‘Brama’ di Ilaria Palomba, una radiografia della psiche

Possedere l’altro, primeggiare, schivare le attenzioni di una madre morbosa, meritare il riconoscimento di un padre inarrivabile sono i desideri che animano Bianca, fragile trentenne, ricoverata più volte in psichiatria per i suoi vani tentativi di suicidio e protagonista del romanzo di Ilaria Palomba dal titolo Brama, edita da Giulio Perrone.

L’incontro con il filosofo Carlo Brama, ambivalente oggetto di desiderio, rende maggiormente precario lo stare al mondo della vulnerabile Bianca, e le apre un viaggio a ritroso nell’infanzia e nell’adolescenza pugliese, frugando tra i segreti di una famiglia borghese piena di scheletri nell’armadio.

L’amore non è una fiaba a lieto fine ma una radiografia della psiche, un legame tanto carnale quanto spirituale che, come in un rito, nel suo compiersi conduce al trascendimento della ragione. Tra Carlo e Bianca c’è un gioco crudele che diventa una condanna, una tessitura di destini, sacra e terribile, cui cercano entrambi di sfuggire.

Ilaria Palomba cita subito in esergo due concezioni della brama, secondo Alberto Savinio e Jung;  la protagonista desidera “come la terra brama il cielo”, ma poi citando “Il diario del seduttore” di Kierkegaard scrive che è “la paura il desiderio più grande,  la natura dell’anima umana” e nel capitolo 30 i termini desiderio e brama sono intercambiabili: questo non significa assolutamente confusione o inesattezza, ma difficoltà a stabilire differenze ontologiche tra brama e desiderio per chiunque.

La protagonista di Brama si alterna tra relazioni tormentate, autodistruzione, tentativi di suicidio sotto forma di “abbuffata di farmaci”, cure psichiatriche conseguenti e rischio reale di essere “lobotomizzata da farmaci”, che stabilizzano l’umore, annullano deliri e psicosi, ma allo stesso tempo appiattiscono la vita psichica.

La Giulio Perrone conferma ulteriormente con questo romanzo di pubblicare libri di elevata qualità. Quest’opera è senza ombra di dubbio frutto di grande talento e coraggio. È un’analisi psicologica incessante, arricchita da citazioni letterarie, psicologiche, filosofiche. Le rare volte in cui si descrive atti sessuali non c’è mai volgarità ma modernità. Il sesso poi non è mai estremo. Il sadomasochismo è soprattutto psicologico/esistenziale: come scrive magistralmente la Palomba è una “sfida a fottersi entrambi” da parte dei due amanti.

Vengono anche descritte le dinamiche patologiche familiari. Bianca infatti si sente una pazza depressa e una figlia ingrata, ma interiormente prova un forte disagio, tant’è che si definisce la “somma di pezzi non assemblati”. Carlo, il suo amante, non vuole solo il sesso o l’amore, ma soprattutto la mente; tuttavia anche la protagonista è considerata da chi la conosce bene una manipolatrice mentale.

In ambito sentimentale la stragrande maggioranza delle persone ha un archetipo definito, dei gusti definiti che portano a scegliere spesso la stessa tipologia di partner. Si usa dire che chi si somiglia si piglia. Ma non c’è una regola certa. A volte si possono scegliere persone complementari, mentre a volte si attraggono le persone totalmente opposte, completamente agli antipodi.  Sapere poi perché siamo esseri così abitudinari è difficile a dirlo.

Perché i nostri comportamenti sono incasellati sempre in pochi pattern, in poche categorie? Perché fanno parte della nostra identità e della nostra personalità di base che è sempre così stabilita e predeterminata? Siamo davvero degli esseri così prevedibili? È ciò che un lettore si domanda dopo aver letto Brama. In fondo siamo ciò che pensiamo e siamo ciò che facciamo e inoltre facciamo sempre ciò che pensiamo? I nostri desideri agiscono per noi? Siamo agiti dalle nostre sub-personalità?

Siamo come automi già programmati con schemi sia innati che appresi? Gli studiosi della mente cercano di dare risposte, ma c’è poco di certo. Tutti concordano nel dire che il cervello umano è “schematico” per adattarsi meglio all’ambiente,  per essere coerenti con noi stessi (dato che siamo ricercatori di coerenza e stabilità), per mettere ordine al disordine, per interpretare più efficacemente il mondo. Tutti siamo soggetti a schemi cognitivi, costituiti da modelli e rappresentazioni mentali, da convinzioni radicate nell’animo. Il problema è che alcuni hanno degli schemi “disfunzionali” e finiscono per imbattersi sempre nelle solite situazioni, nei soliti episodi.

Bianca è in un certo qual modo disfunzionale in amore. È anche vero che quando ci imbattiamo in una situazione viene attivata la memoria e in essa vengono cercate delle reazioni e dei comportamenti a situazioni simili che abbiamo già vissuto. È molto difficile cambiare, comportarsi in modo completamente nuovo ed originale.

Alcune domande sorgono spontanee. In che modo viene generato un modello di comportamento? Fino a che età si può cambiare schemi di comportamento? Una persona poi può cambiare i suoi schemi di comportamento senza snaturarsi totalmente? Una cosa è certa: molte persone sono molto conservatrici, hanno così paura del nuovo, dell’ignoto, del cambiamento, che preferiscono stare malissimo pur di rimanere tali e quali.

Il problema principale, croce e delizia al tempo stesso, è che la nostra esperienza è sempre troppo limitata per fare delle inferenze efficaci per il futuro. L’autrice infine ci fa domandare come potremmo Imparare a non farsi del male, a volersi bene. Sartre a tal proposito sosteneva: “È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulla solitudine, tra sociologia e letteratura del ‘900. Calvino, Pavese, Pasolini, Beckett, Weil, Camus

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire.

Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: “E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente”.

Solitudine: tra sociologia e letteratura

Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale,  si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come l’inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l’illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.

Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini.

Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel Mantovano e in provincia di Padova è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone.

Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell’antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. “Beata solitudo” dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i  giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer.

Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia,  ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l’io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L’amore innanzitutto,  poi l’amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione.

Amore e solitudine

Tuttavia oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: “Porci con le ali” (anni’70), “Altri libertini” (anni’80)  e “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (anni’90).

Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l’università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni’ 90 in poi si avvertiva che l’unica cosa che accomunava la generazione era l’autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro di Isabella SantacroceRimini”, il primo della serie.

Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l’amore possono imbattersi nell’insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall’impersonalità e l’anaffettività.

Come è difficilissimo avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d’amorosi sensi. L’abbraccio è sconosciuto a molti. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un’iniezione.

I grandi mistici e pensatori

C’è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell’anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio.

Anche per Santa Teresa d’Avila l’auto-perfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione.

Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l’anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante.

Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch’essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l’isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull’interdipendenza degli individui.

Calvino, Pasolini, Beckett

In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest’ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un’ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente.

C’è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine,  come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni hanno espresso questa inadeguatezza.

La società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un’omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch’esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un’illusione effimera e momentanea.

Pavese, Bassani, Camus, Pascoli, Lolli

La propria identità sociale si basa sull’appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch’esso un modo per non sentirsi soli. Sartre ne “La nausea” ci comunica che il mondo, l’esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura personificata dall’autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest’ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione.

Thomas Bernhard ne “L’origine” tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L’unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l’orrore inenarrabile e inesprimibile del lager.

Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma fu proprio “la mania di solitudine”, che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Bassani tratta dell’emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne “Gli occhiali d’oro” determinata dall’omosessualità.

Ne “Lo straniero” di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all’assurdo, che sfugge alla nostra logica.

Anche Moravia portò tutto alle estreme conseguenze con il romanzo “1934″. Il protagonista, un intellettuale vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita.

Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Giuseppe Ungaretti scrisse sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale:

“Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia  con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.

Pascoli si sentiva abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrisse: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è “un coltello sporco puntato alla gola”.  Si possono avere molte amicizie e l’amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c’è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

Claudio Lolli, negli anni Settanta cantava questo brano sul suicidio:

 

“Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quante ore, quante ore che ho passato,

Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,

Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

 

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,

Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.

Quanto amore, quanto amore ho riversato.

Nelle cose più impensate e più banali,

Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

 

Le persone che ho fermato per la strada,

Sinceramente possono testimoniare,

Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,

Ieri, prima di essermi impiccato.

Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …”

 

 

 

Sulla poesia del ‘900. Sperimentalismi, neolirismi, ideologie

Nel corso del ‘900, in poesia, si è diffuso il verso libero. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoperare tale verso e in merito a ciò scrisse: “Mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe”.

Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell’imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoperò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica.

Per quel che riguarda l’Italia i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava “misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)”, né il posizionamento di accenti tonici.

I poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche, mentre i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l’arte e il tentativo di ideologizzazione dell’arte stessa.

Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell’ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell’arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per  il poeta Robert Frostscrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».

Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.

La crisi della poesia

Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall’osservazione o dalla trasfigurazione.

Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basti pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio.

Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l’ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l’orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie.

Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l’ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch’essi non erano di facile comprensione.

Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l’intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall’altro lato erano anche contro il neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti.

Forse nel neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l’egemonia culturale e l’estetica dominante, contro la mercificazione dell’arte. Tuttavia spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi.

Infine la poesia degli anni Settanta con il neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”.

Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C’è perfino troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall’egocentrismo, dal narcisismo, dall’autobiografismo. È una poesia talvolta  autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro e il gradimento del pubblico è scarso.

I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all’1% del fatturato globale. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori.

Poesia e moralità

È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l’eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza.

Se il poeta era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si considerava soprattutto l’etica. Si giudicava la condotta. D’altronde anche la neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti.

Il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era “ideologia”. Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. È chiaro che la neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc.  Le due “chiese” comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento.

Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. una pura evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l’eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa.

Poesia e ideologia

Quali qualità deve possedere un artista per essere tale?  Un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri.

Secondo alcuni l’artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un’esigua minoranza.

Importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a “I tempi moderni” proponeva l’engagement.

Lo scrittore dunque era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Per Saba invece i poeti dovevano essere “sacerdoti dell’eros”. Anche D’Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne “Le vergini delle rocce” che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l’arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?

Lo stile può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di risultare troppo faziosi e di confondere l’estetica con l’ideologia.

In alcuni casi c’è la possibilità di confondere l’estetica con l’etica. Non dimentichiamo che in alcuni autori l’appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l’anarchia sono categorie dello spirito.

Non dimentichiamo neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all’entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi.

Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

Poeti di ricerca e neolirici

Probabilmente è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni.

Non è detto inoltre che tale distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo).

La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione.

Pasolini dichiarò che esisteva in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell’ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell’ultimo Cesare Viviani?

Non sarebbe originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a “pensare contro sé stessi” per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera “La tentazione di esistere”)?

Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch’essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti; e la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale).

La distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l’essenziale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L’essenziale lo si raggiunge con il levare, peculiarità della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l’accumulo, ovvero cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

 

 

 

‘Ladro di poesia’, la raccolta di Michele Piramide in cima alle classifiche Amazon

Michele Piramide con la raccolta Ladro di poesia è in cima alle classifiche Amazon. Il giovane autore sannita, dopo aver scritto a quattro mani un thriller, ora ha esordito poeticamente, rivelandosi molto promettente. Mentre la comunità poetica, sempre più caratterizzata
dall’autoreferenzialità collettiva, cerca invano di tracciare una linea di demarcazione tra poesia e non poesia, come faceva Croce, questo giovane, avvezzo ai salotti romani, dimostra tutta la sua intraprendenza e il suo piglio.
Quattro sono le caratteristiche che hanno decretato il suo successo: 1) uno stile tutto suo chiaro e nitido. 2) una grande umiltà. Infatti si definisce un ladro di poesia, non perché plagia, fa richiami intertestuali o cita a sproposito ma piuttosto perché riesce a cogliere gli istanti più opportuni per fare poesia. La poesia viene quindi considerata qualcosa di quotidiano, alla portata di tutti; l’importante è saper attivare il fanciullino pascoliano.
L’autore si definisce ladro di poesia anche perché presuppone che non sia lui a scegliere le parole, ma siano quest’ultime a scegliere lui. 3) la differenza tra realizzare il proprio sogno e il non realizzarlo talvolta consiste proprio nel credere nei propri mezzi. L’autore crede in quello che fa ed è il primo prerequisito fondamentale per presentarsi al pubblico. 4) una certa genuinità che contrassegna ogni verso. Appare subito al primo colpo d’occhio che i versi sempre brevi ma significativi sono dettati veramente dal proprio profondo. Non si percepisce alcuna posa.
Tuttavia si potrebbe affermare che un’altra qualità di questo lavoro, come scrive Flavio Calabrese nell’attenta prefazione, è il fatto che “il lettore si specchia senza fatica” nei sentimenti e nelle emozioni di Piramide.
Piramide sicuramente è stato in ascolto, si è raccolto nel suo mondo interiore, ha contemplato la natura. Probabilmente il riscontro così positivo nel pubblico  è dovuto all’empatia del poeta, che ha saputo sintonizzarsi sulle stesse frequenze della gente suscitando delle risonanze interiori. Piramide inoltre non si pone come genio che declama grandi verità, ma come un ragazzo della porta accanto che riesce saggiamente a mantenere un profilo basso, una sorta di understatement. Così facendo si è guadagnato la fiducia e la stima del lettore.
Un’altra dote che contraddistingue il poeta campano è la freschezza stilistica: Piramide non annoia con elucubrazioni cervellotiche, sofismi e parole ostiche.
La sua è una poesia che si gioca tutta sull‘hic et nunc, non si impicca ai ricordi, pur apprezzando la proustiana memoria involontaria. L’aspetto più originale della raccolta è il saper miscelare sapientemente contemporaneità e passato, recuperando la tradizione e adoperando archetipi greci, della letteratura classica e anche dei nostri giorni.
D’altronde il giovane poeta non poteva fare altrimenti per descrivere il mondo odierno, quello che con un ossimoro già sentito definisce “moderno medioevo”, periodo storico che purtroppo ancora oggi viene utilizzato in senso totalmente negativo e dispregiativo, ignorando la sua ricchezza culturale e scientifica.
In tutta la raccolta Piramide non fa altro che aggiornare continuamente i miti di ogni epoca. L’autore porta avanti una critica velata ai mali di questo tempo, denunciando il senso di inadeguatezza e di estraneità come condizioni esistenziali comuni. Nelle sue poesie vengono espresse le contraddizioni dell’amore e dell’esistenza stessa.
La poesia di Piramide tocca i momenti più alti con queste due espressioni verbali: “vivo: vuoto involucro” e “noi, ardenti sputi;/ stretti/ in terreni desideri”. A volte per cercare una forma espressiva congeniale alcuni autori impiegano anni. C’è chi spazia da un genere all’altro in una sperimentazione infinita. In questo caso sembra che l’autore abbia saputo dosare le forze e che sappia quello che fa e ciò che vuole.
Piramide cerca sé stesso piuttosto che un facile consenso, non vuole snaturarsi. Il poeta ha saputo estrarre dal cilindro parole adeguate, cogliendo quelle che Montale chiamava occasioni, dimostrando di saper evitare le trappole e gli inganni insiti nell’intellettualismo e nella pretenziosità, riuscendo a presentare un lavoro smilzo, mai corposo. Questo non è poco, ricordandoci che per lo stesso Calvino leggerezza non significava faciloneria.
In tal senso Piramide sa librarsi in volo leggero senza albagie né voli pindarici, anzi volando in modo saggio a mezz’aria.

Sul Nobel per la letteratura, vincitori e candidati italiani

Qualche tempo fa 18 donne denunciarono pubblicamente di essere state molestate da Jean-Claude Arnault, marito dell’accademica Katarina Frostenson. Questo scandalo travolse il premio Nobel per la letteratura.

Da allora il Nobel per la letteratura è meno considerato. Negli anni si è molto discusso delle scelte a dir poco opinabili dell’Accademia svedese. Qualcuno riteneva a torto o a ragione che alcuni accademici alzassero il gomito. Ma quale scrittore può vincere il Nobel? Quali sono i requisiti? Ebbene  chiunque abbia dato in termini generici “considerevoli benefici all’umanità” e chi “si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale”.

Ci sono sempre molte diatribe e polemiche riguardo al Nobel per la letteratura. Fortunatamente per ora nessuno si può autocandidare, ma nonostante ciò ci sono molte associazioni culturali, molte accademie di paesini sperduti che candidano al Nobel i loro preferiti. Certe candidature non sono minimamente credibili, ma certi personaggi in questo modo possono fregiarsi dell’etichetta “candidato al Nobel per la letteratura”.

Sicuramente per alcuni autori il Nobel è un’ossessione. Non sempre la candidatura viene fatta con cognizione di causa, a ragion veduta. Lo stesso Licio Gelli venne candidato al Nobel per la letteratura. L’associazione in teoria deve essere rispettabile e riconosciuta. Detto in termini più appropriati, deve essere selezionata dal comitato del premio Nobel per la letteratura.

In Italia l’istituzione più seria in questo senso è l‘Accademia nazionale dei Lincei, ma va bene anche il Pen Club. Dopo che è stato reso noto il nome del vincitore nei circoli letterari scaturiscono molte polemiche. Quando l’autore è sconosciuto ci si chiede chi sia questo carneade e molti pensano che sia dovuto a una ragione prettamente politica: alcuni sterili polemisti dicono per esempio che lo hanno scelto perché africano oppure perché oppresso ed esiliato, non per merito o bravura.

A onor del vero le minoranze sono sottorappresentate. Pochi africani hanno vinto. Per non parlare degli scrittori asiatici. In compenso l’Europa può vantare un grande numero di vittorie. Niente contro la letteratura francese, certamente di grande tradizione, ma che dire delle sue 15 vittorie? E che delle 12 vittorie degli Stati Uniti? E che dire delle 8 vittorie della Svezia?

Ci sono molte controversie. Innanzitutto come ha avuto modo di interrogarsi il poeta Luca Alvino: come mai per altre discipline il Nobel può avere vari vincitori mentre in letteratura no? Forse premiare più scrittori nello stesso anno significherebbe scrivere più motivazioni e ciò potrebbe apparire paradossale? Oppure bisognerebbe scegliere più scrittori e motivare le scelte con la stessa motivazione? Ma esiste una motivazione valida per più premiati? Andiamo oltre.

Due volte è stato rifiutato il premio: da Pasternàk e da Sartre. Ci furono polemiche anche per il Nobel attribuito a Bob Dylan. Qualcuno sostenne che avevano dato il premio a un cantante, come se il grande menestrello fosse un semplice cantante. Polemiche tutte nostrane ci furono per il Nobel a Dario Fo. Allora alcuni dissero che era stato premiato un buffone, mentre il poeta fiorentino Mario Luzi aveva subito una grave ingiustizia.

Luzi certamente era un professore universitario stimabilissimo e allora veniva considerato il più grande poeta del mondo. Il poeta fiorentino aveva scritto capolavori come Nel magma, evitando l’effimero e cercando l’eterno non scadeva mai nel patetico, come ebbe a scrivere Carlo Bo.

Giuseppe De Robertis scriveva che le poesie di Luzi erano “un continuo parlare a sé, all’anima, o a persona vicina e compagna di vita”. Luzi spiccava per la sua espressività,  per il suo simbolismo, per la sua vita interiore così ricca, infine per il suo spessore culturale. Le sue opere si contraddistinguevano per gli endecasillabi canonici, per le analogie mai scontate. L’animo umano compenetrava il paesaggio e viceversa,  non a caso “l’albero di dolore” scuoteva “i rami”.

Era tutto teso a cogliere i propri moti dell’animo e al contempo “l’immobilità del mutamento”. In “Nel magma” si poteva rintracciare la sua più alta espressione per i fitti dialoghi, per gli interrogativi esistenziali, per la commistione felice di percezione e filosofia, per essere un libro sapienziale, proprio come alcune opere dell’Antico Testamento.

L’Italia, per quanto non sia una nazione importante politicamente e la cui lingua sia parlata relativamente da poche persone, ha vinto il premio ben 6 volte con Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale, Fo. Certamente ci furono delle polemiche per i Nobel alla Deledda e a Quasimodo perché alcuni letterati non li consideravano meritevoli, non li ritenevano all’altezza.

Invece un gigante come Ungaretti non lo vinse mai. Lo stesso vale per Pascoli.  Alda Merini fu candidata ma non lo vinse. Aveva descritto l’inferno dei manicomi, la povertà, il disagio psicologico come pochi.

Albino Pierro fu in lizza e la sua candidatura accese i riflettori sulla sua Tursi. Tonino Guerra era ben visto a Stoccolma perché eccellente poeta e inoltre sceneggiatore di Fellini.

In un suo celebre componimento scriveva che c’erano persone che da generazioni facevano case e non possedevano una casa. In pochi ma memorabili versi c’era tutta l’ingiustizia capitalista, l’iniqua distribuzione della ricchezza. Anche Alberto Bevilacqua fu candidato, ma da alcuni era ritenuto troppo commerciale, troppo presenzialista in TV. La vera ragione era che non gli perdonavano libri come “La califfa”, in cui un’operaia si innamora del padrone, e “La polvere sull’erba”, in cui trattava degli omicidi nel triangolo della morte nell’immediato dopoguerra.

Pasolini se non fosse stato massacrato sarebbe stato in lizza per il Nobel. Ma probabilmente pagò per i suoi Scritti corsari. Anche Zanzotto probabilmente fu uno dei papabili per la vittoria. Tra i suoi meriti quello di aver diffuso il dialetto veneto, di aver creato quasi dal nulla un nuovo modo di fare poesia, di aver denunciato l’inquinamento e la perdita di identità della sua gente nel cosiddetto mitico Nord-Est.

Zanzotto era un poeta estremamente lucido e brillante. Un suo detto memorabile che amava ripetere nelle sue interviste e spiegava tutto sulla sua lirica “Al mondo” era che nella vita bisogna fare come il barone di Munchausen, ovvero bisogna tirarsi fuori dalle sabbie mobili afferrandosi per i capelli.

Aveva come difetto il fatto che la sua poesia metteva a dura prova anche i più preparati, ma era allo stesso tempo il segno inequivocabile che con lui si dovesse fare letterariamente i conti. Anche Dacia Maraini fu candidata e non vale la pena soffermarsi perché è una scrittrice davvero celebre. Più recentemente molti avanzarono la candidatura di Claudio Magris per la sua produzione saggistica di elevata qualità e per la sua promozione della letteratura mitteleuropea.

Si parlò anche di Roberto Benigni per la divulgazione della Divina Commedia. Qualcuno ad onor del vero considerò (giustamente) biasimevole questa scelta. I più esigenti ritenevano che l’esegesi di Benigni fosse inadeguata, approssimativa e in un certo modo improvvisata, se si confrontava alla smisurata preparazione di Vittorio Sermonti.

Naturalmente non poteva mancare tra i papabili Umberto Eco, uno dei pochi intellettuali noti in tutto il mondo grazie a “Il nome della rosa”. Era uno dei fondatori del gruppo 63 e pochi sanno che fu anche uno degli ideatori del Dams. Disquisì su tutto nelle sue Bustine di Minerva per decenni. Scrisse  anche un saggio breve di poche pagine su Mike Bongiorno, citato a sproposito da molti che ritenevano avesse scritto un intero libro sul celebre conduttore. Eco era essenzialmente un’enciclopedia vivente.

Si parlò persino della candidatura di Roberto Vecchioni, stimato professore, noto cantautore e poi scrittore di alcune opere, pubblicate da Einaudi. Le canzoni di Vecchioni avevano una cifra poetica innegabile, erano pregnanti e piene di riferimenti colti, di rimandi al mondo greco.

Vecchioni cantava di Aiace come di Euridice. Fu memorabile un confronto molto acceso alla trasmissione di Lilli Gruber tra Vecchioni e Valerio Magrelli sulla vexata quaestio del Nobel a Dylan.

Magrelli rivendicava la superiorità della poesia e sosteneva che la canzone non fosse minimamente paragonabile. Vecchioni ricordava che anticamente le poesie venissero cantate. La questione era già dibattuta e comunque sempre molto controversa.

Ricordiamo che è stato candidato a Stoccolma anche il poeta marchigiano Umberto Piersanti, autore Einaudi, operatore culturale, saggista, vincitore di prestigiosi premi letterari. Più recentemente è stato candidato al Nobel il professore e poeta Francesco Benozzo, che ha pubblicato tutti i suoi libri con Kolibris edizioni e che suona magistralmente l’arpa mentre canta i suoi versi. Nel 2021 è stato candidato a Stoccolma anche il poeta Guido Oldani, padre del Realismo Terminale.

Ma veniamo ai soldi: il premio Nobel ha un grande ritorno economico per la casa editrice con cui pubblica lo scrittore o il poeta premiato.  Già il premio Strega è una grande fortuna per un editore. Tutti vogliono comprare i libri dell’autore premiato. Immaginiamoci il premio Nobel oltre al fatto non indifferente che la vincita consiste in circa un milione di euro!

A ogni modo gli accademici svedesi hanno fatto molte ingiustizie a livello planetario, non solo per gli italiani. Joyce, Tolstoj, Virginia Woolf,  Fitzgerald,  Borges, Proust, Nabokov, Roth non vinsero mai il celebre premio.

Scorrendo i nomi dei vincitori ci accorgiamo che  non necessariamente tutti hanno fatto la storia della letteratura, che talvolta alcuni sono rimasti seminoti. Viene da chiedersi se questo premio possa davvero contribuire alla letteratura, se il prestigio di cui gode è veramente meritato. Probabilmente il Nobel è molto utile a promuovere un autore, una nazione, una  “buona” causa.

Calvino e Pavese, due scrittori a confronto

Calvino e Pavese lavorarono per alcuni anni alla Einaudi. Fu lo stesso Pavese a scoprire il talento di Calvino. Questo ultimo però stroncò il romanzo “Tre donne sole” di Pavese, che poi rispose il  29 luglio 1949: “Ma tu – scoiattolo della penna –  calcifichi l’organismo componendolo in fiaba e in trance de vie. Vergogna”.

Pavese si suicidò nel 1950. La sua scomparsa fu dovuta alle delusioni sentimentali e alla sua depressione. Era uno scrittore riconosciuto. Aveva vinto anche il premio Strega, era una figura di riferimento per molti scrittori. L’Einaudi pubblicherà postume nel 1966 le sue Lettere 1945-1950, proprio a cura di Italo Calvino.

Divergenze critiche

I critici non si trovano minimamente d’accordo. C’è chi sostiene che Calvino considerò  Pavese un suo maestro per tutta la vita; chi scrive che la Ginzburg e Calvino erano molto invidiosi di Pavese; chi ricorda l’affinità ideologica tra i due grandi scrittori, ma sostiene che avessero modi di intendere la letteratura diversi; c’è chi sostiene che Calvino era grato a Pavese e chi sostiene che in fondo non gli dimostrò molta riconoscenza in vita, ma solo a posteriori.

Nel 1953 Calvino ebbe modo di scrivere:

“E posso dire che per me, […], l’insegnamento di Torino ha coinciso in larga parte con l’insegnamento di Pavese. La mia vita torinese porta tutta il suo segno; ogni pagina che scrivevo era lui il primo a leggerla; un mestiere fu lui a darmelo immettendomi in quell’attività editoriale per cui Torino è oggi ancora un centro culturale d’importanza più che nazionale; fu lui, infine, che m’insegnò a vedere la sua città, a gustarne le sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le colline”.

C’era rivalità allora tra i due? C’era antagonismo? Oppure solo qualche incomprensione come succede anche tra sodali, tra migliori amici? Stilisticamente Calvino non sembra aver subito l’influsso di Pavese. La scrittura del primo era determinata dall’ossessione descrittiva e dalla completezza della resa della molteplicità fenomenica; quella del secondo dall’adesione alla vita, al flusso ininterrotto degli eventi e degli incontri: Calvino voleva descrivere il mondo, Pavese la vita dei suoi personaggi.

Calvino e Pavese: le differenze

Lo scrittore ligure era molto puntiglioso nel descrivere ambienti e personaggi. Pavese invece utilizzava un linguaggio meno esatto o comunque meno forbito, ma era sempre rigoroso ad ogni modo nella scelta dei vocaboli. Si potrebbe pensare che Calvino aveva un rapporto conflittuale con il linguaggio e che la sua scrittura fosse piena di revisioni e stesure.

Pavese aveva un rapporto più conflittuale con l’esistenza stessa, non riuscendo a venirne  a capo. Pavese non riuscì a entrare nel pieno della vita, per tutto il suo tempo però fu un osservatore partecipe, come nei suoi romanzi. In Calvino tutto il suo intelletto era proteso verso il linguaggio, che doveva rappresentare in modo esatto le cose e le persone.

In Pavese il linguaggio meno esatto ma pur sempre molto accurato doveva trovare l’essenza stessa della vita: entrambi si ponevano quindi degli obiettivi molto impegnativi, forse irrealizzabili. Se si analizza un singolo periodo potrebbe sembrare di primo acchito che chiunque possa scrivere come Pavese, ma lui fu il primo a scrivere in quel modo e al contempo va detto che ci voleva il retroterra culturale di un grande intellettuale per imbastire i suoi romanzi.

Come ebbe modo di scrivere lo stesso Calvino c’era sempre qualcosa di sottinteso nei romanzi di Pavese; c’era sempre qualcosa di sottaciuto e  fu definito per questo “reticente”. Pavese quindi solo apparentemente poteva considerarsi uno scrittore semplice, anche se la lettura dei libri di Calvino per la loro ricchezza lessicale mette alla prova un lettore non letterato, richiede talvolta l’utilizzo del vocabolario. Il primo romanzo di Calvino,  “Il sentiero dei nidi di ragno” in un certo qual modo da un punto di vista tematico, contenutistico, stilistico poteva avere dei punti in comune con le opere di Pavese, ma successivamente Calvino si dimostrò realista-favolistico, mentre Pavese un neorealista con il mito delle Langhe.

Calvino creatore di miti e archetipi

Calvino fu creatore di miti e di archetipi, mentre Pavese li prese direttamente dalla sua realtà quotidiana per poi metterli sulla carta, dimostrando tutta la sua creatività, pescando a piene mani dalla fantasia; Pavese attinse dalla quotidianità. In lui ci sono le Langhe e  la Torino di quegli anni; talvolta sembra che invece dello sfondo siano dei veri protagonisti dei romanzi: comunque sono determinanti, hanno un ruolo non marginale nella sua narrativa.

Forse è proprio per questo che il mondo di Pavese oggi può apparire più distante e meno attuale, mentre Calvino che ha scritto opere più scientifiche come “Palomar” e “Le cosmicomiche” sembra più attuale e per niente datato. Va ricordato a tal proposito che Calvino morì nel 1986, mentre Pavese solo nel 1950: lo scrittore ligure perciò ebbe modo di intuire e intravedere alcuni aspetti della nostra realtà odierna, mentre Pavese è ormai relegato in un’altra epoca più lontana.

Probabilmente Pavese ha meno da dirci oggi rispetto a Calvino e noi stessi possiamo capirlo di meno rispetto a Calvino. Il successo attuale della narrativa di Calvino probabilmente è dovuto al fatto che insieme a Rodari venga considerato uno scrittore per bambini, a differenza di Pavese, che forse viene ritenuto più cupo e più drammatico, insomma meno adatto per gli studenti.

Questo non rende pienamente giustizia a nessuno dei due: Calvino con la trilogia de I nostri antenati, che  raccoglie i romanzi  “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante e “Il cavaliere inesistente”, compie delle riuscite metafore dell’intellettuale della sua epoca (e questi libri sono perciò a doppio fondo, hanno una doppia chiave di lettura), mentre lo stesso Pavese, seppur tragico e suicida, può essere un esempio per tutti  come uomo, intellettuale e scrittore antifascista.

Si potrebbe asserire che Calvino fu più gnoseologico e Pavese più esistenziale, pur essendo entrambi accomunati dalle stesse idee politiche. Il modo di approcciare la realtà fu quindi completamente differente. La scrittura di Calvino sembra inimitabile, inarrivabile, sembra sempre così difficile, irraggiungibile, quasi perfetta.

L’esistenzialismo di Pavese

La scrittura di Pavese sembra più sciatta, mai impreziosita con vocaboli non comuni, apparentemente a uso e consumo di tutti, mentre in realtà a un’analisi più attenta non è così perché anche lo stile pavesiano richiede molto talento, molto studio, molto impegno.

Attualmente leggere i libri di Calvino è un must, è un dovere a cui non si deve sottrarre una persona dalle buone letture. Ma Calvino e Pavese si capirono? Calvino dichiarò che non aveva mai presagito niente delle volontà suicidarie dell’amico. Forse entrambi erano tutti presi a livello intellettuale da mettere da parte le vere ragioni di vita.

Forse Calvino scoprì veramente quel che covava segretamente nell’animo Pavese solo dopo aver pubblicato le sue opere postume. In “Sono nato in America…Interviste 1951 – 1985” (a cura di Luca Baranelli) lo scrittore ligure dichiarò:

“Conobbi Pavese dal ’46 al ’50, anno della sua morte. Era lui il primo a leggere tutto quello che scrivevo. Finivo un racconto e correvo da lui a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale. Prima che morisse, non sapevo quel che i suoi amici più vecchi avevano sempre saputo: che era un disperato cronico, dalle ripetute crisi suicide. Lo credevo un duro, uno che si fosse costruita una corazza sopra tutte le sue disperazioni e i suoi problemi, e tutta una serie di manie che erano tanti sistemi di difesa, e fosse perciò in una posizione di forza più di chiunque altro. Difatti era proprio così, per quegli anni in cui lo conobbi io, che forse furono gli anni migliori della sua vita, gli anni del suo lavoro creativo più fruttuoso e maturo, e d’elaborazione critica, e di diligentissimo lavoro editoriale”.

Il lascito intellettuale dei due fu molto differente non solo a livello narrativo ma anche per così dire saggistico; il testamento di Pavese fu “Il mestiere di vivere” fatto soprattutto da riflessioni esistenziali, mentre quello di Calvino fu “Lezioni americane”, costituito da intuizioni letterarie e culturali.

Il critico letterario Guido Davico Bonino ha ricordato una conversazione avuta con Calvino:

“Mi disse: io ho addosso ancora il rimorso pieno di non aver fatto quello che avrei dovuto per impedirgli di fare la scelta finale. C’era un affetto fortissimo di Pavese per Calvino. E schiettissimo”.

Calvino non aveva capito nel profondo Pavese, non afferrò pienamente il tormento, il disagio esistenziale del suo maestro o presunto tale. Su Calvino come critico letterario ci sono luci e ombre. Da una parte fu il talent scout di Daniele Del Giudice e Andrea De Carlo. Dall’altra dimostrò una idiosincrasia per il grande Guido Morselli, morto suicida e inedito (la cui scoperta fu dovuta a Calasso, che lo pubblicò postumo con Adelphi).

 

 

 

 

 

Considerazioni di un umarell sulla vita e la morte

Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell’ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l’Ecclesiaste.

Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere.

Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell’io.

Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l’amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posterità.

Dall’altra parte come scrisse Totò nella sua celebre ‘A livella “Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!”. Dall’altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L’amore sembra vincere la morte, ma anch’esso è destinato a finire.

Scrive in una sua poesia Sanguineti:Ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati”.

Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, e altre illustri personalità. Leggevo dalla Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni ’70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai.

Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista “Prato Pagano” negli anni ’80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l’oblio è tiranno.

L’oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C’è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni “io l’ho conosciuto”, “a me una volta confessò”, “quando collaborammo assieme”, scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt’altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa.

Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell’oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani?

Quando l’italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora  in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l’editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime  pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero.

Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una “legittimazione culturale”, ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea.

Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Naturalmente quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C’è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone “La stazione di Zima” (ricordando il poeta russo  Evtusenko) scrive che “ci facciamo del male perché non ci capiamo niente”. Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell’amore, della morte.

Come scrive in un suo aforisma Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”. La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli “stati molteplici dell’essere”.

Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza. La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l’opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita.

Sorgono spontanee dal basso  delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c’è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi soprattutto riguardo l’amore.

L’amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio….Così sarà per quel poco che ci rimane….forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le  nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande.

Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:

Recitiamo un copione o un canovaccio?

Si recita a soggetto? Si naviga a vista?

Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali

di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato

e neanche quali mani supreme ci muovono

e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee

che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,

talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?

Dal punto di una linea non si può comprendere tutto

questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:

ecco perché forse non si può capire

mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.

Forse non c’è alcuna logica nei nostri istanti.

Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.

In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.

Anche se fossimo linee

(regolari, frastagliate o curve chissà?).

il disegno non è lineare e ci trascende.

 

Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato.

‘Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo’ del geniale normalista Georgios Katsantonis

Georgios Katsantonis, nato a Patrasso nel 1987, è studioso di teatro e letteratura. Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Grecia) portando a termine un percorso completamente strutturato sulla drammaturgia europea, antica, moderna e contemporanea.

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Il suo ultimo lavoro dal titolo Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo (Metauro, 2021) ha vinto la XXXVII del Premio Pier Paolo Pasolini come tesi di dottorato. Tra le motivazioni si parla di un’opera contrassegnata da un “notevole spessore culturale”, in grado di fare accostamenti non comuni, di collegare le opere di Pasolini al pensiero di Deleuze sul masochismo, alle riflessioni sul potere di Foucault e di Spinoza, alla concezione degli animali di Derrida.

L’analisi condotta studia i seguenti temi:  1) il  corpo  in  preda  al  desiderio  sadomasochistico (Orgia), 2) la  zooerastia  (Porcile),  3) il  corpo recluso  tra  scissione  e  visionarietà (Calderón).

Ma allo stesso tempo c’è anche un’ulteriore analisi: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della polis (Porcile), la  società intesa come un mondo concentrazionario, come il  Lager (Calderón). L’autore riesce a scorgere un “fil rouge” nelle opere pasoliniane Orgia, Porcile, Calderón.

Il saggio è un’eccellente analisi interdisciplinare e comparata in grado di cogliere nessi originali senza mai forzare troppo la mano.  Katsantonis è in grado di fare collegamenti mai rilevati con pertinenza, acutezza, rigore filologico, senso critico assolutamente fuori del comune. Originalissima l’idea di non trattare del potere istituzionale come hanno fatto Weber, Parsons, Machiavelli, Pareto.

Il potere nel saggio di Katsantonis è analizzato anche da un punto di vista antropologico e psicosessuale. È studiato, per dirla alla Foucault, sia il micropotere (le dinamiche psicologiche per esempio) che il macropotere; inoltre l’autore molto intelligentemente fa capire che per Pasolini  l’immaginario collettivo è già omologato totalmente.

Un’altra caratteristica innovativa del saggio è che altri hanno descritto il masochismo morale freudiano o il masochismo politico (come Bruno Moroncini) in Pasolini, ma Katsantonis come nessun altro riesce a scrivere del sadomaschismo pasoliniano come filosofia, come estetismo, infine come vera ragione di vita. Suo cugino Nico Naldini aveva scritto in  “Come non ci si difende dai ricordi”: “

Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”.

L’opera è densa, ma mai troppo concettosa; è un lavoro accademico, ma che trascende lo specialismo; inoltre non è mai oracolare ed è provvisto di chiarezza espositiva. Il libro è suddiviso in tre capitoli. Nel primo viene accostata Orgia di Pasolini alla filosofia del boudoir di Sade.

Il boudoir è un luogo situato tra il soggiorno e la camera da letto, per intenderci. In tale contesto viene analizzato il corpo come vittima e la corporeità come assoggettata al potere; vengono considerate la dicotomia dolore/piacere, il passaggio dal culto religioso al culto feticista, la donna seduttrice in Sade, la questione femminile nelle opere pasoliniane.

Viene messo in evidenza che per Sade la vera schiavitù è l’accettazione della morale. Per quanto riguarda la questione femminile, per Pasolini le donne sono “vittime e marionette” nelle mani del sistema, ma a livello autoriale probabilmente l’intellettuale trascendeva i suoi limiti come uomo, che amava solo la madre e vedeva nelle altre donne delle rivali troppo emancipate, che gli rubavano i ragazzi di vita: forse nell’intimità Pasolini, come ebbe a dire Dacia Maraini, era moralista con tutti tranne che con sé stesso.

Il capitalismo viene considerato da Pasolini come nuova religione. Viene citata anche  l’ideologia del consumismo, il cosiddetto edonismo neo-laico. Per Pasolini “il sadomaso è soppressione di ogni limite”, andare oltre i propri limiti, cercare di non porseli.

Anatomia del potere ha una grande forza dialettica ed è in grado di far riflettere qualsiasi lettore, anche quello meno creativo. Se forse c’è un discrimine tra sadomaso come patologia e trasgressivo gioco di ruolo nell’ambito della normalità è la conoscenza dei propri limiti e non superarli. Per Pasolini invece il sadomasochismo forse è una via per il martirio.

Non a caso il titolo della tesi di dottorato di Georgios Katsantonis è “Drammaturgia del corpo patetico” pasoliniano. Viene da chiedersi se è lecita la libertà di opprimere o di essere schiavi. Il sadomasochismo per Pasolini è l’unica valvola di sfogo, l’unico modo di avere piacere in questa società.

Katsantonis ottimamente evidenzia la distinzione tra godimento e piacere, sottolineando il sadomasochismo pasoliniano come impasto di Eros e Thanatos. Per Pasolini soffrire significa uscire da sé per poi ritrovarsi. L’autore dà per scontato naturalmente che sia Pasolini che Sade sono dei nichilisti attivi, cioè vogliono distruggere la morale comune e la borghesia perché poi qualcuno in futuro ricrei una nuova società. Il sadomasochismo pasoliniano, come evidenziato nel saggio, è espressione della volontà di potenza neo-capitalistica.

Pasolini vorrebbe andare contro, ma anche lui deve comunque adattarsi alla società. Se per Karl Kraus “le perversioni sono metafore dell’amore” nelle opere di Pasolini il sadomasochismo è al contempo metafora e metonimia del fascismo.

Le pagine di questo libro generano molti dubbi e questo è naturalmente un merito del saggista. Forse uno dei limiti intrinseci di Sade e Pasolini è stato quello di aver dato sfogo a tutte le loro fantasie, di aver detto l’indicibile, di aver rappresentato l’impresentabile, ma a forza di eccessi si sono discostati troppo dalla realtà umana, in cui invece i sadomasochisti comuni si pongono delle restrizioni per disgusto, per morale, per dolore.

In una delle sue lettere alla moglie, Sade scriveva: «Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino».

In Pasolini e in Sade il sadomaso è anaffettivo, non è mai in funzione dell’amare e dell’essere amati, del soddisfare o dell’essere soddisfatti.  Inoltre in Pasolini e in Sade non viene mai pronunciato alcun “I can’t” dagli schiavi, come di fatto in pratica avviene. Viene da chiedersi se si può davvero liberarsi della morale come in Pasolini e in Sade oppure se restano sempre dei residui atavici, magari sotto forma di sensi di colpa.

Tuttavia bisogna ricordare anche che il  sadomasochismo pasoliniano scaturisce dalle limitazioni delle rappresentazioni del sesso all’epoca.  Come scriveva Pasolini in “Le belle bandiere“: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media, per esempio”.

Nel secondo capitolo viene studiato Porcile. Vengono messi in relazione il nazifascismo e il nuovo capitalismo. Non è un caso che i vecchi ex nazisti nel dopoguerra in America vennero messi ai vertici dei servizi segreti.

L’autore descrive il carattere di alterità del protagonista Julian. Spinoza discute con Julian della sua Etica, ma alla fine il filosofo abiura la sua opera perché ha prodotto come umanista il padre del protagonista e come tecnocrate il suo socio. Spinoza ammette che la Ragione è sempre ragione del più forte.

L’autore Georgios Katsantonis

Katsantonis sottolinea che per Pasolini la società capitalistica è un macello per uomini e animali. La domanda che sorge spontanea è quale sia il porcile vero? Quello di Julian o quello della società là fuori? Vengono citati anche Derrida, Deleuzee, Guatari, Artaud e il suo corpo senza organi. Quest’ultimo è un concetto filosofico apparso per la prima volta in Logica del senso di Deleuze, opera del 1969, che ha la sua prima espressione in una performance radiofonica di Antonin Artaud, intitolata “Per farla finita con il giudizio di Dio”.

Il corpo senza organi è il rimosso del corpo, una sorta di ambiente dinamico e informale, un campo di forze in cui si contrappongono tensioni diverse che determinano il desiderio. Il corpo senza organi è, in altre parole, un corpo senza organizzazione e di conseguenza assolutamente libero e fluttuante, eversivo, anti-istituzionale.

Nel terzo capitolo vengono paragonati il Calderón di Pasolini, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Un sogno di Strindberg. Si analizzano la prima Rosaria e l’incesto, la Rosaria prostituta, quella sottoproletaria, la medioborghese, infine quella prigioniera di un lager. La protagonista è succube del Potere: “obbedisce senza essere obbediente” in un ribellismo confuso ed è al contempo un “vaso semivuoto da riempire con il Bene borghese”.

Compare anche Enrique, studente sessantottino, che chiede asilo a casa dei borghesi. L’autore rimarca ancora una volta che tra il corpo e il potere c’è di mezzo un immaginario omologato. Non solo ma viene descritto “il concentrazionamento del mondo” e Katsantonis dimostra tutta la sua cultura citando l’istituzione totale di Goffman, autore conosciuto dai sociologi in Italia più per il suo rituale dell’interazione e per la perdita di faccia.

Bisogna ricordare che nel 1960 anche Bruno Bettellheim nel Prezzo della vita aveva paragonato la società capitalistica ad un sistema totalitario e nel 1964 Paul Goodman in La gioventù assurda aveva paragonato la civiltà dei suoi tempi a una corsa dei topi in una stanza chiusa.

Ma perché Pasolini vedeva nel neo-capitalismo un inferno terreno? Una coscienza politica non era possibile perché la televisione aveva imposto l’ideologia del consumo. Ciò che preoccupava Pasolini non era il centralismo dello stato né le istituzioni repressive ma il neolaicismo imperante e il nuovo edonismo propinato dai mass media.

Lo scrittore friulano aveva già capito che la televisione era un agente di socializzazione, capace di influenzare con i suoi messaggi le idee delle persone e dunque era anche la causa primaria dell’omologazione, grazie a cui il potere produceva una standardizzazione dell’immaginario. I giovani di borgata avevano iniziato a vestirsi, a comportarsi e a pensare come “i figli di papà”: non era più possibile distinguere un proletario da un borghese oppure un comunista da un fascista.

Tutto questo era frutto della “mutazione antropologica”, termine preso a prestito dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata prima dalla variazione e quindi dalla fissazione di alcuni caratteri. Nel caso della “mutazione antropologica” la variazione delle mode e degli stili di vita era decisa nei consigli di amministrazione delle reti televisive e poi fissata con i messaggi subliminali della pubblicità.

Pasolini sapeva perfettamente che i codici imposti dalla televisione diventavano subito comportamenti collettivi. La sottocultura di massa diventava interclassista. Tutti aspiravano agli stessi status symbol. Non si trattava più di appagare semplicemente dei desideri, il nuovo uomo di massa doveva soddisfare dei falsi bisogni. I disvalori del consumismo nel giro di pochi anni impoveriranno l’Italia.

Già allora stavano scomparendo le tradizioni di un tempo e non esistevano più le classi sociali. Tutti ormai erano diventati piccolo-borghesi.  Infine è creativo davvero l’accostamento in Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg nel ritenere la nascita una colpa.

Dopo la lettura di questo eccellente e acuto saggio ci si domanda se Pasolini, il quale considerava il potere come dominatore del corpo e della sessualità, se avesse ragione Marcuse con la sua teoria della desublimazione repressiva: il potere che concede libertà sessuale per ridurre le probabilità di critica e rivoluzione.

Anatomia del potere è una lettura doverosa per pasoliniani e profani, per comprendere meglio anche il nostro tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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