Da Principio era la neve, di Fabio Mele

Romanzo "Da principio era la neve" di Fabio Mele - Servizio TeleRama

Da Principio era la neve (2009) segna l’esordio di Fabio Mele. Confidando su quanto riportato sulla quarta di copertina, il testo sembra promettere bene. Si palesa sin da subito nelle corde di un romanzo di formazione riportato ai giorni nostri e l’interesse anche verso la ‘buona’ narrativa emergente mi fa ben sperare nel giovane autore contemporaneo. Già dalle prime pagine è possibile individuare il genere narrativo con cui Mele ha l’ambizione di misurarsi. Perché sia chiaro, trattare il tema ‘generazionale’ con tutto quello che comporta non è cosa facile, come invece si è soliti pensare. In Da Principio era la neve le peculiarità principali sono presenti, ben rispettate e di conseguenza le aspettative sono notevoli. L’amore adolescenziale, le sofferenze e gli slanci emotivi che determinano nel giovane protagonista i primi turbamenti, l’amicizia e l’affacciarsi sul mondo adulto per mezzo di scelte che, inevitabilmente, muteranno la vita del giovane. Bene, gli ingredienti ci sono tutti.

Lo stile con cui è costruito Da Principio era la neve è ineccepibile, la trama è sviluppata dall’autore con coerenza, senza sbavature e i personaggi sono ben delineati. Tuttavia, la lettura procede senza coinvolgere particolarmente. In Da Principio era la neve la grande assente è la profondità emotiva, ovvero l’elemento più importante e che l’autore sembra aver completamente sottovalutato, limitandosi a dar prova del ‘suo’ innegabile ‘bello stile’. Infatti, la trama resta in superficie e alla lunga, Mele ripiega e rifugge sulla compostezza stilistica per colmare l’assenza del dato emotivo. Questa è l’ipotesi che, a mio avviso, potrebbe giustificare l’errore grossolano commesso dall’autore. Egli o è troppo acerbo, tanto da non aver ancora individuato una propria tecnica narrativa, o è troppo imbevuto di ‘lezioni’ apprese e messe in pratica sin troppo alla lettera. Da Principio era la neve è il risultato perfetto del modello ‘scuola di scrittura’, Mele si attiene bene sin troppo bene alle regole apprese. Le esegue e rispetta tutte ma allo stesso tempo egli inciampa su un’autoreferenzialità fastidiosa.

Si ha la sensazione che egli racconti la vicenda, o meglio la scriva per se stesso, perdendo di vista l’importanza del saper narrare e questa capacità, ahimè, non è qualità che si può recuperare su un manuale. Mele non dice tutto, tiene il lettore alla giusta distanza per non entrare troppo nel suo cono emotivo, tiene molto per sé e racconta solo quello che vuole, in un modo troppo distaccato e freddo. Ciò a discapito di una onestà narrativa che questo genere di romanzo richiede. La voce narrante ripercorre gli eventi, che indubbiamente coinvolgono l’autore in prima persona, senza però scavare in modo convincente nelle emozioni. Di conseguenza il lettore resta al di là della pagina, né riesce ad identificarsi, anche solo in parte, nella storia narrata.

Inoltre, l’autore fa costante riferimento a testi musicali, agli anni Novanta e ad uno scenario, quello del Salento, che potrebbero essere sviluppati in modo più brillante e originale.

Insomma ogni singolo elemento si presta ad una narrazione che potrebbe suggerire varie sfumature, emozioni in controluce e chiaroscuri su sfondi inediti, invece l’insieme si rivela molto deludente. Da Principio era la neve si conferma un romanzo che resta immobile e monocorde.

‘Norwegian Wood’, il travolgente origami di Haruki Murakami

Norwegian Wood è un famosissimo romanzo di Haruki Murakami del 1987, pubblicato in Italia (1993) con il titolo di Tokyo Blues.

Nonostante sia stato riconosciuto dalla critica come un clamoroso successo della letteratura giapponese, ancora oggi Norwegian Wood rappresenta un’oasi vergine per molti giovani lettori. Tuttavia Tokyo Blues conserva la sigla di capolavoro e sembra non subire l’ombra del tempo. Norwegian Wood è anche considerato il lavoro più introspettivo di Murakami, che qui esplora in velina la sfera dei sentimenti e della solitudine. Non deve quindi stupire se Norwegian Wood resta, per molteplici e validi motivi, un grande romanzo incentrato sull’adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo della vita adulta e il bisogno di restare se stessi. Come Holden o il protagonista de Il Budda delle Periferie, Toru è continuamente lacerato dal dubbio di aver sbagliato nelle sue scelte di vita e sentimentali, ma è anche guidato da una propria morale che produce in lui una radicata avversione per tutto ciò che sia artificialmente costruito. Così Toru, diviso ma anche affascinato da Naoko e Midori, può decidere stoicamente o abbandonarsi al fatalismo.

Il romanzo è un lungo flashback, narrato in prima persona proprio dal protagonista Toru. Su un aereo atterrato ad Amburgo, il suono di Norwegian Wood dei Beatles, richiama alla sua mente, in modo nitido, un episodio avvenuto diciassette anni prima e che ha segnato la sua giovinezza: l’incontro casuale con Naoko. Il ricordo di Naoko è il pretesto che consente al protagonista di ripercorrere i difficili anni dell’università e l’amore impossibile per la ragazza (poi ricoverata in un istituto psichiatrico) e quello per Midori. Anche quest’ultima, compagna di corso all’università, è annichilita a causa di lutti familiari, dal collegio e dall’amicizia con Nagasawa, ragazzo controverso e alter ego del protagonista. I tumulti nelle università forniscono solo un riferimento temporale, la narrazione è collocata alla fine degli anni Sessanta ma Murakami sembra non voler scivolare nel cliché, stereotipato oltre che abusato, che caratterizza i romanzi ambientati proprio in quegli anni. All’autore interessa indagare in una sfera meno prevedibile e più introspettiva. Toru rimarrà quindi estraneo alle occupazioni delle università, ai propositi rivoluzionari e il suo è un percorso di dolore e consapevolezza personale, che lo porterà a constatare che la morte non è l’antitesi della vita ma una sua parte intrinseca.

La narrazione e la stessa scrittura di Murakami sono impalpabili, un grazioso origami e qualsiasi cosa egli scelga di descrivere vibra di carica simbolica, solo come un certo gusto orientale riesce ad esprimere con estrema raffinatezza. Non sembri azzardata una libera associazione tra questo romanzo e alcuni celebri film come Ferro 3 o In the mood of Love; leggere e immergersi in Norwegian Wood permette al lettore, non neofita, questo tipo di parallelismi che consentono di ampliare l’orizzonte psichico sino a dilatare la pagina in una dimensione altra.

Travolgente, emozionante, puro incanto. Norwegian Wood è uno di quegli esempi letterari che esercita il fascino della parola, attraverso una forte carica evocativa, a tratti poetica. È un libro che vibra sotto pelle e avvolge il cuore, dove le immagini e le parole continuano a risuonare nella mente, dove  gli stati d’animo sono resi magistralmente. Non si può leggere questo libro senza provare una stretta al cuore per la loro malinconica bellezza.

Nonostante Norwegian Wood sia etichettato come romanzo adolescenziale (e lo è, nella sua accezione positiva), non vi è nulla di superficiale o stucchevole in esso. Adolescenziale è ben diverso da romanzo per adolescenti. È una precisazione necessaria, onde evitare grossolani errori di valutazione e odiose generalizzazioni che questo libro non merita, rientrando in una categoria superiore ad ogni libro di recente uscita.

Murakami è riuscito a dare voce, come pochi vi riescono (pensiamo a Salinger o a Tondelli), ad una fase della vita che non è affatto semplice con i suoi piccoli o insormontabili drammi. Un romanzo riuscito, perfetto perché è dolce, triste e tremendamente doloroso, come solo l’adolescenza sa essere.

-Se c’è una cosa che non mi manca è il tempo.

– Davvero ne hai tanto?

– Tanto che mi piacerebbe dartene un po’, e farti dormire lì dentro.

 

 

 

Storia di chi fugge e di chi resta, di E. Ferrante

Elena Ferrante è diventata un vero e proprio caso letterario. La critica d’Oltreoceano l’ha accolta con parole entusiaste e un grande interesse aleggia anche intorno alla stessa identità dell’autrice.

Elena Ferrante è infatti uno pseudonimo che cela, a detta di alcune indiscrezioni, non altro che Domenico Starnone. Tuttavia al di là di questa parentesi da gossip, il plauso resta meritato e le vendite lo confermano, non accadeva da illo tempore. Leggere Storia di chi fugge e di chi resta (terzo volume di una quadrilogia intitolata L’Amica Geniale) fa tirare un gran sospiro di soddisfazione e si ha l’impressione di avere tra le mani, finalmente, un romanzo all’altezza della migliore tradizione italiana in prosa. Un capolavoro che non strizza l’occhio alle mode letterarie del momento o ci proponga la solita storia messa ben a punto da un bravo editor e da una strategia di marketing destinati solo ed esclusivamente a vendere e a far parlare di sé.

L’avvincente discussione sull’identità della scrittrice, per quanto aggiunga un po’ di pepe, rischia di sminuire la portata di quello che ha scritto, declassandolo a oggetto da salotto massmediatico, senza riconoscere che questa autrice ha elevato nuovamente ad alto rango il Romanzo.

Chiunque lo abbia scritto, Storia di chi fugge e di chi resta, non è solo un bellissimo romanzo ma un punto di svolta nella letteratura contemporanea italiana. Elena Ferrante è riuscita laddove già molti altri autori si sono cimentati con scarsi esiti, ovvero scrivere l’autobiografia di una generazione e di un preciso momento storico segnato dal comunismo e dal femminismo. Il livello della microstruttura investe temi più controversi e avvincenti quali il progresso, la mobilità sociale, la speranza in un riscatto sociale affidato alle proprie capacità.
L’intelligenza, infatti, è l’unica arma di cui le protagoniste dispongono. Nate nella miseria dei rioni popolari di Napoli, Lenù e Lila tentano di cambiare le proprie vite ma adoperano i rispettivi capitali cognitivi in modo dicotomico. Lenù rispettando tutte le regole e Lila non rispettandone neanche una. Eppure anche lei, pur nei limiti del quartiere, riesce a realizzarsi nel settore dell’informatica. Lenù parte, fugge. Lila resta e prova dall’interno e con il suo carisma ad opporsi alle regole eterne delle strade di Napoli. Tuttavia finiscono entrambe sconfitte se le si rapporta al mondo che non cambia e il riscatto delle loro esistenze risulta vano.

Insomma il romanzo, popolato da personaggi le cui vite si intrecciano slegano e ricompongono, è il manifesto di una grande sconfitta collettiva. Perdono tutti: chi la vita, chi la libertà. Gli amici cresciuti con le due protagoniste seguono la medesima parabola discendente: sconfitti quelli hanno fatto carriera con il Psi di Craxi, quelli che sono ascesi con la camorra, quelli che hanno sperato in una rivoluzione. Elena Ferrante non si limita a narrare una storia privata ma intesse il romanzo epico di un pezzo di storia, la nostra, quella italiana, del boom economico e delle sue contraddizioni. La scrittrice racconta un ‘68 filtrato dall’esperienza di personaggi tutti italiani. E allora è possibile constatare quanto in quei fantastici anni, in cui tutto sembrava possibile, da L’immaginazione al potere a Il sesso è politicoqualcosa in Italia si è inceppato e ha interrotto il cammino della nostra storia, tanto da far scrivere la carta stampata di un ‘caso italiano’. Un caso che non è quello, o non solo, delle grandi città del Nord ma anche del Sud, di coloro che borghesi non lo erano  affatto e se intentavano una ‘lotta di classe’, dovevano affrontarla in primis tra le mura domestiche, poi nel quartiere sino alla fabbrica.

Il lavoro di Elena Ferrante è un romanzo popolare ma immenso poiché restituisce, attraverso personaggi frastagliati, la complessità dell’Uomo. Risulta difficile parteggiare pienamente per ciascuno di essi, così come è impossibile definire a pieno titolo i Buoni e i Cattivi. Resta su di essi un cono d’ombra che lascia indefiniti alcuni interrogativi, ogni volto che il lettore incontra è un mondo a sé e pertanto ogni ontologia resta irrisolta.

Elena Ferrante è riuscita dove tanti hanno fallito perché “Scrive”, perché sa coniugare la testa e le viscere come a pochi è concesso dal talento e forse anche per la volontà di ripercorre una parabola esistenziale dal basso. Il punto di osservazione appartiene a coloro i quali l’ascensore sociale non era una definizione sociologica ma il confine tra la vita e la sopravvivenza. E perché non la mette mai al centro della narrazione, ma la rilegge attraverso il prisma emotivo di un’amicizia al femminile. Amicizia strana, peraltro, con una simmetria troppo perfetta tra le due biografie così perfettamente opposte, una il rovescio esatto dell’altra. Due amiche, legate dal rapporto più intimo della loro vita ma forse anche due parti della stessa identità.

Ma Elena Ferrante è una narratrice e rifugge da intenti pseudo pedagogici e si astiene dall’azzardo narcisistico di fornire una qualche spiegazione. In Storia di chi fugge e di chi resta, l’autrice ha raccontato e descritto una vita, un’amicizia, un’epoca storica, una generazione e la sua catastrofe. Andare oltre e trovare una spiegazione di senso sta a chi legge, perché questo è quello che si fa con i grandi libri.

Sherlock a Shanghai, di Cheng Xiaoqing

Cheng Xiaoqing (1893-1976) è il più famoso autore di detective stories cinesi della prima metà del Novecento. La sua notorietà è determinata non solo dalla vasta produzione letteraria, decisamente prolifica (oltre 30 volumi), ma anche dall’interesse che continua a suscitare in ambito critico e storiografico. Le opere di Xiaoqing infatti offrono un prezioso contributo agli studi letterari comparativi e postcoloniali.

L’autore cinese è stato uno fra gli esponenti più brillanti di quella corrente letteraria meglio nota come ‘Mandarin Ducks and Butterflies’. Il termine rimanda a quella forma di letteratura popolare che caratterizzò la scena cinese nei primi anni del Novecento e che ha indicato il romanzo popolare dai contorni rosa e poco pretenziosi, diffuso soprattutto tra le classi meno abbienti. Tuttavia a cominciare dal 1920 una nuova generazione di giovani scrittori ‘The May Fourth movement’ adottò il termine per tutti i romanzi popolari vecchio stile e che, oltre all’amore, puntavano a provocare il pubblico ben pensante, moralista e convenzionale con trame audaci, d’avventura o poliziesche. Questi romanzi erano ad ogni modo destinati ad un pubblico di massa non certo elitàrio o accademico. La corrente letteraria finì col ricalcare il meno ambizioso stile da soap opera o pulp e pertanto gli autori del ‘May Fourth movement’ furono etichettati, a torto o ragione, come commerciali.

Questa stessa letteratura ben si prestò all’arte cinematografica per il Mingxing Studio che tra gli anni ‘20 e ‘30 costituì un nodo importante per la diffusione di una cultura massificata e che allo stesso tempo fosse in antitesi al cinema americano. Tuttavia Xiaoqing è l’esponente più noto e tradotto all’estero per la capacità di aver dato vita al genere Western detective alla Sherlock Holmes. Il protagonista di Sherlock a Shangai è ben inserito nel contesto orientale che l’autore non tradisce, creando una sinestesia tra Oriente e Occidente, ne evidenzia le tensioni e le atmosfere con un andamento narrativo che è proprio di quello orientale. Un microcosmo meraviglioso, tra due tradizioni importanti che si incontrano e dialogano, offre al lettore una di quelle magie che a volte si concretizzano sulle pagine migliori della letteratura.

Leggere un poliziesco ambientato in Cina, per di più negli anni Venti, rappresenta un inedito piacere per il lettore occidentale, avvezzo a ben altri canoni.

Nei sette racconti che compongono il lavoro di Xiaoqing, il detective Huo Sang e il suo assistente si misurano con altrettanti casi in cui deduzioni affrettate, per quanto logiche, potrebbero ingannare anche la mente più acuta. Il confronto con Conan Doyle è voluto, in quanto l’autore è un grande estimatore del padre di Sherlock Homes. La veste gialla, così, è un’opportunità, quasi un pretesto per mostrare limiti e contraddizioni della natura umana; il tutto inserito in un preciso momento storico, segnato da grandi cambiamenti: la tradizione si scontra con la modernizzazione e Shanghi diviene il teatro ideale per i misteriosi delitti.

Quello che più affascina è proprio la descrizione della metropoli e della sua élite raffinata e al contempo cinica. Nonostante gli episodi siano ricalcati sui misteri holmesiani, le azioni sono ridotte al minimo e alla lunga la prosa, minuziosa e disseminata di dettagli che non aggiungono nulla alla trama, si fa pesante.

Diverte, invece, confrontare il divergente punto di vista dei due investigatori, l’uno analitico e l’altro grossolano, vittima di intuizioni scontate e perciò erronee.

Xiaoqing coniuga l’intento narrativo con uno più prettamente didascalico, tipico di molta letteratura orientale, ed è proprio questo a nuocere alla buona riuscita dei racconti. Se da un lato l’autore vuole infatti stimolare un pensiero critico, dall’altro l’agire del suo alter ego desta perplessità e spesso appare fastidioso e saccente.

Il ritmo cadenzato sostiene l’approccio speculativo, ma richiede un po’ di tempo affinché si possa apprezzare in modo adeguato il testo. Per godere appieno di questo libro davvero singolare può quindi risultare opportuna una seconda lettura, contrassegnata da un atteggiamento differente verso una mentalità che non ci appartiene, ma che senza dubbio affascina.

 

 

Erri De Luca: ‘Il giorno prima della felicità’, un melò poco riuscito

Romanzo dai buoni sentimenti, Il Giorno prima della Felicità (2009) dello scrittore partenopeo Erri De Luca, non riserva molte sorprese e colpi di scena. Sin dalle prime pagine si intuisce che tutto finirà bene, qualsiasi evento coinvolga il protagonista.

La trama de Il Giorno prima della Felicità richiama uno dei tanti film ambientati nei quartieri poveri di Napoli, qui il giovane eroe, una sorta di David Copperfield partenopeo, orfano e abbandonato a se stesso può confidare sulle premure di un portinaio dal cuore d’oro che lo alleva come fosse suo figlio. Il bambino scopre nel cortile del palazzo in cui vive un rifugio segreto, utilizzato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Così al racconto si uniscono i ricordi sull’occupazione tedesca, una storia nella storia, espediente abusato ma sempre di indubbio effetto sul lettore. Il portinaio si fa a sua volta narratore e racconta le atrocità determinate dalla miseria. Ma siamo in un romanzo dai buoni sentimenti, pertanto immancabile è l’amicizia con un ebreo che egli ha protetto.

Nel lavoro di De Luca è possibile individuare ogni “furbata” che si sa per certo è in grado di coinvolgere il lettore e permette alla trama di non subire cadute di tensione emotiva. Il passato evocato dal portinaio si intreccia al presente del protagonista e l’atto del narrare pone l’accento sulla magia della parola sia essa scritta o orale. La disamina metaletteraria scivola però nel didascalico moraleggiante.

A coronare questa fiera delle banalità è l’amore, inevitabilmente travagliato e ancora una volta ricalcato su qualche figura romanzesca di brontiana memoria oltre che la  fastidiosa tenacia di volere a tutti i costi trovare e far trovare al lettore somiglianze con lo spirito della cultura ebraica, ed ecco che spunta il perseguitato che vive nell’oscurità delle cantine.

Pagina dopo pagina il lettore accompagna il protagonista dall’infanzia alla maturità e si abbandona alle parentesi introdotte dall’autore con arguzia. Infatti nulla è casuale e come nei romanzi di formazione che si rispettino il finale aperto è il suggello sulle “grandi speranze” riposte nel giovane scugnizzo.

De Luca evoca con perizia ed empatia la vita nei quartieri, la loro miseria e affonda la penna nella realtà. Tuttavia l’epilogo sbrigativo si colloca più nella dimensione televisiva e rovina la patina neorealista. È innegabile che l’autore sappia raccontare una storia con padronanza ma gli stereotipi sono notevoli e a volte non è ben chiaro il suo intento, ovvero se voglia raccontare la storia di un bambino o celebrare il proprio amore per la scrittura e i libri. In quest’ultimo frangente si evince un trasporto maggiore, una spinta emotiva che a tratti l’autore non riesce a controllare e a trattare con sufficiente distacco. Di conseguenza la dimensione narrativa e quella metaletteraria non si saldano ma restano su due livelli sbilanciati e distinti. Si cerca invano di replicare l’inarrivabile e poetico universo letterario di Eduardo De Filippo, come dimostrano la presenza dei ciabattini macchietta, dei portinai che insegnano a vivere, sciorinando pillole di saggezza, e di don Gaetano, vero protagonista della storia che sa leggere nei pensieri della gente e che alleva il bambino.

Il giorno prima della felicità risulta un melò non tra i migliori di De Luca, con un finale frettoloso, dove l’autore partenopeo ha messo troppa carne al fuoco, in cui si rintracciano calchi letterari, cinematografici e televisivi, ma con un intento tutt’altro che piacevole e originale, dettato da esigenze più che altro commerciali, un filone nel quale il lavoro di De Luca si inserisce a pieno titolo.

‘I Diari’ di Sylvia Plath, poetessa confessionale e militante

«Forse non sarò mai felice… ma stasera sono contenta. Mi basta la casa vuota, un caldo, vago senso di stanchezza fisica per aver lavorato tutto il giorno al sole a piantare fragole rampicanti, un bicchiere di latte freddo zuccherato, una ciotola di mirtilli affogati nella panna […] in momenti come questi sarei una stupida a chiedere di più». Il modo migliore per conoscere un autore, oltre che attraverso le sue opere, probabilmente è anche mediante le proprie lettere e diari. Ebbene, i Diari di Sylvia Plath ne sono un formidabile esempio.

Sylvia Plath (1932-1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense. È conosciuta soprattutto per le sue poesie che appartengono al genere definito confessionale, ma ha anche scritto il romanzo La campana di vetro, fortemente autobiografico e lacerante.

A distanza di molti anni ormai, sembra che l’oblio abbia circondato le opere e il nome di Sylvia Plath. Nonostante, o purtroppo, durante l’ondata femminista tra gli anni ’60 e ’70, la poetessa bostoniana sia stata un riferimento intellettuale per numerose donne militanti, colte o radical come le definiremmo oggi. Si potrebbe ipotizzare che la produzione letteraria di Sylvia Plath paghi lo scotto riservato a quegli autori per i quali, nonostante il talento indiscusso, l’essere diventati simbolo per una generazione o di un particolare momento socio-culturale, ne abbia compromesso a lungo termine il valore letterario. Proprio per questo la poetessa è ancora un territorio inesplorato se la si ascolta con attenzione, con occhi nuovi, senza i fumi narcotici di una pagina storica.

La raccolta dei Diari di Sylvia Plath presenta al centro della copertina una magnifica foto della poetessa con la testa china mentre scrive a macchina, all’interno del volume vi sono anche altre foto che raccontano di una donna il cui destino (si suicidò a soli 31 anni) non collima con quelle immagini. A questo punto  è lecito chiedersi chi sia stata Sylvia Plath, premesso che parti del diario siano state distrutte dall’ex-marito, il poeta inglese Ted Hughes.

Ai tratti fisici delicati si contrappone una scrittura forte, capace di suscitare subito reazioni nel lettore. La Plath non adopera orpelli retorici ma una scrittura diretta, un bisturi che allo stesso tempo pesta la pagina e quest’ultima sembra riempirsi subito del suo Io più irruento fino a perdersi nelle sue stesse parole.

Le poesie di Sylvia Plath non sono da meno, basti pensare alla profonda e celebre poesia Lady Lazarus: parole forti e crude. Il continuo parlare di morte della Plath potrebbe ingannare il lettore superficiale; altro non è che un disperato bisogno di vivere. Tuttavia ritengo che la lettura in lingua originale consenta una maggiore resa introspettiva e di apprezzare la pienezza di ogni singola parola. Ogni parola, ogni verso pesano sul cuore come un macigno, lacerano la pagina e catturano il lettore in un abbraccio che è tormento, estasi e annichilimento.

L’emotività e allo stesso tempo la personalità complessa della scrittrice americana, emergono pagina dopo pagina. Ma ciò che mi ha conquistata e appassionata è poter constare come chiunque possa cogliere diverse sfaccettature dell’animo della poetessa, a seconda della propria sensibilità. Così è inevitabile lasciarsi conquistare da parole dense di emozioni, dal conflitto interiore che l’ha attraversata, anche in modo drammatico, nel corso della propria vita. Anche a chi il nome di Sylvia Plath non dice nulla, i Diari costituiscono un buon inizio per avviare una conoscenza emotiva, ancor prima che letteraria e che, proprio per questo, può tradursi in un personalissimo viaggio interiore.

Sarebbe difficile rintracciare note negative in una storia dove un’artista mette a nudo il proprio essere, attraverso la propria voce, senza la mediazione degli “addetti ai lavori” (ovvero critici e quant’altro), è un’esperienza talmente diretta e autentica che non può lasciare indifferenti.

‘Padre Padrone Padreterno’, il saggio sulle culture di Joyce Lussu

Padre Padrone Padreterno di Joyce Lussu si palesa come tentativo di avviare una riflessione critica sulla possibilità di «spiegare e comprendere, integrare e giustificare, senza conquistare e colonizzare, ma fiorendo in un destino babelico e non monoteista, non biblico, non universale, non imperialista, a favore del colloquio tra i mondi, stando insieme alla pari nelle differenze delle culture». Il dibattito odierno intorno alla “Cultura di Genere” rappresenta un tentativo per vivificare i mondi e per incentivare le intelligenze. Cogliere il “vissuto”, implica il non avvalersi esclusivamente delle discipline istituzionali, andare ben oltre le storie letterarie o gli studi critici. Oggi più che in passato, occorre vivificare il sapere per tradurre quei valori che rispettino le pluralità e che non si riducano al semplice confronto. A tal fine Padre Padrone Padreterno è uno strumento privilegiato e ancora attuale per il metodo in fieri che propone. Una prassi aperta ad ogni tipologia di dialogo, interdisciplinare, mossa da un interesse grande e plurimo, che superi l’approccio accademico, a favore della diversità. Il dibattito sui “Gender Studies” dimostra quanto sia necessario che la ricerca sia adeguata all’epoca in cui viviamo e che abbandoni ogni forma di pregiudizio etnico e sessuale.

Nonostante nomi illustri si siano occupati della questione di genere, ho preferito scegliere una voce dimenticata (o volutamente ignorata dagli imbonitori del sapere), e che al contrario io reputo una delle pensatrici più autorevoli e fuori dal coro. Joyce Lussu è ritenuta una donna di confine che ha adoperato un metodo d’azione. Infatti, il suo partire dal basso, le ha consentito di svolgere uno studio pioneristico sul “pensiero della differenza”. Quest’ultimo è pieno di risonanze ancora attuali, scevro da cerebralismo ma aperto all’incontro, tanto da risultare distante dal populismo arcaico. La pensatrice al concetto di genere, che sembra andarle stretto, predilige lo sconfinamento dei paradigmi. Vi si scorge una permanente tendenza a non farsi escludere perché donna, senza però l’aspirazione a mascolinizzarsi. L’agire come donna, il sentirsi sempre più donna è l’apprezzamento autentico e onesto della diversità e della complementarietà:

«Essere donna l’ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello? Vi faccio vedere io! Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anche io. E in più, so fare anche un figlio».

La tesi che la Lussu sviluppa nel suo scritto, è che in una società dove la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli individui a difendere il proprio posto di lavoro per disperata necessità, emerge sempre la diseguaglianza; al contrario, in un sistema capitalistico arretrato, l’economia si reggeva sui risparmi domestici, mansioni assistenziali gratuite e creava le strutture culturali adeguate a giustificare questo stato di cose, dalla morale piccolo borghese alla religione. All’interno di tale sistema, donne ma anche uomini sono schiacciati dalla Restaurazione Capitalistica, e a maggiore ragione è necessario legare una volta per tutte la teoria alla prassi, al di fuori delle tavole rotonde istituzionali (espressione di forme stantie e ipocrite di indottrinamento), per procedere fuori dal gioco e per acquisire un linguaggio inedito.

Quel che secondo la lungimiranza dell’autrice mancava allora, e aggiungo anche oggi, è la consapevolezza rigorosa dei fenomeni che condizionano l’esistenza attuale. Manca, dunque, una conoscenza delle cause e ci si affretta a trovare soluzioni per falsi teoremi e per mere fallacie logiche. Pertanto occorrerebbe, secondo l’autrice, operare una ricerca storica per una riflessione critica. In momenti come quello odierno si recuperano o si inventano miti per preservare il potere delle classi dominanti. Ed ecco “gli anatemi sessuofobici, fallocratici, misogini”. È proprio nell’ambito di quella che Pareto definisce “eterogeneità sociale”, che la donna resta un ottimo capro espiatorio. Infatti questa strategia è una componente costante del potere di una minoranza sfruttatrice, per deviare l’attenzione delle masse dai responsabili delle sue sciagure e indirizzarla su falsi scopi. Ad esempio, per trasformare i contadini della metropoli in proletariato industriale è bastato sradicare le tradizioni, la cultura autoctona, per fornire manodopera a buon mercato.

Per comprendere a pieno anche il presente occorre fare un bel passo indietro, là dove il sistema capitalistico affonda le proprie radici. In Italia la politica di massa della Chiesa si sviluppa dopo il Concilio di Trento. Il potere teocratico con l’affermarsi della scienza che indaga sulle leggi della materia e dell’energia, si trova di fronte un nemico più pericoloso delle eresie. L’eresia infatti, rimaneva sempre all’interno del sistema teocratico, accettava i principi della trascendenza e della rivelazione, e cercava tutt’al più di tirare dalla parte dei poveri un dio inventato per i ricchi. La scienza invece è antitetica ai principi stessi della teocrazia, ne corrode i fondamenti; tanto più che si sviluppa all’interno della classe dominante, dividendola in due tronconi antagonistici e rischiando di indebolire il potere. Ciò assicura una riserva di forze conservatrici negli strati sociali emergenti e tenuti a bada con la repressione per ottenere il consenso. L’azione persuasiva consente l’integrazione nella cultura del potere e si consolida recuperando antichi culti animistici che, potenziando forme più primitive di superstizione, hanno dato luogo alla Democrazia Cristiana. Privilegiare una minoranza del popolo oppresso, assicura il consenso per poter meglio opprimere la maggioranza. Si assicurano alcuni benefici per impedire qualsiasi mutamento essenziale del loro status. Tale processo si cristallizza mediante una sedimentazione interiorizzata di quei modi di agire, di pensare e di sentire che appaiono come naturali e ovvi e non come rappresentazioni sociali. Passiamo ora in rassegna il famigerato ’68. Dunque, secondo l’autrice esso è servito a sgombrare il terreno da sclerosi sovrastrutturali mantenendo ben salde quelle strutturali, le cui radici a mio avviso sono ancora oggi profonde e robuste. Il gap a cosa può essere attribuito? Ancora una volta è mancata una collocazione storica, la quale doveva fungere da bussola e da criterio di omogeneità.

Quel che però emerge dall’analisi dell’autrice è che il ’68 ha privilegiato le componenti sociologiche, psicologiche, esistenziali e culturali in senso tradizionale e umanistico. Come se i problemi dell’umanità non fossero quelli della sopravvivenza. È mancata la concretezza delle problematiche inerenti le coltivazioni di cereali, o una industrializzazione che non renda invisibile il pianeta, la creazione di energia o una regolamentazione delle acque, il rapporto industria-agricoltura, città-campagna, essere umano-ambiente, il superamento della frattura antidemocratica tra lavoro manuale e intellettuale. Il disappunto dell’autrice non risparmia neanche i due capisaldi istituzionali per eccellenza, ovvero: la politica e la famiglia. La Nuova Sinistra colpevole di aver visto nella lotta armata una forma di contestazione romantica, di aver dato origine ad una ideologia tutta borghese e frutto di una interpretazione sommaria della Rivoluzione Cinese. Quest’ultima intesa come una mitologia semplificata e agiografica con un eurocentrismo ereditato dai partiti tradizionali. La famiglia, invece, rea di un patriarcato fatiscente per mancanza di aspiranti patriarchi, ossia di uomini in grado di assumersi l’onere di mantenere una casalinga natural durante. Porre le questioni in termini statistici e di ragioneria serve soltanto a consolidare e ammodernare la società capitalistico-borghese, mentre la parità reale richiede un mutamento profondo e generale di tutti i rapporti all’interno della società. Ogni indagine necessita di un approccio storico.

Infatti, se si adoperasse una lente meno ideologica, ci si accorgerebbe che la questione sessuale nella civiltà occidentale assume ancora oggi aspetti ossessivi. Secondo la Lussu, la sessuofobia e la misoginia del Cristianesimo ( che in realtà appartiene alla Chiesa) hanno fatto di questa naturale attività umana, una fonte perenne di terribili drammi e nevrosi distruttive, che non si risolvono certo con la psicoanalisi o le tavole rotonde di qualsiasi natura e luogo, anche se infiocchettate con i migliori propositi che danno vita ad una vuota e inefficace retorica. Freud e Reich sono sessuofobi e misogini quanto i Padri della Chiesa. Ernest Bornemann è l’unico che abbia fatto un’indagine approfondita sul patriarcato, non è certo uno psicanalista ma uno storico. Se si considerano i miti della verginità o i miti della monogamia della donna, emerge che l’uomo esprime la propria sessualità sempre in ogni epoca, in modo egoistico, autoritario, accumulando le frustrazioni. Anche l’uso della sessualità è un fatto politico, risultato del Contratto Civile e Culturale della società. Le determinazioni sono ricavabili dalle strutture e dalle sovrastrutture della nostra vita. Pertanto liberarsi dalle abitudini mentali indotte dal Cristianesimo, vuol dire anche liberarsi dalle strutture economiche e produttive che il terrorismo psichico ha puntellato non meno di quello giuridico-poliziesco.

Le nevrosi sono aggravate da:

Insicurezza economica;

Instabilità sociale;

Degradazione dell’ambiente;

Sono vere intossicazioni consumistiche, ragion per cui occorre conoscere non solo gli effetti che ci hanno imposto e che dobbiamo eliminare dalla nostra coscienza ma occorre conoscere soprattutto:

Le Cause ;

Le Responsabilità;

I Condizionamenti;

La visione pessimistica della sessualità, tipica della psicoanalisi, è di chiara derivazione cristiana e fa comodo solo alla classe dominante. Presentati come fenomeni “naturali” e non storici, persuadono uomini e donne alla rassegnazione, all’adattamento e a squilibri che mutilano la propria autonomia generale e deprimono la gioia di vivere, generando sfiducia. L’Autonomia dalle interiorizzazioni, in modo non astratto, è possibile mediante una consapevole appropriazione storica. Non possiamo astenerci dal pensare alla metodologia weberiana. E cosa dire della famiglia, oggi nuovamente di moda e soluzione a tutti i mali? L’aggregato familiare non esiste più come nucleo stabile, è stato disintegrato dall’industrializzazione, dalla mercificazione consumistica, dai mass-media che bombardano con le più infinite contraddizioni e disinformazione permanente. Oscena simulazione nell’ordine delle strategie fatali di baudrillardiana memoria. Il risultato di tale strategia è:

Difficile coesione su progetti razionali;

Guazzabuglio;

Sedimentazione di antiche consuetudini mentali e psicologiche.

Alla classica divisione tra lavoratori manuali e padroni, si aggiunge una divisione tra integrati e non integrati ai livelli più vari. Nella società altamente industrializzata dalla impresa capitalistica, è sempre più vasta la schiera degli emarginati. Dal disoccupato con laurea al disoccupato manovale, passando per milioni di donne che si aggirano tra gli elettrodomestici e bambini nella solitudine di appartamenti unifamiliari. La figura del Padrone e del Patriarca si è dilatata in enormi, anonimi e misteriosi centri di potere che dominano la produzione e la distribuzione dei beni con decisioni occulte. Figura che si cela dietro sigle inafferrabili delle multinazionali, dell’alta finanza, e che dietro il paravento del “segretissimo” militare, organizzano le industrie per la guerra atomica, chimica e batteriologica. Il capitalismo per tenere in piedi i suoi fondamenti ricorre all’autoritarismo violento o paternalistico, al colonialismo, alla guerra e al fascismo. L’industria capitalistica non è pensabile senza il settore bellico, il colonialismo e la distruzione del territorio. Tuttora in atto nella matrice costante ma in una veste che non è certo quella tradizionale e alle quali si è soliti pensare. Occorre non confondere la forma con la sostanza, i fini con le cause, i mezzi con gli effetti. Lo stesso dicasi per il femminismo borghese, che è un aspetto del riformismo, usato dal capitalismo avanzato per integrare la donna nei suoi meccanismi. Mantenendo salda la distinzione e la differenza tra “femminismo” e “la questione femminile” è quanto mai vitale che il dialogo, le piattaforme e i modi debbano avere luogo in un altrove autonomo, sottratto al formalismo e al linguaggio istituzionale, se si desidera investire concretamente in una svolta che non sia apparenza, tautologia o becero sofismo.

‘Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni’, di Francesca Pellegrino

 

“Tanto che andrò di ruspa / e sangue / sul disordine dei fiori / pestati”. Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni è una piccola raccolta di poesie reca la firma di Francesca Pellegrino. Nonostante sia stata pubblicata nel  2009  resta ancora oggi un esempio positivo su quanto la poesia contemporanea possa ancora considerarsi un luogo vivo e in grado di significare. Si scrive sempre meno intorno alla poesia e si potrebbe pensare che interessi pochi estimatori. Tuttavia le parole, se adoperate non come slogan pubblicitari, conservano un intenso grado di suggestione tale da riuscire a raccontare in un solo colpo un intero mondo o squarciarne di nuovi.

La cornice che circonda l’io poetico, in Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni, appartiene alla quotidianità. Quest’ultima è fortemente interiorizzata da Francesca Pellegrino e le consente di conferire concretezza ad uno scenario emotivo fatto di macerie. Eppure da un animo tormentato, apparentemente arido, scorgano versi vibranti (“Ci sono cose trasparenti e / fragili / tra me e il mondo”). Più le emozioni sono dolorose più la pagina e la scrittura divengono il mezzo per esprimere in un grido autentico quel che più volte la poetessa fa sentire come strozzato in gola.

I componimenti non sono forgiati da una bocca muta ma capace di comunicare al lettore lo strazio destabilizzante di una sofferenza lacerante. Il risultato è ammirevole, merito anche di un labor limae accurato intorno alla parola, alla punteggiatura e alla combinazione surreale tra le parole stesse. Francesca Pellegrino si configura come una nuova artigiana della parola, mossa dal desiderio di ricostruire, come in mosaico, i tasselli della propria anima spezzata.

Questa raccolta dimostra quale affabulazione ancora oggi la poesia possa esercitare sul lettore. La poesia, forma d’espressione che nasce dalle frontiere del proprio io,  è in grado di elevarsi al di sopra della mediocrità da cui è affetta molta della nostra letteratura, vittima della banalità più disarmante e nauseante. Un cuore in decomposizione che infetta la pagina e vibra ad ogni rilettura.

Il testamento d’amore, di un amore travagliato, corrotto, si infrange contro i limiti della realtà e la portata devastante caratterizza ogni singola pagina. Dopotutto quello che sopravvive sono il dolore e i ricordi di una identità che si è fusa con un’altra nell’ebbrezza di un sentimento caduco e a quel punto restano solo cumuli di macerie a cielo aperto. Ed è da questa contingenza inopinabile che la poetessa mette insieme i cocci, consapevole di dovere riaprire vecchie cicatrici. Si ritrovano la carne, le lacrime, i rancori, il bisogno di perdersi nell’altro, di afferrare quell’ebbrezza pur di dimenticare la realtà. E cos’è quest’ultima se non un odioso compromesso dai volti anonimi? Ritrovare un attimo autentico appare vitale, anche se fugace e tra lenzuola di oblii restano amare solitudini. L’amore, il più ipocrita dei sentimenti, può diventare dunque una trappola, una forma di tradimento verso se stessi che si esaurisce lentamente e non senza cognizione del dolore che esso contempli.

Il risultato è un acrilico sentimentale. Francesca Pellegrino è una voce sincera che sa raccontare ma che è anche in grado di mormorare sulla pagina parole che restano incise sotto la pelle del lettore. Notevoli sono i punti di contatto con la poetica di Sylvia Plath che conferiscono a questa raccolta in versi un raffinato valore.

Un lavoro originale che conferma che un buon ‘romanzo’ non può misurarsi dal numero di pagine ma dalla densità con cui è forgiata ogni singola riga. Un’opera d’arte che sorprende e toglie meravigliosamente il fiato.

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