L’esperienza bellica in Saba, Montale, Ungaretti

Il ventesimo secolo è ricco di avvenimenti che hanno mutato dalle fondamenta il nostro Paese.
Le guerre, i regimi dittatoriali, hanno scritto la storia più cruenta del Novecento e hanno finito per creare un legame anche con la cultura del tempo, coinvolgendo sotto tutti i punti di vista scrittori come Ungaretti, Montale, Saba. Tre grandi pilastri della letteratura italiana, accomunati dall’esperienza della guerra, dalla cognizione del profondo malessere umano, quella solitudine esistenziale che ognuno di essi esprime attraverso il proprio stile, passando dalle “illuminazioni” ungarettiane, al “male di vivere”, a quella rottura insanabile tra individuo e mondo tipicamente montaliana, alla tenerezza infantile e non per questo meno profonda, che è il “marchio di fabbrica” di Saba.

Tutti e tre gli autori italiani affrontano nei propri versi gli orrori della guerra e ognuno ne mette in luce diversi aspetti, facendo di essa la “propria” guerra, ricercando oltre il dolore e la morte il senso più profondo della vita, attaccandosi attraverso la poesia, ad una speranza, che diviene speranza per l’intera umanità. Questo ci fa comprendere come la poesia e la letteratura in generale, non siano un qualcosa di lontano e obsoleto, ma sono vita che pulsa , passato che torna a vibrare nel presente, presente che scava nella storia e la rilegge, scoprendone ogni volta qualcosa di nuovo; sono le voci, le sensazioni, le emozioni di chi ci ha preceduto e che scopriamo inaspettatamente così vicino a noi; sono ciò che il nostro cuore, la nostra anima cela; è tutto ciò che spesso non siamo capaci di esprimere con le nostre parole. La guerra descritta in questi componimenti non è solo quella fisica, quella combattuta al fronte ma è anche la battaglia che l’individuo affronta quotidianamente con la propria esistenza, è la “molla” che fa scattare l’attaccamento alla vita o al contrario è la prova più evidente di quella profonda insofferenza insita nell’uomo, la dimostrazione di quella scissione insanabile tra individuo e mondo, l’ espressione di quella debolezza, incompiutezza, fragilità umana. Leggiamo in una poesia ungarettiana:
 

“… Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo.”

Il titolo del componimento è “ Sono una creatura” e appartiene alla raccolta “ L’ Allegria”. La poetica di Ungaretti è interamente pervasa dal ricordo dell’esperienza del fronte, da quella commemorazione così ermetica e per questo ancor più tagliente dei caduti di guerra, da quei flashback che sembrano squarciare la carta su cui si posano parole concise e prive di punteggiatura , che intrecciano passato e presente, dolore e speranza, vita e morte.

Eugenio Montale

Non poteva la poesia ungarettiana non risentire del bagaglio di sensazioni, ricordi, tomenti, di cui il poeta si fa carico partendo volontario per la prima guerra mondiale, legando la sua vita alla politica del tempo, partecipando con fervore non solo allo scenario culturale, ma anche sociale dei suoi anni. La pietra di cui leggiamo nel componimento è infatti quella del Carso, celebre per le sanguinose battaglie che ospitò durante la guerra, la cui durezza e asprezza viene paragonata al pianto del “soldato” Ungaretti, un pianto che non è più solo suo, ma di tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza della guerra; un pianto che si pietrifica nel petto, rendendoli incapaci di esprimere emozioni, dubbiosi sull’essere ancora delle “creature”.  “La morte si sconta vivendo”. Un pensiero profondo, abissale, che ci fa comprendere come il confine tra vita e morte sia labile, come l’una si mescoli inevitabilmente con l’altra, come non c’è vita senza morte né morte senza vita, poiché colui che sopravvive alla morte non può non pensare a chi invece ne soccombe. È un tormento che si “sconta vivendo”, e la vita allora rende schiavi della morte, creando un intreccio esistenziale delicato e complesso. Ne “Il sogno del prigioniero”, poesia di Montale, contenuta nella sezione  “Conclusioni provvisorie” de “La bufera ed altro”, con uno stile completamente diverso da quello ungarettiano, ma comunque complesso, il poeta attraverso l’utilizzo del “correlativo oggettivo” descrive, quasi come se stesse disegnando, una condizione di prigionia e di oppressione che si estende a tutta l’umanità, che vive intrappolata nelle trame e negli orrori della società moderna.

“….e i colpi si ripetono ed i passi
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito”.

 

Umberto Saba

Anche in questo componimento emerge l’intreccio tra vita e morte, che tocca però un campo ancor più complesso, quell’intima esigenza di moralità, priva di qualunque intenzione moralistica, tipica della poetica di Montale ; una moralità che serpeggia nei suoi versi, ma che è sfuggevole, evanescente, non si svela mai del tutto. “Il prigioniero”, qui metafora dell’umanità ,può divenire vittima o carnefice, in nome di un senso morale dimenticato o al contrario esaltato. Ma lo “ignora”, così come noi lettori per volontà del poeta ignoriamo quale sia la scelta che il prigioniero, dunque l’umanità, dovrà compiere. Il “sogno” citato all’ultimo verso è invece metafora di quella speranza, di quel ruolo salvifico che il poeta conferisce alla poesia, rappresentata simbolicamente dall’immagine di una donna-angelo; una poesia che è l’ultimo spiraglio di positività in un mondo che per Montale è pervaso dal “male di vivere”.
Anche nella poesia di Saba, seppure in quantità minore, si riflette l’influsso della guerra e di tutto ciò che ha rappresentato, come le persecuzioni razziali di cui il poeta è stato vittima. Ma Saba, a differenza di Ungaretti e di Montale , riesce a descrivere anche la guerra con una delicatezza e una semplicità espressiva che non ha eguali. In “Marcia notturna”, contenuta nel  “Canzoniere”, si descrive la marcia dei soldati lungo il mare e nei versi emerge un ritmo lento, pacato, che accompagna un’evanescente dolcezza di ricordi, ricordi d’infanzia, di quando il poeta non conosceva la guerra, ma la inventava, giocandoci:

“….così che intorno io mi ritrovi il bello
lasciato quando qui venni a marciare,
e i sogni dell’infanzia a ritrovare”.

Un’immagine della guerra nuova, una chiave di lettura diversa e singolare, pienamente accordata allo stile del poeta, che forgia il suo dolore, lo trasforma, lo plasma attraverso la poesia che per lui è il suo scudo, la sua corazza, il mondo del conforto e della speranza.
Tre uomini, tre anime profonde e complesse e una poesia che diviene passato, poi presente, infine eterno.

 

Polimorfia e mistero, la sessualità secondo Saba

Il celebre e sempre citato psicoanalista Sigmund Freud (1856-1939) sostiene che la nostra libido si sviluppi nella prima infanzia e che gli eventi di questa fase della nostra vita siano costitutivi e influenti per le scelte e gli atteggiamenti che useremo nel rapportarci all’altro sesso e nell’accettare con serenità o meno la nostra sessualità. In questo periodo, infatti, iniziamo a prendere coscienza del nostro corpo e dei nostri desideri attraverso un complesso meccanismo di attrazione e repulsione nei confronti dei due sessi che vengono inizialmente rappresentati dai nostri genitori. Se questa delicata fase esistenziale viene turbata da avvenimenti per noi “ traumatici” anche la nostra sfera sessuale ne risentirà e sorgeranno disturbi tra i quali il complesso di Edipo o di Elettra. Questa è la premessa doverosa per poter comprendere al meglio la poesia di uno dei poeti più “umani” e così “semplicemente”, “infantilmente” complessi tra quelli che figurano nel poliedrico scenario della letteratura del Novecento: Umberto Saba (1883-1957).

L’eros di Umberto Saba

La poesia di Saba potremmo metaforicamente definirla come una parte del suo corpo, un qualcosa che non può essere assolutamente scisso dalla sua esistenza e da quegli avvenimenti che hanno fatto del piccolo Umberto un uomo in preda alla nevrosi e un poeta, anche per questo, straordinariamente profondo. Una profondità così semplice e alla “mano” proprio perché sgorga viva e diretta, senza artifici né retorica, da un animo che alterna la quiete alla tempesta.

Nel mondo odierno dove il corpo, nella maggior parte dei casi, è carne da offrire, merce da scambiare, un oggetto da mostrare, sembra così lontano e arcaico il modo in cui Saba affronta la tematica della sessualità, polimorfa e misteriosa, dove nel componimento “Eros” , contenuto nella sezione “Cuor morituro” del “Canzoniere” a spogliarsi è soprattutto l’anima; l’anima di un “giovanetto”, come lo chiama il poeta, in cui non fatichiamo a riconoscere il Saba stesso, in quel rapporto complesso e sfaccettato con le donne, con l’amore, con il sesso, con la vita in generale e con se stesso. Leggiamo:

Sul breve palcoscenico una donna

fa, dopo il Cine, il suo numero.

Applausi,

a scherno credo, ripetuti.

In piedi,

dal loggione in un canto, un giovanetto,

mezzo spinto all’infuori, coi severi

occhi la guarda, che ogni tratto abbassa.

È fascino? È disgusto? È l’una e l’altra

cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa,

pensa se questo è l’amore. I lustrini,

sul gran corpo di lei, col gioco vario

delle luci l’abbagliano. E i severi

occhi riaperti, là più non li volge.

Solo ascolta la musica, leggera

musichetta da trivio, anche a me cara

talvolta, che per lui si è fatta, dentro

l’anima sua popolana ed altera,

 una marcia guerriera.

Il componimento consta di 16 endecasillabi e un settenario finale e narra ,attraverso un ritmo spezzato fatto di enjambement, che sembrano seguire e sottolineare l’affollarsi dei pensieri e delle sensazioni che si accalcano nell’animo e nella mente del protagonista, della visione di una donna che inizia a muovere il suo corpo in maniera provocante, rievocando in lui il rapporto con la propria madre.
“E’ fascino? E’ disgusto? E’ l’una e l’altra cosa? Chi sa? Forse a sua madre pensa, pensa se questo è l’ amore.” Con poche e significative parole, Saba ci conduce subito al nocciolo della questione, a quel piccolo Umberto che cresciuto senza padre, ha attraversato la sua infanzia e l’adolescenza, periodi formanti, immerso tra sole donne, e da loro, prima fra tutte la madre, non riesce a staccarsi. La mancanza di un punto di riferimento maschile, l’assenza della figura paterna ha causato conseguenze di cui il poeta porterà strascichi anche da adulto. La donna, confusa indissolubilmente con la madre, diviene per lui qualcosa di sacro, inviolabile, per questo non degno di essere guardato con malizia, di essere desiderato con ardore. Umberto dinanzi al genere femminile è come un bambino non cresciuto, che chiede protezione. Come potrebbe desiderare una donna? Significherebbe desiderare sua madre. Da ciò,“ è disgusto? “ .

Saba e la donna-angelo

La stessa Lina, moglie del poeta, come racconterà lui stesso nella poesia  “A mia moglie”, non rappresenta quell’amore travolgente e passionale, ma l’ancora di salvezza, la donna-angelo moderna, calata nella quotidianità, che è per lui l’annunciatrice di “un’altra primavera”, che lo salva, lo trascina fuori dalla sua “vecchiaia”, d’animo si intende. Ma c’è l’ altra faccia della medaglia, l’Umberto pur sempre uomo, che viene nonostante tutto, attratto dalla donna, essendone affascinato. Un fascino che non accetta con serenità, che gli fa fare i conti con la sua natura di uomo, cresciuto ormai, che gli fa chiedere cosa mai significhi essere “uomo”. E allora ecco palesarsi la “marcia guerriera”, il bivio, la scissione, i due poli genitoriali. Una donna , la madre, con la forza e il coraggio che generalmente e talvolta erroneamente , si attribuiscono agli uomini, ed un uomo, il padre, che si dimostra molto più fragile della fragilità, che talvolta, sempre erroneamente, è attribuita alle donne. Ed ecco confondersi i sessi, superare quei limiti costruiti sui pregiudizi duri a morire, ed emergere un’anima, quella del poeta, che confonde uomo e donna, ammirazione e desiderio, moglie e madre, virilità e paternità.

C’è un’altra chiave di lettura di questo bivio: due educazioni, due insegnamenti, quello rigido e moralistico della madre, “guerriero”, e quello “leggero” della balia o potremmo dire anche del padre, di quel padre che pur non occupandosi della sua educazione, con le scelte di vita che compie, gli dimostra “la leggerezza” del vivere, descritta nel componimento  “padre è stato per me l’assassino”, a cui il poeta si ispirerà nella sua arte. Questi due modi differenti di affrontare la vita portano Umberto a chiedersi quale sia il migliore, senza però trovarne risposta. E allora il compromesso: il protagonista di  “Eros” che abbassa lo sguardo ed evita di guardare la donna, ma ascolta la musica e lì vi concentra i suoi pensieri. Si conciliano così i due insegnamenti, che si fondono in un compromesso non solo in questi versi, ma nell’intera opera di Saba, che attraverso la sua poesia, fatta di un linguaggio familiare e semplice, contiene invece tematiche attuali e brucianti.

Docere e delectare, il cucchiaio ricolmo di medicina amara e bordato di miele appetitoso, avrebbe detto Lucrezio.

 

La poesia di Umberto Saba: un luogo di conciliazione

Umberto Saba

Tra le poesie più belle scritte da Umberto Saba, figura senza dubbio “Mio padre è stato per me l’assassino”, che fa parte dell’opera “Il Canzoniere” nella sezione “Autobiografia”. Ancora una volta il poeta con straordinaria semplicità espressiva riesce a mettere in rima la voce del cuore. Ma la domanda sorge spontanea: può essere un genitore l’assassino del proprio figlio?  Di un assassinio morale, emotivo, si intende. E con quale arma si è compiuto il delitto?

Per rispondere a queste domande bisogna conoscere la vita di Saba, quell’inquietudine che sottilmente e celatamente pervade anche i suoi versi più teneri e pacati; un’inquietudine silenziosa che deriva da un vuoto primordiale, creatosi prima ancora che il piccolo Umberto potesse rendersene conto: il vuoto dell’abbandono da parte del padre che il poeta rincontrerà a soli venti anni. Ed è proprio questa l’arma dell’assassinio: l’assenza di Ugo Edoardo Poli, un’assenza che “uccide” la serenità quotidiana del piccolo Umberto, che gli fa perdere durante l’infanzia l’innocenza della spensieratezza; un’innocenza che il poeta sembra voler ricostruire nei suoi componimenti, che trae linfa vitale dalla sua poesia, da quel linguaggio chiaro e semplice, che ad un lettore meno attento potrebbe sembrare rasentare la banalità e che invece risulta il mezzo migliore per introdurci in un campo complesso quale quello dell’emotività, della psicologia, dei ricordi. Un’innocenza pericolosa, si può dire, tanto è la sua semplicità.

Il sonetto ha il tono di una confessione lirica, con la quale il poeta scava nel proprio passato e riporta a galla in modo nitido e diretto la figura centrale del componimento, quel padre definito “assassino” dalla madre di Umberto Saba e per tanti anni considerato così dallo stesso Umberto, che però attraverso la sua arte poetica riesce ad andare oltre, oltre il dolore, oltre quell’ “antica tenzone” e scoprire in quell’“assassino” del buono.

Riportiamo qui di seguito i versi della poesia:

Mio padre è stato per me l’<< assassino>>,

fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.

Allora ho visto ch’egli era un bambino,

e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

 

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,

un sorriso , in miseria, dolce e astuto.

Andò sempre pel mondo pellegrino;

più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

 

Egli era gaio e leggero; mia madre

tutti sentiva della vita i pesi.

Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

 

<<Non somigliare –ammoniva- a tuo padre >>.

Ed io più tardi in me stesso lo intesi:                                                                                                        

Eran due razze in antica tenzone.                                                                                                                                             

 

La struttura compositiva del sonetto sembra funzionale a sottolineare la contrapposizione di due tipologie umane, di due razze, di due culture, quali quelle dei genitori del poeta. Le prime due quartine sono interamente dedicate al padre, mentre le terzine finali alla madre. La poesia per Umberto  Saba è lo strumento con il quale capire, analizzare e metabolizzare il proprio dolore, le esperienze della propria vita; ed è grazie a questa, che il poeta riesce a cogliere del buono in quel padre “fantasma”, ” gaio e leggero”, nonostante tutto il rancore che ha respirato di riflesso dalla madre, che invece, “tutti sentiva della vita i pesi”. Le stesse figure retoriche ci indicano questa diversità: l’uomo è rappresentato attraverso la similitudine del pallone che sfugge dalla stretta della mano della propria donna, con un ritmo narrativo leggiadro, che ci porta a leggere i versi a lui dedicati tutti d’un fiato, in un’atmosfera giocosa, “leggera” , che si addice perfettamente alla personalità dell’uomo, che spogliatosi dalle responsabilità familiari e paterne, se ne va per il mondo pellegrino, godendo della vita e delle compagnie che essa offre.

L’andamento ritmico cambia invece, quando viene introdotta la figura della donna , che porta sulle sue spalle il peso di tante preoccupazioni, un peso, sottolineato dalle significative inversioni, enjambement che rendono la lettura delle terzine a lei dedicate “pesante” e che quasi costringono il lettore a soffermarsi ad ogni parola; un ritmo narrativo, dunque, che sembra materializzare in versi la pesantezza della vita della madre del poeta.

La poesia di Saba svolge un ruolo di conciliazione. In questo schema ritmico, stilistico, narrativo di opposizioni, ritroviamo infatti un unico filo conduttore: l’amore di un figlio. Un amore, quello di Saba, che matura grazie alla sua arte poetica, un’arte capace sia di attingere alla” leggerezza” del padre, da cui ammette di aver appreso il “dono” della poesia, rendendola gioco, piacere, sia alla “pesantezza” della madre che aggiunge all’arte poetica di Saba quella giusta dose di serietà e responsabilità. Il poeta con i suoi versi, smette di giudicare e apre la via alla rassegnazione, divenuta con la maturità comprensione, come esprimono le due righe conclusive: “ed io più tardi in me stesso lo intesi: eran due razze in antica tenzone”.  Dunque la poesia diviene per lui  proprio questo: un luogo d’incontro, di fusione , tra due mondi opposti, che anche nel male gli hanno lasciato del bene: quel “dono” così grande, così ricco di spinte antitetiche, quel groviglio di emozioni che Saba per anni ha covato dentro, sentendosi in balia di due fuochi e che poi con il suo smisurato talento ha saputo conciliare, plasmare,  trasformare, per fortuna di noi lettori,  in una bellissima,  profondissima arte poetica.

 

 

Umberto Saba: una vita tra abisso e rose

Umberto Saba

Umberto Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste 1883- Gorizia 1957) è una delle figure dominanti nella cultura italiana novecentesca. La sua poesia  segna una strada alternativa rispetto alle tendenze consuete del periodo, è aperta ad una maggiore attenzione verso la vita, la realtà e i sentimenti più profondi dell’animo umano.Il poeta, sin dalla sua nascita, è segnato dal dolore, dalla solitudine e dall’abbandono, tematiche che non a caso impregnano i suoi componimenti e che sono espresse dall’autore con un linguaggio singolarmente tenero e familiare che sembra accarezzare e far vibrare le corde dell’anima.

 Saba nasce da madre ebrea e da  padre convertitosi all’ebraismo solo per contrarre matrimonio, infatti abbandona la famiglia e la religione ebraica con la nascita del piccolo Umberto, il quale è affidato ad una balia slovena, la Peppa, verso la quale Saba nutrirà sempre grande affetto e che ricorderà anche in alcuni suoi componimenti; la Peppa è per lui quel “ porto sicuro” nel quale rifugiarsi e colmare il vuoto dovuto all’assenza del padre e alla lontananza “emotiva” della madre, donna dal carattere aspro immersa nel rancore e la rabbia per una vita che le ha negato la gioia dell’amore e che l’ha lasciata a far fronte, da sola, ad un bambino piccolo e alle molteplici difficoltà economiche.

Il Canzoniere

Dopo aver compiuto gli studi ginnasiali a Trieste, Saba frequenta l’università di Pisa nel 1903, anno in cui avverte anche i primi sintomi di una sofferenza psichica, un male che lo accompagnerà per tutta la sua vita e che rappresenta quell’intimo grido di dolore del poeta, che per anni ha vissuto in un ambiente del tutto femminile e che mai riuscirà a colmare le lacune dovute all’assenza di una figura paterna. Cerca di ricostruirsi una vita “ normale” sposandosi e  avendo una figlia e comincia il suo esordio poetico verso la fine del 1910 facendo uscire a proprie spese a Firenze il suo primo volume di versi, Poesie”, che non ebbe grande successo.  Nel 1912 pubblica il suo secondo volume di versi nelle edizioni della rivista <<La Voce>> ,Coi miei occhi , che diviene poi Trieste e una donna”. Ma con lo scoppio della guerra mondiale, la tranquillità appena raggiunta torna ad essere sconvolta.  Presta servizio militare fuori dal fronte, dopo la prima esperienza avuta in Italia tra il 1907-1908. Tornato a Trieste acquista una libreria antiquaria che poi sarà costretto a vendere a causa delle leggi razziali, ma allo stesso tempo inizierà ad essere riconosciuto il suo valore come scrittore nell’ambiente di << Solaria>> e dalla critica di G. Debenedetti e di E.Montale.

La prima edizione del  “Canzoniere” appare nel 1921, seguita da quella del 1945 e l’ultima del 1961. L’opera è considerata un’autobiografia dell’autore, un’opera unitaria che esprime l’intreccio tra vita e creazione artistica e che ad ogni componimento ci svela un’esperienza, un’emozione, una sensazione del poeta. Il Canzoniere” è stato definito  << il romanzo [..] di una vita, povera (relativamente) di avvenimenti esterni; ricca, a volte, fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne , e delle persone che il poeta amò nel corso di quella lunga vita, e delle quali fece le sue “figure”>>. Il titolo “Canzoniere” non deve farci  pensare che Saba abbia voluto riprodurre il modello del Canzoniere tradizionale; lui, invece, si sottrae allo splendore e alla purezza dell’opera petrarchesca e mira a un libro che contenga i segni della sua vita, abbandona la bellezza assoluta, classica, ma ricerca una bellezza che si può scorgere nelle piccole cose, nelle gioie e nei dolori quotidiani, in ciò che forma la sua persona giorno per giorno e che costruisce il bagaglio della sua vita.   Tra le poesie del Canzoniere” che al meglio esprimono il linguaggio e la poetica di Saba e che raccontano dell’animo travagliato di quel poeta che ha l’abilità di narrare l’angoscia con tenerezza, abbiamo “Secondo Congedo”, che fa parte della sezione “Preludio e fughe”, di cui riportiamo di seguito i versi:

“ O mio cuore dal nascere in due scisso,

 quante pene durai per uno farne !  

 quante rose a nascondere un abisso!”

Con una sola terzina dal linguaggio semplice e l’utilizzo di poche ma essenziali figure retoriche ,quali la metafora incontrata al primo e all’ultimo verso, il poeta riesce a raggiungere grande espressività comunicativa e a toccare una tematica complessa come la scissione dell’io, diviso tra tenerezza e angoscia, tra amore e rancore, tra padre e madre. “O mio cuore” dice il poeta, e con questa metafora indica la sua intera esistenza che fin dalla nascita ha dovuto  subire una scissione, la separazione dalla figura paterna. La scissione però è anche di carattere emotivo oltre che fisico, è la divisione dell’io, sempre in bilico tra padre e madre, tra l’amore verso una donna che lo ha cresciuto da sola e la tenerezza verso un padre che vede come un “gaio bambino” e che fatica a riconoscere davvero come un assassino, termine con il quale lo ha sempre designato la donna; è la scissione che poi caratterizza anche  le scelte della sua vita, quella voglia di essere partecipe alla collettività e la paura di essere inadeguato, la sensazione di non essere opportuno, di apparire diverso. Quella diversità che affonda le radici nella lontana infanzia vissuta in una famiglia non “tradizionale”, una diversità di culture, razze, tradizioni che ha respirato fin dal primo momento in cui è venuto al mondo e che ha inevitabilmente contagiato tutta la sua esistenza. Superare l’abbandono, risorgere dalle macerie di una vita, sua e della madre, andata in frantumi, non è semplice. Il poeta ha esplorato più strade per arrivare a mettere insieme i cocci e ricominciare. L’abisso da una parte, le rose dall’altra , due metafore molto significative che rappresentano una vita tra tenerezza e angoscia, l’angoscia dell’abisso, di quel vuoto mai colmato, di quella solitudine mai sopita, di quel padre ritrovato a soli venti anni e le rose della vocazione letteraria, di quella passione per la poesia che gli permette seppure non di dimenticare, almeno di ricominciare.

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