’incipit il narratore fornisce le coordinate principali della propria estrazione sociale, e lo fa attraverso un primo inquadramento dello Svedese, campione sportivo simbolo della sua generazione: un ragazzo di qualche anno più grande, come lui ebreo, come lui di Newark, come lui allievo del liceo pubblico a maggioranza ebraica di Weequahic; a poco a poco, poi, la presenza del narratore nella vita dei protagonisti si fa più tangibile: Nathan, detto Skip perché da ragazzino aveva saltato due anni alle elementari, è dapprima l’unico amico, o quasi, di Jerry Levov, grazie al quale aveva sempre mantenuto un contatto, sebbene minimo e indiretto, con lo Svedese, di cui amava spiare i trofei sportivi attraverso la porta semiaperta della camera da letto.
É il protagonista di Pastorale Americana, ricordato da quanti l’avevano conosciuto ai tempi delle sue imprese sportive con quest’appellativo che rimanda all’eccezionalità dell’aspetto del ragazzo e alle sue origini.
“Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov”.
Inaspettatamente Jerry Levov, ormai un affermato medico-chirurgo che opera a molti chilometri da Newark, fa la sua comparsa nella sala e mette Nathan al corrente prima della morte del fratello, del quale sono appena stati celebrati i funerali, poi della sua vita trasformata in irrimediabile sofferenza dalla figlia ingrata, Merry, nota all’America come la terrorista di Old Rimrock; incredibile ma vero, la terrorista di Old Rimrock che nel ’68 aveva fatto esplodere la bomba nello spaccio cittadino era la figlia di Seymour lo Svedese, l’eroe interamente buono e privo di contraddizioni della sua gioventù. “La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America” – dice Philip Roth prestando la voce a Nathan, un io di finzione capace tuttavia di fissarne i tratti essenziali.
Quella che si svolge dentro e in memoria della riunione degli ex-allievi del Weequahic è a mio avviso la parte più autoreferenziale del romanzo: non solo perché Roth vi dissemina numerosi riferimenti alle sue origini ebraiche, essendo il liceo pubblico frequentato in gioventù da Skip, Seymour e Jerry Levov un liceo a maggioranza ebraica ( dove tuttavia la matrice ebraica si mescola a un modello di
vita americano sempre più omologante, destinato a espandersi in modo vertiginoso nei decenni a venire rendendo l’essere ebrei un sostrato più o meno remoto ai tempi della riunione, o forse, più precisamente, latente nella vita di ognuno dei vecchi compagni di scuola); anche e soprattutto perché sulla spinta delle confessioni fatte da Jerry a Nathan assistiamo a qualcosa di profondamente
meta-narrativo, al momento stesso della creazione letteraria, messo a nudo davanti al lettore. É utile fare attenzione, qui, al fatto che Jerry rivela solo una minima parte della storia che si snoderà nelle pagine del romanzo; solo le sue linee principali, restituite dalla prospettiva cinica e parziale del fratello dello Svedese.
La parte più consistente di quella storia è invece frutto dell’immaginazione di Nathan, nella misura in cui dietro Nathan c’è Philip Roth. Questo implicito patto col lettore affiora in un passaggio cruciale:
Aveva destato in me, quando ero un ragazzo (come in centinaia di altri ragazzi), la più accesa fantasia di essere un altro che avessi mai avuto. Ma condividere la gloria altrui, anche se solo in sogno, da adulto o da ragazzo, è una cosa impossibile, irrealizzabile sul piano psicologico se non sei uno scrittore, e sul piano estetico se lo sei.
Da questo momento in poi Roth non abbandona più la terza persona, decide di rimanere sullo sfondo adottando quasi interamente il punto di vista di Seymour Levov mentre ne ripercorre le vicissitudini familiari. La tecnica narrativa é per così dire sospesa fino alla Parte terza del libro , l’ultima, in cui l’illusione ricompare anche se questa volta non ha alcun rapporto con l’autobiografia: la voce, l’io di Seymour è ora più che mai dirompente e straziante, lo Svedese è ora più che mai un eroe interamente solitario; lo è mentre cerca di rimettere insieme i pezzi apparentemente sconnessi dell’epilogo, il ritrovamento della figlia in stato di indigenza nella periferia di Newark cinque anni dopo l’attentato, la prevaricazione del fratello cui ha rivelato tutto quello stesso pomeriggio, la dolorosa scoperta
dell’adulterio della moglie e del tradimento di Sheila Salzman, che aveva in cura Merry ai tempi della sua balbuzie e l’aveva nascosta dopo l’esplosione dello spaccio di Old Rimrock: tutto nel corso di un’unica giornata che termina con una cena, la quale agisce come epifania all’interno del romanzo; immensa è la sua portata rivelatrice, ora che finalmente Seymour può vedere:
“E la causa di questo recupero della vista è Merry. La figlia ha fatto sì che il padre vedesse. E forse era proprio questo che aveva sempre voluto. Gli ha donato la vista, la capacità di vedere con chiarezza ciò che non potrà mai essere normalizzato, di vedere ciò che non puoi vedere e non vedi e non vuoi vedere finché il tre non sarà aggiunto all’uno per fare quattro” , alludendo al numero di omicidi commessi da Merry.
É ormai chiaro a Seymour di essere stato privato del futuro:
Aveva visto com’è inverosimile che si possa discendere l’uno dall’altro e com’è inverosimile che davvero si discenda l’uno dall’altro. Nascita, successione, le generazioni, la storia: assolutamente inverosimile.
Prevedibilmente, il film ha uno sviluppo del tutto diverso: l’unica porta sul presente dei sopravvissuti (Jerry e Nathan, le voci narranti) é in questo caso la quarantacinquesima riunione degli ex-allievi del liceo di Weequahic a Newark. Di lì, il racconto della vita di Seymour si snoda senza interruzioni fino alla separazione finale dalla figlia Merry, che vede per l’ultima volta nella periferia di Newark nei panni di una giaina ; il plot ingloba, sommariamente, la fine della Parte prima e tutta la Parte seconda del romanzo.
In modo meno prevedibile il regista decide poi di creare un ricongiungimento tra la cornice narrativa e la storia di Seymour, fino a quel momento tutta declinata al passato: non solo Seymour muore qualche giorno prima dell’incontro con i vecchi compagni di scuola, ma nell’ultima sequenza del film ne vengono anche celebrati i funerali ( ai quali sono presenti Jerry, Nathan, e l’ex-moglie di Seymour, Dawn Dwyer), con un incredibile colpo di scena, il ritorno di Merry tra lo stupore dei presenti; una donna bionda che vediamo solo di spalle mentre cammina fino alla bara di Seymour Levov, regalando così l’ultima inquadratura del film.
L’adattamento cinematografico di Pastorale americana ci introduce quasi subito nel racconto, riducendo al minimo, a puro pretesto, la cornice narrativa; dopo i primi cinque minuti la voce narrante sparisce lasciando spazio alla parabola discendente dei Levov, riprodotta in modo sempre progressivo dal punto di vista cronologico.
Ciò che la pellicola abolisce per ovvie ragioni di carattere tecnico é l’andirivieni dei fatti nell’esistenza mentale di Seymour, l’affollarsi di ricordi tormentosi che ricreano, in ordine sparso, i cinque anni compresi tra lo scoppio della bomba nello spaccio di Old Rimrock e l’ultimo incontro con Merry, tra il ’68 e il ’73; quest’arco temporale è compresso in un periodo dalla lunghezza imprecisata ma molto più breve nel film; gli eventi che portano al ritrovamento di Merry sembrano succedersi uno dopo l’altro.
Sul piano narrativo molti sono i rimaneggiamenti fatti per comprimere la miriade di informazioni che Roth distribuisce in oltre quattrocento pagine e in un arco temporale più esteso: alcune figure rilevanti vengono accorpate (lo psichiatra e il foniatra che avevano in cura Merry da piccola diventano un’unica persona nel film, colei che nasconderà Merry dopo l’attentato); spesso la combinazione tra dialoghi, personaggi e situazioni del romanzo cambia restituendoci gli stessi personaggi calati in situazioni diverse e
protagonisti di dialoghi altrettanto differenti.
Per quanto riguarda le scelte registiche, iniziamo da un bacio mancato: Ewan McGregor modifica il testo di Roth, credo senza troppe titubanze, nel punto in cui Merry undicenne, tornando dal mare col papà, gli chiede di baciarla come lui baciava la mamma ; incredulo e in preda a sentimenti contrastanti, alla fine Seymour concede a Merry quel bacio perché non sopporta di vederla umiliata e affranta dalla sua stessa richiesta; teme che il proprio rifiuto possa acuire la sofferenza testimoniata dalla balbuzie della figlia al momento
stesso della sua richiesta.
Quel bacio, che non dura più di cinque o dieci secondi, all’indomani dell’attentato tormenterà però a lungo Seymour, che imputa forse lo sviluppo anomalo di Merry, la violenza della sua protesta adolescenziale, a quell’episodio, alla richiesta di fronte alla quale aveva ceduto; certo, Seymour sonderà in profondità le possibili ragioni dell’odio di Merry e le troverà in altri
meandri sepolti dal tempo, ma quello del bacio rimarrà per lui uno stigma indelebile.
Nella scelta di opporre un secco rifiuto al desiderio espresso dalla figlia undicenne, il film agisce come una censura: non vuole compromettere l’integrità, l’alta statura morale di Seymour Levov, considerando l’eventualità di quel bacio come un imperdonabile cedimento a pulsioni che non gli appartengono. Rimanendo fedele a questa linea, sul finale invece riabilita, riammette Merry nel consesso civile facendola avanzare verso la bara del padre dopo la celebrazione dei funerali.
Un finale, anche questo, a suo modo rassicurante, un’opera che si chiude nel segno della riconciliazione; un ritorno non contemplato da Philip Roth, che non accennerà più a Merry dopo quel giorno d’estate del 1973 in cui Seymour la ritrova vestita di stracci e ridotta a un mucchio di ossa nella sua stessa Newark; anzi, vi accenna molte pagine prima per bocca di Jerry Levov, ma allora forse Merry è appena morta, a circa quarant’anni, e sicuramente non nel segno della riconciliazione con la sua famiglia.
Il risultato é un punto di vista complessivo, quello dell’eroe solitario, che fa cadere nell’indifferenza tutti gli altri: in fondo ciò che ha sempre dato la misura dell’essere Americani é proprioquest’indifferenza, la convinzione di poter convivere più o meno pacificamente con chiunque, non importa da dove arrivi e cos’abbia fatto per arrivare fin lì. Facendo esplodere la bomba, tuttavia Merry manda in frantumi il buonsenso americano.
Ora che la violenza l’ha messa a nudo, quest’indifferenza non può che assumere segno negativo, e lo fa attraverso lo sguardo illuminato di Seymour. Interessante per la tecnica narrativa, questo epilogo é la prova di quanto l’autore sia presente nel testo attraverso la voce del suo protagonista; è questo un finale ideologico e a suo modo autoreferenziale che si autoesclude da qualsiasi adattamento cinematografico, rendendo la magia delle parole di Philip Roth irriducibile al grande schermo.
Pastorale Americana è un romanzo di Philip Roth del 1997, uno scrittore statunitense, considerato uno dei più importante scrittori contemporanei. Era nato a Newark, nel New Jersey da una famiglia di origine ebraica. Interessante della sua produzione letteraria è che, i suoi romanzi tendono ad essere autobiografici e, in tal senso, Roth creò una sorta di suo alter ego: Nathan Zuckerman, uno scrittore, come lui, attraverso cui cerca di portare nei suoi libri i profondi problemi della sua comunità, l’America lontana dai riflettori, l’America provinciale fatta di famiglie immigrate.
Vincitore premio Pulitzer per la narrativa 1998, Pastorale e americana, come si sa, è un libro che demolisce ogni stereotipo sulla grandezza dell’America e getta una luce sinistra sui suoi valori fondanti. La guerra, la famiglia, il fanatismo, la crisi, sono raccontati da Philip Roth con profondo acume. Un libro che è stato definito da tutti “Il grande romanzo americano”.
Pastorale americana: trama e contenuti
Il cuore di Pastorale americana è ambientato negli anni ’60, con varie digressioni temporali, e narra la storia di Seymour Levov, detto lo Svedese, un idolo per la comunità della sua città, Newark, la stessa Newark che Philip Roth ben conosceva, abitata da americanizzati figli di immigrati che si sono “spaccati la schiena” cercando di emergere nella terra che doveva dar loro nuove possibilità, l’America, e che realizza quel sogno americano fatto di fatica, impegno ma anche soddisfazioni, almeno apparenti. Lo Svedese è un uomo dall’indole buona, perfettamente realizzato, o almeno cosi appare agli occhi di Nathan Zuckerman, che lo ricorda come il più popolare della sua scuola e un idolo per la comunità di ebrei, il loro orgoglio per i suoi successi sportivi.
Nathan ripercorre i ricordi che ha dello Svedese, ci racconta la sua storia, quella reale, di quando faceva sognare la comunità con i suoi successi sportivi, di quando entrò nei marines e anche di quando, con orgoglio, Levov l’aveva chiamato Skip. Nathan, che andava fiero di quel soprannome, ci racconta di un suo incontro con lo svedese dopo molti anni, un incontro casuale a cui ne seguirà un altro; Nathan viene chiamato dallo stesso Svedese perché, in apparenza, interessato a scrivere un racconto su suo padre chiedendo a Nathan, scrittore, un aiuto, ma al loro incontro lo Svedese non riprende questo argomento, piuttosto parla solo di sé e della sua meravigliosa famiglia e con orgoglio dei suoi tre figli maschi. Nathan rimane perplesso, non può credere che in tutti quegli anni quell’uomo, che lui aveva mitizzato, potesse essere così pateticamente ottuso da riuscire solo a vantarsi, tuttavia questo non intacca la figura del suo mito.
“La vita di Ivan Il’ic, scrive Tolstoj, era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse. Forse nella Russia del 1866 […] La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell’America.
Tutto, però, cambia una sera quando, ad una festa di ex studenti di scuola, incontra il fratello dello svedese, Jerry, un uomo duro, arrogante che parla del fratello, nel frattempo morto, con rabbia e rancore e da quel dialogo Nathan scopre che lo Svedese aveva anche una figlia maggiore, Merry, avuta dalla prima moglie Dawn, ex miss New Jersey, che aveva distrutto la vita di suo padre mettendo una bomba nell’ufficio postale e dove un uomo era rimasto ucciso: la vita pastorale dei Levov è definitivamente distrutta per una realtà di sofferenza e vergogna. Dall’incontro con Jerry, Nathan inizia a riscrivere la sua storia dello Svedese, storia fatta di qualche ricerca e molta emotività.
Immagina lo svedese come un padre modello dietro a sua figlia piccola, una bimba insicura e balbuziente, si tormenta al pensiero di un bacio strappatole quando era adolescente, ricorda di quando la ragazzina era rimasta terrorizzata ma poi affascinata dai monaci buddisti in Vietnam, che per protesta si davano fuoco senza ricevere l’aiuto dei loro confratelli. Immagina la vita dello svedese come finalizzata alla felicità della sua famiglia e a portare avanti la ditta di guanti di famiglia, una società fondata con grande sforzo e lavoro suo padre, un uomo duro, un ebreo con saldi principi a cui, invece, suo fratello Jerry si ribella continuamente.
La figlia imperfetta
La vita dello svedese inizia ad avere i primi problemi quando la figlia inizia a crescere e a frequentare persone di estrema sinistra, la parte violenta dell’America, quella fazione politica che negli anni ’60 compie attentati in nome della pace, che protesta contro la guerra in Vietnam, e disprezza la borghesia arrivista rappresentata proprio da famiglie come i Levov.
Lo svedese e sua moglie non riescono a mettere un freno a questa ragazza che sembra quasi odiarli, soprattutto sua mamma, la miss bellissima e perfetta a cui Merry non potrà mai somigliare: l’epilogo di questi contrasti è nella bomba e nell’uccisione di un uomo. Merry scappa e lo svedese non la vedrà per 5 anni, la cercherà, cadrà nelle mani di una donna misteriosa- su cui comunque
non riusciremo a sapere la verità- fin quando riuscirà a riabbracciare sua figlia, di nascosto da Dawn che, nel frattempo aveva passato turbe psicologiche e rifatta il volto, come se cancellare le sofferenze dal viso, fosse cancellarle dall’anima.
Merry l’imperfetta figlia in realtà è l’unica ad avere una visione chiara sin da subito “la vita è quel breve periodo nel quale siamo vivi” e prova a trasmettere il suo malessere in ogni modo fino ad arrivare a far esplodere delle bombe o perfino al gesto estremo dell’autolesionismo lento e inesorabile che la porterà inevitabilmente alla morte per inedia, ottenendo nel padre un effetto deflagrante ben più grande degli atti terroristici, attaccandolo su un terreno per lui incomprensibile, alzando il velo della pastorale dei suoi ideali così ordinati e falsamente perfetti e mostrando tutto l’orrore, il caos la rabbia della vita e il senso di profonda solitudine che si celano
sotto ad esso.
I rapporti umani tra la quotidianità e la grande storia
Pastorale americana è pervasa dalla difficoltà che caratterizza ormai i rapporti tra le persone, se si esclude una forma di relazione formale e menzognera in cui tutto è narrato come si vorrebbe che fosse, oppure è taciuto. Ma il romanzo è anche lo spaccato di un momento storico che toccò tutta la società americana, coinvolgendo ogni strato sociale e ogni gruppo etnico: gli anni che impegnarono lo Stato nella guerra in Vietnam.
Queste le componenti che incidono maggiormente sulla vita del protagonista, Seymour Levov, di origine ebraica, ma detto lo Svedese per il suo aspetto fisico. E “ordigno dirompente” nella sua vita sarà la figlia Merry che, proprio negli anni del Vietnam, diventerà militante e terrorista, sbalzando fuori lo Svedese dalla “tanto desiderata pastorale americana” e catapultandolo “nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”. Tutta la storia è narrata dal tradizionale alter ego dell’autore, Nathan Zuckerman, attraverso una analisi complessa dei fatti e dei comportamenti che devia il romanzo verso una sorta di psicoanalisi della società americana contemporanea.
Pastorale americana. Una narrazione inattendibile?
Zuckerman, nel libro, è il narratore extra omodiegetico, oltre che la maschera di Roth, tuttavia, dopo l’incontro con Jerry Levov, diviene un narratore extra eterodiegetico; la focalizzazione è interna, anche se l’autore si avvale dello spostamento di focalizzazione tra Zuckerman e Jerry durante il loro incontro al raduno di ex allievi. Un narratore inattendibile Zuckerman perché narra la storia dello Svedese contornata da quell’alone di mitizzazione con cui l’aveva sempre visto, alla luce di ciò non può essere obiettivo verso Levov; inoltre, il lettore si trova a dover ricostruire la storia da due descrizioni differenti della vita dello Svedese, appunto quella mitizzata
di Zuckerman e quella cruda e quasi rancorosa di Jerry Levov.
Il lettore può ricostruire la sua propria storia portando avanti alcuni punti non chiariti, questo perché il romanzo segue una delle
caratteristiche della letteratura contemporanea: la multilinearità, una storia con molti plot può avere molti narratori, e, quindi, lettori che possono seguire diverse storie riscrivendole. Ad esempio non sappiamo perché Seymour aveva voluto incontrare Zuckerman: voleva scrivere un libro su suo padre? Avrebbe voluto scriverne uno in omaggio a sua figlia? O magari una propria
autobiografia? Siamo certi che quello che raccontano sia Roth che Zuckerman sia la verità? O l’America è ancora più complessa come le relazioni umane?
In Ho sposato un comunista, romanzo di Roth, si legge: «Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature?» Sfumature alle quali Roth non ha rinunciato, ma siamo certi che lo scrittore sia riuscito davvero a mediare tra realtà e verità?
La Palma d’oro 2024 va al Sean Baker di Anora, narratore indie dell’America diseredata con una speciale attenzione per gli hustlers, gli spiantati che campano di espedienti, e per i lavoratori del sesso in particolare. Li considera, uomini e donne, il nuovo proletariato. Il suo film-troppo lungo- sembra all’inizio una replica di Pretty Woman, con una Cenerentola lap dancer che lo svitato rampollo di un oligarca sposa per gioco. Ma poi diventa una scorribanda mozzafiato con bodyguards e genitori nababbi impegnati a ricacciare Cenerentola nel fango da cui è venuta. Solo i perdenti possono darsi, tra loro, comprensione e conforto, e questo avverrà. E’ il più bel film del concorso? Naturalmente no.
Emilia Pèrez, il mélo in musical di Jacques Audiard che ha avuto comunque due premi, il Prix di Jury e la Palma collettiva per l’interpretazione femminile al quartetto protagonista: l’attrice transgender Karla Sofìa Gascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez, avrebbe meritato il premio più ambito.
E’ troppo facile premiare le donne perché fa tanto “femminista impegnato”. Il Gran Premio della giuria, secondo in ordine di importanza, è andato a All we imagine as light della documentarista indiana Payal Kapadia, debuttante nella finzione, con le storie intrecciate di tre donne emarginate da una Mumbai caotica e ostile. Altra regista donna, Coralie Fargeat, premiata per la sceneggiatura di The Substance, un body-horror per palati robusti che denuncia l’asservimento delle donne all’imperativo maschile che le vuole belle, giovani e sode e le cestina sopra i 50. Con una impavida Demi Moore.
E’ discutibile anche il premio per la regia a Grand Tour del portoghese Miguel Gòmez: è il film meno originale della sua carriera, mentre il Jesse Plemons miglior attore per Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos risarcisce un film di sottile humour noir massacrato dalla critica. Restano fuori in tanti, a torto o a ragione: il più vicino a noi è Paolo Sorrentino, che racconta una storia di donna ma con sguardo maschile, il più glorioso è Francis Ford Coppola, col suo pirotecnico sogno di una vita, Megalopolis.
Insomma la giuria presieduta da Greta Gerwig ha assegnato il premio per la miglior attrice a ben quattro interpreti a pari merito: Adriana Paz, Zoe Saldana, Karla Sofia Gascon e Selena Gomez, Karla Sofìa Gascòn, che ha iniziato la sua transizione di genere all’età di 46 anni, è la prima attrice transgender a vincere questo premio. Tutto nella norma.
Il film vincitore racconta tuttavia racconta di una ragazza che sogna di diventare una principessa, una prostituta di Brooklyn, che ha la possibilità di vivere una storia da Cenerentola quando incontra e sposa il figlio di un oligarca russo. Pellicola curiosa e divertente che consente di fare qualche annotazione in relazione:
Una ragazza di oggi sogna la favola, l’agiatezza, la bella vita, e nel frattempo pratica la propria libertà ed emancipazione facendo la sex worker (come direbbero quelli che parlando bene e che non discriminano!);
per fare ciò la ragazza ha bisogno degli uomini;
sempre la ragazza viene dipinta come l’eroina della vicenda, in quanto donna libera che si “autodetermina” e che smaschera le ipocrisie dell’alta società di cui vorrebbe far parte;
I genitori del ragazzo russo non vogliono avere a che fare con una nuora americana ex spogliarellista e prostituta;
il regista americano prende in giro l’oligarca russo e rappresenta la protagonista, un russa americana, come una sex worker in nero (che originalità).
Una rivisitazione senza troppe ambizioni dunque, di Pretty Woman, Anora, film che secondo alcuni rappresenterebbe il nuovo cinema statunitense, lontano da quello dei grandi maestri, un cinema di piccole storie e nella fattispecie una storia con un protagonista maschile ricchissimo ed idiota e una ragazza sveglia, che “deve” muovere il sedere in faccia alla gente per dimostrare di avere potere sugli uomini.
Anora sembra raccontare solo di una generazione che dà per scontato di doversi vendere. Il regista stira allo stremo ogni idea e questo forse indebolisce Anora anziché rafforzarlo, a maggior ragione considerando il fatto che l’intera trama è completamente prevedibile e non presenta nessuno scostamento da quanto uno spettatore minimamente avveduto possa dedurre dal primo quarto d’ora, per quanto riguarda la prima metà, e poi dall’ingresso in scena degli sgherri e soprattutto dell’attento e gentile Igor per quanto riguarda lo sviluppo che porterà alla risoluzione.
La pellicola intrattiene e porta al pubblico anche qualche spunto di riflessione (senza però spremere troppo le meningi, sia chiaro), ma non è così inventivo o creativo da motivare la propria durata. Basti pensare al dialogo pre-fnale tra Igor e Anora, in cui si ribadiscono otto volte due concetti: sebbene l’attrice protagonista abbia lavorato con Tarantino e in ogni frase dica – volutamente – “fuck” o “fucking” in ogni possibile declinazione, Sean Baker non ha la genialità del collega e il suo film non ha forse la brillantezza per reggere ogni singolo minuto di pellicola (è girato in 35mm).
Anora resta una rom-com spassosa che mantiene comunque quel che promette. Non che prometta più di tanto.
Inaugurata lo scorso 18 maggio 2024 al Magazzino 26 di Trieste una delle più estese ed articolate mostre dedicate alla Pietra di Aurisina, del Carso e dell’Istria: “Da Lubiana a Trieste, la pietra di Aurisina del Carso e dell’Istria in Italia e nel mondo”.
Un viaggio materico nella cultura della pietra che permetterà al visitatore di approfondirne la storia, l’uso nell’architettura e nell’arte, al quale si affiancano visite guidate, escursioni, approfondimenti culturali, laboratori, performance.
La mostra è organizzata da Gruppo Ermada Flavio Vidonis in coorganizzazione con il Comune di Trieste e con il sostegno della Regione FVG.
La mostra
L’esposizione, suddivisa in più sezioni nei due padiglioni su vari percorsi (sala Nathan e sala Sbisà) del Magazzino 26 in Porto Vecchio parte dalla storia imprenditoriale e dalla vita di Gustav Tönnies, nato nel 1814 (nel 2024 anniversario della nascita), figlio di un carpentiere navale svedese nella città di Stralsund in Pomerania (Germania). Fu falegname, fabbricante, costruttore, industriale e commerciante, probabilmente il più importante commerciante della Carniola della seconda metà dell’Ottocento. Ha lasciato un importante segno della storia europea. Prima di approdare alla monarchia austriaca, Gustav Tönnies lavorò nella sua nativa Svezia, in Norvegia, in Francia, in Svizzera e in Russia.
Lo scopo della mostra è quello di presentare la pietra carsica e istriana, che ha svolto un ruolo importante nello sviluppo economico e sociale della regione. Nei percorsi espositivi se ne può apprezzare l’uso in architettura, nelle costruzioni, nell’arte, nell’artigianato attraverso fotografie, progetti, plastici, manufatti, installazioni e modellini. Un viaggio che la pietra ha intrapreso nel tempo, approdando in tutto il mondo.
Un ruolo chiave in questo sviluppo ha avuto la costruzione della Ferrovia Sud Vienna – Trieste. Con i collegamenti ferroviari e marittimi, Trieste divenne il principale porto del Mediterraneo orientale, che aprì la strada dall’Europa settentrionale e centrale all’Estremo Oriente e all’America in Occidente con collegamenti via Gibilterra e il nuovo Canale di Suez.
Trieste visse l’epoca d’oro del suo sviluppo economico. Dopo il 1383, quando passò sotto l’autorità della monarchia asburgica; nel 1719, quando acquisì lo status di porto franco doganale, nel 1849, quando gli fu concesso uno speciale collegamento diretto con Vienna, conobbe uno sviluppo straordinario fino agli inizi della Prima Guerra Mondiale. Il numero degli abitanti passò da 60.000 a 240.000 e divenne un centro commerciale e finanziario internazionale.
Lubiana esiste già dai tempi delle province illiriche all’inizio del XIX secolo. Il Congresso di Lubiana del 1822, con una linea ferroviaria e un collegamento con Vienna e Trieste, acquistò sempre più importanza, e il terremoto del 1895 non fece altro che accelerare il suo ruolo di centro regionale della Carniola.
Il Carso con la sua pietra, estratta in numerose cave superficiali locali, con la nuova ferrovia ha avuto la possibilità di vendere la pietra in tutto il mondo. Aurisina e Monrupino ne hanno approfittato e con la modernizzazione della produzione queste cave sono diventate le più grandi cave della monarchia austro-ungarica. La pietra carsica divenne un “prodotto di moda” di quell’epoca. Anche molti edifici pubblici, parlamenti, teatri d’opera, stazioni ferroviarie, uffici postali, banche, assicurazioni, istituzioni culturali, scuole, ospedali, caserme, chiese ed edifici residenziali contenevano elementi di pietra carsica.
Giovedì 30 maggio – Magazzino 26 Trieste – Sala Nathan ore 10.30 (conferenza) la “Memoria della città di Carrara: dal bagascio ai giorni nostri“ a cura di Walter Danesi Jr. – Museo Fantiscritti Carrara in un incontro moderato dalla dott.ssa Francesca Bianchi
Venerdì 31 maggio – Magazzino 26 Trieste – dalle ore 17.30 alle ore 18.30 (conferenza) “Parco della Rimembranza, memoria inclusiva” a cura del Presidente dell’Associazione Parleranno le Pietre interverranno il Generale Lucio Rossi Baresca e Mauro Depetroni del Gruppo Ermada Flavio Vidonis
Sabato 1 giugno – Magazzino 26 Trieste – ore 11.00 fino alle 12.00 Sala Nathan (conferenza in italiano e sloveno) “Pietra carsica, visione storica dello sviluppo della lavorazione della pietra e delle sue prospettive – Il ruolo della famiglia di Gustav Tönnies Kraški kamen, zgodovinski pogled na razvoj kamnarstva in njegove perspektive – Vloga družine Gustava Tönniesa” prof. dr. Janez Koželj, “Pietra ed Architettura di Max Fabiani Kamen in arhitektura Maksa Fabiania” geologa Jasmina Rijavec “l’Azienda Marmor Sežana” mag. Matevž Novak, “Pietra Carsica Kraški kamen” Stojan Jakopič, Il secolo della famiglia Tonnies Stoletje družine Tonnies” Sig.ra Majda Božeglav Japelj, Galleria Costiera di Pirano Obalne galerije Piran “La pietra nell’arte forma viva””Kamen v umetnosti Forma Viva” Irena Klančišar Scuola professionale superiore, materiali di progettazione del programma – “la pietra andrà bene” Višja strokovna šola, program oblikovanje materialov – kamen bo ga.
Sabato 1 giugno – Magazzino 26 Trieste – ore 15.00 visita guidata alla Mostra a cura di Massimo Romita
Sabato 1 giugno – Magazzino 26 Trieste – ore 17.30 presentazione del Catalogo e dello Spazio Mostra “Arcani di Pietra” dell’artista Claudia Raza intervengono i critici Giancarlo Bonomo e Raffaella Rita Ferrari.
Mercoledì 29 e giovedì 30 maggio – Visita Guidata di Aquileia la visita di Aquileia sarà un’esperienza a 360° lungo un itinerario archeologico e storico, durante il quale, con l’ausilio di una guida autorizzata FVG verrà dato spazio anche ai materiali che hanno reso celebre il sito di Aquileia, tra i quali non può mancare la nostra Pietra di Aurisina. Oltre al Complesso Basilicale con le sue cripte e le sale principali, avremo modo di esplorare le rovine della città romana, il decumano di “Aratria Galla”, sito nei pressi del Foro che rappresentava, in tutta la sua monumentalità, il cuore della città e le banchine portuali. Il decumano di Aratria Galla, attualmente visibile da Via Giulia Augusta, la strada di ingresso ad Aquileia che taglia il Foro e ricalca l’andamento del cardo massimo della città romana, è stato rimesso in luce negli anni ’70 per un tratto di circa cento metri. Non dimentichiamo, infine, di visitare il Cimitero degli Eroi. Le visite guidate in collaborazione con il Comune di Trieste e il Comune di Aquileia sono curate dall’Associazione PerCarso e NET Srls
Tommaso Landolfiscrive e pubblica negli stessi anni di Giuseppe Dessì. Anche lui è un autore poco conosciuto dal grande pubblico, complice il carattere schivo. Nasce a Pico, in provincia di Frosinone, e perde la madre in tenera età. Si laurea in letteratura russa a Firenze, discutendo una tesi sulla poetessa Anna Achmatova, ed ha modo di entrare in contatto con un ambiente letterario molto ricco, e ciò influisce molto sul suo modo di scrivere: egli inizia la sua attività letterario durante il ventennio fascista, periodo molto “chiuso” a causa dello stretto contatto con le letterature straniere.
Nel capoluogo toscano Landolfi collabora a diverse riviste letterarie, come Campo di Marte e Letterature. Il demone del gioco è al centro della sua produzione letteraria, così come della sua vita, e anche la vanità umana. Salvo brevi soggiorni all’estero, si sposta prevalentemente tra Roma e Firenze.
Ha un’esistenza appartata, lontana dai salotti intellettuali e mondani, ma nonostante ciò viene a contatto con molti intellettuali, tra cui lo stesso Calvino, che ne curerà un’antologia nel 1982. Anche Carlo Bo ci fornisce molte informazioni su Landolfi, definendolo un personaggio avvolto nel mistero, privo di una posizione politica. Nel 1963 vince un premio letterario, il premio Montefeltro. Nel 1975, lo scrittore ottiene il massimo riconoscimento della sua carriera artistica: con A caso vince infatti il Premio Strega.
Landolfi si ammala, complice anche il clima umido di Pico, e cerca sollievo nelle località liguri di San Remo e Rapallo. Si spegnerà a Ronciglione (Viterbo) l’8 luglio 1979. Il patrimonio letterario lasciato in eredità diviene oggetto di continuo studio e di riedizioni, a opera di Idolina Landolfi. La figlia di Tommaso, si occupa per tutta la vita della cura e della promozione dei testi paterni, fondando nel 1996 il Centro Studi Landolfiano.
Dello scrittore «molto bello e molto pallido» (Natalia Ginzburg) ormai non si può non parlare negli educati circoli dei letterati italiani, e questo rende Tommaso più antipatico di quanto non lo fosse (davvero) quand’era ignoto, ignorato e desideroso di esserlo. Per questioni di diritti Landolfi non fece parte del mucchio selvaggio: lo sostituii con il più algido Federigo Tozzi. Successivamente, i diritti sono venuti al pettine: l’editore Adelphi ha pubblicato Viola di morte (2011), la prima raccolta poetica di Tommaso, edita nel 1972, a cui seguì, nel 1977, in quanto «grave e terribile seguito» (parole sue), Il tradimento(ora Adelphi, 2014), libro ben più bello (che tra l’altro, per quel che conta, ottenne un premio Viareggio).
Italo Calvino paragona l’attività letteraria landonfiana a quella degli scrittori francesi di fine ottocento, mentre Carlo Bo ha più volte dichiarato che Landolfi, subito dopo d’Annunzio, è il primo scrittore in grado di giocare con la lingua italiana. Molti altri critici, hanno associato il macabro presente il Landolfi, a quello dell’autore Edgar Allan Poe.
Lo scrittore toscano ha saputo giocare con la lingua, plasmando le regole della grammatica a suo piacimento, e nei suoi scritti la tradizione, celebrata con periodi sinuosi e formalmente impeccabili, si alterna alle più originali sperimentazioni che, per la loro natura sorprendente e provocatoria, sembrano quasi voler sfidare le risorse della lingua. Le parole per Landolfi sono vive: saltellano gioiose da un periodo all’altro, sempre alla ricerca di nuove avventure.
I temi delle sue opere spaziano dal fantastico al grottesco, dall’insolito al raccapricciante, dall’illogico all’assurdo. Il suo profondo scetticismo verso il reale si esprime nell’arte con il ricorso al gioco e allo scherzo, che mettono in campo un’ironia dissacratoria e inarrestabile. Della quotidianità, i suoi testi valorizzano gli aspetti stravaganti e onirici.
I critici hanno finito per definirlo un surrealista, per via della sua indifferenza verso il clima politico degli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sebbene la definizione sia indubbiamente semplicistica, alimentata in gran parte dal netto contrasto fra il suo atteggiamento disinteressato e il tenace attivismo di diversi suoi colleghi, qualcosa di vero c’è: come molti altri artisti, infatti, si sentiva estraneo al suo tempo, giudicato come oscuro e, a tratti, perfino incomprensibile.