‘Faximile’: quando la letteratura di ogni tempo viene “riscritta”

Si può immaginare la Costituzione italiana composta in endecasillabi, o il Prologo della Divina Commedia formulato come un problema di geometria, o le Ultime lettere di Jacopo Ortis tramutate in una corrispondenza via e-mail? Faximile. 101 Riscritture di opere letterarie (Homo Scrivens, 2016) è il libro che rende tutto ciò e molto altro non solo possibile, ma anche divertente e persino naturale, preservando i meccanismi di riscrittura dal pericolo di una colta artificiosità per ottenere invece un effetto di piacevole leggerezza.

Si tratta di un’antologia che raccoglie i contributi di più di sessanta autori, ciascuno dei quali ha scelto un testo classico di riferimento da rielaborare, stravolgere e porre in una prospettiva inedita, per dare vita a una versione alternativa dell’opera originaria, con esiti singolari, bizzarri e innovativi. Nascono così testi come l’Incoscienza di Zeno, il Giro del mondo in 80 rime, una riscrittura futuristica di Pinocchio, Novecento di Baricco in sole novecento parole, Malafemmena di Totò in veste stilnovista e l’Iliade trasformata in una partita di calcio. Il titolo Faximile, con la x a rimodernare con ironia l’antico termine latino, esprime eloquentemente la commistione di generi, epoche e linguaggi operata dagli autori.

Il volume, pubblicato dalla casa editrice napoletana Homo Scrivens e curato da Aldo Putignano e Giancarlo Marino, è stato presentato, nella sua nuova edizione, nel corso della Fiera Nazionale della Piccola e Media editoria “Più libri più liberi”, che dal 7 all’11 dicembre 2016 riunisce a Roma oltre 400 editori indipendenti offrendo una “vetrina d’eccezione” nel periodo natalizio.

Faximile è descritto dai suoi curatori come «Un viaggio unico e irriverente nel mondo della parola scritta». L’irriverenza, però, nasce da un atteggiamento giocoso verso la letteratura, e non certo dal vilipendio dell’opera di riferimento. Dietro l’audacia, la parodia e l’apparente disincanto, ogni riscrittura nasconde in realtà un omaggio all’autore originario, o almeno un impulso a riscoprire con occhi nuovi il fascino dei classici e il loro intramontabile messaggio, esaltando il valore multidimensionale del testo letterario. Gli autori dell’antologia hanno dunque saputo fare propria la riflessione dell’OuLiPo sul carattere combinatorio e “potenziale” della scrittura ― si pensi agli Esercizi di Stile di Raymond Queneau, vero manifesto della riscrittura –, indirizzando però le loro energie creative verso le ricche miniere della tradizione letteraria universale. Tale approccio sembra costituire lo spirito più autentico di Homo Scrivens, che nel 2004 inaugurò la sua attività di Compagnia di scrittura proprio con la prima edizione di Faximile, e che in seguito, nel 2012 ha pubblicato un’altra opera dal sapore giocosamente metaletterario, paradossale già nel titolo: l’Enciclopedia degli scrittori inesistenti.

Pisa Book Festival: editoria e cultura tra la Toscana e l’Irlanda

11, 12 e 13 novembre 2016, tre date per esaltare la vitalità della cultura che nasce dal basso e per celebrare l’audacia di un’editoria pronta ad affrontare le sfide del futuro. È l’obiettivo perseguito con passione dagli organizzatori del Pisa Book Festival, e dai ben centosessanta editori indipendenti che vi prendono parte con esposizioni, reading e laboratori.
Il festival letterario, che per il quattordicesimo anno riunisce nel Palazzo dei Congressi della città toscana importanti personalità della cultura, ospiti internazionali e semplici appassionati di scrittura e lettura, si è già riconfermato come un evento leader in Italia per il settore dell’editoria indipendente.

La manifestazione del Pisa Book Festival, promossa  e sostenuta dal Comune di Pisa e dalla Camera di Commercio di Pisa, si è aperta quest’anno con una serie di incontri dedicati al panorama culturale dell’Irlanda, «un paese piccolo, che tuttavia è noto per essere una superpotenza letteraria» come ha affermato l’ambasciatore irlandese in Italia Bobby McDonagh nel portare i suoi saluti al pubblico.
Madrina d’eccezione dell’evento è stata Catherine Dunne, nota scrittrice irlandese, che ha tenuto un discorso inaugurale incentrato sull’importanza della letteratura nella formazione del senso d’identità nazionale e, al contempo, nel superamento di qualsiasi confine fisico o psicologico imposto arbitrariamente. «Scrivere non è sempre solo l’atto in sé, ma è anche la pazienza di nutrire ciò che verrà, quando e se noi saremo pronti» ha detto la scrittrice.
Irlandesi sono anche Barry McCrea, Joseph Farrel, Cormac Millar e Conor Fitzgerald, autori di successo presenti al festival per presentare i loro ultimi romanzi.

L’altra faccia della vocazione internazionale del Pisa Book Festival si volge invece a oriente, con il laboratorio Chinese Corner, dedicato allo studio dell’affascinante calligrafia cinese, presentato dall’Istituto Confucio di Pisa.

Nella giornata di venerdì ha avuto luogo anche il Translation Day, con una serie di incontri professionali dedicati alla traduzione editoriale, a cura di Ilide Carmignani.
La sezione Made in Tuscany, curata da Vanni Santoni e riconfermata anche quest’anno, si interrogherà invece nelle ultime due giornate sulle peculiarità di essere scrittori in Toscana, unendo in un unico evento i contributi di autori già affermati con quelli di giovani promettenti. Vanni Santoni coordinerà anche il workshop Scuola del libro, l’ambizioso corso intensivo su scrittura narrativa ed editing, volto a trasmettere con brevi lezioni importanti accorgimenti stilistici e strutturali su come costruire l’architettura di un romanzo, oltre che nozioni di base sul mondo dell’editoria e sui processi che portano dalla scrittura alla pubblicazione.

Il Pisa Book Festival si propone inoltre di incoraggiare la diffusione della cultura letteraria tra i bambini e i ragazzi, attraverso il progetto Io leggo in biblioteca, diretto dalla Provincia di Pisa e rivolto alla promozione della lettura, ma anche tramite incontri organizzati e gestiti da alcuni istituti scolastici della città, nei quali saranno i ragazzi stessi a presentare al pubblico gli autori che hanno letto.

«Sono convinto che il Pisa Book Festival crescerà ancora fino a diventare uno dei più grandi festival letterari al mondo» ha dichiarato Nick Barley dell’Edinburgh Napier University, dando voce a un entusiasmo che, senza alcun dubbio, non può e non deve mancare all’interno delle realtà editoriali che intendono farsi strada nella società dei media e dei social network per riuscire, ancora una volta, a trasmettere il messaggio eterno della cultura a nuove generazioni di lettori.

Stati generali della lingua italiana 2016: Italiano lingua viva

«Gli Stati generali della lingua italiana nel mondo sono venuti a risciacquare i panni in Arno». Con questa metafora di manzoniana memoria il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella ha aperto il suo intervento nel corso del convegno intitolato Italiano lingua viva, organizzato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale nell’ambito della XVI Settimana della lingua italiana nel mondo.

Due giornate, 17 e 18 ottobre 2016, per riflettere sulla diffusione dell’italiano nel mondo – in Europa e ben oltre –, sulle modalità di studio e sulle potenzialità che la conoscenza della nostra lingua porta con sé nell’era dei media e della globalizzazione. Il luogo, Firenze, è l’emblema del desiderio di costruire ogni futura innovazione sulla solida base di una cultura dalla storia antica e gloriosa.

«Dobbiamo riprogettare continuamente l’immagine del nostro paese» ha detto ancora Mattarella, «senza soffermarci unicamente sulla nostalgia del passato». Il Presidente ha ricordato la vocazione universale della lingua italiana, nata dall’influenza della sua produzione letteraria e dalla più recente diaspora dei suoi parlanti, e ha poi sottolineato la necessità di contrastare la «falsa alternativa» che vorrebbe creare rigide distinzioni tra lingue della tradizione e lingue della modernità. Il connubio tra passato e presente, con l’enfasi posta sul secondo molto più che sul primo, è stato realizzato e reso evidente attraverso i temi che il convegno ha posto in primo piano: l’italiano nella moda, nel design e nell’industria in generale.

Secondo Dario Nardella, sindaco di Firenze, l’iniziativa non è stata un semplice convegno, ma «un confronti tra istituzioni, intellettuali e imprenditori, uniti per la valorizzazione dell’italiano». Più che un evento celebrativo, gli Stati generali della lingua italiana nel mondo hanno in effetti rappresentato un’occasione per far emergere nuove proposte, favorire uno scambio di idee tra esperti di linguistica e professionisti della comunicazione, e far proseguire i progetti iniziati durante le due passate edizioni, tra cui il lancio del primo Portale della lingua italiana (https://www.linguaitaliana.esteri.it), con la collaborazione del MIUR, dell’Accademia della Crusca, dell’Accademia dei Lincei, della Società Dante Alighieri e di altri importanti enti e organizzazioni culturali.

Una questione particolarmente interessante è stata introdotta da Piero Bassetti, autore del libro-manifesto Svegliamoci italici! (2015), che nel suo intervento ha parlato dello sviluppo di una sempre più numerosa ed eterogenea “comunità di sentire” composta da “italofili”, persone che condividono un forte legame verso un concetto di italianità puramente linguistico e culturale, indipendentemente dall’appartenenza nazionale e dalla provenienza geografica. La crescita di tale comunità globale, secondo Bassetti, deve spingerci ad abbandonare del tutto la vecchia concezione della lingua come strumento di potere e di affermazione, divenuta dominante nel nostro paese all’epoca del fascismo. Da espressione dell’identità legata al nazionalismo, la lingua si sta dunque evolvendo per diventare espressione di un’”identità di valori”.

L’idea di Bassetti sembra aver trovato un’immediata conferma con l’intervento di Hammadi Agrebi, italianista tunisino cresciuto con una forte passione per la nostra lingua, una passione che gli ha permesso di diventare insegnante di italiano in Tunisia, nazione in cui ben 46.000 studenti liceali apprendono a scuola l’idioma di Dante come terza lingua facoltativa, un numero che, ha assicurato Agrebi, è destinato a crescere ulteriormente. Da dove nasce questo interesse? Secondo il docente tunisino, che ha anche fondato nel suo paese la Giornata della lingua italiana (giunta ormai alla quattordicesima edizione), le generazioni del passato studiavano l’italiano esclusivamente per amore della nostra sconfinata tradizione letteraria. Oggi, secondo Agrebi, per alimentare questa passione nei giovani tunisini è necessario venire incontro alla loro preoccupazione primaria: il difficile ingresso nel mondo del lavoro. La sfida, dunque, sta ora nel trasformare lo studio dell’italiano in un valido strumento di inserimento professionale che possa attrarre anche la nuova generazione.

Che la nostra lingua riesca ad emanare un tale fascino e a generare simili propositi ed iniziative nel cuore di paesi stranieri che siamo abituati a percepire come culturalmente distanti, dovrebbe certamente stimolare e far riflettere soprattutto il popolo italiano, che si ritrova purtroppo afflitto, come ha fatto notare il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, da un crescente “analfabetismo di ritorno”, fenomeno che può essere contrastato solo tramite una formazione continua che coinvolga ugualmente giovani e adulti.

‘Ecco la storia’: l’audace metaromanzo di Pennac

Ecco la storia è un romanzo pubblicato nel 2003 dal celebre scrittore francese Daniel Pennac, attivo anche come insegnante in un liceo parigino per quasi trent’anni e sceneggiatore teatrale.

Terminata da poco la fortunatissima saga del “capro espiatorio” Malaussène, che aveva visto la luce nel 1985 con il romanzo Il paradiso degli orchi, Pennac abbandona il mondo ironico e fiabesco dei suoi vecchi personaggi per spostarsi in un campo narrativo non meno bizzarro: Ecco la storia è infatti un singolare intreccio di realtà e finzione, un libro perennemente in bilico tra fantasia e autobiografia, con una trama che non procede in maniera lineare, ma si muove su un percorso contorto e imprevedibile.

«Sarebbe la storia di un dittatore agorafobico» dichiara un insolito incipit con un verbo al condizionale. Viene introdotta così la vicenda del sudamericano Manuel Pereira da Ponte Martins, figlio di un ricco latifondista, dotato fin da bambino di una forte ambizione a esercitare il potere, sogno che egli realizza ben presto attraverso un delitto e un colpo di stato. Terrorizzato dalla profezia di una veggente che gli ha predetto la morte per mano del suo stesso popolo, Pereira si fa sostituire da un sosia, che istruisce a dovere prima di fuggire in segreto dal paese. Il sosia sceglierà poi un altro sosia, il quale ne sceglierà a sua volta un altro, in un intricato gioco narrativo che rievoca un tema-cardine della commedia classica. È un processo potenzialmente infinito, che può ripetersi illimitatamente, ma che dovrà in realtà arrestarsi a causa dell’inaspettata evoluzione di questa stramba fiaba del potere.

La voce narrante, che si identifica con lo scrittore stesso, interrompe con frequenza la storia del dittatore Pereira e dei suoi sosia, lasciandola sospesa nel vuoto ed evidenziando così il carattere tutto ipotetico della trama – e della scrittura in generale -, come si evince fin dall’inizio dall’uso del condizionale. Lo scrittore interviene per narrare aneddoti autobiografici, vicende che rivelano la genesi del libro, incontri con persone reali che la fantasia dell’autore ha poi trasfigurato in personaggi fittizi. Queste lunghe e invadenti parentesi costituiscono il vero spirito dell’opera, che si presenta come un metaromanzo capace di stravolgere i parametri convenzionali della narrativa. Far procedere la trama diviene così una semplice opzione, una possibilità che preme per essere realizzata, ma che perde sempre di più la sua consistenza.

Le parti autobiografiche, che il lettore vede come segmenti di pura realtà, si contaminano a poco a poco con il mondo della finzione: si rimane dunque sorpresi nello scoprire che alcuni eventi raccontati da Pennac sulla sua vita non sono di fatto mai avvenuti, e che persino il personaggio di Sonia, con cui egli intrattiene lunghe conversazioni, non è mai esistito.

Ancor più che alla definizione di metaromanzo, è lecito affermare che Ecco la storia si avvicini all’idea novecentesca di iper-romanzo, quel «luogo d’infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili»,  come spiega magistralmente Italo Calvino nelle sue Lezioni americane. Pennac, in fondo, fa proprio questo: crea una macchina per moltiplicare le narrazioni, costruisce storie che si intrecciano su una cornice che risulta a sua volta modellata dalle vicende che da essa si dipartono. L’audacia che sta dietro a una simile scelta di scrittura avvicina Ecco la storia a opere come Se una notte d’inverno un viaggiatore dello stesso Calvino e La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec.

La riflessione, tuttavia, non si limita alla sola letteratura: il gioco di Pennac coinvolge anche il cinema, che entra prepotentemente nella trama attraverso i personaggi di Charlie Chaplin e Rodolfo Valentino. E proprio la visione del film di Chaplin Il grande dittatore permette al primo sosia di Pereira, che ha lasciato la patria per diventare un grande attore, di rispecchiarsi nella figura del barbiere senza nome e di formulare contorti ma profondi pensieri sul potere, il sacrificio e l’identità.

Facendo appello a una sensibilità letteraria che sarebbe arduo pretendere indistintamente dal grande pubblico, con Ecco la storia Pennac sembra ricordarci che un libro può avere pieno diritto di esistere e di essere letto anche senza essere scorrevole dalla prima all’ultima pagina, anche se la narrazione rinuncia alle vie lineari a cui siamo tanto abituati, anche se ci fa smarrire e ci conduce lontano, lì dove non vorremmo andare.

 

‘Anna’: l’apocalisse degli adulti di Ammaniti

Anna (Einaudi, 2015) è il settimo romanzo di Niccolò Ammaniti, scrittore romano giunto alla notorietà nel 2001 con il successo di Io non ho paura, e vincitore del Premio Strega nel 2007 con Come Dio comanda, libri che furono entrambi trasposti al cinema dal regista Gabriele Salvatores.

Nel delineare le caratteristiche principali che accomunano tutte le storie di Ammaniti, la penna esperta del critico letterario Alberto Asor Rosa ha scritto che «L’infanzia e l’adolescenza s’impongono fino a produrre un atto di solidarietà fra simili/uguali» (Dall’Introduzione all’edizione 2014 della raccolta di racconti Fango).

Bambini e adolescenti: personaggi preminenti nelle opere di Ammaniti, detentori di una prospettiva unica in cui l’autore ama da sempre calarsi, divengono nell’ultimo romanzo i protagonisti indiscussi di un singolare scenario da cui la realtà degli adulti è scomparsa lasciando solo un’ombra da ricercare con malinconica nostalgia. Anna si ambienta infatti in un mondo post-apocalittico in cui una terribile epidemia ha sterminato l’umanità, risparmiando però i minori di quattordici anni. “La Rossa”, questo è il nome della spietata malattia, pur essendo stata contratta dall’intero genere umano, rimane silente nei bambini, non provocando sintomi né danni, fino al periodo fatale rappresentato dal sopraggiungere della pubertà.

Anna: trama e contenuti del romanzo

Il romanzo segue le vicende di Anna, la protagonista, e del suo fratellino Astor, persi tra i miseri resti di quella che era un tempo la casa della loro famiglia, lande desolate, città distrutte e luoghi invasi da un’aura inquietante e surreale. È in questo macabro contesto che la sopracitata osservazione di Asor Rosa, senza dubbio valida per i titoli precedenti, non può più applicarsi alla trama e allo sfondo narrativo di Anna: la solidarietà fra simili è infatti pesantemente inghiottita da uno spirito primitivo di sopraffazione; i bambini che si aggirano tra le rovine della civiltà non aspirano a creare un reame idillico dove far regnare la proverbiale innocenza infantile, bensì lottano instancabilmente tra loro, si associano in bande di teppisti senza scrupoli o in misteriose sette fondate su un misticismo vacuo, strappano agli altri tutto ciò che possono servendosi del furto e dell’inganno.

Ciò che rende il romanzo Anna interessante è proprio l’immagine non stereotipata e non mitizzata dell’infanzia che in esso viene proposta. Un’immagine cruda, impietosa, sconvolgente ma molto più realistica degli scenari edenici e fiabeschi a cui la letteratura ci ha spesso abituato, come nel caso esemplare del castello misterioso descritto ne Il grande Meaulnes di Alain-Fournier. Ammaniti introduce quindi un elemento controverso capace di sfidare il gusto del pubblico e gli schemi della mentalità comune, una scelta importante per uno scrittore di grande successo internazionale inevitabilmente obbligato a confrontarsi con le logiche commerciali. Tale scelta si concretizza in maniera particolarmente efficace grazie alle descrizioni molto aspre e al linguaggio violento e diretto che da sempre animano lo stile di Ammaniti, uno stile che la critica ha talvolta considerato eccessivo in senso sgradevole proprio a causa dell’indulgenza sui dettagli macabri.

Anche l’inclusione della componente fantascientifica e l’ambientazione post-apocalittica meritano una riflessione. Si tratta di elementi tutt’altro che innovativi, ben presenti nella narrativa precedente (l’esempio più vicino è senza dubbio La strada di Cormac McCarthy), ma soprattutto nel cinema americano, che da decenni propone al pubblico scenari catastrofici ormai familiari incentrati sull’estinzione del genere umano. Nel romanzo di Ammaniti, tuttavia, il tema apocalittico sembra porsi come il punto di arrivo di un percorso coerente che si è delineato nelle opere precedenti attraverso lo sguardo disincantato dell’autore rivolto a una società allo sbaraglio e orientata verso l’autodistruzione. Non è un caso che, già nel 1996, il più esteso dei testi pubblicati nella raccolta Fango si intitolasse L’ultimo capodanno dell’umanità, titolo in apparenza ingannevole, perché l’esplosione descritta nel racconto non colpisce l’intero pianeta, ma soltanto un complesso di palazzine a Roma, ma di fatto calzante, in quanto l’umanità che la storia mette caoticamente in moto non è altro che un emblema universale di annientamento collettivo.

Alle immense megalopoli del cinema americano, distrutte da invasioni aliene e catastrofi nucleari, Anna contrappone una Sicilia spaventosamente inedita, abbandonata gradualmente a sé stessa con la fine della civiltà degli adulti, e dominata sempre più dal mondo rurale e selvaggio che varca a poco a poco i limiti artificiali delle città.

Difficile è comprendere il valore che nel romanzo ricoprono la speranza e la voglia di rinascita, che pur essendo presenti nei pensieri della protagonista e nelle illusioni diffuse tra la popolazione sopravvissuta, non riescono mai a concretizzarsi o a trovare un appoggio razionale degno di credibilità. Se da un lato i nomi di Anna e Astor, entrambi con l’iniziale A, sembrano richiamare l’idea di un nuovo inizio per il mondo, dall’altro la forza dell’epidemia appare incontrastabile, e i segni del morbo rimangono dietro l’angolo, in attesa di manifestarsi con l’inizio dell’adolescenza, l’età dove si entra nella “vita reale”, che invece diviene l’età dove si incontra la morte. E qui, in questo senso di inesorabile sconfitta, in questa angoscia che, per la prima volta in un romanzo di Ammaniti, supera di gran lunga l’ironia, si colloca forse il vero messaggio dell’opera, del tutto implicito e velato in un nichilismo senza uscita, eppure deducibile nella sconfortante conclusione della trama: oltre la speranza di salvezza, la possibilità di un riscatto, e persino oltre la sopravvivenza, ciò che conta sono i legami, la condivisione, il vivere insieme conservando intatti i sentimenti.

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