‘Quando gli squali mangiano vento’, di Enrico Meloni

Quando gli squali mangiano vento è un romanzo di formazione di Enrico Meloni (Tre Padri, Arca allo sbando?) pubblicato da Edizioni Progetto Cultura nel 2012. Il testo è accompagnato dalla prefazione della professoressa di pedagogia dell’università di Pisa Maria Antonella Galanti, e dalla postfazione di Carlo Santulli, ricercatore e docente all’università di Roma e di Napoli.

Quando gli squali mangiano vento / S’accende al sole un lampo di follia

La storia di Alessio e Roberto, due adolescenti romani cresciuti negli anni Ottanta, viene raccontata dal loro professore di filosofia del liceo, Felice Rapisardi, ormai novantenne, il quale decide di rimettere mano a dei suoi vecchi appunti e al diario di Alessio per tornare con la memoria a quanto avvenuto ai due ragazzi fra il 1980 e il 1981. La loro amicizia limpida, infatti, viene a corrompersi fino a sfociare in una totale inimicizia quando la notizia di una serie di avventure omoerotiche fra i due sfocia in pettegolezzi e disprezzo all’interno della scuola. Siamo a cinque anni dall’assassinio, per motivi simili, di Pier Paolo Pasolini.

Fra la confusione sessuale (entrambi gli adolescenti frequentano altre ragazze, anzi Roberto è rinomato nel suo ambiente per essere un gran conquistatore) e gli sconvolgimenti e le manifestazioni politici dei primi anni Ottanta, si consuma questa piccola tragedia destinata a sfociare nel nulla. Parliamo di “piccola tragedia destinata a sfociare nel nulla” perché la carica di tensione accumulata da Alessio, principale vittima delle voci di corridoio e, a quanto pare, unico a soffrire per la situazione, non arriva a sfociare in qualche gesto eclatante. Come negli Indifferenti di Moravia il protagonista della storia rinuncia più volte all’azione che avrebbe forse potuto sistemare (o mandare al tracollo) gli eventi.

Dopo la maturità il professore perde di vista i due ragazzi, per cui poco o nulla sappiamo delle loro vite post liceo; alla fine del romanzo leggiamo una mail inviata da Alessio ad Aurora (vecchia fiamma del ragazzo e anch’essa alunna del professore), e da questa verosimilmente rigirata al narratore, in cui l’ormai cresciuto protagonista riporta tre possibili sviluppi della sua “storia” con Roberto. Il finale è dunque aperto ma di fatto la storia in sé risulta conclusa in modo più che soddisfacente, in quanto il core della trama è un altro: affrontare la (purtroppo ancora spinosa) tematica dell’omosessualità, e il modo in cui si  è evoluta fra gli anni Ottanta – durante quello che viene più volte definito “riflusso” socio-politico dopo i movimenti del Sessantotto e del Settantasette, ossia un ritorno quasi restauratore a una sorta di normalità borghese – e i nostri anni Dieci, che niente hanno di rivoluzionario al riguardo, se togliamo la neo (e tanto giustamente attesa) legge sulle unioni civili.

Un romanzo “quasi saggio”

Quando gli squali mangiano vento è un romanzo dalla struttura peculiare, quasi eclettica. A una narrazione in retrospettiva si accompagnano brandelli del diario di Ale, flashback, dialoghi pseudo teatrali. Il mix di forme viene giustificato dal fatto che il professore sta cercando di raccontare una storia avvenuta diversi anni prima ricostruendone come può le varie fasi; le lacune sono inevitabili, così come le diverse prospettive e le diverse fonti da cui il narratore attinge. A questa giustificazione Rapisardi aggiunge una dichiarazione d’intenti a inizio testo dal sapore un po’ manzoniano:

Scrivere la storia di Ale e Rob. Non possiedo tutti i dati per ricostruire l’intera vicenda in modo attendibile, e mi trovo nell’impossibilità di fare indagini o ricerche […]. Comincerò col loro primo incontro, che precedé l’inizio della scuola. Alessio Leonetti e Roberto Mangredi. Alunni di quinta effe, anno scolastico 1980/81. Ne sono al corrente soltanto grazie a una testimonianza orale e a qualche pagina del diario di Alessio.

Non ci perde mai nella lettura, pur scivolando fra una forma testuale e l’altra, complice anche una (fin troppo forte) struttura didascalica che mette il punto su determinati eventi spiegandoli al lettore, e a tratti spezzando il tacito gentlemen agreement che con questo l’autore deve intrattenere: il far sapere, cioè, di star leggendo una storia.

Questo ci porta a due elementi di debolezza di Quando gli squali mangiano vento: il primo è che a tratti sembra di avere a che fare con un saggio divulgativo di psicologia/sociologia, soprattutto verso la fine, quando Rapisardi e Aurora discutono sul tema dell’omosessualità e del pregiudizio nella società. Il secondo riguarda il modo in cui questi argomenti vengono trattati: laddove spesso si interrompe la narrazione per entrare nella mente del professore, il quale tenta di sviscerare a suo modo la faccenda nella sua complessità, ciò avviene in modo parziale. L’argomento “omosessualità e pregiudizio”, come il finale del romanzo, resta aperto, non viene sviscerato, non ne vengono esplorati i perché, le conseguenze, le ricadute sulla società. Per dirlo con un’immagine, si ha l’impressione di sorvolare una città con un aereo anziché attraversarla camminando: la si vede nella sua interezza, ma se ne perdono i dettagli.

Per comprendere meglio questo passaggio, si riporta una parte del discorso di Aurora a fine testo:

Io li chiamo nazigay: chi non si conforma ai loro canoni, alle loro convenzione ecc., viene ghettizzato e demonizzato peggio di un giudeo all’epoca del papa-re. E chi pensava di trovare nell’omosex una via alternativa per essere libero farà meglio a stare lontano da certe bande di conformisti che, se trascuriamo qualche dettaglio, hanno la mentalità di una casalinga anni ’50.

Il refuso nella parola “convenzione” (non concordanza di numero) è di utile esempio per un’ulteriore problematica: editing e correzione di bozze poco accurati hanno portato a un libro con alcune debolezze strutturali, perché molti sono i refusi (spazi ripetuti, mancanza di uniformità nella punteggiatura ecc.) e le carenze. Ad esempio, molti riferimenti letterari e musicali (compresi il più volte citato Rino Gaetano e la sua Mio fratello è figlio unico) e personaggi non risultano incorporati nel testo, rimanendo con una funzione di contorno o sfondo.

Il che è un peccato perché Quando gli squali mangiano vento è un testo che, di suo, avrebbe avuto moltissime altre potenzialità.

‘I partigiani non c’erano’, di Germano Rubbi

I partigiani non c’erano (Dalia edizioni, 2015) è un romanzo storico di Germano Rubbi, attore, regista e autore teatrale di origine ternana. Il romanzo, che prende le mosse da un fatto realmente accaduto, e che si avvale di testimonianze dei presenti e di documenti ufficiali, si concentra sul massacro di sedici persone avvenuto il 13 aprile 1944 nella cittadina di Calvi dell’Umbria per mano di un gruppo di SS.

Ma i partigiani non c’erano veramente

Nei primi due capitoli (di sette, escluso l’epilogo), “L’attesa” e “Gli amici”, Rubbi presenta i protagonisti della storia, asserragliati in quel piccolo territorio montuoso compreso fra Calvi dell’Umbria, Santa Maria in Neve e il monte San Pancrazio. Ufficialmente le fazioni sono tre: i fascisti, i nazisti delle SS, i partigiani. Fra i primi troviamo: il podestà di Calvi, Sandro Simoneschi, iscritto al partito fascista ma idealmente lontano dal regime; l’integerrimo colonnello Giulio Fantini e il “fascistissimo” (e violento) figlio Valerio, che ricopre il ruolo di sergente; Bruno Pitari, capo delle camicie nere di Calvi.

Fra le SS troviamo invece: il maggiore Wilcke, comandante del 1° battaglione del 20° reggimento SS Polizei, intenzionato a far bella figura (oltre che carriera), e che arriverà proprio a dirigere il massacro del 13 aprile; il “non-nazista” caporale Hans Snüwart, amico del ragazzino calvese Renato.

Abbiamo infine i partigiani, capeggiati dal comandante Martini e dal suo secondo, Veleno; ma qui protagonista indiscusso è Renzo Zara, noto a tutti come Zazzo, uno scout che conosce le montagne intorno a Calvi come se fosse casa sua. Il suo carisma eclissa completamente le altre figure che ruotano intorno al suo fianco.

Ecco: presentato il piccolissimo teatro d’azione (Calvi e le sue montagne), il periodo storico (l’ultimo periodo della seconda guerra mondiale) e i protagonisti (fascisti, SS, partigiani, civili), non si può non immaginare il percorso verso l’eccidio del 13 aprile 1944.

Dopo aver disposto abilmente i pezzi sulla scacchiera, il romanzo si sovraccarica di tensione attraverso rancori e inimicizie, come quella fra il fascistissimo trio Pitari-Fantini senior-Fantini junior e il ben più popolare podestà Simoneschi. Non da meno è poi la questione di fedeltà e appartenenza a ideali diversi: parliamo qui ovviamente del “gioco a tre” fra partigiani, fascisti ed SS, con gli ultimi due virtualmente dalla stessa parte contro i primi; diciamo virtualmente perché è risaputo come gli ufficiali delle SS considerassero quelli fascisti, al punto che, durante un incontro fra il colonnello Fantini e il capitano Weber, «Fantini aveva accolto l’ufficiale con il garbo che la sua posizione gli imponeva, ma in realtà provava non poco fastidio nel dover riconoscere che un semplice capitano tedesco si poteva permettere di trattare un colonnello fascista come un suo sottoposto».

La bomba caricata con maestria nei primi capitoli esplode infine nei capitoli V e VI: dopo il parziale fiasco di mercoledì 12 aprile, tutta la tensione accumulata sfocia nella piazza di Calvi, nel massacro di sedici innocenti per mano di un gruppo di “sbandati” delle SS. Perché, come si dice nell’epilogo, «i partigiani a Calvi non c’erano».

Relativismo morale

Abbiamo detto che le fazioni sono tre (quattro, se contiamo i civili che, però, ricoprono ben poca parte all’interno del grande teatro), ma “buoni” e “cattivi” sono presenti in tutte le fazioni, per cui si arriva a empatizzare facilmente anche con alcuni personaggi delle SS e del fascio. Abbiamo infatti a che fare, oltre che con dei fanatici come Valerio Fantini e il maggiore Wilcke, con individui che si sono trovati coinvolti nel corso degli eventi: chi per necessità, come il podestà Simoneschi; chi per obblighi morali, come il caporale Hans. Il talento di Germano Rubbi è nel saper presentare non ruoli piatti (il fascista cattivo, il partigiano buono), bensì personaggi a tutto tondo.

Impossibile, ovviamente, giustificare un massacro (e lungi da noi è il volerci anche provare), tuttavia a volte è necessario compiere uno sforzo per entrare nella mente di chi, mentre compiva un’azione orribile e disumana, era convinto di essere nel giusto. Non si può non provare compassione per Hans quando, alla fine, dà l’ultimo saluto al suo amico Renato. Nello scambio di cioccolato che lì avviene si ritrova un gesto di “quasi perdono” che il ragazzino rivolge al soldato; un perdono che non può avvenire completamente perché, almeno nominalmente, Hans è un soldato tedesco che ha visto il massacro di Calvi dell’aprile del ’44.

In chiusura, infine, è bene parlare del dopo. Di ciò che avviene dopo un grande evento come la seconda guerra mondiale. Simoneschi è a passeggio con la moglie, ormai semplice impiegato comunale; qui rivede il suo nemico Giulio Fantini «avanza[…] da solo, con lo sguardo a terra», terribilmente invecchiato, quasi spaurito. Fra i due avviene questo indimenticabile dialogo:

“Io… posso chiedere il vostro nome?”
I due rimasero in silenzio, fissandosi negli occhi. La confusione, la gente, i negozi, le luci, tutto svanì.
“Ed io posso chiedervi perché volete saperlo?”
“Perché, non vorrei sbagliarmi, ma voi somigliate molto a una persona che ho conosciuto diversi anni fa.”
“Impossibile. Io, diversi anni fa, non esistevo, come, probabilmente, non esistevate nemmeno voi. Non esisteva nessuno. Comunque mi chiamo Leonelli Alvaro e non credo di avervi mai visto prima d’ora.”

Un consiglio di lettura per tutti quelli che vogliono approfondire il concetto di “quasi perdono” in relazione ai gerarchi nazisti: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme di Hannah Arendt.

‘Briciole dai piccioni’ di Alessandro Turati: una formazione disastrata

Briciole dai piccioni (Neo edizioni, 2016) è l’ultimo romanzo di Alessandro Turati (Le 13 cose). Si tratta di un romanzo di formazione molto peculiare, sia per l’insolita brevità (laddove il romanzo di formazione tende a essere piuttosto lungo, qui ci troviamo davanti ad appena 184 pagine) sia per le “tappe” affrontate dal protagonista: dopo infanzia e adolescenza, infatti, nel testo si trovano “alcolismo” e “disoccupazione”.

Come si arriva a raccattare briciole dai piccioni

Alessio Valentino nasce in una famiglia in cui nessuno si cura di lui: padre e madre sono troppo presi dai propri interessi per crescere un figlio. E infatti il piccolo Alessio cresce allo sbando, e già dalle prime pagine si capisce che lo aspetta un futuro poco allettante. Gli anni – quasi letteralmente – volano, e ci troviamo quasi a inseguire il protagonista fra elementari, medie, superiori, tentativi di università e vita lavorativa, mentre il mondo intorno cambia, si fanno gli anni Novanta e poi i Duemila; e intanto Alessio cresce spaesato, senza punti di riferimento se non una famiglia sempre più a pezzi (a cui si aggiunge una sorella), una biblioteca di paese dove rifugiarsi e tanti lavori più o meno degradanti («Questa è la tua postazione. Da questa parte ci sono gli ombrelli e da quest’altra parte ci sono le scatole e il nastro adesivo. Gli ombrelli te li porta coso, quello lì coi capelli lunghi, col carrello. Il resto lo trovi nel magazzino giù in fondo, con la porta scorrevole. Tu devi prendere gli ombrelli, infilarli nelle scatole e sigillare col nastro adesivo. È tutto chiaro?»).

Il nostro Alessio si trasferisce a Londra (una scelta, come quasi tutte, decisamente non ponderata: «Qui non si scopa più, penso, devo fare qualcosa. Lascio l’università e vado a Londra»), poi torna e si trasferisce altrove, cambiando vita, conoscendo persone ma mai stabilendo rapporti duraturi, mai trovando, citando a sproposito un grande della musica italiana, “un centro di gravità permanente”.

Giunge inaspettata l’età adulta, caratterizzata come s’è detto da alcolismo e disoccupazione; e giunge inaspettato anche l’epilogo, che è forse il momento di riflessione più emozionante del testo, in cui il protagonista (immedesimato qui con l’autore), durante una vacanza a Kos in cui il massimo dell’aspirazione è andare «al porto a lanciare sassi», ci illumina con verità universali apprezzabili per la nostra epoca. Memorabili, a nostro avviso, sono due:

  • «Gli esseri umani poveri, cioè il 97 per cento della popolazione, sono portatori di malinconia. Siamo malinconici perché i nostri desideri sono lontanissimi. E infatti, guardarci bene, le nostre vite portano tracce.»
  • «Che cos’è una vacanza, se non far finta di essere ricchi per una decina di giorni?»

Qui nell’epilogo troviamo anche un divertente gioco metanarrativo. Alessio Valentino/ Alessandro Turati ci dice che «questo testo che ho scritto è oggettivamente bruttino, ma è per questo che ho il coraggio di pubblicarlo. Diversamente, ne sarei troppo geloso e lo  chiuderei in una teca insieme al veliero di mio padre e al whisky di Brother John». Ma prima di questo, parlando con un rubinetto, si era verificata la seguente scena:

Mentre preparo la valigia, il lavandino del bagno inizia a perdere una goccia ogni qualche secondo. È insopportabile. Dopo due ore mi arrendo e gli confesso tutto: «Q.T.È.U.S.»
«Tienitelo per te!» mi consiglia il rubinetto.
«Ok».

Possibile che dietro quell’acronimo si nasconda un giudizio sul suo stesso testo? Tipo “Questo Teso È Uno Schifo/Una Stronzata”?

Il dubbio dell’anonimato

Briciole dai piccioni è scritto con uno stile sciolto, leggero (tipo dei testi targati Neo), e punta sull’ironia pungente e su situazioni paradossali per raccontare i disagi della contemporaneità, legati soprattutto a vite senza senso, situazioni sentimentali allo sbaraglio e rapporti lavorativi degni del capitalismo di inizio Novecento. Una scena fra tutte: il padre di Alessio lo ha cacciato di casa perché «non sopport[a] più la [sua] faccia in giro per casa»; il ragazzo, dopo qualche notte in motel, si trova un appartamento in affitto.

L’agente immobiliare sorride sornione, come se stesse ruotando il dito nel culo di un coniglio stanato sotto un cespuglio. Firmo il contratto, verso la caparra e la prima mensilità e non ho più un centesimo. L’appartamento da una parte dà sul lago e dall’altra dà sul cimitero. Ho il privilegio di vedere i morti dal balcone, in accappatoio con un drink. Questa è fortuna, penso.

Mentre si ride della cinica e laconica ironia con cui è costruita la scena, resta un amaro di fondo nel pensare che un ragazzo di ventitré anni non ha altre ambizioni nella vita se non quella di “godersi” il privilegio di vedere i morti dal balcone.

Questa ironia spinta, questa crudeltà e questo cinismo sono l’elemento di forza di Briciole dai piccioni, ma a volte stonano anche, soprattutto nella prima parte. Ciò che lascia perplessi all’inizio, infatti, è il linguaggio volutamente “cattivo a tutti i costi” soprattutto quando accostato a un bambino. Si consideri questo passo, in cui il piccolo Alessio, al quale «non succede quasi niente fino a un giorno che h[a] cinque anni», sta giocando con una coetanea:

«Dov’è la tua macchina nuova?» mi chiede.
«Ero sicuro di averla lasciata qui».
«Qui non c’è niente!»
«Merda, me l’hanno rubata!»
«Andiamo, non puoi permetterti una macchina nuova, sei povero e sei piccolo!»
«Stronzate, giuro che era qui».
«Sei un bugiardo!»
«Troia!»
«Cosa?»
«Puttana!»
«Così mi fai piangere!»
«Ti puzzano i piedi da morire!»
«Mi sto mettendo a piangere!»
«Me ne sbatto!»

Ci si chiede se un bambino di cinque anni abbia questa proprietà di linguaggio e se userebbe consapevolmente queste parole. Ma questo dubbio si scioglie quando entriamo nell’adolescenza, dove un certo registro linguistico è più accettabile e naturale, per poi esplodere nell’età adulta in cui, paradossalmente, questo gergo da strada sembra lasciar spazio alle scene comico-ciniche che fanno da pilastro del romanzo.

Una piccola nota a margine: il lettore viene a scoprire il nome del protagonista solo nella quarta e ultima parte del romanzo, “Disoccupazione”, a pagina 134 (parte, tra l’altro, in cui l’autore finalmente mostra tutte le potenzialità del testo): tutto ciò che viene prima, a causa di questo anonimato, sembra assumere dunque l’aspetto di un enorme incipit, di un prologo con la precisa funzione di mostrare, nelle ultime pagine, perché il nostro Alessio è quello che è oggi: uno sfigato senza rimedio, uno sconfitto dalla vita.

Che però accetta con indolente fatalismo ciò che gli è capitato, persino raccogliere briciole dai piccioni. Come se non fosse colpa di nessuno.

A Raymond Carver piaceva la marmellata di more?

Nella prefazione all’edizione Einaudi di Cattedrale di Raymond Carver (ahimè ho fatto l’errore di comprare questa edizione e non quella di minimum fax, come molti miei amici mi rinfacciano), Francesco Piccolo scrive di essere rimasto scioccato quando, aprendo la prima pagina del primo racconto “Penne”, ha scoperto che questo iniziava con le parole «Questo amico». Come se il racconto volesse lasciarsi alle spalle – non detto, sottinteso – tutto il trascorso passato fra il narratore e questo suo amico Bud. Ed è vero, leggendo le prime pagine di “Penne” ci ritrova con questa sensazione, sebbene ciò che mi ha lasciato letteralmente senza parole riguardo quel racconto arriva verso la fine. Prendo in considerazione questo breve paragrafo, che arriva dopo la serata a casa di Bud e Olla, dopo l’incontro col figlio e con il pavone; ma prima di «tutta quella storia»:

In seguito, quando le cose tra noi sono cambiate, ed è arrivato nostro figlio, insomma, tutta quella storia, Fran considerava quella serata a casa di Bud come l’inizio del cambiamento. Ma si sbaglia. Il cambiamento è avvenuto più tardi; e quando è successo era come se stesse succedendo ad altri, non come qualcosa che poteva succedere a noi.

I primi tre anni di vita Carver li passò nella piccola cittadina di Clatskanie

Perché sono rimasto senza parole? Perché mi è passato per la mente “cavolo, mi sembra di non aver mai letto nient’altro prima di questa frase”, nonostante quella che posso definire “esperienza Wallace” di qualche giorno fa con La scopa del sistema?

Essenzialmente perché in questo paragrafo si affermano, si sottintendono, si lasciano intravedere cose ed eventi che accadranno ma che non vengono descritti da Carver. Non qui, non ora. Mai, in verità. Cosa ci dice Carver con questo paragrafo? Che la situazione di apparente e stabile felicità del protagonista e della moglie Fran vengono a mutare con una serata; che l’incontro col «bambino brutto» di Bud e Olla ha smosso qualcosa, ha provocato uno scarto minimo nell’esistenza dei due, scarto che ha portato a cambiare le cose e a «tutta quella storia» (non detta).

E poi c’è il disincanto di una frase potente come «quando è successo era come se stesse succedendo ad altri»: accettazione del cambiamento nella prima parte, disincanto nella seconda. Una frase e il mondo cambia; una frase e niente è più come prima. E non importa quale sia questo cambiamento, avverrà ma non è rilevante per il lettore. Non importa neanche quale sia la condizione di partenza dei protagonisti, è avvenuto ma è anch’esso non rilevante per il lettore. È di rilievo piuttosto che un evento attuale, stavolta non rilevante per il protagonista, viene a essere la chiave di volta, l’inizio del cambiamento, il ponte fra il passato e il futuro; e questo evento, invece, che Carver ritiene rilevante per il lettore.

Qualcosa di simile accade in “Febbre”. Per qualche motivo Eileen, la moglie di Carlyle, se n’è andata di casa lasciando il marito con i due figli. Tutta la storia ruota intorno agli sforzi di Carlyle di trovare una baby-sitter e di destreggiarsi fra loro, il lavoro, una sua collega per cui l’uomo prova un’attrazione e l’amore non sopito verso la moglie. Poi all’uomo viene una banale febbre, e gli accade di passare un giorno intero dentro casa insieme alla signora Webster, l’attuale baby-sistter/domestica. Trenta pagine scorrono così, niente accade di rilevante fino all’ultima pagina, quando

La signora Webster [andandosene dalla casa dell’uomo] si girò verso Carlyle e lo salutò con la mano. Fu allora, in piedi alla finestra, che lui sentì che qualcosa era arrivato alla fine. Qualcosa che aveva a che fare con Eileen e la vita prima di allora. L’aveva mai salutata con la mano? Naturalmente doveva averlo fatto, qualche volta, anzi senz’altro, però ora non se lo ricordava proprio. Ma si rese conto che ormai tra loro era finita e si sentì in grado di lasciarla andare.

E dunque le trenta pagine precedenti – tutte le telefonate deliranti di Eileen, la storia delle due precedenti baby-sitter, le preoccupazioni per il lavoro – si dissolvono così, in qualcosa che non è spiegabile ma che accade, prima o poi. Un segno del cambiamento, più che il cambiamento stesso.

Quella inutile, fastidiosa macchia sul muro

È come se, durante un trasloco importante, magari in un altro Stato per questioni di lavoro, ci si concentrasse sulla macchia di muffa presente dietro un quadro appena staccato. La macchia è lì, ci fissa, e ci viene alla mente di quella volta che comprammo il quadro per coprire la macchia appena giunti dentro la nuova casa, e di quel piccolo bisticcio avuto col nostro partner per la scelta del quadro (noi volevamo un dipinto di Van Gogh, il partner un’immagine bucolica). Il trasloco è imminente, la nostra vita sta per cambiare in qualche modo, il rapporto col nostro partner è qualcosa di diverso – di irriconoscibile – rispetto a vent’anni fa, eppure ciò che attira la nostra attenzione è quella macchiolina lì sul muro. Simbolo di un cambiamento avvenuto e che sta per avvenire, ma che non c’è ancora.

Eppure, tutto ruota intorno al dettaglio della macchia.

Ecco, questa è la potenza incontenibile di Raymond Carver.

(Ci sarebbe in effetti da soffermarsi sul racconto che dà il titolo alla raccolta – e che nelle ultime due pagine è stato in grado di tirarmi fuori delle lacrime, cosa che non mi accadeva da anni leggendo un libro –, ma sarebbe decisamente poco carveriano, no?)

‘La metà del diavolo’, il noir nichilista di Incardona

La metà del diavolo (NN editore 2016, titolo originale Derrière les panneaux, il y a des hommes) è l’ultimo libro di Joseph Incardona, il primo tradotto in italiano. È un noir teso e disperato che, fra le altre cose, getta una fievole luce sull’esistenza di un ben preciso tipo di umanità: quello che vive e lavora sulle autostrade, non-luoghi per eccellenza.

La metà del diavolo. L’altra metà, che cos’è?

Diversi sono i personaggi, alcuni dei quali nel ruolo di mera comparsa, che popolano questo romanzo, ma a tre si può dare il ruolo di comprimari: Pierre Castan, Pascal Folier, Julie Martinez. Il primo è un padre di famiglia distrutto dalla morte della figlia Lucie per mano del secondo, un serial killer di bambine; il terzo personaggio è il poliziotto incaricato di ritrovare la piccola Marie Mercier, l’ultima vittima di Pascal; quando dietro la scomparsa della ragazzina si innalza l’ombra del rapimento, le forze in gioco si gettato a caccia del rapitore.

I punti di forza di questo noir/thriller non sono tanto la trama, di per sé abbastanza poco originale, quanto piuttosto: 1) il carattere introspettivo dei personaggi, ben delineati; 2) l’atmosfera; 3) l’utilizzo di uno sviluppo alternativo per affrontare una storia che rientrerebbe, di diritto, nel genere giallo/poliziesco.

“Siamo soli con i nostri segreti”

Pierre Castan è un uomo distrutto, un fantasma rabbioso in cerca di vendetta. La vita sua e quella della (ex?) moglie Ingrid è finita con la morte della loro figlia. Da allora Ingrid è caduta in una depressione apatica dalla quale non sembra esserci possibilità di ritorno: passa le giornate ad alcolizzarsi e masturbarsi in un salotto invaso dalla sporcizia, ogni tanto si fa sodomizzare dai porta-pizza che capitano per casa. E questo è tutto il suo “ruolo” all’interno del romanzo; di fatto è un personaggio inutile ai fini dello sviluppo della trama, ma che ben rappresenta l’atmosfera nichilista di cui al punto 3. Pierre è un’anima tormentata, un uomo che ha abbandonato per dare la caccia all’assassino, e lo fa vivendo di fatto fra un autogrill e l’altro, convinto che prima o poi riuscirà a mettere le mani addosso all’uomo che ha annichilito la sua famiglia. La seguente frase viene riferita a Ingrid, ma è senza problemi applicabile anche a Pierre:

Per questo Ingrid resiste.
Soltanto per questo.
Resisterà il tempo necessario a strappargli gli occhi, la lingua, le orecchie, le dita, il naso. Il cazzo. Tutto ciò che ha approfittato di Lucie, tutto ciò che ha divorato Lucie sarà colpito piegato spezzato scuoiato dilaniato distrutto.
Sale sulle ferite.
Gli piscerà in bocca.
Cosparso di benzina e bruciato.

“Il cazzo”, dunque. Elemento quasi di scherno questo, visto che Pascal Folier, oltre a essere sociopatico, orfano e sordo, è anche impotente; e dunque non rapisce le bambine per violentarle. Il problema principale di Pascal è la solitudine: l’assenza di suoni nella sua vita si unisce con l’assenza di affetti e di emozioni. È di fatto una monade esistenziale, un alieno. Nel romanzo non lo vediamo intrattenere rapporti umani se non per mera necessità; prova più sentimenti per il suo furgone che per qualsiasi altro essere vivente; la sua estrema razionalità lo avvicina decisamente alla sociopatia. È dunque un individuo pericoloso, e bravissimo è Incardona a immedesimarsi nella sua mente, anche se a tratti si vacilla, da lettori, nel capire quali siano le sue motivazioni. Di fatto sembra rapire ragazzine per avere compagnia, ma poi non si fa problemi a chiuderle in una ghiacciaia o a scioglierle nell’acido per far scomparire le prove. È in ogni caso un personaggio diabolicamente affascinante.

Julie Martinez è forse, fra i tre, il meno azzeccato: è una donna forte, “cazzuta”, emotivamente fragile ma in grado di recuperare questa mancanza con una grande motivazione. Però sembra sfuggire a tratti quali sono i suoi obiettivi nella vita oltre a quelli lavorativi. La vediamo cedere solo quando, incapace di controllarsi e consapevole di star rischiando anche la vita nell’indagine, si lascia andare sessualmente (ma non emotivamente, almeno non del tutto) col suo compagno di squadra Thierry Gaspard.

Ciò che accomuna questi individui (e gli altri personaggi: la veggente Tìa Sonora, la prostituta transessuale Lola, il manager di autogrill Gérard Lucino, le varie comparse) è in una sorta di disperazione, di senso di sconfitta dalla vita assimilabile, per vie traverse, a quel grande non-luogo che è l’autostrada. E qui arriviamo al punto 2.

Non-luoghi, non-vite, non-senso

Non c’è nessun dio, Pierre.
Nessun riferimento al di là di noi stessi.
Non c’è nessuna macchinazione, nessun deus ex machina.
Qualcuno ha preso tua figlia perché il mondo è in movimento.

Il male esiste ma non è il Diavolo: questo ci dice Incardona ne La metà del diavolo. In un mondo senza Dio, in cui regnano non la Legge e il Disegno divino, bensì l’entropia e il caos totale, è l’essere umano il male, o meglio quella vitalità interna che porta avanti le sue azioni, e che può sdoppiarsi in qualsiasi momento: «Come spiegarle che, oltrepassata una determinata soglia di sofferenza, ci si trasforma in una scheggia impazzita, non c’è più nessun legame sociale, nessuna legge, più niente da rispettare se non la propria sete di vendetta. […] Distruggere. Vendicarsi. Far male. Purificare». Ecco il male cos’è: la mancanza di empatia da una parte, la voglia di distruzione dall’altra. È un male che terrorizza per la sua insensatezza e per l’impossibilità di redenzione che rappresenta. Senza Dio, a chi si può chiedere aiuto? Perché, ci dice altrove Incardona, «Dio è morto».

La caccia all’assassino, la caccia allo stile

La caccia è dunque al centro del romanzo La metà del diavolo, ma interessa poco a Incardona mostrare prove, referti medici, indagini ecc. Anziché puntare sul giallo, si butta sul nero, mostrandoci come la vendetta e la giustizia si confondano quando di mezzo c’è la disperazione. Allora le intuizioni e i colpi di scena tipici del primo genere vengono soppiantati da elementi introspettivi, ambientazioni squallide, vite bruciate e un senso di redenzione che si aspetta fino alla fine ma che proprio non arriva.

Se questo elemento rende peculiare La metà del Diavolo, d’altro canto è difficile mantenere la giusta tensione per 270 pagine. L’autore/narratore si intromette pesantemente, coi suoi giudizi e la sua visione del mondo, dialoga coi personaggi, dà loro consigli pur sapendo che non possono ascoltarlo, si diverte sadicamente col lettore anticipando alcune morti. La struttura scricchiola appena quando, dopo l’ennesima digressione dalla trama, Incardona vuole trasmetterci, ancora una volta, un senso di estraneità.

Ma questo è decisamente un difettuccio che gli si può perdonare.

‘La scopa del sistema’ di Wallace, che tutto spazza via

Partiamo col dire che questo articolo su La scopa del sistema di David Foster Wallace è un gioco. Un gioco che ha delle regole implicite, due premesse esplicite, uno svolgimento, delle conclusioni e dei corollari. Se andate avanti con la lettura accettate implicitamente questa pre-premessa #1, come io ho accettato quanto si dice nell’argomento trattato nella premessa #1.

Premessa #1: quando un romanzo è preceduto da una prefazione (almeno nell’edizione Einaudi questa prefazione c’è), il lettore viene già implicitamente avvisato che ciò che ha davanti è qualcosa di quantomeno ostico, verosimilmente complesso e fuori dagli schemi. Le prefazioni, infatti, le troviamo solitamente nella saggistica specialistica, dove è necessario spesso inquadrare il problema (o il tema) in un contesto storico-culturale o scientifico; le troviamo anche nei testi classici, dove si parla della loro genesi, delle loro influenze e della loro “fortuna”. Figuratevi dunque la sorpresa (pre-premessa #1.1: odio le prefazioni nei romanzi) quando mi sono trovato davanti un (dopo tutto breve) testo di otto pagine nell’edizione Einaudi Super ET de La scopa del sistema (titolo originale: The broom of the system) di David Foster Wallace. E figuratevi poi, oltre alla sorpresa, il terrore che mi ha assalito quando ho letto che la prefazione era di Stefano Bartezzaghi, un cognome piuttosto evocativo per chi si diletta, a volte, con la Settimana enigmistica (premessa #1.1 tratta da Wikipedia: “Stefano Bartezzaghi si è laureato con una tesi in Semiotica al DAMS […] con relatore Umberto Eco. È figlio di Piero Bartezzaghi, famoso enigmista, e fratello di Alessandro Bartezzaghi, condirettore della Settimana enigmistica…” tutto un programma insomma).

Premessa #2: non avevo mai letto niente di DFW, per cui ho voluto iniziare dal principio, ossia dal primo romanzo, pubblicato nel 1987 a 24 anni.

Date queste due premesse, non mi vergogno ad ammettere che 1) non ero preparato minimamente a ciò a cui stavo andando incontro, e 2) ci ho messo qualche giorno per riprendermi dalla lettura de La scopa del sistema. Non (solo) perché questo è un testo estremamente complesso, ma perché di fatto DFW (e il suo editore, che se non era un pazzo prima di leggere questo romanzo è sicuramente impazzito dopo averlo pubblicato) qui si diverte sempre a prendere il lettore, metterlo dentro una centrifuga mentale e scuoterlo alla massima velocità. Quando ne esci, a pagina 553 dell’edizione Einaudi, ma già intorno a pagina 4xx – non so bene dove sia iniziato questo processo –, non puoi che chiederti “che diamine ho letto/sto leggendo?”.

La scopa del sistema e la metanarrazione

Ma andiamo con ordine casuale, come forse farebbe DFW, al quale piace molto rendere la vita ardua al lettore, e che in una frase come questa avrebbe inserito almeno altre cinque o sei subordinate giusto per complicare il testo e rendere, al contempo in modo magistrale, il senso di contemporaneità degli avvenimenti. E per andare con ordine casuale salto a piè pari la trama, perché è talmente astrusa e insignificante che non vale neanche la pena citarla (tanto la trovate in quarta di copertina o su Wikipedia, andate lì a cercarla). Parliamo piuttosto di ciò che sta intorno alla, sotto alla e oltre la trama (Rick Vigorous mi amerebbe in questo momento, lui parla così; ma lo fa anche il Dr Jay, e non solo lui), parliamo dunque (metanarrazione #1.1) di quella miriade di personaggi principali e secondari che si intromettono nella narrazione, senza mai dichiararsi esplicitamente – direi senza rispettare quella stretta di mano virtuale che esiste di solito fra personaggio e lettore, diciamo pure che ci sputano sulla mano e poi le danno un paio di schiaffi –, e che iniziano a fare di testa loro, frammentando discorsi che spesso non hanno un filo logico con digressioni che, a loro volta, di sensato hanno ben poco (tipo questa). I personaggi (e DFW con loro) godono in modo perverso nell’allungare i dialoghi spezzando l’elemento climatico («Che anticlimax» direbbe Rick Vigorous, e in effetti a un certo punto lo dice, proprio alla fine del capitolo tredicesimo); nel creare una sorta di sospensione che assomiglia tanto a un’epochè, la quale spesso sfocia nel nulla perché il discorso non trova una conclusione, ma finisce nel e intorno al vuoto, quasi seguendo artificiosamente il detto wittgensteiniano (e proprio la filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein, insieme a quella decostruttivista di Jacques Derrida e al funzionalismo americano, è al centro del romanzo; ma qui ci tornerò, per ora segniamolo come corollario #1) per cui di ciò di cui non si può parlare si deve tacere (scrivendo questo articolo ne ho trovato uno interessante proprio su questo argomento: si chiama “Quando non sai, inventa”, lo trovate su Wittgenstein.it).

E questo per ciò che riguarda i dialoghi: ma se parliamo (metanarrazione #1.2) delle azioni il discorso non cambia, poiché i capitoli (capitoli?) presentano una serie di deviazioni dalla strada principale… qualunque essa sia: se vogliamo sforzarci possiamo indovinare la trama principale nello smarrimento e conseguente ricerca di Lenore da parte della nipote Lenore (DFW ha scelto di dare a bisnonna e nipote lo stesso nome, ma qui rimanderei a un corollario #2). Abbiamo la storia d’amore fra Lenore e Rick, le vicende sessuali/sentimentali di Candy, il pappagallino Vlad l’Impalatore e il suo improvviso parlare, la voglia di inglobare l’intero universo ingrassando di Norman Bombardini, la storia del Deserto Incommensurabile dell’Ohio (DIO in italiano, GOD in inglese, da Great Ohio Desertcorollario #3 – e sappiate che in questo momento sto copia-incollando i simboli come trattini, asterischi ecc. in quanto una mia errata digitazione di tasti ha fatto in modo che Word decidesse di usare una tastiera inglese invece che italiana, motivo per cui sto evitando gli accenti… parlo di questo momento in cui sto revisionando l’articolo, per cui dopo troverete di nuovo simboli normali e accenti), i racconti nei racconti di Rick Vigorous, la storia di Wang-Dang Lang, e altre diverse sotto-sottotrame che non sto qui a elencare perché servirebbero solo a creare confusione.

Il puzzle linguistico di Wallace

Ma come ci racconta queste cose DFW ne La scopa del sistema? Ebbene non ce le racconta affatto, piuttosto che le “offre” in un grande puzzle linguistico e stilistico (metanarrazione #1.3) che sta a noi, in qualche modo, ricostruire. Narrazioni “standard” («– Ciao, Vlad l’Impalatore, – disse Lenore, in reggiseno e mutande e scarpe», metanarrazione #1.3.1) vengono seguite da elementi in prima persona (metanarrazione #1.3.2); a questi due metodi, nei quali si alternano il presente (metanarrazione #1.3.1.1/1.3.2.1) e il passato (metanarrazione #1.3.1.2/1.3.2.2), si affiancano capitoli fatti solo di (riporto l’inizio dei capitoli o dei paragrafi): dialoghi a due o tre persone in cui mai una volta vengono presentati gli interlocutori («– Avanti. / – Dio santo. / – Per di qua. / – Ohimè. / – Giù, da questa parte», e così via per altre tre pagine, metanarrazione #1.3.3); trascrizioni di sedute psichiatriche a mo’ di dialogo («DR JAY   E questo come la fa sentire? / MS   LENORE BEADSMAN Cosa, come mi fa sentire?», e così via per dieci pagine, metanarrazione #1.3.4); stralci di diario di Rick, in cui racconta di sogni fatti, in modalità flusso di coscienza (metanarrazione #1.3.5); frammenti di dialoghi fra Lenore e Rick, in cui quest’ultimo riassume alcuni racconti inviati alla sua rivista (racconti spesso senza senso, surreali o incompleti, metanarrazione #1.3.6). Davanti a questa matassa ingarbugliata, il lettore si trova costretto a ricostruire i dialoghi e gli avvenimenti, a riempire i buchi, a fare salti temporali e connessioni per cercare di raccapezzarsi fra personaggi (chi parla? In che luogo? In che anno?) ed eventi (che sta succedendo? Dove siamo? È sogno o realtà? È simbolico o reale?).

A proposito di personaggi de La scopa del sistema (metanarrazione #1.4). Abbiamo qui a che fare con un universo di individui (meta)letterari nevrotici, alcolizzati, drogati (odioso il termine “stonato” usato dal traduttore per indicare qualcuno drogato/fatto, probabilmente l’italianizzazione di stoned), allucinati, che più vanno avanti e più diventano strani e meno comprensibili. Ognuno di loro (a parte forse Lenore, la protagonista che, giustamente, alla fine del romanzo si ritrova mentalmente isolata quando viene circondata da TUTTI i personaggi insieme all’interno dell’ufficio in cui lavora; ancora una volta vediamo all’opera, forse, la frase wittgensteiniana: tace perché non sa che dire/fare? Rimando a un articolo di cui parlavo sopra) è al limite (o al di là di questo limite) del (sur)reale, con tutte le proprie manie portate all’eccesso, con ogni singolo movimento scollato dalla realtà eppure in qualche modo a essa ancorato.

Ecco, altro non oserei aggiungere perché sinceramente non saprei dove andare a parare. Ho volutamente usato periodi complessi, pieni di subordinate e parentesi e digressioni, per dare un’idea (pallida) del modo di scrivere di DFW; ho volutamente aperto (senza chiuderli) diversi discorsi, cercando di gerarchizzarli alla maniera (pallida) del Tractatus di Wittgenstein, per dare un’idea (pallida) della complessità della Scopa del sistema; ho volutamente usato molte ripetizioni… be’, ormai avrete capito perché.

E se cercate svolgimenti di quei corollari #1, #2 e #3 di cui ho parlato prima, sappiate che ho mentito, non ce ne sono. Ecco, parliamo di DFW dopo tutto, no?

PS: La scopa del sistema si conclude con «Sono un uomo di».

Il guanto di sfida di “Racconti edizioni”

Ai più attenti e curiosi frequentatori dello scorso Salone di Torino, non sarà sfuggito, nei pressi dell’Incubatore, spulciando tra i volumi di alcune piccole case editrici, il bancone della neonata Racconti edizioni che lì esponeva i tre libri del suo catalogo. Abbiamo posto alcune domande ai giovani editori: di seguito riportiamo le loro risposte “corali”.

D: Racconti edizioni è una realtà che personalmente ho conosciuto al Salone e che mi ha colpito immediatamente per il suo spirito. Ma quando nasce Racconti edizioni? E chi c’è dietro questo nome?

R: È un progetto che si concretizza formalmente a ottobre 2015 ma che comincia a delinearsi almeno due anni prima a partire dall’incontro tra i futuri, e a quel tempo ignari, editori Stefano Friani ed Emanuele Giammarco al Master di Editoria della Sapienza. Tutto nasce dalla passione smodata per la letteratura, e in particolare per la forma breve, e la classica pinta di troppo tra amici che ha trasformato un’idea solo coccolata nel cassetto in realtà. La consapevolezza che il sistema editoriale italiano avesse dimenticato la short story e che un intera nicchia di mercato fosse del tutto inesplorata ha fatto il resto. Senza calcolare che per due giovani che si affacciano al mondo editoriale probabilmente sarà più facile aprire una casa editrice che lavorare in qualche altro modo. Sembra un paradosso, ma è una delle conseguenze della crisi economica.

D: “Varrebbe la pena chiedersi perché, in tutti questi anni, non siano state impiegate e concentrate energie soltanto nel racconto. Perché la brevità, un limite ma anche uno stimolo per lo scrittore e la sua creatività letteraria, non sia stato considerato allo stesso modo uno sprone per la creatività editoriale. Abbiamo provato a rispondere e non ci siamo riusciti”: questo scrivete nella sezione “Chi siamo” del sito. Ecco, proviamo a rispondere oggi in questa sede: perché il racconto (tanto quanto la poesia in verità) in Italia trova così poco spazio e lettori?

R: I motivi sono diversi e ancora non del tutto chiari. Provando a rispondere si potrebbe accennare a una certa ritrosia endemica nei confronti del racconto, a quel dogma per cui le short story in Italia non venderebbero (da qui il nostro hashtag ironico #iraccontinonvendono). Questa convinzione ha generato un cortocircuito per cui gli editori non investono risorse per promuovere in modo adeguato le raccolte di racconti e di conseguenza ne dilapidano il grande potenziale. D’altra parte gli scrittori fanno fatica a emergere se nessuno crede in loro e se, una volta pubblicati, rischiano di finire nel dimenticatoio nel giro di poco tempo per mancanza di attenzioni. Tutto ciò genera una convinzione generale che la forma breve sia un qualcosa di minore, facilmente trascurabile. Fin qui la nostra esperienza ci insegna che non è così. I lettori di racconti esistono e sono tanti. Ma semplicemente l’offerta non soddisfa la domanda.

D: Voi avete esordito con un catalogo composto da soli tre libri (Sono il guardiano del faro di Éric Faye; Lezioni di nuoto di Rohinton Mistry; Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh). A posteriori è stata questa una scelta coraggiosa o azzardata? Ha ripagato?

R: Se consideriamo l’ottima stampa e i consensi dei lettori raccolti dai nostri titoli si può affermare di sì. Chiaramente è un aspetto che potrà chiarirsi più in là nel tempo quando avremo uno storico di almeno un anno. In ogni caso quel che conta è che, essendo Racconti una casa editrice di progetto, le scelte sono molto chiare e per forza di cose devono seguire l’idea originale in tutti i suoi aspetti. Una delle prerogative è proprio quella di essere una casa editrice di catalogo e quindi proporre ai lettori un’ampia gamma di scelta, nel caso specifico un’illuminazione panoramica su una forma che versava nell’oblio editoriale. I primi tre titoli ne sono un esempio: Appunti da un bordello turco è il rilancio in Italia di un autore già noto e premiato nel mondo anglosassone ma dimenticato nel nostro paese. Mistry, autore di Lezioni di nuoto, è uno scrittore di fama internazionale già pubblicato in Italia da Fazi. Anche Eric Faye, autore del numero 3, è un nome di assoluta garanzia soprattutto nel suo paese d’origine, la Francia.

Il simbolo della casa edititrice “Racconti”, uno scarafaggio, “protagonista” della Metamorfosi di Kafka

D: Sul vostro sito si legge che il prossimo libro in uscita sarà Karma clown di Altaf Tyrewala. Come mai a oggi non avete un italiano fra i testi in catalogo? E contate di far entrare qualche autore nostrano nella vostra scuderia?

R: Karma clown è un libro davvero godibile, l’autore riesce ad abbinare la freschezza della scrittura a una vena ironica e critica allo stesso tempo. Una volta scovato ci è sembrato necessario lanciarlo in queste tempistiche proprio per seguire quel discorso di catalogo a cui si accennava prima. Essendo un libro che segue per ambientazione e vissuto dell’autore la traccia del numero 2, Lezioni di nuoto, ma che se ne discosta per stile e struttura pensiamo possa puntellare il nostro catalogo. Per quanto riguarda gli autori italiani abbiamo intenzione di pubblicarne a partire da ottobre 2017. Abbiamo deciso di prenderci del tempo per esplorare in modo accurato il mare magnum della produzione di racconti. Proprio per i problemi legati allo status della forma breve e alla condizione degli autori nel nostro paese. Non volevamo partire col piede sbagliato ed essendo ancora una piccola realtà non potevamo essere frettolosi. Siamo convinti che sia una scelta seria e oculata.

D: Domanda di rito: quali sono le sfide della piccola editoria italiana? E qual è secondo voi la direzione da prendere per superare con successo l’impasse di questo periodo storico?

R: Le sfida principale è banalmente quella di ridare linfa dal basso a un settore in piena crisi che ormai, salvo poche e virtuose eccezioni, segue delle logiche di mercato insostenibili e controproducenti. Questa osservazione è applicabile ai diversi elementi della filiera editoriale. Risollevare il settore probabilmente vuol dire ripartire dal particolare, dalle piccole librerie, dalla cura per l’oggetto libro e quindi dal rispetto del lettore che troppo spesso viene sottostimato e di conseguenza ingozzato di proposte scadenti. Per citare una meravigliosa serie tv, Boris, il motto potrebbe essere Qualità o morte! Guardando i numeri ci si può deprimere facilmente: in Italia si legge pochissimo. Ma vuol dire anche che ci sono moltissimi lettori potenziali da conquistare. Questa deve essere la direzione, ma vanno cambiate molte cose. Le piccole case editrici devono proporre qualcosa di diverso. Noi ci stiamo provando con un’operazione avventurosa ai limiti dell’harakiri: pubblicare soltanto raccolte di racconti. Ma d’altra parte ci piace anche perché è una sfida spericolata.

D: In molte realtà estere autori grandi e piccoli possono vivere dignitosamente di scrittura pubblicando su riviste specializzate i propri lavori (racconti brevi, a puntate ecc.). Penso a quanto si può leggere, ad esempio, in On Writing di Stephen King, ma gli esempi sono molteplici. Perché qui in Italia le riviste che pubblicano racconti non pagano? È solo colpa di una crisi dell’editoria che sembra non avere fine?

R: Il fatto che le riviste non paghino è principalmente legato all’andamento economico generale e a quello del settore. È un tendenza negativa che vale anche per altre professioni che hanno a che fare con la scrittura. Non stupisce che riviste tutto sommato di nicchia non abbiano le disponibilità necessarie per valorizzare il lavoro di qualcuno che invece lo meriterebbe. Probabilmente questa incapacità è vissuta male in primis da chi si ritrova costretto a subirla e infliggerla a qualcun altro. Per quanto riguarda la nicchia nella nicchia, la forma breve, la morsa è ancora più stringente, ma ciò non vuol dire che la pubblicazione di un racconto su una rivista sia tempo perso. Tutt’altro. C’è un fermento importante attorno al racconto. Nel semi-deserto di nuove proposte dell’editoria tradizionale nascono piccole riviste, portali, osservatori che si occupano di incentivare la short story e in cui sono impegnati giovani o navigati, personaggi noti e meno noti, autori, editor e altre figure. La comunità che fa perno attorno alla forma breve insomma sta crescendo in fretta. Penso a esperienze come Cattedrale o Effe. Da parte nostra, il blog collegato alla casa editrice Altri Animali (link) si pone proprio in questa prospettiva. Per esempio ogni martedì pubblichiamo un racconto selezionato dalla nostra redazione nella rubrica “Il racconto del martedì”.

‘Le digressioni del cuore’: l’esordio di Luca Barbanti

Le digressioni del cuore (Edizioni Epsil) è il romanzo d’esordio di Luca Barbanti, classe 1992.

Le digressioni del cuore di Luigi

La vita di Luigi De Stradi, trent’anni, romano, prosegue tranquilla fra il lavoro in hotel e la frequentazione con Giulia, quest’ultima destinata a tramontare a causa del prossimo trasferimento della ragazza in Galles per fare del volontariato. Come se non bastasse questo cambiamento radicale nella sua vita, interviene un’amica di vecchia data, Faysa, la quale chiede al protagonista il più difficile dei favori: occuparsi per qualche tempo di suo figlio Issah, nato dal matrimonio della donna con un italiano. Lei infatti deve tornare in Nigeria per lavoro e non può portarlo con sé a causa dei pregiudizi razziali del padre; il marito, inoltre, è una persona violenta e incapace di prendersi cura del figlio.

Luigi si ritrova dunque con un bambino che ha subìto forti pressioni psicologiche da cui è uscito insicuro, disorientato, vittima di bullismo razziale da parte dei compagni di classe. Dopo un primo scontro, i due diventano però amici, al punto che Luigi arriva a combattere in prima persona le battaglie del piccolo Issah e a insegnargli il rispetto di sé e la cura del prossimo.

Le digressioni della trama

Le digressioni del cuore è un romanzo solo in potenza e su diversi fronti. I temi trattati sono tipici del genere di formazione: abbiamo a che fare con la genitorialità, il passaggio verso la fase adulta, i rapporti interpersonali. Ma quasi tutti questi temi – così come molti altri sotto-temi quali il razzismo, il femminismo, i rapporti lavorativi, il tradimento, le difficoltà nell’affrontare i cambiamenti ecc. – risultano poco approfonditi e s’intersecano senza veramente intrecciarsi. Sembrano quasi chiusi in camere stagne, separati fra loro.

Tutto ruota intorno al protagonista de Le digressioni del cuore che, come suggerisce il titolo, si perde spesso in digressioni mentali dalla carica debolmente emotiva; queste però, a causa di una mancata cura della struttura narrativa, anziché dare spessore al romanzo lo indeboliscono. Il lettore arranca appresso alle divagazioni (che sono cosa ben diversa dalla digressione narrativa, anzi ne sono forse la controparte negativa), senza riuscire a seguirle né a interessarsene in quanto sono puramente descrittive e collegate al solo Luigi, che spesso sciorina eventi accaduti oppure opinioni personali senza mai dar loro un vero spessore psicologico, intellettuale ed emotivo. Un esempio:

«Due mesi passarono molto velocemente – nemmeno me ne resi conto – e ci avvicinammo al Natale, la mia festività preferita, quella che un po’ tutti adorano. Il Natale mi fa tornare bambino, mi fa pensare ai ricordi più belli, alle canzoncine delle scuole elementari, ai regali che vorresti ricevere, al carbone che vorresti evitare, alla volontà di credere in qualcosa di magico: le renne e il Babbo Natale che ognuno sognava di vedere e con cui sperava di parlare almeno una volta.

Quel giorno salii sul treno come al solito […]»

Terminato il passo, che nulla aggiunge allo sviluppo della trama o alla comprensione di situazioni o personaggi, il lettore non può che chiedersi: “E allora? Perché mi parli di questo?”.

Stesso problema accade con interi capitoli: il libro consta di 180 pagine, ma la vera trama inizia a pagina 71, quando Faysa irrompe nella scena. Ciò che viene prima, fatte salve le descrizioni del rapporto di Luigi con Giulia e con i colleghi di lavoro (utili a farci comprendere la sua personalità ingenua e sognatrice, ma anche salda all’occorrenza), risulta a tutti gli effetti inutile. Lo stesso accade con ciò che viene dopo: ci sono due interi capitoli, il quinto e il decimo, in cui il protagonista ci racconta eventi che non hanno alcuna rilevanza nella trama: nel quinto avviene uno strano e sconclusionato scontro con un gruppo di femministe, durante il quale si leggono purtroppo perlopiù stereotipi da una parte e dall’altra («Tutto ciò che riguarda noi donne è bello! Tutto ciò che è rosa è potente: noi siamo il passato, il presente e il futuro!»; «la prossima volta cerchi anche di indossarli gli abiti da donna, come, ad esempio, tanto per dirne uno, il reggiseno»); nel decimo si parla di come, anni prima, Luigi sia stato vittima di frode da parte di un suo collega. Anche qui ci si chiede: “E allora? Perché mi parli di questo?”.

A questo bisogna aggiungere due ulteriori problemi riguardo a Le digressioni del cuore. Il primo è l’assenza di un vero e proprio conflitto interiore del protagonista, poiché la maggior parte delle situazioni (il tradimento nei confronti di Giulia con la sensuale Valentina, il rapporto con Issah, le minacce del padre del bambino) si risolve da sé, senza un reale intervento di Luigi. Manca, insomma, quel che in gergo si definisce “arco di trasformazione del personaggio”, elemento fondamentale per uno sviluppo del plot narrativo che sia anche interessante per il lettore.

Il secondo problema è l’assenza di un vero e proprio finale: il romanzo termina con Luigi che decide di mandare a quel paese il padre del ragazzino; poi lui, Giulia e Issah escono per andare al cinema. E allora ci si chiede: che succederà col padre che, legalmente, ha tutto il diritto di vedere il figlio? Come andrà a finire la storia con Giulia dopo la sua partenza? Quando Faysa ritornerà dalla Nigeria si riprenderà il figlio?

C’è da dire che questi gravi problemi non sono colpa solo dell’autore Luca Barbanti, le cui potenzialità da scrittore sono tutte lì in mostra pronte a essere sfruttate; bensì anche (o soprattutto) dell’editore e dell’editor: del primo perché ha mandato alle stampe un testo nient’affatto pronto per la pubblicazione, ma che anzi avrebbe necessitato di una revisione strutturale; e del secondo perché semplicemente non ha svolto il suo lavoro, o comunque l’ha svolto male, lasciando evidenti buchi di trama, ripetizioni, capitoli superflui e refusi.

In definitiva Le digressioni del cuore è un romanzo che avrebbe richiesto almeno un altro anno di lavoro, e che si è avuta invece la fretta di pubblicare. Ed è un vero peccato.

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