“Tutta colpa delle bollicine” di Carmela Pappalardo. La magia del vino e della Sicilia

“Tutta colpa delle bollicine” di Carmela Pappalardo, è un romanzo, edito da EBS Print nel 2022, pieno di dolore e quindi, di vita. I protagonisti sono due ragazzi, Eduardo e Michela, i quali nonostante siano molto differenti, sia caratterialmente che per il passato trascorso, non possono far altro che arrendersi di fronte alla forte attrazione che provano l’uno per l’altra. Si sa, tutte le cose più delle e sorprendenti iniziano sempre per caso o per scherzo. Proprio nel momento in cui meno si desidera un qualcosa, ecco che fatalmente quel qualcosa ci cade proprio di fronte agli occhi, lasciandoci di stucco.

L’incontro tra Eduardo e Michela è avvenuto proprio così, è stato totalmente lasciato al caso. Nessuno dei due voleva, o stava cercando, quel che sarebbe successo, nessuno dei due voleva ridursi a vivere le proprie giornate in attesa di poter finalmente vedere l’altro, ma è accaduto, e per i due giovani è stata la più grande benedizione della loro vita.

Durante una serata mondana organizzata nell’azienda vitivinicola situata ai piedi dell’Etna di Eduardo, proprio nella camera da letto del ragazzo, la sprovveduta Michela crolla esausta per “colpa delle bollicine” che aveva stupidamente bevuto in grande quantità durante la serata. Non appena il ragazzo rientra in camera, e si avvicina al letto, si accorge immediatamente dell’intrusa. Pochi attimi, alcuni sguardi, e il gioco è fatto.

Per Michela è tutt’altro che un colpo di fulmine, certo, fin dall’inizio non riesce a negare il fatto che Eduardo sia un gran bel ragazzo, ma l’atteggiamento di lui è davvero odioso. La ragazza non ci penserà due volte a descriverlo come presuntuoso, pieno di se e narcisista, la sua fama  poi, lo precede. È risaputo sia un dongiovanni e che ami passare da una ragazza a un’altra senza neppure rendersene conto. Questo non è di certo il miglior biglietto da visita da presentare se si vuol far colpo su una ragazza come Michela.

Eduardo si porta dietro un dolore irrisolto: ha visto morire sua madre letteralmente per amore: il marito non le dimostrava affetto e lei aveva deciso di annullarsi; da quel momento il ragazzo aveva scelto di non legarsi a nessuno per non provare lo stesso strazio della madre fino al giorno dell’incontro con Micheale, ragazza dalla bellezza angelica che però inizialmente lascerà andare per poi ritrovarla in Sicilia, terra che risveglia vecchie passioni.

L’intimo rapporto di Pappalardo con la sua Terra, la Sicilia, si evolve in un emozionante racconto dove l’Etna, con la sua imponente presenza, fa da cornice alla storia d’amore tra Eduardo e Michela.

L’Etna sembra influenzare con la sua dirompenza la storia dei due protagonisti, che assorbono la forza e la voglia di vivere il loro sentimento, come se fosse lava che scorre ininterrottamente, del vulcano siciliano.

Tuttvia tale desiderio è adombrato dalla paura di perdere chi si ama:

«Il pensiero di perdere chi amiamo è la paura più grande di ogni essere umano. Ma in tutti quegli anni, lei era vissuta nel suo cuore, non l’aveva mai persa, se l’era portata come un marchio a fuoco sotto la pelle».

L’autrice racconta un’emozionante storia d’amore in cui entrano in gioco delle dinamiche che purtroppo allontanano i due amanti: la paura dell’abbandono, la gelosia altrui, la distanza e il risentimento, le seconde possibilità im un contesto siciliano atavico, affascinante e misterioso.

Niente è semplice e scorrevole e così neanche le vicissitudini di Eduardo, giovane uomo che lotta per realizzare il suo sogno, e di Michela, tenace e solare nonostante le prove a cui la sottopone la vita.

La Sicilia non funge da spettatore lla vicenda dei due giovani, semmai è parte integrante della narrazione: è una forza propulsiva, dirompente e irresistibile che spinge soprattutto Eduardo, complice anche la saggezza di suo nonno, ad abbandonare le paure per lasciarsi andare alla bellezza dell’amore che è più forte della paura. L’autrice inoltre sembra dire che il vino non è solo una bevanda, un drink,  ma un viatico per aprire il proprio cuore. In fondo come sostiene Hughes Galeano, siamo tutti mortali fino al primo bacio e al secondo bicchiere di vino. Siamo certi che Carmela Pappalardo sia d’accordo con questo pensiero.

Con questo romanzo Pappalardo rivela il potere che hanno i ricordi, i quali sono capaci di riaccendere una passione, proprio perché i ricordi non finiscono mai.

 

Autore: Carmela Pappalardo

Editore: EBS Print

Anno edizione: 2022

Pagine: 356 p., Brossura

 

 

Links di vendita

https://www.ibs.it/tutta-colpa-delle-bollicine-libro-carmela-pappalardo/e/9791259684257

 

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‘Fiorirà l’aspidistra’ di George Orwell. Quando un nobile sogno diviene ossessione

Il sogno di una vita serena, con una pianta di aspidistra alla finestra, e la difficoltà di raggiungerlo, è questa in estrema sintesi la trama del romanzo del 1936 “Fiorirà l’aspidistra” (edizione italiana nel 1960) di George Orwell, che è una dura critica alla società capitalista: l’ossessione per i quattrini, visti come unico motore del mondo, che porta il protagonista Gordon all’abbrutimento totale.

Il romanzo di Orwell è attuale oggi come allora. Delinea i tratti senza tempo di ricchi e poveri; di chi i soldi li ha e di chi li desidera con tutto se stesso, tramutandoli in un’ossessione distruttiva. È un libro che richiede tempo per essere letto, digerito e compreso.

Gordon Comstock non è come tutti gli altri. Anche se mi rendo conto quanto nessuno, in fin dei conti, si senta mai “come gli altri”. Si crede sempre, specie in giovane età, d’essere diversi. Di avere quella luce, li, fissa negli occhi, a differenziarci da tutti gli altri. Ma la maggior parte, ahimè, crescendo, si arrenderà al fatto che in fondo si è un po’ tutti simili.

Gordon, invece, diverso lo è davvero.

Si dimena, scalcia, grida forte nella sua diversità, a tal punto che le persone che gli vogliono bene, come la sorella o la fidanzata, a un certo punto si arrendono nel ripetergli di quanto sia sicura e percorribile la “normalità”. Quella normalità che insegue il denaro ed è succube del buon posto di lavoro con tutte le sue catene ben fissate alla scrivania di quel minuscolo ufficio. Per Gordon la vita è un equazione semplice. Se hai i soldi hai tutto, e se non dovessi averli, scordati pure le attenzioni della gente o l’amore delle donne. Tutto e tutti cercheranno di mantenere le distanze da te evitandoti.

Per quanto Gordon sia fermamente convinto che il mondo funzioni così, non fa nulla né per opporvisi e né tantomeno per farne parte. La sua vita consiste in un perenne galleggiare tra lavori pagati due soldi e la sua ambizione letteraria di diventare scrittore.

In passato non sono poche le opportunità che ha avuto per potersi creare una carriera nel mondo pubblicitario come copywriter, ma non appena si è reso conto d’avere talento, e quindi di poter guadagnare sempre più, ha deciso di abbandonare il lavoro. Il terrore puro, dell’eventualità di poter essere come tutti gli altri, schiavo del Dio denaro quindi, lo ha condotto verso la fuga.

“Ebbe una visione di Londra, del mondo occidentale: vide milioni di schiavi sgobbare e strisciare ai piedi del trono di Quattrino.”

Julia, la sorella di Gordon, è esattamente l’esempio di quel che lui intende in queste due righe quando parla di “schiavo”. Dopotutto lei vive una vita nella miseria lavorando dalla mattina alla sera, sopravvivendo a malapena con il suo salario, e cercando in mille modi di aiutare il fratello, il quale è messo addirittura peggio di lei.

Gordon, in cuor suo, disprezza Julia, ma lo fa nonostante le voglia un gran bene e riconosca quanto lei abbia sempre cercato di aiutarlo. Non riesce però a nascondere la  totale mancanza di stima nei suoi confronti, per il semplice fatto che per tutta la durata della sua vita lei non abbia fatto altro che lavorare bramando denaro.

La sua perenne fuga dal denaro, è probabilmente dovuta dalla paura di non essere in grado di gestirlo, se mai ne avesse avuto. Questo suo incubo, ad un certo punto del romanzo, diviene realtà. Un importante rivista accetta una della sue poesie, inviandogli ben dieci sterline. Soldi che di colpo lo gettano nel panico, facendogli compiere una serie di sciocchezze. Nonostante il suo primo pensiero sia quello di dare parte di quel guadagno alla sorella Julia, come se fosse un risarcimento per tutto quel che lei ha fatto per lui durante quegli anni, alla fine si ubriaca dandosi alla pazza gioia, sperperando tutto.

È difficile scindere l’odio verso gli altri dalla povertà. Quando si ha poco o niente, l’unica cosa che rimane è detestare tutti quelli che hanno qualcosa, e Gordon ovviamente non può esimersi da questo.

“Londra! Chilometri e chilometri di case modeste, solitarie, tutte ad appartamentini e camere in affitto: non focolari, non comunità, ma semplicemente fasci di vite senza senso trascinate da una specie di caos sonnolento in lenta deriva verso la tomba! Vedeva passare gli uomini come cadaveri deambulanti”. Li detesta tutti Gordon, e dietro al suo sguardo scrutatore e senza ritegno, li considera dello stesso valore dell’aspidistra che tiene dietro la finestra in cucina.

Gordon ha una fidanzata, Rosemary, con la quale non riesce a fare l’amore perché convinto che per poter andare a letto con una ragazza ci vogliano i soldi. Dopotutto, offrirle una cena fuori aiuterebbe no? E portarla in una bella camera d’albergo, non sarebbe certamente d’aiuto? Per non parlare dei vestiti, indossare un capo di tutto rispetto, ci farebbe partire sicuramente avvantaggiati. Non potendo usufruire di tutto questo, il vittimismo di Gordon la fa da padrone ingurgitandolo e risucchiandolo in un vortice di negatività dal quale proverà ad uscire solamente nelle ultime pagine del romanzo.

In Fiorirà l’aspidistra, George Orwell ha messo a punto una precisa scelta ideologica. Un protagonista che diventa un borghese modello, con tanto di cravatta ed aspidistra, non significa altro che la vittoria del profitto, del denaro sull’idealismo, dell’apparenza sociale sull’essere. L’individuo è così soddisfatto, socialmente contento, ma sconfitto, a vantaggio di una visione utilitaristica e conformista dell’uomo.

Ed è proprio questa scelta politica che rende il romanzo realistico e visionario allo stesso tempo, nonché sempre attuale:

“Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, a sposarsi, far figli, lavorare, morire”.

Fiorirà l’aspidistra è un pamphlet antiborghese con diversi riferimenti autobiografici, una sorta di resa dei conti tra l’autore, le proprie aspirazioni e passioni, i compromessi rifiutati e quelli accettati durante la sua carriera, portato avanti con una scrittura mirabile e con una dettagliata definizione dei personaggi che dicono molto sul nostro modo di agire in qualsiasi luogo e tempo, di come un nobile sogno possa trasformarsi una pericolosa ossessione.

Ma è il capitalismo a renderci davvero più egoisti e ambiziosi o il desiderio insito nell’essere umano a migliorarsi continuamente per sfuggire alla mortifera noia e all’immobilismo? Manca forse in Fiorirà l”aspidistra l’attenzione per la dimensione psicologica, o meglio esistenziale della natura umana, concentrandosi su quella politica e sociale.

 

‘Non c’erano i fiori’, la raccolta poetica d Arianna Galli

Nella raccolta poetica “Non c’erano i fiori”, pubblicata da Ladolfi editore. la giovane penna di Arianna Galli soffre, si dilania, impazzisce per amore. I suoi versi, però, non parlano unicamente di quel nobile, quanto oramai usurato, sentimento amoroso. Le sue parole entrano a fondo, scavano nell’animo umano, cercando in tutti i modi di scovarci ancora speranza. Una speranza, però, che quasi certamente la protagonista di questi versi ha perso.

La raccolta, ispirata alle teorie di Freud, al mito di Amore e Psiche e al celebre romanzo di TobinoLe libere donne di Magliano”, indaga il percorso psicologico di Irene che nella sua pazzia nata dal dolore comprende pian piano la sua identità, il rapporto con sé stessa, con l’amore e con la città in cui abita, Milano, che appare a squarci e deformata, frantumata come la sua stessa anima. Perché prima non c’erano fiori, ma è ciò che ha lasciato nel suo cuore la persona amata, il fiore che porterà per sempre con sé nella vita nel suo cammino verso il futuro.

L’autrice, in questo libro, vuole lanciarci un messaggio chiaro, semplice, ma altrettanto struggente. Un inno che tende quasi a metterci in allerta sull’importanza dell’amore, con tutto quel che lo circonda. Perché quando due anime si fondono, arrivando a tal punto da sembrare un’unica cosa, e si penetrano, così in profondità da lasciar obbligatoriamente qualcosa di sé all’altro, sarà impossibile per loro una volta separati sperare di tornare come prima. Niente potrà mai tornare come prima. Qualcuno crescerà, migliorerà, vedrà quella storia come un pretesto per maturare, ma tanti altri smarriranno il senno, perdendosi inseguendo la propria anima di notte.

L’illusione, in queste pagine, ci stringe con forza la mano. Verso dopo verso sembra quasi di poter udire una voce forte, vigorosa, gridare con ferocia, con rabbia, contro  quella cecità nella quale si è immersi quando in un amore vediamo solo quel che vogliamo vedere. Perché dopotutto, si è entrambi il miracolo dell’altro, e al contempo il proprio sogno di completezza. Quindi è davvero semplice ritrovarsi a vedere riflesso nell’altro quel che in realtà non c’è.

Vi è in qualche modo una richiesta di scuse da parte della protagonista quando si rivolge al proprio amore del passato in questo modo: “ Non odiarmi quando sarà tutto cenere quando sarà passato il miracolo che ci ha fatto vedere come due stessi esseri, abbracciati dalla stessa luce”.

Chiede di non odiarla, quasi lo implora, come se la responsabilità per quel sogno trascorso insieme sia tutta sua. Non riesce a vedersi solo come la metà di una coppia, tantoché gli sbagli di entrambi, per lei, sono solo i suoi. Le pare quasi naturale, infine, sentire l’esigenza di dover implorare che quel sentimento amoroso non si tramuti in odio.

Questi versi trasudano un incessante sensazione di malessere, dovuta a una presenza che ricorre spesso nel libro ma che rimane intangibile fino alle ultime battute. Una figura che mai si palesa fino in fondo, lasciando così un incolmabile vuoto dietro di sé.

“Ricordo i tuoi baci come una rosa; Ora, giorni case cose pagine strade ci dividono. Ricordo dopo i baci, l’appoggiare la testa sulla tua spalla, dolcemente per una carezza…”

In fin dei conti, quel che la protagonista chiede è solo di poter avere una carezza, e nel mentre, potersi perdere di nuovo in quegli occhi che ha tanto amato. Negli occhi di quell’uomo che “Tolse la cecità al passato e donò l’amore al presente”.

Purtroppo il presente di cui si parla è per lei oramai passato. Il presente che sta vivendo è un doloroso viaggio a marcia indietro.

 

 

 

 

‘Sei stato felice, Giovanni’, di Giovanni Arpino, un inconsueto romanzo del dopoguerra

Appena si termina la lettura di Sei stato felice, Giovanni, romanzo del 1952 di Giovanni Arpino, di colpo si potrebbe avvertire con forza la necessità di piangere, sentendosi subito dopo più leggeri. Tale reazione per alcuni può risultare abbastanza inconsueta, soprattutto se il libro in questione non è un testo romantico, né drammatico, semmai un’opera neorealista, avventurosa, scritta con disinvoltura e leggerezza, che conduce ad un possibile felicità la quale giustifica il pianto precedente.

Il romanzo di Arpino era in netta contrapposizione con lo stile serio della maggior parte dei romanzi italiani del dopoguerra.

Nel 1950 Giovanni Arpino ha appena 23 anni quando decide di scappare da Torino per approdare a Genova, dove prendendo alloggio in una lurida e sporca pensione, mangiando male ed il minimo indispensabile, in venti giorni partorisce la sua opera prima, per l’appunto “Sei stato felice, Giovanni”. Ricopia in fretta e furia il manoscritto a macchina e lo invia all’Einaudi, dove Italo Calvino non ne è convinto del tutto, ma grazie ad Elio Vittorini, per il quale il romanzo è da stampare “senza esitazioni” il romanzo vedrà la luce.

È proprio a Genova che Arpino decide di ambientare questo romanzo, facendo aggirare Giovanni, il protagonista, ed i suoi due amici Mangiabuchi e Mario, per i suoi vicoli ed il porto, mostrandoci e conducendoci per mano in una città che cerca faticosamente di rialzarsi dai danni della guerra.

Dei tre, Giovanni, è l’unico ad amare la lettura, e fa i salti mortali per avere la propria indipendenza, per vivere in una camera di un povero albergo e potersi ritagliare i propri spazi per leggere. Nonostante sia circondato dalla povertà, da compagnie non di certo illuminanti, e cerchi di vivere alla giornata cercando in continuazione trucchi per sopravvivere, i libri rimangono quella perenne finestra aperta verso la felicità, da lui tanto agognata.

Sono il suo rifugio sicuro che gli permette di poter gridare al mondo la sua diversità da chi, come ci dice riferendosi a Mangiabuchi: “Non sapeva né pensare né non pensare, vivere giorni seduto su uno scalino, solo mangiare e dormire sapeva e neanche bene”.

Se a Giovanni gli avessero sottratto il suo sentirsi diverso, estraneo da tutti, probabilmente non gli sarebbe rimasto più nulla. È la sua unica ancora, alla quale si appiglia con forza fin dalle prime battute. Sono intrise di visioni del futuro queste pagine, colme di paura per quel che sarà e ci sarà, e ci si rende conto facilmente con l’avanzare delle pagine di quanto sia cambiato essenzialmente poco da quel che dovevano provare i giovani nel dopoguerra, dove vi erano mille incertezze e incognite, alla sensazione di spaesamento e solitudine che si ha oggi, nel 2022. Si è tramandata quella perenne sensazione di vagabondaggio del destino, che non volendosi definire o delinearsi naturalmente davanti ai nostri occhi man mano che si cresce, ci fa girovagare senza meta, spaesati, cercando forsennatamente di raggiungerlo.

In ogni epoca, i giovani hanno sempre avuto problemi. Dopotutto sono i nuovi, gli appena arrivati, e come tali devono adattarsi ad un mondo già avviato, lanciato a tutta velocità su binari ben collaudati, e l’adattamento in qualsiasi ambito lo si faccia, non è mai facile. Esser giovani per Arpino è sinonimo di libertà, di notti insonni, di assenza di legami, vuol dire svegliarsi a sonno finito, andare al porto e camminare. Significa pensare in continuazione a come dare una svolta alla propria esistenza, trovare un lavoro che appaghi, che faccia fare una barca di soldi, ma al contempo non averne neanche più di tanto voglia, perché le giornate scorrono troppo in fretta e si ha anche voglia di trastullarsi,
bere, fumare, leggere.

Giovanni non è felice, ed il motivo è semplice, non è soddisfatto di quel che fa e mentre i suoi amici si accontentano di sopravvivere, saltando di giorno in giorno da un lavoro occasionale all’altro, lui soffre e si vede immobile, perché in cuor suo pensa di meritar di più. Quindi non appena si siede ad un bar per bere una birra, sente d’aver appena soddisfatto un bisogno, quello della pigrizia, della nullafacenza, è sereno lì seduto a guardare il mondo che gli scorre di fianco, ma non trascorre molto tempo prima che gridi disperatamente tutta la sua insoddisfazione e voglia di cambiare: “Venir fuori e mettersi per le strade a fare qualcosa, qualsiasi cosa per cui un uomo è un uomo e non solo una mano che dipinge cassette. Ero stato un mucchio di cose, mai un uomo che comincia a muoversi davvero.”

Le prova tutte Giovanni per essere felice, finché stremato nell’ultima parte del romanzo si arrende, e fissando il busto di un poeta che incontra passeggiando, gli parla guardandolo in faccia, senza timori, sfrontato, tirando fuori parole pesanti come mattoni, lasciandole lì ai suoi piedi. Quasi a togliersi un peso, che non gli permetteva più di muoversi.

“Io so solo che sono stato felice e che darei l’anima per poterlo essere ancora un poco. Sicuro, sono stato felice, ma non basta. Non basta mai”. Giovanni vuole andarsene da Genova, e lo fa, prendendo un treno direzione Roma e riponendo tutto quel che ha nella speranza.

La speranza che tutto quel che avrebbe avuto nella capitale sarebbe stato lontano anni luce da quel che aveva avuto fino al giorno prima. Voleva scordarsi della fame, dei debiti, dell’indefinito.

Non dorme in treno, non ci riesce, la speranza è troppa.

Grazie a Giovanni, si può riuscire ad esser felici.

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