Il film Suffragette è proiettato da pochi giorni nelle sale italiane e sembra già dividere sia il pubblico che la critica. Il film diretto dalla regista britannica Sarah Gavron (Brick Lane, 2007), racconta la storia di alcune donne che, nell’Inghilterra di Giorgio V, tra 1912 e il 1918 lottarono per ottenere il diritto al voto. Suffragette è ispirato a fatti e personaggi realmente esistiti o parzialmente ricostruiti, la Gavron elude ogni intento prettamente celebrativo e privilegia la chiave narrativa. È senza dubbio indicativo che proprio la protagonista Maud Watts (Mulligan) sia un personaggio inventato.
Un cast d’eccezione
Il cast annovera tre nomi di tutto rispetto nel mainstream: dalla giovane e promettente Carey Mulligan, a Helena Bonham Carter per non parlare del cameo di Meryl Streep che interpreta Emmeline Pankhurst. Quest’ultima è stata la fondatrice del Women’s Social and Political Union, un movimento il cui slogan era «Deeds not Words», citazione più volte recuperata all’interno del film. Tra il 1908 e il 1914 la Pankhurst finì in carcere ben 13 volte, sempre per motivi legati alle sue lotte per l’emancipazione femminile. L’altra donna davvero esistita e che compare in Suffragette è Emily Davidson. Le immagini del suo funerale compongono la scena finale del film e sono le riprese originali del 1913. Suffragette è un film che alterna il taglio documentaristico con quello verosimile. Tuttavia la finzione non danneggia il film, poiché l’intenzione della regista non sembra essere quella di riportare fedelmente e in modo esclusivo il dato storico.
La pellicola ha il merito di offrire al grande pubblico un’immagine delle suffragette meno superficiale e prevedibile. In primis illustra quanto la lotta per l’emancipazione femminile abbia coinvolto donne di ogni estrazione sociale. In secondo luogo contribuisce a delegittimare lo stereotipo culturale che per molto tempo ha ridicolizzato le suffragette, facendone esclusivamente delle borghesucce annoiate che quasi per capriccio o noia di tanto in tanto scendevano in piazza. La Gavron ci racconta una storia che ci mostra l’altra faccia della Storia e forse quella meno celebrata sui libri, che ha per protagoniste le operaie, le mogli e le attiviste. Suffragette non è solo narrazione sulla conquista di un diritto, la Gavron lascia quasi a margine questo aspetto capitale e lavora sulle psicologie sfaccettate delle protagoniste. Ci mostra la lotta delle suffragette come somma di più voci tra loro eterogenee, come quel movimento così spesso banalizzato nel cinema e nella letteratura sia stato molto più complesso e organizzato.
Suffragette: una velata critica al femminismo attuale
L’ambientazione storica fa sì da scenario ma non dovrebbe ingannarci, è un semplice pretesto. Infatti la regista, pur partendo dal lontano 1912, problematizza più sul presente che sul passato. Con Suffragette facciamo un passo indietro, in qualche modo torniamo in quel preciso momento storico, perché – sembra suggerire la Gavron – è da lì che bisognerebbe ripartire e riappropriarsi delle testimonianze di quelle donne che hanno contestato la Storia. A volte si ha l’impressione che in Suffragette serpeggi una velata critica ai tanti femminismi non più all’altezza di quel coraggio radicale che ha richiesto delle posizioni senza compromessi.
È paradigmatico che le storie e i volti dei personaggi realmente esistiti facciano da contorno a quella della protagonista, personaggio di pura invenzione. La regista opta per la sobrietà sia nel montaggio che nella sceneggiatura e nelle riprese. Fa conoscere al pubblico la nutrizione forzata, le violenze, l’assenza di diritto delle donne che non si limitava al voto ma anche all’assenza di ogni diritto sui propri figli. Ci racconta che le suffragette non furono solo agitatrici di piazze ma operarono nella clandestinità e al limite della legalità. Eppure poco viene concesso alle parole, al comizio brevissimo della Pankhurst, talmente ridotto all’osso da risultare debole. La regista non rincara la dose dove potrebbe o dove ci si aspetterebbe. Il nodo è qui, la Gavron volutamente tradisce le aspettative, ovvero evita quello che chiunque si aspetterebbe da un film girato da una donna sul movimento femminista. La Gavron si muove in questi mondi meschini con passo leggero, discreto, quasi trattiene il respiro, anche quando ci mostra uno stupro. Poche parole ma molto ci viene raccontato dalle immagini, lo spettatore non è aggredito visivamente ma alcune corde non restano indifferenti.
Il cammino di Maud è una metafora, declinato dalla Gavron in più momenti del film, le profondità di campo conferiscono a Maud un incedere quasi epico per le strade dei sobborghi, per la città, nei reparti della fabbrica. Poco ci viene mostrato delle lotte di piazza ma molto del quotidiano delle protagoniste. Il film narra quel tipo di disobbedienza che ha inizio tra le mura domestiche, nella fabbrica e nel carcere. È proprio in questi momenti che la Gavron sfrutta a pieno le potenzialità del controcampo, delle inquadrature dal basso e in angolo, del pedinamento neorealista alla Cesare Zavattini. La discrezione della macchina da presa rende a pieno il tentativo da parte della regista di strappare le epifanie nella vita quotidiana.
Certo in Suffragette non accade molto, non ci sono effetti speciali o grandi dialoghi in grado di infiammare i cuori, eppure i volti e i primi piani hanno una carica eloquente che da tempo non appariva sugli schermi. Il volto come paesaggio evoca un retromondo sottile, impenetrabile, segreto e sembra che la Gavron abbia voluto omaggiare a tratti Renoir, a volte la Giovanna d’arco di Dreyer, gli occhi di Nana o i paesaggi di Seurat.
Suffragette è la Storia di tutti quei volti che riacquistano la propria voce.