Sottomissione di Michel Houllebecq: una lettura necessaria

“L’Europa è un continente morto. Oggi è in mano ai mercati, domani forse all’Islam”. Questa l’opinione, la visione terrificante di Michel Onfray, tra i più noti intellettuali francesi, nel commentare il romanzo in questione, Sottomissione, sul Corriere della Sera del 15 Gennaio di quest’anno. Il senso del libro di Houllebecq, che è visionario e realistico allo stesso tempo, in effetti, sembra essere proprio questo: non  un avvertimento sul tanto decantato imminente pericolo islamico, quanto una cruda analisi sulla debolezza esistenziale degli individui europei , in questo caso, significativamente francesi che ,a poco a poco, abbandonandosi alla comodità della sicurezza, della pigrizia, della vacuità e della tranquillità esistenziale, si sottomettono in modo democratico e consapevole. Francois, unica voce narrante e protagonista del romanzo, è un moderno “uomo senza qualità”, parafrasando l’austriaco Robert Musil, un intellettuale che incarna a pieno la parabola discendente della forza valoriale della tradizione d’Europa: un uomo di una normalità assoluta.

Già Tocqueville aveva ampliamente spiegato ne La democrazia in America, come la sostituzione con il mero interesse economico, operata per mezzo di secoli di cambiamenti filosofici e antropologici, dei valori  dell’Europa pre-illuminista e  la conseguente sostituzione della logica del coraggio, per semplificare, con quella del profitto, avevano sfibrato e privato l’uomo della necessità partecipativa ai processi politici ed economici e come l’unico valore veramente ricercato dall’uomo moderno fosse la tranquillità, correlata ad una quasi deontologica assenza volontaria da qualsivoglia ruolo politicamente  attivo. Nel romanzo di Houllebecq accade esattamente questo: tutto cambia e si trasforma nel mondo attorno a Francois senza che egli percepisca il minimo impulso di voler o dover fare qualcosa. Il tutto in nome della promessa e ambita tranquillità.

Gli occidentali appaiono tristi, stanchi, depressi, senza nessuno slancio, privi di mordente e quindi tutti potenzialmente già sudditi e facilmente sottomettibili. E così l’uomo totalmente nichilista dell’Europa contemporanea fa l’ultima cosa che gli rimane da fare per cercare di recuperare un briciolo di identità: si converte. Così come, sembrerebbe in modo profetico, viene dipinta sullo sfondo l’immagine di un’Europa diversa, di un’Europa completamente desertificata culturalmente, privata della sua più peculiare natura identitaria, di un vecchio continente talmente tanto impoverito nell’animo da essere costretto a divenire qualcos’altro pur di non scomparire nel nulla valoriale. Non c’è più il nostro Dio, non c’è più l’umanesimo integrale che ha pervaso le coscienze degli europei nei secoli, non c’è fibra tra gli uomini, non c’è difesa delle proprie provenienze culturali e artistiche: è tutto tragicamente morto. E così qualsiasi identità va bene, purchè non scomodi o sconvolga le dinamiche esistenziali del protagonista del romanzo.

Con lo stimolante e criticato Sottomissione, Michel Houllebecq si candida a ruolo di cantore della scomparsa dell’Occidente per come lo abbiamo intravisto e, in parte, conosciuto. Questo sarà sì un romanzo fantapolitico caratterizzato da un linguaggio “sporco” e freddo tipico del suo autore, ma parla di un suicidio volontario preparato e costruito nei decenni, il suicidio di una civiltà che ha smesso di essere se stessa, ha delegato, ad oggi, al denaro, forse un giorno delegherà all’Islam, a tutto, pur di non accettare di dover recuperare le proprie radici per poter smettere di essere profondamente sottomesso.

La natura politica della letteratura

Il novecento è stato un secolo dominato dalle ideologie. Per citare un’opera su tutte, esemplificativa di questo concetto, appare utile ricordarci de Il Novecento. Il secolo delle ideologie di Bracher Karl D., ove si percorrono minuziosamente la genesi e gli sviluppi dei fenomeni totalitari. Durante il secolo breve, la letteratura, come tutti i fatti umani, è complessivamente impregnata, utilizzando la definizione di Hobswan, di tutte le insenature pensieristiche dei fiumi totalitari. Negare la natura politica della letteratura equivale a negare un aspetto sottinteso, un nesso indissolubile e inequivocabilmente sempre presente. L’epica greca, partendo dal trapassato, è diretta, significativamente, alle πόλεις.

Il filosofo Massimo Cacciari, durante il “Premio Cesare Pavese 2014″, ha rimarcato con forza questo aspetto, asserendo che la letteratura occidentale,per mezzo del suo valore mitopoietico, ha fondato le qualità delle città e quindi le fondamenta stesse dell’esistenza convissuta. L’origine della letteratura, persino in chiave storica, appare quindi strettamente politica. Saltando più avanti nel tempo, potrebbero elencarsi infinità di esempi relegabili all’interno dell’insieme della “letteratura politica”, per evidenziare la declinazione delle intrecciate complicità di questi due mondi, che poi è la relazione tra il potere e il mondo intellettuale, basti pensare a Dante Alighieri.  Nel novecento la situazione appare farsi più complessa: indagando sulle riviste letterarie di quel secolo ci si rende conto dell’aspetto perfettamente organico di queste alle ideologie e alla propaganda di esse. Se prima della nascita dei totalitarismi, la letteratura si è principalmente distinta quale espressione indipendente dell’animo umano seppure, come si è visto, legata a doppio filo alle dinamiche del potere, alla auctoritas e alle sue manifestazioni, con l’avvento del novecento si innesta un processo di identificazione della letteratura con il pensiero dominante o con l’ opposizione e la resistenza ad esso.

Dalle pubblicazioni dell’estetismo decadente (<<Hermes>>, <<Leonardo>>, <<il Marzocco>>) alle esperienze di Gobetti e Gramsci (<<L’Ordine Nuovo>>, <<La Rivoluzione liberale>>, <<Energie Nuove>>), passando per le riviste fasciste (<<Gerarchia>>, <<La difesa della razza>>, <<Critica fascista>>) o attraverso le esperienze cattoliche (<<Il Rinnovamento>>, <<L’Eroica>>, <<Rassegna Nazionale>>), ci si può pienamente rendere conto di quanto viene pervaso il pensiero letterario da quello delle concezioni fideistiche delle visioni del mondo all’epoca presenti. Si contraddice, per così dire, la tensione esistenzialista di Sartre che, con la teorizzazione dell’intellettuale impegnato, l‘intellectual engaged, postula la necessità di non sposare una specifica dicotomica (destra/sinistra per semplificare) e di orientarsi diversamente, di volta in volta, verso scelte ideali orientate unicamente all’uomo e alla sua libertà. La funzione del letterato cambia radicalmente, banalizzando, con l’avvento dei regimi e se l’Imperatore Augusto necessitava di Virgilio per legittimare il proprio potere, questione anch’essa rimarcata da Cacciari durante il Premio sopracitato, gli aspetti contemporanei della politica non necessitano di legittimazione letteraria, anzi la respingono, prodotti come sono da cesure storiche-filosofiche invertibili. Quello che resta di questo processo, le scorie, appaiono essere le necessità degli uomini di potere di appropriarsi anche di “un’immagine letteraria”, utilizzando un esercizio di appropriazione a volte palesemente indebita delle opere letterarie e dei risvolti teorici a loro legate, etichettando autori e forzando l’attualizzazione di tematiche letterarie al fine di erudire un ipotetico pantheon di riferimento a cui un partito qualunque dovrebbe rivolgersi. Potere e letteratura viaggiano, durante i nostri giorni, su binari distinti, distanti e ben differenziati, apparendo quasi mossi da una reciproca repulsione, la letteratura appare disimpegnata e priva della sua originaria funzione creatrice.

Il romanzo di carattere politico-sociale è un genere ormai in disuso, estinto, non riproponibile. D’altro canto, la politica ha smesso di pensare e di esigere delle basi culturali per sostentare idealisticamente la propria esistenza , limitandosi così alla etichettizzazione di autori del passato per esigenze non sostanziali. Entrambi gli ambiti si mostrano, in definitiva, vicendevolmente impoveriti. Viene totalmente smarrito quell’appello di Orwell presente all’interno di un saggio del 1948 dal titolo significativamente Hobbesiano, Gli scrittori e il leviatano, nel quale l’autore di 1984, scriveva:

“E quindi? Dovremmo concluderne che ogni scrittore ha il dovere di non immischiarsi di politica? Certo che no! In ogni caso, come ho già detto, in un’epoca come la nostra nessuno che abbia un cervello riesce a tenersi, o si tiene in pratica, fuori dalla politica”.

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