William Saroyan: un autore da riscoprire

(Fresno, 31 agosto 1908 – Fresno, 18 maggio 1981)

 

Nel mondo moderno, quello dove non si ha mai tempo per niente, non c’è spazio per William Saroyan. Fate attenzione a William Saroyan, non leggete William Saroyan, non parlate di William Saroyan!                    

Ebbene, nel mondo moderno, leggere William Saroyan ci rende nuovamente uomini fatti di carne e sangue: uomini vulnerabili; mentre per gli uomini vulnerabili, di spazio e di tempo, nel mondo moderno, frenetico, materialista e  fratricida  non ce n’è.

Nato a Fresno, in California, il 31/08/1908, da una famiglia armena scampata all’ennesima persecuzione, William Saroyan è lo scrittore della semplicità per eccellenza. Una semplicità mai banale, mai melensa: l’unica semplicità con cui si può rappresentare il mestiere di essere un uomo. Una semplicità inarrivabile.

Le sue storie sono inevitabilmente frutto di esperienze di vita difficili che non lo abbandoneranno neanche al vertice del successo: la perdita dei genitori, l’orfanotrofio, i lavori umili per la strada come lo strillone e il telegrafista, la consapevolezza dell’appartenenza alla minoranza armena, il gioco d’azzardo e i problemi d’alcolismo che non possono mai mancare nel pedigree del grande scrittore.

Comincia a scrivere da giovanissimo, poggiandosi sulle basi di una cultura da autodidatta. Comincia a morire da giovanissimo perché, come lui stesso afferma nel racconto Il mondo e il teatro, “un uomo, per cominciare a vivere, deve cominciare a morire. Giorno dopo giorno”.                                                                                                                      

Scrive con una tale semplicità, con una tale naturalezza, da produrre quantitativi enormi di racconti che confluiranno in raccolte straordinarie; la prima è Il trapezio volante e altri racconti (1934) seguita da Inala ed esala (1936), Il mio nome è Aram (1940) e dal capolavoro Che ve ne sembra dell’America? (1940): in totale saranno nove. Autore polivalente, opera anche per il teatro per il quale confeziona, oltre che numerosi adattamenti dei propri racconti, la commedia The time of your life (1939) per la quale gli viene conferito il premio Pulitzer, che rifiuta.

Lo rifiuta affermando che l’opera per cui era stato premiato non era “ne più grande ne migliore” delle altre che aveva scritto. Del resto già nel racconto Settantamila assiri, precedente alla nomina, scriveva:

“Io non desidero diventare famoso, non aspiro al premio Pulitzer o al premio Nobel. Sono qui, in fondo all’ovest, a San Francisco, in una piccola stanza di Via Carl […] e se ho un desiderio, scrivendo, è di mostrare la fratellanza degli uomini”.

Un intento, questo, che rispecchia fedelmente il modo pieno di vivere la vita utilizzato da Saroyan: con estrema bellezza e con totale disinvoltura. Una disinvoltura che è la  chiave per cogliere tutte le sfumature dell’uomo di cui sono tinte le sue pagine oltre che la stessa con la quale perde e vince fortune al gioco, con la quale si sposa per poi divorziare e infine risposarsi con la stessa donna.

Già scrittore di successo, dopo il 1940 si dedica alla stesura del romanzo cardine della sua produzione: La commedia umana (1942). La sua poetica, la sua persona, i suoi obiettivi; tutto si potrebbe sintetizzare in uno dei titoli più significativi della storia della letteratura; é una storia piena di bontà quella di Homer, ragazzo orfano di padre che dopo il liceo lavora come telegrafista in quanto uomo di casa. Una storia di solidarietà tra gli abitanti di Itacha, suo paese natio, dove il fratellino Ulysses gioca a scoprire il mondo mentre il fratello più grande Marcus è chissà dove nel vecchio continente a sparare al nemico; è  la storia di un mondo che non c’è più, quello raccontato dalle nonne, un mondo pieno di dignità. A questo grande romanzo, da cui è stato tratto l’omonimo film che ha vinto l’Oscar come miglior soggetto nel ’44, è seguito da altri minori come Giorni di vita e di morte e fuga sulla luna (1971) e Luoghi ove ho speso tempo (1975) che hanno pagato un po’ di sentimentalismo in più rispetto agli scritti giovanili. Ciò non toglie che, di fondo,sono vergati dalla stessa mano piena di rabbia che ha sempre contraddistinto William Saroyan oltre che letti dai suoi stessi occhi curiosi della vita come il primo giorno.

William Saroyan è, è stato, e sarà. Soprattutto in tempi come questi, in cui fa notizia ciò che è violento e morboso, in cui siamo costantemente messi sotto pressione da brutte notizie e dove i cattivi esempi vengono pubblicizzati, l’unica cosa di cui tutti avrebbero veramente bisogno sarebbe fermarsi un attimo e respirare una lunga ventata di bontà. C’è bisogno di bontà. Ecco perchè diventa un delitto il fatto che le librerie non trabocchino di opere di William Saroyan, che bisogni cercarlo in un angolo polveroso e che non sia resa giustizia ad un maestro a tutto campo che riscosse successi nella letteratura, nel teatro e nel cinema.

Poco prima di morire all’età di settantadue anni, il 18/05/1981, Saroyan usce di scena da protagonista dal mondo che tanto aveva descritto inviando personalmente il proprio necrologio ai giornali:

“Naturalmente sapevo che gli uomini muoiono, ma pensavo che per me avrebbero fatto un’eccezione. E adesso?”

Francis Scott Fitzgerald: l’anima americana di una generazione perduta

Quando vi trovate in una libreria, magari in uno di quei pomeriggi d’autunno densi e piovosi, la cosa migliore che può capitarvi è arrivare per caso sotto il pannello della lettera F, trovare in un angolo i libri di Francis Scott Fitzgerald, innamorarvene e farvi la scorta per l’inverno.

La parabola della voce più significativa dell’età del Jazz e della generazione perduta è subito evidente dai luoghi di nascita e di morte: venuto al mondo a S. Paul, nel Middlewest, il 24/09/1886 lo lascia ad Hollywood il 21/12/1940 a soli cinquantaquattro anni. Quella di F. S. Fitzgerald è una storia fatta di successi vertiginosi e di cadute disperate, degna di uno dei pilastri di tutta la letteratura del novecento. In un articolo del 1933 lo stesso Fitzgerald scrive:

“Tendenzialmente, noi scrittori dobbiamo ripeterci. Nella nostra vita facciamo due o tre esperienze importanti e toccanti […]. Poi impariamo il mestiere, più o meno bene, e raccontiamo le nostre due o tre storie – ogni volta camuffate in modo diverso – forse dieci volte, forse cento, finchè la gente ci sta ad ascoltare”.

Le esperienze dello scrittore parlano d’infanzia e d’abbandono. La prima riguarda la sua famiglia: cresce infatti da borghese decaduto nel Minnesota, fortemente segnato dalle condizioni sociali dei genitori: la madre è figlia d’immigrati irlandesi arricchiti mentre il padre americano mette in fila un fallimento dopo l’altro, dovendo così accettare di essere pagato dal suocero sostanzialmente senza lavorare. Il carattere del giovane Fitzgerald si forma dunque ereditando l’inconcludenza dal padre, un’ambizione sociale tanto spiccata quanto irrealistica dalla madre e  il resto  mettendocelo di tasca propria: l’ossessione per una gioventù perfetta e la fragilità di chi è dotato di un talento enorme.

La seconda esperienza porta banalmente il nome di una donna: Ginevra King. Francis Scott è consapevole della sua bella presenza ma “Mi mancavano le due cose più importanti” – scrive- “il carisma e il denaro. Tuttavia avevo le due cose che nell’ordine vengono subito dopo: un bell’aspetto e l’intelligenza. Perciò conquistavo sempre la ragazza più ambita”. Peccato che questa definizione di se non fosse precisa, soprattutto quando si parlava di donne fornite sia di carisma sia di denaro. E Ginevra King, oltre che fortemente carismatica, era certamente molto ricca.

Tra i due nasce una storia destinata a durare qualche tempo, abbastanza da permettere a F.Scott di idealizzare il loro rapporto: infine lei lo lascia con noia ed indifferenza sposando un uomo abbiente. Ecco che arriviamo alla matrice di gran parte dei romanzi e dei racconti fitzgeraldiani, il ragazzo povero disperatamente innamorato della donna ricca, con cui non può coronare il suo sogno d’amore a causa della propria condizione sociale. Questa è la storia di Amory Blane e Rosalind Connage in Di qua dal paradiso, di Dexter Green e Judy Jones in Sogni invernali; è l’ingiustizia di Jay Gatsby e Deasy Fay Buchanan ne Il Grande Gatsby. A conferma di ciò ne Il Grande Gatsby, Fitzgerald inserisce come ostacolo nella relazione tra Jay e Deasy lo stesso tipo di uomo che fu ostacolo nel suo rapporto con Ginevra; un uomo che di professione fa il ricco banchiere e che nel tempo libero gestisce una tenuta di cavalli: nel caso letterario ci troviamo di fronte al personaggio Tom Buchanan che, appunto, deve il proprio io all’ostacolo di Scott, il padre di Ginevra.

Negli anni successivi a questa storia d’amore Fitzgerald lascia gli studi all’università di Princeton (dove era membro del prestigioso “Triangle Club”, circolo di sceneggiatori teatrali per gli spettacoli del college) per arruolarsi come volontario nell’esercito e partecipare allo sbarco in Europa della prima guerra mondiale. Inviato da un capo d’addestramento all’altro non mise tuttavia mai piede sul vecchio continente: non la prese bene. Quando ancora era amico di Hemingway, egli diceva sempre di invidiarlo per la sua partecipazione al conflitto che, a detta di Fitzgerald, gli garantì una vita molto più interessante della sua, piena di esperienze e di incontri con grandi personaggi della storia (Hemingway intervistò infatti, tra gli altri, Lloyd George e Mussolini). In questo lasso di tempo Scott conosce , ad un ballo per ufficiali, la futura moglie Zelda: la sua figura era perfettamente sovrapponibile a quella di Ginevra sia per estrazione sociale sia per personalità. Prendendo spunto dalla vita privata, Fitzgerald crea un canone di donna fitzgeraldiana standard che popola ogni sua pagina, ogni suo racconto, ogni suo romanzo: una donna volubile ma determinata, bella, sfrontata, volta solo al divertimento e all’assenza di pensieri gravi che paradossalmente la inseguono e le tormentano. Per intenderci, una donna come Brett di Fiesta, capolavoro di Hemingway (Ernest deve infatti molto a Fitzgerald, fu Scott che lo fece conoscere in America e gli procurò contratti, gli presto dei soldi, lo idealizzò come un’eroe). Insieme a Zelda, Scott vagabonda per il mondo facendo spola tra la mondanità americana e la vecchia mamma Europa in cerca di risparmio economico ed ispirazione: Italia, Francia, Inghilterra. Nonostante guadagnasse 36.000 dollari all’anno (cifra considerevole per l’epoca) il suo stile di vita non gli permetteva infatti di mettere da parte neanche un dollaro.

Inseguito la crisi del ’29 segna la fine di un’epoca; la fine sì dell’età del Jazz e delle disponibilità economiche, ma anche di quella frizzante spensieratezza che teneva in vita i ruggenti anni ’20 e Fitzgerald stesso. La fine di un uomo. Zelda è costretta a rivolgersi ad una clinica per i suoi sempre più frequenti attacchi di schizofrenia: un giorno segue un corso di danza, un giorno tenta il suicidio, un giorno tradisce Scott con un aviatore francese. Fitzgerald entra in depressione e cade definitivamente nell’alcolismo più nero; impiegherà anni per finire il suo quarto romanzo Tenera è la notte. Firmato un importante contratto con la MGM per una collaborazione nel mondo del cinema, Scott muore ad Hollywood nel quaranta tra attacchi di panico e di cuore.

Nella logica dell’opera di uno dei più grandi esponenti della tecnica cinematografica è costantemente rispettata l’alternanza tra romanzi e raccolte di racconti (pagati meglio dagli editori e per questo prodotti maggiormente da un Fitzgerald sempre alla ricerca di soldi, scritti alle volte tutti di un fiato arrivando a ventuno ore di lavoro): Maschiette e filosofi , Belli e dannati, Tutti i giovani artisti, La sveglia, Gli ultimi fuochi (uscito postumo).

Lo scenario che fa da sfondo alle opere dello scrittore americano è un vortice dove Jazz, belle epoque, caffè francesi, dove disagio generazionale e letteratura pervadono ogni cosa; dove cinismo e romanticismo sono inscindibili, dove si è costantemente ubriachi: per tre settimane di fila per aver perso la fidanzata, in luna di miele quando la si è sposata, per i suoi primi segni di schizofrenia. Una vita in cui, per essere capita, bisogna calarsi con tutti i cinque sensi e possibilmente anche con il sesto. Ritrovando nelle sue pagine quell’America leggera, frivola, capricciosa e spregiudicata che tanto si reincarna in lui e in Zelda.

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