Suffragette, una critica al femminismo attuale

Il film Suffragette è proiettato da pochi giorni nelle sale italiane e sembra già dividere sia il pubblico che la critica. Il film diretto dalla regista britannica Sarah Gavron (Brick Lane, 2007), racconta la storia di alcune donne che, nell’Inghilterra di Giorgio V, tra 1912 e il 1918 lottarono per ottenere il diritto al voto. Suffragette è ispirato a fatti e personaggi realmente esistiti o parzialmente ricostruiti, la Gavron elude ogni intento prettamente celebrativo e privilegia la chiave narrativa. È senza dubbio indicativo che proprio la protagonista Maud Watts (Mulligan) sia un personaggio inventato.

Un cast d’eccezione

Il cast annovera tre nomi di tutto rispetto nel mainstream: dalla giovane e promettente Carey Mulligan, a Helena Bonham Carter per non parlare del cameo di Meryl Streep che interpreta Emmeline Pankhurst. Quest’ultima è stata la fondatrice del Women’s Social and Political Union, un movimento il cui slogan era «Deeds not Words», citazione più volte recuperata all’interno del film. Tra il 1908 e il 1914 la Pankhurst finì in carcere ben 13 volte, sempre per motivi legati alle sue lotte per l’emancipazione femminile. L’altra donna davvero esistita e che compare in Suffragette è Emily Davidson. Le immagini del suo funerale compongono la scena finale del film e sono le riprese originali del 1913. Suffragette è un film che alterna il taglio documentaristico con quello verosimile. Tuttavia la finzione non danneggia il film, poiché l’intenzione della regista non sembra essere quella di riportare fedelmente e in modo esclusivo il dato storico.

La pellicola ha il merito di offrire al grande pubblico un’immagine delle suffragette meno superficiale e prevedibile. In primis illustra quanto la lotta per l’emancipazione femminile abbia coinvolto donne di ogni estrazione sociale. In secondo luogo contribuisce a delegittimare lo stereotipo culturale che per molto tempo ha ridicolizzato le suffragette, facendone esclusivamente delle borghesucce annoiate che quasi per capriccio o noia di tanto in tanto scendevano in piazza. La Gavron ci racconta una storia che ci mostra l’altra faccia della Storia e forse quella meno celebrata sui libri, che ha per protagoniste le operaie, le mogli e le attiviste. Suffragette non è solo narrazione sulla conquista di un diritto, la Gavron lascia quasi a margine questo aspetto capitale e lavora sulle psicologie sfaccettate delle protagoniste. Ci mostra la lotta delle suffragette come somma di più voci tra loro eterogenee, come quel movimento così spesso banalizzato nel cinema e nella letteratura sia stato molto più complesso e organizzato.

Suffragette: una velata critica al femminismo attuale

L’ambientazione storica fa sì da scenario ma non dovrebbe ingannarci, è un semplice pretesto. Infatti la regista, pur partendo dal lontano 1912, problematizza più sul presente che sul passato. Con Suffragette facciamo un passo indietro, in qualche modo torniamo in quel preciso momento storico, perché – sembra suggerire la Gavron – è da lì che bisognerebbe ripartire e riappropriarsi delle testimonianze di quelle donne che hanno contestato la Storia. A volte si ha l’impressione che in Suffragette serpeggi una velata critica ai tanti femminismi non più all’altezza di quel coraggio radicale che ha richiesto delle posizioni senza compromessi.

È paradigmatico che le storie e i volti dei personaggi realmente esistiti facciano da contorno a quella della protagonista, personaggio di pura invenzione. La regista opta per la sobrietà sia nel montaggio che nella sceneggiatura e nelle riprese. Fa conoscere al pubblico la nutrizione forzata, le violenze, l’assenza di diritto delle donne che non si limitava al voto ma anche all’assenza di ogni diritto sui propri figli. Ci racconta che le suffragette non furono solo agitatrici di piazze ma operarono nella clandestinità e al limite della legalità. Eppure poco viene concesso alle parole, al comizio brevissimo della Pankhurst, talmente ridotto all’osso da risultare debole. La regista non rincara la dose dove potrebbe o dove ci si aspetterebbe. Il nodo è qui, la Gavron volutamente tradisce le aspettative, ovvero evita quello che chiunque si aspetterebbe da un film girato da una donna sul movimento femminista. La Gavron si muove in questi mondi meschini con passo leggero, discreto, quasi trattiene il respiro, anche quando ci mostra uno stupro. Poche parole ma molto ci viene raccontato dalle immagini, lo spettatore non è aggredito visivamente ma alcune corde non restano indifferenti.

Il cammino di Maud è una metafora, declinato dalla Gavron in più momenti del film, le profondità di campo conferiscono a Maud un incedere quasi epico per le strade dei sobborghi, per la città, nei reparti della fabbrica. Poco ci viene mostrato delle lotte di piazza ma molto del quotidiano delle protagoniste. Il film narra quel tipo di disobbedienza che ha inizio tra le mura domestiche, nella fabbrica e nel carcere. È proprio in questi momenti che la Gavron sfrutta a pieno le potenzialità del controcampo, delle inquadrature dal basso e in angolo, del pedinamento neorealista alla Cesare Zavattini. La discrezione della macchina da presa rende a pieno il tentativo da parte della regista di strappare le epifanie nella vita quotidiana.

Certo in Suffragette non accade molto, non ci sono effetti speciali o grandi dialoghi in grado di infiammare i cuori, eppure i volti e i primi piani hanno una carica eloquente che da tempo non appariva sugli schermi. Il volto come paesaggio evoca un retromondo sottile, impenetrabile, segreto e sembra che la Gavron abbia voluto omaggiare a tratti Renoir, a volte la Giovanna d’arco di Dreyer, gli occhi di Nana o i paesaggi di Seurat.

Suffragette è la Storia di tutti quei volti che riacquistano la propria voce.

 

 

La società liquida di Zygmunt Bauman

La nostra società è stata più volte definita come ‘società liquida’. Tale concetto è stato sviluppato dal sociologo Zygmunt Bauman e ben si inscrive nell’orizzonte epistemologico del Postmoderno, nomenclatura che indica la nostra epoca. Senza dubbio è un’espressione efficace anche se si è prestata ad applicazioni di ogni genere.

Infatti il concetto di società liquida condivide il medesimo destino del fratello ‘villaggio globale’, coniato da Marshall McLuhan. In entrambi i casi il passaparola generalizzato ha dato adito ad eccessive esemplificazioni che hanno depotenziato lo spessore del problema sollevato dai due sociologi. Secondo Bauman l’epiteto si riferisce alle forme di esperienza che caratterizzano la cultura consumista e che hanno comportato una trasformazione radicale delle relazioni sociali e delle pratiche di vita quotidiana. L’approccio eclettico adottato dai teorici postmodernisti costruisce la lente che consente di cogliere i tratti distintivi di questo nostro tempo, estremamente articolato. Bauman accetta la sfida senza rinunciare ad una dimensione etica.

La società liquida sembra legittimarsi attraverso l’ambivalenza delle esperienze e degli stili di vita, ben lontana da quell’uomo a una dimensione teorizzato da Marcuse. Tuttavia non si può negare che la pluralità apre il varco alla complessità. Il richiamo di Bauman all’etica è senza dubbio un elemento che riporta la questione su un livello tutt’altro che effimero e disimpegnato. L’espressione “La postmodernità è la modernità che ha riconosciuto la non realizzabilità del proprio progetto”, suona come un’abdicazione della quale si dovrebbe prendere atto.

Marx e la ‘fusione dei corpi solidi’

Alla base della sdoganata etichetta coniata da Bauman, c’è una metafora dalle ascendenze illustri. E’ già Marx ad utilizzare l’espressione ‘fusione dei corpi solidi’, per indicare il tentativo di minare alle fondamenta ogni tradizione, di dissolvere nell’aria le spoglie del passato. La società liquida è dunque conseguenza di una serie di concause passate che spalancano un orizzonte di incertezza e d’altro canto trovano nel consumo una strategia difensiva da parte dell’individuo, un effetto placebo altamente seduttivo che fa della merce non più il feticcio – sempre per citare Marx – ma la promessa di una felicità, un sogno ad occhi aperti alimentato dai mezzi di comunicazione sempre più pervasivi.

Già McLuhan ha descritto gli strumenti della comunicazione di massa come estensioni dei nostri sensi; siamo dunque parte di un sistema comunicativo immanente e il nuovo linguaggio è ciò che detta le coordinate della nostra esistenza. L’uomo estende se stesso diffondendo i propri sensi percettivi nei linguaggi, nei media e nelle nuove tecnologie, secondo un principio di fabulazione.

Secondo i teorici della postmodernità, la ‘società liquida‘ risulta più complessa proprio perché la moltiplicazioni di visioni del mondo risultano tutte legittime. La società postmoderna è quindi una società della comunicazione generalizzata e dominata da immagini plurime del mondo. Si evince quanto la comunicazione non sia più solo un fattore tecnico ma la categoria interpretativa adottata dalla società stessa: la trasparenza è il suo valore positivo.

Il Postmodernismo

Sul versante prettamente culturale, il Postmodernismo pratica il ritorno al pre-moderno e non dovrebbe stupire la rivalutazione degli aspetti più irrazionali del pensiero, come l’immaginazione, il desiderio e la propensione per la spettacolarizzazione del reale.

Infatti, la condizione postmoderna (titolo del saggio illustre di Jean François Lyotard) ha segnato nell’ambito della letteratura, e non solo, la fine delle ‘grandi narrazioni’, quelle capaci di ricostruire un’immagine unitaria del mondo. Il Postmoderno sfugge a qualsiasi definizione univoca ma anche i suoi effetti culturali sono maturati in momenti diversi, con esiti eterogenei. Per quanto riguarda l’Italia, si è datata la comparsa di una tendenza letteraria postmoderna tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Resta implicita l’idea che è finita un’epoca, quella della modernità appunto: fase storica caratterizzata dalla dinamicità, dal progresso e dalla trasformazione. La tendenza del Postmoderno ha naturalmente suscitato vivaci discussioni: c’è chi la ritiene frutto di una netta frattura rispetto alla modernità e che dà origine ad un’epoca nuova; chi la ritiene una fase interna al moderno e preferisce parlare di ‘tarda modernità’ o chi ritiene che ormai il Postmoderno si sia concluso dopo gli eventi dell’11 settembre.

La realtà postmoderna è caratterizzata dalla frantumazione, dalla complessità incoerente, un caos che però non è stato vissuto tragicamente dal soggetto (almeno ai suoi albori) bensì con un’accettazione ludica. Se appare impossibile la produzione del nuovo allora è lecita nel campo della letteratura, delle arti, del teatro e del cinema, la ripetizione del già noto. Salta dunque il tabù dell’originalità a tutti i costi per riprendere semplicemente gli stili del passato combinandoli e contaminandoli tra loro, mediante assemblaggi di citazioni. Basti pensare al cinema di Quentin Tarantino, ai romanzi di Andrea De Carlo, Pier Vittorio Tondelli o ancor prima di Italo Calvino e alle sperimentazioni dei primi anni ’80 nel campo della videoarte. Il romanzo postmoderno, quindi, non è più un ‘genere’, ma rappresenta la ripresa di tutti i generi già sperimentati.

In America il maestro della nuova corrente è Thomas Pynchon, che utilizza una straordinaria molteplicità di linguaggi derivati dal mondo dell’informazione, dello spettacolo e della tecnologia. A questi si aggiunge la coscienza che la comunicazione non serve a mettere in rapporto gli uomini, ma solo a distribuire merci. La lingua che serve a esprimere questi motivi, presenta una continua mescolanza di culture e voci diverse.

La cultura postmoderna inoltre, non si rivolge a un pubblico ristretto, ma cerca di raggiungere un vasto pubblico di lettori e audience utilizzando il linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa e riprendendo i generi ‘forti’ della tradizione, senza distinguere tra produzione ‘alta’ e letteratura di consumo.

Per questo, tratti caratteristici del postmodernismo sono il citazionismo, la frammentazione e l’ibridazione. I metodi narrativi riprendono le modalità espressive della televisione, degli audiovisivi e della pubblicità. L’imperativo è quello di decostruire, sovvertire, decontestualizzare e spaesare, il senso del sé è dunque mancante. I confini diventano fluidi, l’unità si converte in una pluralità di sfaccettature. Non ci sono noccioli duri né caratteri duraturi né aspetti in profondità, la sostanza cede il posto alla superficialità, il contenuto alla forma. La forma è tutto, è tutto lì, in superficie. In conseguenza di ciò non vi sono nemmeno interpretazioni, ma solo il gioco del linguaggio che dissemina il senso nello stesso modo in cui disperde l’io.

Resta un quesito: se l’uomo è mancanza ad essere, quali esperienze possono offrirci la possibilità di squarciare la breccia esistenziale delle nostre vite così tecnologicamente avanzate? La bellezza salverà il mondo o è solo questione di pixel?

Le cose migliori, l’esordio di Valeria Pecora

Le cose migliori è un romanzo di Valeria Pecora e segna l’esordio della giovane autrice, classe 1982. Il libro ha per protagonista Irene, voce narrante di una storia familiare ambientata in Sardegna. I destini dei personaggi di questo racconto corale si intrecciano in poche pagine ed emozionano proprio per la loro densità. Tra le qualità de Le cose migliori va annoverata la capacità di Valeria Pecora di saper tessere la trama con sapienza, misura e con padronanza tecnica ed espressiva. L’autrice non cede al comune autocompiacimento, una ‘virtù’ abbastanza diffusa in numerosi esordienti.

Valeria Pecora sa scrivere, sa raccontare e lo dimostra in questo romanzo, per il quale opta per una formula narrativa che richiede maturità e talento. La semplicità che caratterizza la cornice si conferma un buon espediente per coinvolgere il lettore. L’autrice non punta su ‘effetti stilistici’ o colpi di scena strabilianti. Non c’è rumore di fondo in Le cose migliori ma un intreccio che riesce a ‘parlare da sé’, senza troppi orpelli. Si potrebbe ipotizzare che l’autrice abbia fatto tesoro del modello verista, Verga per esempio, laddove la storia sembra essersi fatta da sé e così l’umanità prende vita e forma sulla pagina.

Dunque, questa vicenda tutta familiare è ricostruita attraverso i ricordi e le esperienze della voce narrante: le cose migliori, appunto, nonostante piccole ma tumultuose tragedie. Mutano i destini, si inaspriscono i volti ma non l’amore profondo, il cuore che lega i membri di questa famiglia. Il ventaglio dei valori proposti dall’autrice è estremamente positivo: la famiglia, l’amore, la speranza, l’infanzia che è madre di ogni adulto, il precariato, l’epopea verso il Nord, le radici, la malattia, la maternità. Fa da sfondo l’eco degli anni Ottanta con i mondiali, il mito giovanile del viaggio all’estero e la provincia, luogo da cui si fugge ma al quale poi si ritorna, come Irene, con qualche illusione in meno.

Nel romanzo inoltre è possibile rintracciare tre livelli narrativi che scandiscono tre atti. Il prologo è quello della favola e coincide con l’infanzia, la parte centrale è quello del verosimile e coincide con l’adolescenza, il terzo è il presente e qui Valeria Pecora opta per l’inverosimile. Tuttavia quest’ultimo livello risulta il più debole, il meno riuscito e il meno convincente. Infatti il finale edulcorato, l’happy-end con tanto di morale della favola stridono, disturbano la lettura e disperdono l’ethos che caratterizza l’intera narrazione. Sarebbe stato preferibile un invito alla lettura tra le righe piuttosto che lo svelamento esplicito. La verosimiglianza è invece uno dei punti di forza di quest’opera prima ma risulta forzato nella storia d’amore e penalizza il resto del testo: un cambiamento di rotta che non era necessario.

Tuttavia Valeria Pecora fa sperare. La capacità di raccontare la vita, la vocazione al narrare partendo dalle piccole storie quotidiane dimostrano che una certa narrativa italiana può ancora ri-evocare una dimensione umana e pervasa di umanità. Una scelta coraggiosa per un esordio, controtendenza. Nonostante qualche inciampo, l’autrice fa ben sperare che possa misurarsi con un’altra prova narrativa. Gozzano denunciava nei suoi versi, forse non così distanti dal nostro presente, di vivere nel ‘secolo dell’analisi e del sofisma’ e questo piccolo racconto di Valeria Pecora testimonia una possibilità, quella di un certo gusto narrativo non anacronistico ma erede del patrimonio letterario italiano dei primi del Novecento.

Le cose migliori coinvolge il lettore in un immaginario che trasuda di vita, coinvolge pur non catapultando il lettore in mondi paralleli, iper super extra che separano e allontanano da “quel che fingo d’essere e non sono” come diceva Gozzano. Se si ha il coraggio di sporcare la pagina con la vita, come Valeria Pecora, forse vale la pena scommettere sul talento.

L’autrice

Valeria Pecora, classe 1982, nasce e vive in Sardegna, ad Arbus in un bellissimo paese tra mare e miniere. Laureata in Storia dell’arte, adora leggere e viaggiare. Le parole sono il suo mondo. “Le cose migliori” è il suo romanzo d’esordio (casa editrice Lettere Animate).

Gianni Lorenzi: L’anno della grande nevicata

L’anno della grande nevicata (2014) di Gianni Lorenzi si prefigura come un romanzo giallo. Il protagonista, Stefano Papini, impiegato dalla vita senza troppi sismi, si ritrova coinvolto in un districato caso di spionaggio aziendale. Ma nel rebus, apparentemente risolto, permangono dei coni d’ombra sino all’epilogo, per il quale Lorenzi opta per il finale aperto.

La trama non è brillante ma a rendere L’anno della grande nevicata un romanzo mal riuscito sono le molteplici scelte svolte dall’autore. Opinabile è lo stile adottato, l’intera struttura narrativa e il lavorio sui personaggi. Già le prime pagine risultano poco convincenti. Un buon attacco dovrebbe fungere da prologo ma Lorenzi vi indugia per un intero capitolo, dilatando i tempi dell’azione sino a depotenziarlo del tutto. Inoltre nelle prime venti pagine, didascaliche più che narrative, l’autore interviene in prima persona, rinuncia al canonico e preferibile (in questo caso) narratore onnisciente e così facendo infrange la finzione letteraria ancor prima che l’affabulazione abbia inizio .

Lorenzi non invita il lettore ad entrare in questa storia e non intende incuriosirlo ma, sin da subito, gli ricorda (reiterato anche nel corso della storia) che L’anno della grande nevicata è un romanzo, ergo un’opera d’invenzione. Il lettore, anche il meno permaloso, potrebbe pensare ad una sofisticata provocazione e che in qualche modo Lorenzi intenda rimediare a questo ‘tradimento’ in altro modo, per esempio con un inatteso colpo di scena.

Al pathos, all’intrigo e alle false piste che caratterizzano un buon gallo, in L’anno della grande nevicata la lettura procede per inerzia e nell’attesa che qualcosa di significativo accada davvero, in realtà nulla muta. Così in questo stato catatonico si giunge alle ultime pagine e nulla è ancora realmente accaduto. Di tanto in tanto Lorenzi apre delle parentesi dedicate a qualche ricordo del protagonista, una sorta di proustiana recherche ma il modello è forse troppo ambizioso e scivola in un diario personalissimo (forse) dell’autore malcelato, che qua e la attraverso Stefano, in modo autoreferenziale, narra di se stesso. I personaggi restano degli schizzi su carta, il ploth dalle maglie troppo larghe è molto esile e il lettore fortemente escluso.

Lo stile di Lorenzi lascia intravedere una padronanza tecnica discreta, tuttavia non la applica dove potrebbe meglio delineare le psicologie, creare atmosfere inedite, intrecci inattesi o scavare in qualche dettaglio emozionale. L’anno della grande nevicata è come avvolto da una nebbiolina che sfiora solo la superficie.

L’eccessiva e prolissa volontà di fornire dettagli caratterizza ciò che è irrilevante ai fini narrativi, non aggiunge nulla alla trama, di contro nelle pagine del romanzo si riscontra ben poco su ciò che narrativamente contribuirebbe all’affratellamento della carta. L’autore dice troppo proprio laddove il lettore potrebbe ricostruire da sé alcuni tasselli. Nel famigerato prologo si ricava una sorta di’ istruzioni per l’uso’. Lorenzi ci spiega pedagogicamente come è strutturata la storia, ammonisce il lettore che essa ha un andamento ciclico, comincia laddove finisce, insomma uno degli ingredienti chiave di un giallo è già presto svelato. Si tratta di quegli inciampi che inevitabilmente producono dei capitomboli narrativi.

Più che puntare a coinvolgere il lettore e lavorare attentamente sullo storytelling, Lorenzi di tanto in tanto interviene nel romanzo, instaura un dialogo con il lettore che esula dalla storia, una sorta di pausa pubblicitaria in cui ci si scambia opinioni in merito ad altro.

Orbene, qualora si trattasse di un tentativo avanguardista di destrutturare un genere narrativo, depotenziandone i tratti salienti, che ben venga, il postmoderno ha insegnato anche questo. Ma qualora si nutrisse questa non facile ambizione, a differenza di quanto si è portati a pensare, occorrerebbe sopperire con mezzi espressivi dotati di maggiore efficacia, con uno stile o inventiva che siano originali, brillanti, al fine di provocare o destabilizzare il lettore. In L’anno della grande nevicata si è più che altro increduli per la grande assenza di narrazione.

 

L’autore

Gianni Lorenzi è nato in Svizzera nel 1969, è cresciuto a Valdastico e da 15 anni vive a Sovizzo, in provincia di Vicenza. Laureato in Lettere all’università di Padova con il poeta vicentino Fernando Bandini, ha lavorato in varie aziende come copy-writer, responsabile marketing e sales manager. L’anno della grande nevicata, pubblicato nel novembre 2014 dall’editore David & Matthaus, è il suo primo romanzo.

Pier Vittorio Tondelli e il Postmoderno

Pier Vittorio Tondelli e il Postmoderno sono senza dubbio due capitoli che si intrecciano nella storia della letteratura italiana contemporanea. Tondelli è uno di quegli autori che vive nei cuori di lettori vecchi e nuovi e le cui pagine costituiscono tutt’oggi oggetto di molteplici interpretazioni. Pigmalione per gli Under 25, critico, autore poliedrico ed eclettico e che come pochi ha vissuto, interpretato e partecipato al funambolismo degli anni ’80. Molto si è detto di quel decennio banalmente siglato all’insegna della moda, della Milano da bere, del rampantismo ma gli anni ’80 sono anche quelli della Bologna del Dams e dei suoi fermenti. La stessa Bologna di Andrea Pazienza ha rappresentato uno stile di vita alternativo nell’immaginario di coloro che al pop preferivano il punk e tutto ciò che fosse underground. Tondelli ascolta, vive, viaggia senza pregiudizi o snobismi intellettualoidi. Lo si evince dai suoi romanzi mai uguali per trame, personaggi e ambientazioni. E poi c’è la musica. Ovunque nelle pagine dell’autore di Altri Libertini (1980) è ravvisabile un invito al lettore: non ci si può perdere nelle pagine tondelliane senza un’adeguata colonna sonora.

Nel passaggio tra gli anni ’70 e ’80, l’autore emiliano è stato considerato da Linea d’ombra e non solo, un confusionario qualunquista poiché si è sottratto con decisione alla politica. Così i libertini di Tondelli sono stati a lungo reputati degli eretici. Per i sessantottini, che negli anni ’80 continuano a preservare una visione completa del mondo, il narcisismo dei nuovi artisti che si affacciano sulla scena è quasi irritante. Il problema che emerge nei controversi anni ‘80 è che sono cambiati i modelli, non più Bakunin o Castro, ma Proust, l’autore che ricostruisce la propria vita nella solitudine della propria camera.

Tondelli vent’anni dopo la contestazione e le sue utopie vive il capitolo successivo della storia, quando la rivoluzione si è dissolta in una sorda solitudine e in una stanca posa. Enrico Palandri (uno degli studiosi più sensibili e attenti) colloca l’opera di Tondelli all’interno di un contesto culturale costituito da quegli intellettuali che si sono lasciati dietro il movimento degli anni ’70. Tuttavia senza un’adeguata contestualizzazione storica e culturale, il patrimonio tondelliano non sarebbe pienamente comprensibile e apprezzabile.

A cominciare dalla seconda metà degli anni 70, l’underground radicale scende in grotte profonde. Gli ambienti antagonisti si fanno chiusi e intransigenti, le scene alternative quasi semi-clandestine, mentre il mainstream, sempre più eccitato e a caccia di nuove tendenze per il mercato, agisce come nuovo agente di controllo sociale. Il Postmoderno ha contribuito a condensare la realtà e ogni generazione la affronta a uno stato diverso.

In Tondelli è ben radicata la consapevolezza postmoderna, una certa commistione di linguaggi diversi e codici espressivi, con la conseguente cancellazione di qualsiasi gerarchia all’interno dei tradizionali generi letterari.

L’autore di Correggio scrive: ‘Il postmoderno confonde immagini, atteggiamenti, toni con la prerogativa non già di sconfessarsi ciclicamente nel passaggio da un look all’altro, quanto piuttosto di trovare un’inedita vitalità espressiva nel fluttuare delle combinazioni dei detriti vestimentali’.

La generazione eretica del ’77, come spesso è stata definita, è quella degli sconfitti dalla storia. Non si dimentichi che sono gli anni di piombo e della stagflazione che paradossalmente confluiscono verso un nuovo ellenismo e con il telecomando a portata di mano. Tondelli scrive di ‘un postmoderno di mezzo’, di una fauna vagabonda in cui tutto è mischiato, sovrapposto e confuso. Che si tratti di giovani discotecari o dell’underground, entrambe le categorie giovanili condividono la medesima consapevolezza: quella di un futuro centrifugato nelle perdite di senso. Dinanzi allo sgretolamento dei linguaggi, unico mezzo di sopravvivenza resta dunque il gioco dei travestimenti

In questo nuovo panorama, oggi tornato alla ribalta, Tondelli percepisce una dicotomia: un destino di solitudine attraversa le esistenze. È qui che egli realizza la sua vocazione di scrittore, attraverso la consapevolezza che la scrittura avrebbe costituito il parametro con il quale si sarebbe rapportato alla realtà, non da protagonista bensì da osservatore.
Spesso egli è stato etichettato come lo scrittore simbolo degli anni ’80, solo perché la sua produzione copre l’intero decennio. Al contrario, Tondelli ha avvertito a fior di pelle l’aprirsi di una nuova stagione, ha sperimentato la crisi della letteratura e ha scelto la leggerezza (apparente), proseguendo sulle orme di Arbasino e Citati. Rispetto ai suoi contemporanei egli appare più consapevole sulla postmodernità. Così tenta di recuperare un rapporto con la scrittura e la letteratura più concreto, vicino alla vita delle nuove generazioni. Sarebbe doveroso operare una dereificazione di Tondelli, per ristabilire un’adeguata storicità senza cristallizzazioni critiche concepite dal mercato dell’editoria e che spesso hanno mortificato il suo talento e le ragioni più profonde della sua vasta, oltre che poliedrica, produzione letteraria.

Tondelli attraversa trasversalmente le storie non la Storia, imbevuto di musica ed arte come d’altronde i suoi coetanei della Bologna del Dams, fucina creativa che egli frequenta, osserva e descrive. Tutto di quei primi anni confluisce nel suo primo romanzo Altri Libertini (1980) che divise i lettori e anche la critica.

Lo scrittore emiliano con le sue opere ha di fatto immesso nella letteratura soggetti fino ad allora esclusi, pensiamo alla fauna di Altri Libertini o a Camere Separate o Pao Pao. I soggetti non normalizzati, i non- luoghi estranei all’antropologia della contemporaneità, sono le ambientazioni elettive: le stazioni e i treni, le osterie ma anche gli ostelli del Nord Europa e i pub di Londra.

Per comprendere Tondelli e l’umore della sua pagina è necessario constatare che la sua voce nasce da lì. Rivolto alle influenze più disparate, è la mobilità intellettuale ad alimentarne la scrittura. Ma proprio questo eclettismo è stato scambiato dalla critica per discontinuità.

Tondelli ha cercato di raccontare un modo di essere nel proprio tempo, legato alla scrittura, quale luogo di formazione e ricerca. Resta uno scrittore col quale il mondo letterario continua a confrontarsi perché ha contribuito a spostare la letteratura italiana dalla crisi delle avanguardie ad un riguadagnato piacere della narrazione. Stile scintillante, libero da schemi e codici espressivi che l’autore emiliano sottrae a qualsiasi gerarchia all’interno dei generi letterari, innestato in un personale cammino esistenziale.

Ed eccoci al ‘vischioso male’, quel sentimento che vanifica la celebrazione di un mondo carnevalesco, innescando un meccanismo autodistruttivo. Pertanto le parole mutano nella sua pagina in carne e fisicità, e in quanto tali a volte risultano perturbanti. Parole come cose non come segni. Tondelli la cesella come un poeta dominato da passioni. La parola cessa di significare nel suo uso domestico e trabocca dalla pagina. Egli riesce come pochi a stipulare un patto coi lettori e la pagina pulsa e vibra. Come uno gnostico-pop racconta il vuoto, comunica l’esperienza sino alla ricerca del silenzio.

Quelle di Tondelli sono delle polaroid e anche quando il mondo è poco accogliente egli non cessa di cercare una sorta di abbraccio in cui ritrovare il proprio centro. Un senso di sospensione e di gestualità bloccata determinano uno strappo con la vita, che si verifica attraverso la consapevolezza di una solitudine senza rimedio quando un artista si rapporta con le increspature della realtà.

Sovviene l’immagine del suonatore di sax in Rimini, il suo lamento solitario e malinconico, al ritmo del proprio cuore sprecato. Tondelli è un autore che scuote il lettore emotivamente e salva la propria vita attraverso la parola e i suoi silenzi

Io mi sento che tutti mi leggono dentro come fossi di vetro che non ho più nemmeno un angolo in cui tenerci il cuore. Mi fanno male gli occhi della gente, ora sono qui tutto terremotato di dentro e piango una lacrima sull’altra che non so da dove vengono fuori, però escono e sembran mare, salate e blu’ .

L’opera tondelliana continua ad esercitare la sua attrazione su critici e lettori poiché si configura come un microcosmo con le sue sezioni d’infinito che possiede soluzioni illimitate. Infinite sono le declinazioni che può avere la solitudine, un abbandono o un incontro. E nelle storie e nelle parole si trovano immagini che hanno il suono di una poesia che ci appartiene, di una voce che è anche nostra.

‘Una Stanza tutta per Sé’: il “femminismo” di Virginia Woolf

Una Stanza tutta per Sé (1929) di Virginia Woolf è uno tra i suoi preziosi capolavori che si ama ricordare. Il nome di Virginia Woolf non necessita di ampie presentazioni o preamboli. Senza dubbio è una tra le autrici più prolifiche del Novecento e la critica continua a interrogare i suoi lavori. Questi ultimi di stagione in stagione si arricchiscono di sfumature e rivelano i risvolti inediti di un genio e di una intellettuale come poche se ne insigniscono i secoli.

Possiamo partire da qui, da questo testo che è ancora in grado di significare e far pensare sull’odierno stato di cose. Oggi che i gender e cultural studies stanno affermandosi anche in Italia, dimostrano quanto il dibattito in merito qui sia ancora problematico, incerto e muova i primi passi. E allora non si può non partire da Una Stanza tutta per Sé, pietra angolare nell’ondata del ’68, di quel femminismo firmato Carla Lonzi ma che oggi sembra essersi interrotto o che comunque ha preso pieghe stucchevoli. Senza esitazione, senza quel ‘politically correct’ che domina la nostra cultura che opta sempre per il vile pudore del ‘compromesso’ storico e intellettuale, Una stanza tutta per sé è un testo femminista, per le donne e sulle donne. Qualcosa è cambiato per le giovani intellettuali di oggi rispetto ai tempi di cui queste pagine sono figlie? L’eredità è stata coltivata? Scrivere su questo testo non elude da una questione di genere e dal porsi qualche interrogativo.

Nell’introduzione del libello di Virginia Woolf di si legge: “L’unica vita eccitante è quella immaginaria. Appena metto in moto le rotelle nella mia testa non ho più molto bisogno di soldi o di vestiti, e neppure di una credenza, un letto a Rodmell o un divano”. Con questo stato d’animo Virginia Woolf si accingeva ad affrontare la questione femminile, per realizzare sotto forma di saggio-narrazione l’opera Una Stanza tutta per Sé. La Storia per la Woolf deve essere letta attraverso i suoi ‘vuoti’ oltre che attraverso i suoi ‘pieni’. Ed è per questo che decide di raccontare la storia dell’assenza, abitata dai fantasmi delle donne nella Storia. Nel gennaio del 1928 infatti le viene chiesto di tenere due conferenze ai collegi femminili di Girton e Newnham, sul rapporto tra le donne e il romanzo.

La lunga fatica per la conferenza lascia nell’autrice l’amara constatazione che le giovani donne fossero affamate tanto quanto coraggiose, intelligenti, avide ma povere, destinate a divenire nelle migliori delle ipotesi delle diligenti maestre. L’impressione della Woolf è che il mondo stesse cambiando e la ragione si stesse facendo strada, ma sempre nella medesima direzione, in nome di quegli Universali che tuttavia escludevano ancora una volta proprio le donne. Nuovamente deprivate di una conoscenza più corposa della vita, in Una Stanza tutta per Sé si legge: “Come contiamo poco e come tutte queste moltitudini annaspano per restare a galla”. Virginia Woolf osserva da spettatrice il movimento delle donne per la conquista del diritto di voto (si ricordi il Congresso della Lega cooperativa delle donne1913), pur consapevole della sua posizione privilegiata che le consente di dedicarsi alla letteratura e allo studio. Uno dei filoni tematici che accompagnano la Woolf nella sua produzione è il tema donne-corpo-linguaggio e donne-condizione sociale-letteratura. In Una Stanza tutta per Sé l’autrice sottolinea i passaggi dell’esclusione delle donne dalla Storia, nel senso degli avvenimenti e nelle azioni politiche e storiche sia rispetto alla letteratura. La stessa Woolf è vittima di questa esclusione, infatti non frequenterà l’università proprio in quanto donna.

La costruzione particolare del testo, strutturato come un saggio-narrazione, risponde ad un’esigenza precisa dell’autrice. Per dare parola alle donne Virginia Woolf ricerca altri linguaggi e altri toni, in quanto i modelli della cultura ufficiale non tengono conto delle donne. È per questo, infatti, che il linguaggio e lo stile che la Woolf adotta per le descrizioni dei personaggi femminili, si basano molto sull’utilizzo di immagini, come un pittore che dispone di una tavolozza.

Tuttavia in Una Stanza tutta per Sé si ha la sensazione che molte questioni restino amaramente irrisolte. L’unica certezza che la Woolf sembra poter offrire alle sue ascoltatrici di ieri e alle lettrici di oggi, è la convinzione che se una donna vuole scrivere romanzi (e non solo aggiungo) è necessario che possegga del denaro ed una stanza tutta per sé.

Tra le numerose immagini che la Woolf ritrae tra le pagine del romanzo, mi sento di menzionare quella  della mensa, raffinato  parallelismo che evoca quella del simposio del dialogo platonico. Ulteriore dettaglio degno di nota riguarda il momento in cui Virginia Woolf cerca libri sulle donne. Trova moltissimi testi, tutti scritti da uomini, ‘senza alcuna riconoscibile qualifica eccetto il fatto di non essere donne’. Si ritrova in difficoltà rispetto al ragazzo che le siede affianco in quanto, non avendo potuto frequentare l’università, manca di metodo nel condurre una ricerca di tipo scientifico. I titoli dei libri che trova sono Più deboli in senso morale di donne, Ridotte dimensioni celebrali delle donne, Inconscio più profondo delle donne, Amore per i bambini nelle donne. Trova in questi scritti rabbia e collera che si manifestano sotto forma di satira e biasimo. Ergo, da qui deriva per un patriarca l’enorme importanza di sentire che moltissime persone, addirittura metà della razza umana, sono per natura inferiori a lui.

L’assenza delle donne nella Storia e nella letteratura è sintomatico. Tuttavia secondo la Woolf  “L’odio nei confronti degli uomini rende la produzione letteraria delle donne peggiore, in quanto risulta ostacolata e condizionata dalla rabbia repressa. È proprio per questo che è necessario ricercare l’autonomia, per liberarsi dalla sensazione di dipendenza e dalle possibilità di provare risentimento”.

Occorre secondo l’autrice prendere l’abitudine alla libertà e al coraggio; guardare gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; perché nessun essere umano deve precluderci la visuale:

“Se guarderemo in faccia il fatto – perché è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale dobbiamo appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità”.

“Gli Altri Ottanta”, il viaggio punk di Livia Satriano

Gli Altri Ottanta (2014) è un viaggio raccontato dalla promettente Livia Satriano. Un viaggio percorso a ritroso, con la memoria, immortala un’epoca attraverso i racconti dei protagonisti della scena musicale underground. L’approccio narrativo scelto dall’autrice consente al lettore di ripensare quel decennio ben oltre i lustrini e l’edonismo commerciale.

Il titolo non a caso richiama gli altri ottanta, l’altra faccia della medaglia di un’epoca, raccontata attraverso quattordici testimonianze raccolte dalla Satriano con l’approccio di una cronista e così facendo offre al lettore inediti scorci di vita sociale e di vita personale. In Gli Altri Ottanta la colonna sonora è senza dubbio la rivoluzione punk e il post-punk italiano. Nella trama sottile di questi racconti non emerge la fastidiosa autoreferenzialità ma narrazione sincera. Il testo risulta immediato, merito anche delle numerose foto e locandine che consentono di immergersi in quegli scenari, nell’humus di quello spleen sospeso tra innovazione e sperimentazione, con l’ebbrezza che solo la giovinezza spavalda, irriverente e spettinata può generare.

“Vorrai mica che ti parli degli anni ottanta?”. Inizia così il primo contributo firmato Freak Antoni, leader degli Skiantos. Le voci che si incontrano nelle pagine de Gli Altri Ottanta sfatano i numerosi e ricorrenti luoghi comuni e allo stesso tempo Livia Satriano riesce ad evitare la noiosa operazione revival. Ciò che la giovane autrice realizza in Gli Altri Ottanta è la raccolta inedita delle testimonianze storiche avvalendosi della musica come lente e chiave di lettura socio-antropologica da non sottovalutare.

Emerge il ritratto di una generazione sulla quale molto si è scritto ma forse poco è stato compreso, a causa di quello snobbismo intellettualoide che ha fatto di quegli anni uno stereotipo sdoganato. Infatti proprio sugli anni ’80 resta ancora un punto di domanda e un irrisolto che meriterebbero a mio avviso di essere snodati, per comprendere l’eco che condiziona il presente.

In una sorta di canovaccio a più mani in Gli Altri Ottanta si intrecciano le linee generali di un periodo ma preservano come epicentro la nascita di un nuovo approccio alla musica rock. Gli anni ‘80, infatti, non sono stati soltanto quelli del culto dell’ottimismo e del consumo a tutto campo, della ‘Milano da bere’ e della musica dance. Il decennio compreso tra la fine degli anni ‘70 e la fine degli anni ‘80 è stato, in primo luogo, un periodo di grandi cambiamenti e di profonde contraddizioni. Sono proprio gli anni di quel meraviglioso Week-End Postmoderno firmato Pier Vittorio Tondelli e della fauna cresciuta all’ombra degli anni di piombo e del nuovo boom economico. Questi ultimi hanno determinato il cambiamento dei contenuti di una intera società e dei suoi miti culturali, anche e soprattutto alternativi e di subcultura.

Gli Altri Ottanta non è un testo per nostalgici o estimatori di quel periodo, o meglio non solo, è un testo per chi è mosso da curiosità. Così Livia Satriano preferisce affidarsi ai racconti dei diretti protagonisti nonché testimoni privilegiati. Passa in rassegna il rock “demenziale” e provocatorio degli Skiantos, le influenze punk-wave dei CCCP, la wave cantautorale dei Diaframma… Sintomo di quanto anche nei giovani italiani si era diffuso un senso di insofferenza che andava di pari passo con una forte e sentita necessità di cambiamento.

Negli ‘Anni di Pongo’ (cit. Freak Antoni) una delle Muse oltre che centro di ‘gravità permanente’ è stata Bologna e il Dams, le uniche sedi in grado di raccogliere la smania giovanile che si respirava nell’aria, come non ricordare Andrea Pazienza. Seguirono Firenze e le province italiane, fino ad investire tutta la penisola con una fitta rete underground. Gli Altri Ottanta di Livia Satriano consente di ripensare, a sangue freddo, a quel controverso momento storico e musicale in cui le possibilità sembravano infinite, all’insegna della creatività e di quel nomadismo alla Derrida. Le pratiche di quegli anni si traducono in rituali elettronici, senza alcun sentimentalismo o ideologia dal retrogusto amaramente sessantottino: è il Postmoderno. Quel macrocosmo che racchiude l’uomo tardomoderno, costrutto della spersonalizzazione propria della odierna società dei consumi.

La fauna anni ’80 è archetipica delle categorie sociali ampiamente stereotipate. I contorni della realtà si dilatano sotto l’effetto di luce a neon che crea una dimensione surreale, fittizia e destabilizzante. Si resta ingabbiati in questa luccicante quanto mai asettica realtà, valutazioni artefatte e resta un’incognita. Si dispiega un orizzonte agli antipodi, quasi stessimo parlando d’altro, non di quegli anni. Ecco l’altro volto della stessa medaglia, attraverso una spirale di episodi, di storie che si intrecciano con altre storie, di apnea cognitiva che caratterizzano Gli Altri Ottanta.

Tutto in Gli Altri Ottana richiama il “vuoto pneumatico” di postmoderna memoria, di tutti coloro che non trovavano il baricentro in se stessi e che allo stesso tempo con purezza emotiva coltivavano il sentimento dell’amicizia e dell’amore in modo sincero e ingenuo per la musica. L’amore, appunto, senza sfumature ma nella sua veste più devastante e assoluta, sembra l’unico sentimento in grado di redimere e che esercita una cura catartica alla realtà. Il bisogno costante di viaggiare, di cercare nell’altrove nuovi stimoli e soprattutto il bisogno di dimenticare il grigiore e l’indifferenza che ha circondato quella ‘strana generazione’, in nome di esperienze che potessero fare sentire loro che esistevano.

Livia Satriano è abilissima nel non s-cadere nell’autocompiacimento, nella retorica che redime il passato solo perché ‘si stava meglio quando si stava peggio’ o nell’odierno sdoganato fenomeno Hipster. Al contrario, il suo stile rispetta la vocazione del narrare con lucido realismo e con la consapevolezza che tutto fugge, finisce e muta, senza troppi piagnistei, sia chiaro.

 

‘Le Sacerdotesse del quotidiano’, l’omaggio di Donatella Basili a tre grandi poetesse

Le Sacerdotesse del quotidiano è un libello che non deve ingannare per le sue dimensioni. Provoca un piacere inedito leggere pagine dense di poesia, profondità e di eleganza stilistica che omaggiano dignitosamente tre grandi poetesse: Emily Dickinson, Antonia Pozzi e Sylvia Plath.

Donatella Basili, l’autrice di questo sorprendente saggio del 2005, delinea in punta di penna i momenti più significativi della vita e dell’esperienza esistenziale di queste tre donne dotate di un animo delicato e, al tempo stesso, coraggioso. Le Sacerdotesse del quotidiano lascia, senza scadere nella referenzialità saggistica, che sia il suono dei versi di queste tre sacerdotesse a toccare le corde emotive del lettore senza risultare una lezione cattedratica. Donatella Basili non si sostituisce alle poetesse, non fornisce una pedissequa parafrasi dei loro lavori e non si limita ad una fredda biografia. Al contrario ne coglie luci e ombre con la sensibilità necessaria a tracciare delle linee che possano incuriosire e coinvolgere il lettore, sia esso già un affezionato estimatore o un neofita.

La disamina sensibile di tre figure femminili molto diverse ma accomunate da uno sguardo che più che verso il mondo è proiettato sul proprio io interiore, fa ben comprendere perché le voci di Emily Dickinson, Sylvia Plath e Antonia Pozzi ancora oggi abbiano ancora molto da raccontare. L’autrice riesce in modo ineccepibile a dare sostanza a queste voci meravigliose, attraverso un lavoro che si inserisce in una prospettiva prettamente emotiva e che ha come punto di fuga una sorta di tragico sussurro.

Una dimensione sospesa, che non ha tempo e luogo, si delinea come un viaggio estremamente interiore. Donatella Basili indaga nel loro io, scava nelle loro emozioni e attraverso la scrittura asciutta e poetica al contempo, traccia i contorni dell’Io più nascosto. Attraverso le coordinate cartesiane riporta su di un grafico immaginario, che coincide con la coscienza di sé, le percezioni della Dickinson, della Plath e della Pozzi, nel tentativo di dare una forma razionale ad esperienze che fuggono, scivolano tra le dita e che sanciscono la caducità dell’esistere umano.

I punti di contatto con la realtà svaniscono pagina dopo pagina e predomina una poetica surrealtà. La voce narrante calibra le parole in modo che restino aggrappate sulla pagina e rintocchino nel cervello del lettore. Nulla è immediato, c’è un’urgenza che è quella del comprendere ancor prima che del sentire. Lo sguardo è disincantato, l’analisi a volte amara non è per nulla scontata.

In Le Sacerdotesse del quotidiano, uno dei protagonisti è il tempo. Quello della Basili che segue un raffinato file rouge, quello delle tre voci delle poetesse che accompagnano chi legge e quello del lettore stesso, che deve riflettere, assaporare le parole, fermarsi su di esse per comprendere un testo che non può essere divorato, come la narrativa degli ultimi tempi. Appropriarsi dei tempi della lettura per goderne appieno il piacere. Solo allora anche le emozioni comparteciperanno alla comprensione.

Lo sguardo sulla realtà è affidato alle composizioni poetiche, funzionali al testo per determinare un climax che lascia il segno.I versi raccolti con dovizia dall’autrice sono passi in punta di piedi. I movimenti cadenzati accompagnano parole sbriciolate su pagine opache ed evidenziano quanto le tre poetesse, più di altri, abbiano dedicato una ricerca personale che verte anche sulla parola. Quest’ultima è ancella e unica testimone di emozioni,  corrono il rischio di sbiadire nel tempo e la Parola salva dal vuoto di sogni.

Le sacerdotesse del quotidiano si fa necessità e vera urgenza che si manifestano nel tentativo di recuperare la virtù dell’ascolto, del non lasciarsi sopraffare dal vuoto dell’ovvietà. Lo sguardo delle tre poetesse si risolve in brevi tocchi, nel momento in cui nell’impossibilità del dialogo, anche le parole rischiano di precipitare nel nulla. Così i sensi divengono l’unico ausilio sincero, inequivocabile, per afferrare ciò che è destinato a mutare.

Emerge in queste pagine un’estetica del silenzio, il vero rumore di tre anime disabitate. Si avverte a fior di pelle l’amore, il fascino per la parola, per i suoni, sino alle sillabe. Un ulteriore difesa adottata dalle tre sacerdotesse sono i ricordi, i più quotidiani senza particolari iperbole, che appartengono ad una musa silente, la quale si aggira sonnambula tra le pagine di questo piccolo manufatto screpolato.

Gli intrecci di pensieri e i sospiri segnano i contorni di una miniatura impressionista. E in questo sbottonarsi di pensieri, di digiuni infiniti, Le Sacerdotesse del quotidiano recupera una sorta di densità che solo le attese sono in grado di provocare.

Indubbiamente quest’opera è un delicato flusso di pensieri che merita di essere goduto con un adeguato sottofondo musicale e una luce quasi crepuscolare, per valorizzare l’intensità di versi sussurrati.

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