‘La scomparsa di Stephanie Mailer’, l’ultimo giallo di Joël Dicker

La scomparsa di Stephanie Mailer (La Nave di Teseo, 2018) è l’ultimo giallo dell’autore svizzero Joël Dicker, famoso per La verità sul caso Harry Quebert del 2012, romanzo dal quale a breve sarà tratta una serie tv. Dopo aver pubblicato uno spin-off del suo più grande successo, Il libro dei Baltimore (La Nave di Teseo, 2015), un romanzo di formazione e un dramma famigliare al tempo stesso, Dicker torna al genere mistery, che tanto gli è congeniale.

La scomparsa di Stephanie Mailer racconta un cold case, come ne La verità sul caso Harry Quebert, un quadruplice omicidio avvenuto nel 1994, creduto risolto ormai da tempo. Jesse Rosenberg, il poliziotto che si era occupato del caso, sta per andare in pensione, quando una giovane e ambiziosa giornalista, Stephanie Mailer, lo contatta per informarlo che l’indagine del 1994 aveva delle falle e che in realtà il vero colpevole è ancora a piede libero. Naturalmente, come da tradizione in un buon giallo che si rispetti, l’unico ad avere delle risposte scompare. Stephanie Mailer svanisce nel nulla quella sera stessa e questo da l’inizio al romanzo. Jesse Rosenberg ritarda il prepensionamento anticipato e torna in pista, insieme alla sua spalla di un tempo, Derek, e a una nuova affascinante poliziotta, Anna. Torneranno a Orphea, deliziosa cittadina degli Hamptons dove nel 1994 è avvenuto il quadruplice omicidio, e scaveranno nel passato per scoprire la verità che a quel tempo era rimasta celata.

Trenta personaggi principali, flashback fra passato e presente, continui depistaggi che fanno rimbalzare il lettore da un sospettato all’altro: questa è la formula de La scomparsa di Stephanie Mailer. Più di settecento pagine che si leggono tutte d’un fiato, merito dello stile accattivante dell’autore che sa come mantenere l’attenzione sempre sul filo del rasoio.

Il lettore si ritrova a sospettare di tutti e nessuno, a trattenere il fiato per ogni colpo di scena, ma ben consapevole che quello più importante sarà solo nelle ultime venti pagine, coloro che saranno oggetto di indagine prima di quel momento alla fine verranno scagionati dalla confessione del vero colpevole.

La scomparsa di Stephanie Mailer: depistaggi e sottotrame

Come successo con La verità sul caso Harry Quebert, anche qui ho notato degli elementi di base, probabilmente propri dello stile di Dicker: la mole imponente del romanzo, l’attenzione spasmodica per i dettagli e per la storia di tutti i personaggi, meno considerazione per il finale e per lo scioglimento dell’indagine, che risulta meno importante di tutto il percorso che l’ha preceduta e per questo non soddisfa mai pienamente. Dicker ama “giocare” con il lettore, portandolo prima da una parte e poi dall’altra, distorce la realtà varie volte prima di mostrare la verità, che è mostrata quasi come una concessione ultima, la meta di un viaggio che il lettore non vuole mai davvero terminare.

Un’altra particolarità di Dicker è la caratterizzazione grottesca delle vittime. Di solito sono personaggi dal passato marcio, che subito suscitano antipatia nel lettore, che quasi “giustifica” in parte l’operato dell’assassino misterioso. Anche gli altri personaggi sono ben caratterizzati, ognuno ha una sua storia, ognuno merita attenzione, in alcuni tratti anche troppa, visto che i continui flashback a volte sviano l’attenzione dall’indagine iniziale e possono “irritare” il lettore e dilungare la storia in maniera eccessiva.

La scomparsa di Stephanie Mailer conferma Joël Dicker come un autore di indubbio talento, che ha grande padronanza della sua penna e che ha solo bisogno di affinarsi ancora negli anni e, data la sua giovane età, trentadue anni, ha tutto il tempo per farlo.

The exception-L’amore oltre la guerra: un inno alla lotta contro il male

The exception- L’amore oltre la guerra è un film del 2016 di David Leveaux, un regista teatrale inglese al suo debutto nel mondo del cinema. Il cast della pellicola vanta Lily James nel ruolo di Mieke (già conosciuta per la versione di Cenerentola del 2015 e per il suo ruolo nella serie tv Downton Abbey), Jay Courtney nei panni del soldato Brandt (famoso per la saga di Divergent), Christopher Plummer (il capitano Von Trapp di Tutti insieme appassionatamente) e Janet McTeer (Insurgent, Io prima di te).

La trama comincia all’inizio della seconda guerra mondiale in Olanda. Il Kaiser Guglielmo II vive esiliato insieme alla moglie, Erminia di Reuss-Greisz, e va avanti grazie alla rendita concessagli dal Fuhrer. Il suo rapporto con il Terzo Reich è contraddittorio, deve appoggiarlo in pubblico, incentivato soprattutto dalla moglie, ma appena può esprime il suo sconcerto per ciò che la Germania è diventata sotto il potere di Hitler. Incaricato della sua protezione, ma ufficiosamente alla ricerca di spie inglesi infiltrate nel palazzo del Kaiser, è il soldato Stefan Brandt. L’uomo è reduce da una brutta ferita di guerra e da uno scontro in Polonia con un suo superiore che gli ha valso questo esilio forzato in Olanda, visto che Brandt non comprende le azioni delle SS, che non coincidono con l’etica militare che ha sempre seguito.

Mieke De Jong, una giovane ebrea olandese, cova in sé un odio profondo verso l’esercito nazista, che ha ucciso suo padre e suo marito, e accetta così un impiego da domestica a casa del Kaiser Guglielmo solo per poter avere contatti con i vertici e inviare informazioni in Inghilterra. La sua attività di spia non passa del tutto inosservata e dei sospetti cominciano ad arrivare al comando tedesco. Stefan Brandt nel frattempo inizia una relazione con Mieke senza sapere chi sia in realtà, ma anche scoperta la sua identità farà di tutto per aiutarla a fuggire e a mettersi in salvo. Stefan non è l’unico a subire il fascino della giovane ebrea, il Kaiser la prende così sotto la sua ala protettiva e aiuterà il soldato a nascondere Mieke e a farla passare indenne al posto di blocco tedesco.

The exception: un prodotto ibrido tra il dramma e il thriller

Il film The exception – L’amore oltre la guerra è tratto dal romanzo del 2003 The Kaiser’s Last Kiss, di Alan Judd, e si configura come un prodotto ibrido tra il dramma e il genere thriller. Getta uno sguardo sul passaggio di potere dalla monarchia al nazionalsocialismo, un addio ai governi del passato, alla vecchia aristocrazia e alla ricchezza per nascita, passaggio qui rappresentato da un’umiliante adulazione da parte dell’imperatrice Erminia nei confronti di Heinrich Himmler, considerato il braccio destro del Fuhrer. Il focus dell’azione è il rapporto tra il soldato tedesco Brandt e la giovane ebrea, emblema del potere dei sentimenti oltre la nazionalità, le convenzioni e gli ordini superiori. Alcune scene di nudo integrale possono risultare gratuite e inutili ai fini della storia, una crudezza eccessiva che nella trama è già rappresentata dall’alone di male che circonda i vertici nazisti. Il finale lascia uno spiraglio aperto, ma ha una sua spiegazione nell’incertezza della vita in tempo di guerra, una sequenza schizofrenica di variabili avrebbero reso poco credibile un epilogo diverso.

The exception-L’amore oltre la guerra rientra a pieno titolo nella serie di drammi di guerra ad alto tasso d’azione come The imitation game (2014) e Allied (2016).

‘Visti dalla meta siamo tutti ultimi’, il thriller di Francesca Picone

Visti dalla meta siamo tutti ultimi (Lettere Animate Editore, 2017) è un romanzo di Francesca Picone, educatrice di strada presso numerose cooperative sociali del napoletano e laureata in Scienze Religiose. L’autrice napoletana ha già scritto un altro romanzo, Pimmicella e la Comunità, edito da Navarra Edizioni, vincitore del concorso “Giri di Parole” nel 2010. Visti dalla meta siamo tutti ultimi è un thriller, anche se per l’analisi psicologica dei personaggi e per l’ambientazione malfamata sarebbe classificabile più precisamente come un noir.

La protagonista è Sally, una giovane donna che vive al Paradisiello, un vicolo di Napoli composto di 150 gradini, una fenditura di un’altra via che si scorge all’improvviso, come se volesse restare nascosta al resto della città. Sally è allergica alle etichette e alle giornate già programmate, preferisce sfuggire ai lavori d’ufficio e alle storie sentimentali durature. Ama invece il suo libero vagabondare per le strade di Napoli, la sua scrittura frammentata e introspettiva e l’erba che fuma per evadere dalla realtà. La narrazione è pregna del suo malessere esistenziale, un vuoto che Sally non riesce a indagare a fondo neppure con la sorella gemella , con la quale non ha più da anni lo stesso rapporto simbiotico di un tempo. Così la protagonista spiega il suo disagio:

La solitudine non è nel non comunicare, ma nel non poter essere compresi.

L’ angoscia esistenziale di Sally è evidenziata anche dalla scelta delle persone delle quali si circonda: i pazzi psicotici del Giano (Salvatore, Mimmo, Enzo, Stefano e gli altri), persi nel loro percorso di vita anche più di lei; Alessandra, psicologa milanese che prova a capirla ma che poi si allontana da lei bruscamente; Angelo Biondo, ragazzo all’apparenza affine a lei, ma che si rivelerà violento, e infine Loki e la sua compagnia, rifugiati che la trascineranno nel mirino della Digos.

Visti dalla meta siamo tutti ultimi: filone narrativo e tematiche

Il romanzo di Francesca Picone è diviso in tre capitoli: la cura, la relazione d’aiuto e la sicurezza dei cittadini. Ognuno di questi blocchi tratta personaggi e temi diversi e ha come collante la protagonista Sally, che viene sballottata da una situazione all’altra senza riuscire a opporsi.

Sally si mostra all’apparenza come una ragazza ribelle, contraria al sistema e in cerca del suo posto nel mondo, ma in realtà ha una fragilità che le impedisce di affrontare con durezza qualsivoglia situazione (ad esempio non prova in alcun modo a recuperare il rapporto con l’amica Alessandra, né prende provvedimenti in seguito alla violenza di Angelo Biondo, né indaga a fondo sui traffici di Loki e della sua compagnia, nei quali in qualche modo rimane invischiata anche lei). Sembra che non volendo essere “come tutti gli altri”, alla fine Sally non riesca a essere proprio nessuno, neppure se stessa.

Le tematiche di Visti dalla meta siamo tutti ultimi sono molteplici, forse troppe, dato che alcune vengono solo presentate e non approfondite: la differenza sottile tra follia e sanità, la questione dei rifugiati politici, la Camorra, la situazione palestinese, le religioni cosiddette “alternative”, la legalizzazione di alcune sostanze, e via dicendo. Purtroppo l’effetto è quello di un volo pindarico da un argomento all’altro, da un flashback all’altro, da un’immagine all’altra, provocando nel lettore un senso di straniamento, un desiderio di sapere di più. Questo lo porta a perdere il filo della narrazione, spesso frammentaria, quasi come se Sally vivesse e presentasse la sua storia sempre sotto l’effetto dell’erba che ama fumare, a lei piacerà pure quel senso di ottundimento, ma il lettore si ritrova confuso e attonito. Meno “carne sul fuoco” e maggiore attenzione alle vere motivazioni del disagio esistenziale di Sally avrebbero reso più chiara e fluida la narrazione, magari puntando più attenzione sul rapporto fra le due gemelle, che sembra si sfiorino senza mai toccarsi davvero. Lo stile di scrittura di Francesca Picone è lirico e profondo, sia nelle parti descrittive sia nei dialoghi, dove spesso una semplice conversazione diventa dibattito filosofico.

Surclassando anche Sally, la vera protagonista del romanzo si dimostra Napoli (grazie anche a un uso sapiente del dialetto), un organismo presentato quasi come “malato”, ma dal quale è impossibile fuggire, la tela di un ragno che attira con fascino e lusinghe per poi cibarsi di te. Così Sally ne parla nel primo capitolo, spiegando il suo rapporto con Alessandra, una citazione nella quale è racchiuso il sentimento di odio-amore nei confronti della città partenopea:

E cosa abbiamo in comune? Abbiamo in comune l’ostinazione a vivere nell’invadenza napoletana e il disprezzo dell’anonimato milanese, pare, ma se io mi ostino è solo per pigrizia, se critico Milano è solo perché non si è mai offerta alla mia conoscenza. Ogni dettaglio napoletano di cui lei si è innamorata è la zecca che per abitudine o per amore non riesco a scacciare.

‘The Danish Girl’, di Tom Hooper: il percorso psicologico del primo transgender della storia

The Danish Girl (Working Title, 2015) è un film di Tom Hooper, regista premio Oscar nel 2011 per Il discorso del re. Tra gli interpreti: Eddie Redmayne, Alicia Vikander, Matthias Schoenaerts: Hans Axgil, Ben Whishaw e Amber Heard. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di David Ebershoff e dalla vera storia del pittore danese Einer Wegener.

The Danish Girl non è la storia di un cambiamento, è il racconto poetico e struggente di un ritorno a se stessi. Einer Wegener ha sempre avuto dentro di sé l’animo di Lili Elbe, la donna che non ha mai potuto essere, e ha vissuto la sua vita di pittore paesaggista rifiutando il suo vero io. Ha sposato una donna, Gerda, ha fatto carriera come artista, ha provato ad avere dei figli, ma non si è mai sentito completo nel profondo. Ecco perché quando Gerda, pittrice anche lei, gli chiede di posare per un ritratto indossando indumenti femminili, in Einer si risveglia l’animo di Lili, prepotente e travolgente, tanto da “uccidere” a poco a poco la parte maschile di Einer.

Gerda è una compagna affettuosa fino al sacrificio, comprensiva e paziente durante tutte le fasi del percorso di trasformazione da Einer a Lili: dapprima nella negazione, poi nella timida esplorazione della sua femminilità (nelle scene davanti allo specchio, scrutando il suo corpo, o con Henrik, ragazzo omosessuale infatuatosi di lui), per poi finire al lungo calvario medico. I luminari lo tacciano di schizofrenia, minacciando un ricovero, o di altre malattie mentali, fino a quando Einer/Lili incontra un medico disposto a operarlo a Dresda per “ridargli il suo vero corpo”. È un’operazione mai provata prima e anche molto rischiosa, un primo esempio di ciò che i transgender di oggi devono affrontare per il cambiamento di sesso. Einer accetta di correre tutti i rischi necessari, accompagnato dalla fidata Gerda, che decide di stargli accanto in qualsiasi caso.

The Danish Girl: la storia di una donna nel corpo di un uomo

The Danish Girl è un film che punta l’attenzione sul calvario psicologico di Einer/Lili, reso in modo magistrale per alcuni, per latri insopportabile, dall’attore Eddie Redmayne che, con i suoi lineamenti androgini, riesce a mostrare il sottile velo che separa le due anime del protagonista e, con la sua espressività tormentata e angosciata, trasmette il senso di straniamento del sentirsi prigionieri dentro il proprio corpo. sebbene con troppi virtuosismi.

Ma la vera protagonista, pur non essendolo, è Alicia Vikander, che interpreta Gerda Wegener, la donna disposta a tutto pur di aiutare l’uomo che ama, sfidando le convenzioni e la morale generale. Il suo doveva essere un ruolo marginale rispetto a quello di Redmayne, eppure ha saputo rendersi indispensabile, senza di lei nulla sarebbe accaduto, rappresenta sia la forza sia la coscienza di Einer. La critica ha contestato al regista Tom Hooper la scelta di focalizzare l’attenzione sul percorso psicologico più che su quello fisico, focus che però ha evitato di banalizzare e rendere volgare una storia altresì sublimata e poetica come poche. Di certo la storia melodrammatica (il cui messaggio purtroppo appare troppo scontato) sembra fatta apposta per agganciare certe tematiche attuali di cui si chiacchiera molto e si approfondisce poco ma ad hoc per il grande pubblico.

Meravigliosa la fotografia di Danny Cohen, che ritrae una Danimarca malinconica e retrò che sembra sottoposta a un filtro vintage, accompagnata dalle melodie di Alexandre Desplat.

The Danish Girl ha ottenuto quattro nomination agli scorsi Oscar: come migliore attore protagonista a Eddie Redmayne, migliore scenografia a Eve Stewart, migliori costumi a Paolo Delgado e migliore attrice non protagonista ad Alicia Vikander (che si è assicurata l’Oscar alla sua prima candidatura).

‘Via dalla pazza folla’: il melò di Thomas Vintenberg tratto dal romanzo di Hardy

Via dalla pazza folla (DNA Films, 2015) è un film drammatico tratto dal celebre romanzo di Thomas Hardy del 1874 e diretto da Thomas Vintenberg, regista de Il sospetto (2012) e Submarino (2010). Nel cast spiccano stelle del cinema internazionale come Carey Mulligan, Matthias Schoenaerts e Michael Sheen.

Dalle atmosfere di austeniana memoria, Via dalla pazza folla si presenta come un melò incentrato principalmente sulla vita amorosa della giovane Bathsheba Everdene, ragazza emancipata, istruita e ostinata, per quanto priva di mezzi. Non abituata ad avere né catene né padroni, Bathsheba è convinta che la vita matrimoniale non si confaccia al suo carattere e dubita che diventerà mai una sposa. Si ritrova così a rifiutare la proposta del giovane fittavolo Gabriel Oak, uomo solido, semplice e non istruito, ma di indole generosa e fedele. Non appena Bathsheba riceve una grossa eredità da parte dello zio, parte alla volta della sua proprietà, intenzionata a rimettere in sesto la fattoria e a diventare una buona padrona, al pari del suo defunto zio. Al contrario, Gabriel vede svanire la propria fortuna e in una notte di tempesta perde per intero il suo bestiame, così si trova costretto a lasciare la sua proprietà e ad andare a cercare lavoro altrove. Il destino vuole che Gabriel arrivi nella fattoria della signorina Everdene e che venga assunto come pastore.

Bathsheba e Gabriel si ritrovano così in situazioni inverse: ora è lui a essere in ristrettezze economiche, mentre lei è una proprietaria terriera, e questo inizialmente crea non poco imbarazzo tra loro, unito al ricordo del rifiuto di Bathsheba davanti alla proposta di matrimonio ricevuta. Ma superato il momento, i due diventano grandi amici, tanto che Gabriel aiuterà la sua padrona non solo a rimettere in sesto la fattoria ma anche a destreggiarsi fra i vari corteggiatori che le si avvicineranno, consigliandola quando necessario e informandola sulle dicerie quando la situazione lo richiederà. I due uomini che proveranno a far breccia nel cuore di Bathsheba sono molto diversi fra loro: il sergente Troy, bello e vanesio, e William Boldwood, uomo di mezza età in cerca di una compagna con la quale dividere la vita.  Bathsheba è una donna all’apparenza forte e algida, ma nel cuore nasconde la paura di lasciarsi andare e di innamorarsi davvero. Gabriel troverà la chiave giusta per valicare le sue difese, con una muta gentilezza e una presenza costante, volta a proteggere e a sorreggere laddove necessario.

Via dalla pazza folla: due protagonisti a confronto

Il punto forte della pellicola, oltre alla straordinaria fotografia di Charlotte Bruus Christensen che riprende la natura selvaggia e ben lontana dalla società londinese, è l’interpretazione dei due protagonisti. Carey Mulligan (già famosa per le sue parti in Il grande Gatsby, Orgoglio e pregiudizio e Non lasciarmi) riesce a trasmettere soltanto con uno sguardo la complessità di Bathsheba, all’apparenza forte ma dentro fragile, una ragazza terrorizzata dall’idea di essere una donna in un mondo di uomini. Ma è Matthias Schoenaerts la vera rivelazione di Via dalla pazza folla, attore già famoso per Suite Francese (2014), The Danish Girl (2015) e Un sapore di ruggine e ossa (2012). Shoenaerts ci mostra un Gabriel Oak dallo sguardo dolce e intelligente, anche se il suo fisico e la sua forza ci danno l’idea di un uomo abituato più alla fatica della vita di campagna che a fare conversazione nei salotti della buona società.

Il film è appunto tratto dall’omonimo romanzo in stile vittoriano, bucolico e pacato di Thomas Hardy del 1874, il primo successo letterario del celebre scrittore inglese, autore tra gli altri di Tess dei D’Ubervilles, Giuda l’Oscuro, Barbara, che però non ha la sveltezza narrativa della pellicola

‘Ritratto di donna in cremisi’ di Simona Ahrnstedt: la consacrazione della Jane Austen dell’Europa del Nord

Ritratto di donna in cremisi è un romanzo storico di Simona Ahrnstedt del 2011, autrice svedese considerata nel suo Paese come “la nuova Jane Austen”. La Ahrnstedt, dopo l’ esordio con questo romanzo, ne ha pubblicati molti altri, ma in Italia ne è arrivato soltanto uno: La ragazza dei Fiordalisi, pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2013. La storia di Ritratto di donna in cremisi comincia a Stoccolma nel 1880, durante una rigida sera d’inverno al Teatro dell’Opera. Beatrice Löwenström, orfana ospitata in casa degli zii aristocratici, incontra nel foyer del teatro Seth Hammerstaal, ricco uomo d’affari, elegante quanto arrogante. Tra i due inizialmente ci sarà solo uno scambio educato di commenti sui quadri esposti nella sala, ma le strade dei due protagonisti s’incroceranno ancora, viste le amicizie comuni, intrecciandosi per poi separarsi per molto tempo.

Ritratto di donna in cremisi: l’eleganza di un classico, il senso di riconoscimento di un romanzo contemporaneo

Ritratto di donna in cremisi è una storia che ha la delicatezza e la cadenza dei classici della letteratura dell’ottocento, dalla già citata Jane Austen (per l’attenzione ai sentimenti e alla vita sociale) ai maestri della narrativa russa, con i quali condivide anche le ambientazioni del romanzo: i rigidi inverni del Nord, le tenute di campagna sperdute contro lo splendore e lo scintillio delle città, lo sfarzo dei palazzi reali (ancorati al passato) e i primi progressi tecnologici: dal treno all’elettricità. I due protagonisti, per quanto nati da un chiaro stereotipo, riescono a catturare il lettore, Beatrice per la propria voglia d’indipendenza contrapposta a una chiara ingenuità, Seth per la dicotomia fra la maschera spietata a lungo costruita e l’uomo che di notte ha incubi sulla guerra franco/prussiana. Purtroppo però l’altalena amorosa sulla quale è imperniato il romanzo a un certo punto crea un certo nervosismo nel lettore, pur senza annoiarlo, e si lascia intuire una chiara volontà da parte dell’autrice Simona Ahrnstedt di trascinare la trama con molti più “tira e molla” di quanti sarebbero stati necessari. La mancanza di una chiara comunicazione tra i protagonisti e una serie di equivoci li obbligheranno a stare lontani per un po’, e porteranno una grande sofferenza soprattutto a Beatrice, costretta a un matrimonio senza amore con un uomo molto più vecchio di lei e violento.

Simona Ahrnstedt ha uno stile di scrittura che ricorda quello di Liza Kleypas, Mary Balogh e Jennifer Donnelly, anche se l’allontanamento dalla classica ambientazione inglese dona qualcosa in più alla sua penna, che sembra quasi raccontare una favola nordica tra piste di pattinaggio, pellicce e gite in slitta sulla neve. Qualcosa di magico.

‘Men of Honor’: razzismo e senso dell’onore nell’America degli anni ’50

Non mollare mai… sii sempre il migliore, questa è la frase con la quale Mac Brashear congeda suo figlio Carl il giorno in cui parte dal loro paesino di campagna per entrare in marina. Si tratta del monito che segnerà la vita e la carriera del primo capo palombaro afroamericano della marina militare statunitense, una storia vera che ha ispirato il film del 2000 diretto da George Tillman Jr. Men of Honor. Il cast vanta Robert De Niro, nel ruolo di Billy Sunday, Cuba Gooding Jr, che interpreta il protagonista Carl Brashear, Charlize Theron, nel ruolo di Gwen Sunday, e Aunjanue Ellis, nei panni di Jo Brashear.

Men of Honor: la speranza degli ultimi

Men of Honor racconta non solo la carriera e le difficoltà di Carl Brashear nel farsi strada nel mondo della marina nonostante i pregiudizi razziali dell’America degli anni ’50, ma anche il rapporto fra Carl e il suo istruttore Billy Sunday. I due, dapprima in disaccordo viste le convinzioni razziali di Sunday, diventeranno col tempo grandi amici, tanto che nel periodo di maggior sofferenza per il protagonista, quando gli viene amputata la gamba in seguito a  un incidente in mare, Billy sarà il suo punto fermo, l’istruttore che ha saputo spronarlo a dare il meglio di sé e a non mollare mai. Billy andrà oltre i suoi pregiudizi e vedrà in Carl il migliore allievo mai avuto, mettendo da parte per lui il suo carattere difficile e spalleggiandolo durante la sentenza del tribunale militare per riammetterlo in servizio nonostante l’amputazione. Eppure il rapporto fra i due all’inizio sembrava caratterizzato da una distanza incolmabile, come si può notare da questo frammento di dialogo fra Carl e Billy: Aveva ragione, io e lei non abbiamo niente in comune! Io sarò pure un povero stupido negro di campagna ma almeno cerco di migliorare, lei invece è rimasto il piccolo uomo che è, odioso e insignificante! Senza la tuta da palombaro lei non è che un bastardo, un fallito che una volta era qualcuno! 

Un altro rapporto fondamentale in Men of Honor, per comprendere la trama e il messaggio di speranza contenuto in essa, è quello fra Carl e suo padre. I due si salutano per sempre all’inizio del film, il padre sprona il figlio a dare il massimo e a farsi valere nella vita poco prima della sua partenza per arruolarsi in marina, un monito che Carl ricorderà per tutta la vita, provando a non deludere l’uomo neppure dopo la sua morte.

Men of Honor racconta uno spaccato della società americana dal secondo dopoguerra al periodo del boom economico, in cui le differenze razziali erano ancora evidenti, soprattutto nell’ambito professionale. Il messaggio del film da speranza a chi crede di non aver voce, a chi è sempre stato messo da parte e non ha mai avuto il coraggio di ribellarsi, è un monito a lottare nonostante tutto per ciò in cui si crede. Per Carl Breshear quel “qualcosa” era l’onore.

Il film è stato subito un grande successo al botteghino, incassando poco più di 82 milioni di dollari, e anche della critica, ricevendo due nomination ai Grammy Awards nel 2002, tre agli Image Awards nel 2001, tre nomination ai Black Reed Awards nel 2001.

 

‘The Young Victoria’, di Jean-Marc Vallèe: fascino british e romance

The Young Victoria è un film del 2009, diretto da Jean-Marc Vallée e prodotto da Martin Scorsese. A interpretare il ruolo della protagonista è l’attrice inglese Emily Blunt, vincitrice del Golden Globe nel 2006 come miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione nel film televisivo Gideon’s Doughter. The Young Victoria racconta la giovinezza della regina, dall’anno che precedette la sua salita al trono fino all’incidente che la vide obiettivo di un dissidente che provò a ucciderla con un colpo di pistola.

The Young Victoria: amore e dovere sullo sfondo di uno dei regni britannici più longevi di sempre

Per gli amanti dei film in costume, The Young Victoria è un gioiello da non perdere. L’accento viene posto soprattutto sugli intrighi di corte, spesso mirati a destabilizzare il regno appena nato della giovane regina, e sulla sua storia d’amore con il principe Albert, al quale fu legata da un sincero sentimento che esulava dagli obblighi come sovrana di Gran Bretagna e Irlanda. L’attinenza storica della pellicola ha accontentato la critica, mentre gli elementi di romance, inseriti in alcune scene, hanno accattivato il favore dei più romantici (soprattutto nella scena finale dell’attentato, avvenuto realmente secondo quelle dinamiche, ma senza vedere il principe Albert ferito per proteggere l’amata), anche se non è stato un successo al botteghino, dato che rispetto ai 35 milioni di dollari spesi ne sono stati incassati solo 27. Il film ha avuto tre nomination agli Oscar, vincendo una statuetta per i migliori costumi, curati da Sandy Powell, già vincitrice di due Oscar per i film Shakespeare in love e The Aviator.

The Young Victoria spicca tra le pellicole dello stesso genere e dello stesso periodo storico per il fascino prettamente british smorzato dagli elementi fiabeschi romanzati, un compito non semplice visto la varietà di film e serie tv sulla regina Vittoria, personaggio spesso oggetto di rivisitazioni, come in Vittoria e Abdul (2017) e la serie Victoria (2016).

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