Dieci giorni, di Maura Chiulli

Dieci giorni di Maura Chiulli, classe 1981, ha la forza di un pugno nello stomaco. I tre episodi che compongono il romanzo sono storie estreme che coinvolgono protagonisti altrettanto al limite. Tuttavia il sapore acre delle pagine, a tratti, lascia fuggire uno spiraglio di dolcezza e speranza che però fa subito i conti con il cinismo della vita, sempre pronta a chiedere lo scotto.

Il corpo, i corpi assetati, maltrattati, umiliati invocano amore o anche solo una tregua ma inesorabilmente sono piegati dall’effimera sessualità. Ciò sembra tradursi in una carneficina dei protagonisti sino all’alienazione. I personaggi di Dieci giorni sono mossi dalla volontà di rimuovere un passato o un’infanzia segnati da soprusi o da miseria affettiva. Il corpo, che sia usato, esibito o desiderato, è un oggetto/soggetto di un eccesso che Maura Chiulli spinge al limite per sollevare, con un colpo secco, l’ipocrisia che si cela dietro la maschera della borghese normalità. Le vicende narrate sono attraversate da inconfessabili segreti che come fantasmi appaiono all’improvviso a turbare i protagonisti ma anche il lettore catapultato in flash-backs inattesi e intensi.

La scrittura di Maura Chiulli è minimale, ruvida e dai forti chiaroscuri. L’autrice non adopera orpelli retorici, parole che addolciscano la pena, no, Maura Chiulli si dimostra coraggiosa nella scelta delle storie e nello stile narrativo adottato. Infatti esso risulta diretto, provocatorio e contro ogni perbenismo.

In un panorama letterario troppo melenso e autoreferenziale, si avvertiva la mancanza di un’autrice che, come in questo caso, si imponesse con vigore ma anche con talento.

Le descrizioni nonostante siano scarne ed essenziali rifuggono dallo straniamento e al contrario riescono a coinvolgere il lettore. Quest’ultimo, di volta in volta, è lì con Lulù e Silvia o con gli altri personaggi e il pathos è un sapore che si avverte nelle narici. Le tre sezioni sono un climax narrativo che attraversa tre realtà, tre nuclei narrativi apparentemente autonomi tra loro, sebbene un sottile filo rosso etico e drammatico le affratella.

E c’è l’orrore di corpi abusati e di dolori taciuti ma che restano sulla pelle del lettore e attraversano a tratti le vene. Senza moralismi o facili pietismi, questi personaggi così distanti, in realtà in parte ci abitano nel loro bisogno estremo di riscattare le contraddizioni della vita e del suo cinismo.

La riflessione sui corpi, la sessualità e le patologie edipiche investono la generazione postmoderna, i cui padri, figli del boom economico e del ’68, sembrano aver lasciato ben poco in eredità se non solitudine e rassegnazione. Due sorelle che si trascinano anche in questa nostra epoca di ipersimulazione, di accelerazione costante, di solitudini celate in tutto ciò che è high e iper, che rendono lo schianto esistenziale un urto feroce.

Non mi capitava un romanzo come Dieci Giorni, con le sue storie, personaggi randagi e una scrittura così acre, ‘pulita’, fuori dai denti, dai bellissimi tempi di Altri Libertini di Pier Vittorio Tondelli.

E nella penombra di queste vicende, in modo impercettibile, quasi come un sussurro Maura Chiulli concede parentesi di poesia dedicate alle speranze e al destino ma sono parentesi di vita breve. Nell’amaro del quotidiano è una concessione alla quale la scrittura si abbandona per poco. Nessun narcisismo né tanto meno autocensura, una scrittura immediata, dura, dolceamara e per questo meravigliosamente coinvolgente.

‘Un viaggio con Francis Bacon’, di Franz Krauspenhaar

Franz Krauspenhaar (Avanzi di balera, Era mio padre, L’inquieto vivere segreto), è uno scrittore milanese dal talento eclettico, e la sua biografia ne è la prova. Ha lavorato in ambito commerciale in vari settori merceologici, anche se la sua carriera in qualità di scrittore ha inizio solo alla fine degli anni ’90, pubblicando il suo primo libro a 39 anni. Ad oggi il suo estro creativo ha all’attivo: otto romanzi, un saggio narrativo, quattro libri di poesie e una serie di collaborazioni per la stesura di raccolte poetiche e narrative. I romanzi di Franz Krauspenhaar sono spesso delle autofiction ed egli è solito raccontare le sue storie attraverso la voce in prima persona. Il maestro indiscusso al quale Krauspenhaar sembra riferirsi per quanto riguarda lo stile, la discorsività libera e priva di tabù e colore della pagina è lo statunitense Henry Miller, scrittore altrettanto poliedrico. Tuttavia tra gli autori di riferimento primeggiano altri ‘grandi maestri’ che non possono non essere menzionati, ovvero: Thomas Bernhard, Heinrich Böll, Samuel Beckett, Dürrenmatt e Celine. Dalle premesse sin qui enunciate è possibile dedurre la densità della scrittura dell’autore milanese e apprezzarne al tempo stesso la capacità narrativa fuori dal comune.

Con Un viaggio con Francis Bacon (2010), l’autore propone un viaggio nell’arte di Francis Bacon ma non solo. Infatti all’interno di questa cornice, il narratore intraprende un percorso interiore che si traduce in una ricerca personale nei meandri dell’anima di un artista tra i più complessi e affascinanti. Se l’arte di Bacon nasce dal dolore, dall’ossessione e dalle ferite, non si può restare immacolati da tale contatto che finisce con lo “sporcare” anche il lettore.

Ebbene, la scrittura quando si eleva ad Arte riesce a operare anche questo piccolo miracolo. La narrazione è impressionistica, spazia e comunica con il cinema e la musica, e l’autore, quasi si avvalesse di una macchina da presa, realizza un cortometraggio in prosa. Egli dà voce al dolore muto dell’artista, disserta intorno all’opera d’arte ed evita con estrema padronanza la mera celebrazione fine a se stessa. Quella di Krauspenhaar è una prosa critica che di conseguenza evoca e celebra con maestria il potere che l’arte può esercitare, ovvero racchiudere in sé una miriade di mondi, avviare un dialogo tra le arti laddove matrice è il dolore che si fa ossessione, il sacrificio della parte più profonda dell’artista, quella parte dell’io che resta pur sempre tormentato nonostante il tentativo catartico operato attraverso la creazione artistica.

A tal proposito, potrebbe essere utile riportare alcuni versi di Sergio Corazzini e Aldo Palazzeschi i quali ben si prestano a chiarire ulteriormente tale concetto, quando cantavano:

“Il mio cuore è una rossa/macchia di sangue dove/io bagno senza possa/la penna, a dolci prove/eternamente mossa”.

O ancora:

“Io metto una lente/Dinanzi al mio core,/per farlo vedere alla gente./Chi sono?/Il saltimbanco dell’anima mia”.

Viaggiare con Francis Bacon, toccare le sponde del cinema, della letteratura, dell’arte e della musica significa scrutare all’orizzonte il vuoto,  guardare in faccia alla contemporaneità, attraverso la mescolanza di stili letterari e strutture narrative diverse; è un racconto molto personale in forma di saggio, alla ricerca della bellezza dell’inquietudine, della sconfitta, di un certo coinvolgimento nella purezza da parte del dolore e del male.

Dice lo stesso  Krauspenhaar:

“L’uomo baconiano è tutti e nessuno, ora l’ho capito. È il venditore in Mercedes incontrato a fine inverno davanti al tabaccaio, ma è anche John Kennedy nel pieno della sua morte violenta. È il ragazzo del Vietnam vittima di uno scontro a fuoco. È addirittura la testa pelata del colonnello Kurtz impersonato da Marlon Brando in Apocalypse now. La filosofia di Kurtz, esplicata nel suo monologo, è una filosofia dell’accettazione della morte e soprattutto dell’assassinio senza riguardo che non è nemmeno immorale, è semplicemente lineare, fino a raggiungere proprio una non sottile linea di straordinaria purezza”.

 

 

Che cosa ci fa un morto nell’ascensore?

Che cosa ci fa un morto dell’ascensore?, una raccolta di cinque racconti brevi  è l’unico libro pubblicato in Italia dallo scrittore sudcoreano Kim Young Ha.
A una prima occhiata questi sembrerebbero scollegati fra loro, poiché le trame non si incrociano durante il tempo narrativo. Tuttavia, se ci fermiamo a riflettere, il vero filo conduttore di questo libro può essere rintracciato nella solitudine, una solitudine che va di pari passo al progresso tecnologico.

Sullo sfondo di una ipertecnologica Seul si dispiegano i destini di cinque personaggi, frutto dell’abbagliante abilità narrativa di Kim Yung-Ha, giovane capofila di una nuova generazione di autori della Corea del Sud, ancora sconosciuti in Italia ma già molto apprezzati soprattutto negli Stati Uniti. Kim Yung-ha (1968) inizia a scrivere i suoi racconti su Internet e nel 1995 pubblica il primo romanzo breve, con cui vince il premio letterario come migliore “Giovane scrittore”. Si tratta senza dubbio di un intellettuale versatile e poliedrico, infatti non solo si è laureato in Economia e Commercio all’Università di Yonsei a Seul ma ha fatto anche il DJ e l’attore. L’eclettismo dell’autore sud coreano confluisce nella sua scrittura e nello sviluppo di trame che si distinguono nel panorama letterario contemporaneo.

Ciascuno dei protagonisti dei cinque racconti della raccolta in Che Cosa ci fa un Morto nell’Ascensore? è inserito in vicende completamente surreali; le storie stesse sono tutte narrate al presente, poiché non esiste un passato da ricordare e neppure un futuro da immaginare, ma solo un’eterna contemporaneità, che opera come potente sedativo verso ogni possibile slancio emotivo. I personaggi si muovono così come automi inconsapevoli immersi in un’atmosfera che evoca Lost in Translation, ma con una drammaticità che deve molto al cinema di Kieslowski. Nonostante siano concepite secondo una struttura circolare, le storie hanno un finale aperto, poiché suggeriscono una chiusura solo apparente su vicende prive di senso. I protagonisti sembrano vivere in camere insonorizzate, in cui solo di tanto in tanto giungono i rumori della modernità, che contribuiscono ad evidenziare ulteriormente la loro solitudine drammatica. Il gioco, sessuale o dinanzi al monitor di un computer, resta così l’unica dimensione con cui affrontare il quotidiano. La realtà scivola allora in secondo piano, tanto che la presenza di un corpo incastrato in un ascensore non suscita alcuna inquietudine nei condomini. Il giovane autore coreano, con una scrittura efficace e al tempo stesso disarmante, elabora in chiave moderna il paradosso di chi, illudendosi di essere immortale, vive una vita di eccessi, ma lo fa nella più totale noia. Yung-Ha possiede la rara capacità di drammatizzare, piuttosto che raccontare semplicemente, le vicende che sceglie come emblematiche ed esemplificative, riuscendo a fondere insieme, con sorprendenti risultati, cinismo e leggerezza. Ecco che, in un mondo così lontano, la Corea del Sud, si ripete quella che in tutta evidenza è la conseguenza normale di una civiltà ipertecnologica. Nonostante tutto sia cemento e tecnologia, grigio e assordante, al di fuori resta un nucleo di impotenza dinanzi al delirio dell’umanità. Si percepisce in filigrana un climax che produce un pathos distillato lentamente, sino ad una dilatazione del reale che lo traduce in un simulacro di trasparenze.

Il lettore è cullato in un limbo mobile in cui l’immaginazione va oltre lo sguardo e uno strano stato di sospensione lo avvolge nel mistero, ma paradossalmente la realtà resta salda. Gli intrecci raffinati e paradossali sono il mezzo che Yung-Ha utilizza per mescolare le carte in una società in pieno sviluppo economico, è  lucido elemento di disturbo il suo tentativo di voler lasciare un cono d’ombra tra le luci di Seoul. Inoltre egli è spregiudicato nel suo tentativo di elaborare il paradosso esistenziale dell’uomo moderno, per concludere: lo scrittore Yung-Ha è un’autentica sorpresa.

Storia d’amore all’East Village, di Richard Pérez

Storia d’Amore all’East Village è stato tradotto e pubblicato in Italia nel 2005, nonostante in America questo ‘romanzo d’esordio’ abbia sancito la fama dello scrittore emergente Richard Pérez nel lontano 1999. Sin dalle prime pagine si evince la tempra stilistica dell’autore newyorchese e il lettore ne è subito conquistato. Infatti lo stile brillante, con venature d’ironia pungente sempre al limite con il cinismo più raffinato, trascina il lettore su un’altalena di emozioni ed episodi di volta in volta romantica, comica o drammatica, tanto da rendere Storia d’Amore all’East Village un romanzo cult a tutti gli effetti. Senza dubbio il merito va attribuito non solo alla padronanza tecnica dell’autore, a dimostrare quanto egli si sia nutrito di buoni ‘maestri’, ma anche ad un sarcasmo che sembra contraddistinguere gli artisti di genio figli della Grande Mela.

Non bisogna lasciarsi ingannare dal titolo perché questo romanzo non ha nulla di mieloso, di banale e di scontato. L’originale Losers’ club, traducibile con “Il gruppo dei falliti”, risulta certamente molto più evocativo. Martin Sierra, il protagonista, si trascina da un lavoro all’altro per restare a galla nel tentativo di diventare un affermato autore di romanzi. Oltre alla scrittura, Martin è quasi ossessionato dagli annunci personalizzati, che gli permettono di conoscere donne interessanti quanto problematiche. Dalla sua vicenda personale emerge il graffito di una generazione che ha insormontabili difficoltà ad instaurare delle relazioni profonde. Così i protagonisti, nel loro stato di eterni outsider, cercano semplicemente qualcuno con cui condividere i propri deliri emotivi o snocciolare le proprie esperienze, ma senza alcuna complicazione sentimentale o tanto meno amorosa. I personaggi che si incontrano tra le pagine, d’altra parte, ben si inseriscono nell’East Village, quartiere alternativo per eccellenza di New York, che finisce per apparire l’unico luogo in cui costoro riescono a non sentirsi fuori posto, ma possono invece continuamente “reinventarsi” tra le sue strade in perenne divenire. La trama è quasi cinematografica e i brevi capitoli sostengono il ritmo incalzante delle avventure di Martin che, pur perdendosi tra fantasie, ricordi e allucinazioni, non smette mai di cercare la virtuale approvazione del suo maestro spirituale, Charles Bukowski. I dialoghi, invece, hanno spesso il sapore delle cervellotiche quanto assurde conversazioni tra Woody Allen e Diane Keaton per le strade di Manhattan.

Storia d’amore all’East Village è un sorprendente romanzo d’esordio, che in una dimensione postmoderna tende a fondere il meglio della narrativa e del cinema ambientati a New York, ma che, alla fin fine, sembra voler evocare il sogno segreto di moderne “Affinità elettive“.

Lo scrittore americano ci offre con gusto una panoramica completa della scena dell’East Village di New York con tutti i suoi estremi, le sue varietà e il suo ritmo forsennato attraverso questa divertente, toccante, dolorosa e romantica storia d’amore d’altri tempi, per la quale proviamo un pò di nostalgia .

I Banchetti dei Vedovi Neri, la sobrietà di Asimov

 I banchetti dei Vedovi Neri (Banquets of the Black Widowers) è una raccolta di racconti scritti dallo scrittore e biochimico russo naturalizzato francese Isaac Asimov, quarto volume dedicato ai Vedovi Neri. La raccolta è stata pubblicata per la prima volta nel 1984, anche se alcuni racconti erano già comparsi sull’Ellery Queen’s Mystery Magazine.

Lei come giustifica la sua esistenza? È con questo quesito che Asimov introduce l’ospite di turno durante i banchetti dei Vedovi Neri, un club composto da sei professionisti, che una volta al mese si riuniscono per cercare di risolvere un enigma, procedendo per deduzioni logiche. Tra menù ricercati e l’aroma di una pipa, si snodano misteri e paralogismi, con l’immancabile quanto mai necessario contributo del cameriere Henry, dotato di finesse intellettuale e sofisticata ironia. Asimov, probabilmente meglio noto come autore di fantascienza (basti pensare al Ciclo dei Robot), dà qui prova della propria abilità di giallista. Presenta un caleidoscopio di personaggi e vicende, senza però rinunciare ad impercettibili dissonanze intorno alle ipocrisie della società americana e ai falsi miti generati dal progresso. Le soluzioni erudite ed argute fanno dei dodici racconti i pezzi pregiati di una scacchiera, che solo un ingegno dalla indiscussa capacità combinatoria, quale Asimov, è in grado di collocare adeguatamente. La lettura è godibilissima, merito di una prosa asciutta, sobria ed elegante e di una classe che ricorda i film di Hitchcock e le atmosfere vittoriane alla Sherlock Holmes.

Così il lettore, nel tentativo di risolvere anch’egli i dodici enigmi, è condotto di volta in volta su false piste, persuaso dalle pindariche soluzioni proposte dai protagonisti. Ma terminata la lettura si ha la sensazione che Asimov, le cui opere sono considerate pietre miliari sia nel campo della fantascienza sia nel campo della divulgazione scientifica (spaziando dal romanzo poliziesco alla letteratura per ragazzi e al giallo deduttivo), si sia fatto beffa del lettore, il quale si è calato ingenuamente nel ruolo di investigatore tanto da non recepire l’intento che l’autore persegue: il vero caso da risolvere sta nella macrostruttura del testo. La costruzione narrativa infatti, estremamente razionale e matematica, supera le prerogative di un giallo che di solito si conclude con la risoluzione del caso. Asimov al contrario, dopo averci coinvolti in rompicapi intricatissimi, dimostra come in un teorema, che la realtà delle cose è molto più semplice di quanto possa apparire.

Lo scrittore ha avuto il merito di saper trasformare il genere fantascientifico in una narrativa di consumo; come ci sia riuscito è presto detto: Asimov ha unito l’aspetto divulgativo che si configura come una hard science fiction con quello sociologico e futuristico, introdotti nel racconto Notturno.

L’opinione comune vuole che lo stile dell’autore sia arido, scarno, privo di azione, e poco curato nell’aspetto psicologico. Ma lo stesso scrittore non ha mai fatto mistero di aver scelto di adottare un linguaggio semplice proprio per arrivare a tutti, per farsi capire meglio dai suoi lettori. Asimov, che si adegua ai canoni della corrente letteraria New Wave, caratterizzata da un alto livello di sperimentazione che ha come tema centrale quello postmoderno dell‘entropia, riduce le storie a sterili dialoghi privi di descrizione e di azione, strettamente funzionali alla trama, ma senza dubbio non a discapito delle storie, mai prive di originalità e personalità.

La prosa asciutta ma elegante dello scrittore russo è ancora ricercata da tutti quelli che hanno rifiutato la moderna fantascienza fatta solo d’azione e violenza a favore di una fantascienza che torni a riflettere sul passato, sul presente e sul futuro e soprattutto sull’uomo, sulla religione, con particolare attenzione alla plausibilità della trama.

La Ragazza che pensava all’Amore con Filosofia, di C. Greig

La ragazza che pensava all’Amore con Filosofia (2009) è la storia di una studentessa di nome Susannah Jonesla quale sembra aver trovato la via più comoda per godersi la vivace e libertina atmosfera universitaria di Brighton; il suo ragazzo ha dieci anni più di lei ed è un borghese conformista, ma la mantiene lasciandole tutta la libertà di concentrarsi sui corsi di filosofia moderna oltreché sui bei ragazzi del campus. Ed è proprio la filosofia a sconvolgerle la vita, quando la ragazza si immerge nel pensiero di Nietzsche alla ricerca di una ricetta esistenziale e si ritrova nel letto di un compagno di studi. Da qui sorgono interrogativi come: lo “spirito libero” è davvero vagabondo, non può legarsi a niente e a nessuno? Legge Heidegger e resta folgorata da Kierkegaard;  e scoprirà che “l’essere-nel-mondo” può diventare molto complicato. Sola di fronte a un’impossibile scelta, saranno ancora una volta le parole dei suoi filosofi preferiti a darle consiglio, insegnandole a guardarsi dentro e a conoscersi meglio.

Collocare una storia nel ’68 è uno degli espedienti in grado di garantire ad un’opera una facile risonanza, con effetti spesso carichi di clichées. Charlotte Greig riesce a sottrarsi ad ogni stereotipo e a restituire alle pagine del suo romanzo grande originalità e leggerezza, pur se non prive di spunti di riflessione.

La giovane Susannah, protagonista del romanzo, vive tra due amori molto differenti fra loro e, nel tentativo di scegliere l’uomo giusto, scopre nella filosofia di Heidegger, Kierkegaard e Nietzsche delle isole di pensiero che le permettono di interrogarsi su se stessa. Non è però l’amore, in realtà, il vero motore di questo piccolo gioiello della letteratura al femminile (tant’è vero che nel titolo originale non è menzionato affatto): i fermenti della contestazione, la libertà sessuale e l’opposizione alle convenzioni sociali fanno da cornice ai tormenti interiori della studentessa, ma alle radici del comportamento della ragazza c’è piuttosto un bisogno esistenziale che appartiene alla libertà dello spirito, alla volontà di affermarsi senza alcun compromesso.

Ad una lettura più minuziosa, il romanzo sembra abbracciare una tendenza tipicamente post-moderna che porta la protagonista ad appropriarsi di spezzoni e brandelli di strutture ereditate dal passato, per poi riassemblarle in nuove figure ibride, che ne alterano il significato originario senza inciampare nelle contraddizioni epistemologiche. Così facendo, la giovane Susannah è dotata di un eclettismo selettivo che eleva l’orizzonte narrativo a quello filosofico di matrice etica intorno all’Essere Donna, tema estremamente attuale oltre che spinoso all’interno dell’odierna società complessa. Tra le righe è possibile rintracciare qualche eco che rimanda al pensiero della Butler o di S. Sontag, tuttavia la Greig non tradisce la natura romanzesca del proprio lavoro, dando così prova di una padronanza tecnica molto raffinata e matura.

La Greig si avvale di una scrittura brillante e dinamica per indagare nell’animo della protagonista e lo delinea con una prosa densa; nonostante il brusio degli avvenimenti che attraversa la narrazione, l’autrice non perde mai di vista Susannah, riuscendo ad evitare la retorica autocelebrativa di un’epoca, ma anche facili moralismi, sull’onda di un revisionismo di moda. Il vagabondaggio emotivo della giovane si traduce così in uno slancio vitale, che però, inevitabilmente, non può non farla affondare nelle complicazioni della realtà. Le controverse esperienze di Susannah delineano il ritratto di una ragazza che ricerca la propria identità superando ogni retorica femminista e, soprattutto, offrono un romanzo di grande valore, che si discosta dai canoni più abusati della contemporanea letteratura al femminile, troppo spesso ripiegata su madri o mogli frustrate, e si dimostra degno delle migliori pagine di Simone de Beauvoir.

 

A Lost Lady di Willa Cather, un viaggio nel passato

 

A Lost Lady è un romanzo della scrittrice Willa Cather, pubblicato nei primi del Novecento, nel momento in cui la scrittrice manifesta il suo risentimento nei confronti della standardizzazione che caratterizza la vita dei figli dei pionieri. La Cather scruta preoccupata sulla linea d’ombra i segni dei tempi, la corsa all’esteriorità e alla ricchezza. Quest’ultima diviene l’emblema degli anni Venti americani prima della crisi. La Cather avverte la sua disillusione nei confronti della vita moderna e del mondo che la circonda, al punto da sentirne la crisi. I suoi valori divergono da quelli del consumismo e del materialismo, propri della machine-age. La nuova cultura priva di ideali è animata da arrivismo, arroganza e da una darwiniana selezione naturale. Ciò che deriva dal passato è inevitabilmente modificato e limitato alle apparenze. In A Lost Lady, esponenti di queste due differenti culture sono Captain Forrester e Ivy Peters. Il primo, fedele ad un’economia locale fondata su rapporti di amicizia e lealtà; il secondo proiettato verso un’economia nazionale. Lo scontro tra ideale e reale, presente e passato, maschile e femminile, il difficile rapporto dell’uomo con l’ambiente che lo circonda costituiscono il filo conduttore di tutto il romanzo.

Willa Cather per data di nascita e appartenenza spirituale è scrittrice di quella generazione collocata tra la guerra civile americana e l’età del jazz: in quella linea d’ombra di cui è simbolo l’espansione della strada ferrata nella prateria, che unisce e separa l’età della società rurale dei farmers buoni e uguali dall’esplodere successivo della ricchezza e della potenza protese sul mondo intero. Questa generazione va verso Est e verso l’Europa (sulle orme di James, Edith Wharton, Gertrude Stein e gli altri «espatriati») a cercare nelle più remote radici le ragioni dell’oggi; oppure si volge verso l’Ovest, il cuore rassicurante dell’America, la piccola comunità dai toni minori, dai colori tenui del crepuscolo, ma con dentro la forza della vera grandezza. Willa Cather va verso l’Ovest, cercando di cogliere la vera beltà degli anni migliori, oramai spazzati via dal presente che porta dentro di sé un’ombra tremula fatta di incertezza.
Filo conduttore della sua produzione letteraria è la lotta dell’uomo sensibile e creativo contro l’ambiente naturale o sociale che lo circonda. La figura del pioniere, dell’artista e del santo assolvono la medesima funzione. La Cather descrive la lotta per la sopravvivenza fisica ma anche intellettuale in una natura selvaggia ed ostile. Ciò determina una serie di conflitti e opposizioni che la romanziera delinea mediante un approccio narrativo che, pur risentendo della tendenza realistica e regionalistica, non può essere relegato nell’ambito del provincialismo, né tanto meno nei limiti estetici del realismo. L’interesse della Cather per la produzione letteraria di Sarah Orne Jewett e di Flaubert rivela la doppia natura della sua arte. L’idea di un mondo fondato su valori semplici, di stampo jeffersoniano, è distrutta dal progresso e quei sogni, scontrandosi con la realtà, divengono amare delusioni. La caducità dei sogni e degli ideali è uno dei temi narrativi che attraversa opere quali My Ántonia, O Pioneers, A Lost Lady.

L’autrice, pur utilizzando un narratore onnisciente (sul modello del romanzo ottocentesco) evita che il suo sguardo miri alla descrizione minuziosa ed imparziale. La voce narrante riporta il lettore quaranta anni prima, in una cittadina del Nebraska chiamata Sweet Water. Sweet Water è un nome parlante dal valore simbolico e suggerisce una duplice connotazione. Una idilliaca, determinata dallo scenario naturale che circonda casa Forrester; l’altra meno sognante. Infatti, al concludersi di un’epoca, tale idillio diviene apparente e la dolcezza evocata è ormai perduta per sempre. Basti pensare all’incedere della ferrovia (simbolo del progresso) che minaccia la prateria.

A Lost Lady è un viaggio nel passato, animato dai ricordi che ruotano intorno a casa Forrester. La Cather ritiene che la gioventù coincida con il tempo delle aspirazioni, del desiderio e delle passioni e che sia l’origine di ogni impulso creativo. Ritorna spesso nei luoghi dell’infanzia, in modo da creare visioni romantiche di ciò che è oramai perduto. Il passato rappresenta per lei una miniera letteraria e un mezzo per ritornare a se stessa. Il passato rappresenta per l’autrice una fonte d’ispirazione ma è attraverso la scrittura che se ne appropria e ne prende pienamente coscienza, poiché per la Cather nulla è realmente perduto o inutile. Il flashback è la tecnica narrativa che permette all’autrice di mostrare la funzione del passato sul presente, diventando in alcuni casi più importante dell’azione stessa.

Il romanzo comincia con la distinzione tra due classi sociali: gli agricoltori, che sono a Sweet Water per guadagnarsi da vivere, e i proprietari terrieri, che investono del denaro ma che sancirà il declino di un mondo. La ricchezza dell’aristocrazia locale non è evocata attraverso il denaro, bensì per mezzo della natura selvaggia, che potrebbe diventare una risorsa economica e che il Capitano si ostina a tutelare per il suo valore estetico. La distruzione dello scenario naturalistico coincide con la transizione del potere da un’epoca culturale ad un’altra.
Mrs Forrester è uno dei pochi personaggi all’interno del romanzo ad aver compreso in quale modo sia mutata la società. La Cather ha dotato di pragmatismo una figura femminile e ciò costituisce una scelta da non trascurare. Mrs Forrester non cede a facili imbarazzi in compagnia maschile, è disinvolta e di ottima compagnia. Nel suo agire è agli antipodi di Madame Bovary. Quest’ultima si è educata alla vita e all’amore attraverso le letture sbagliate, perdendo di vista la linea di demarcazione tra reale e finzione letteraria. Non disdegna la vita mondana, l’essere corteggiata e l’amare perdutamente come nelle tragedie, sino a morirne. Mrs Forrester è più realista, non rincorre l’amore ma conquista uomini ricchi in grado di garantirle quel che desidera. Interpreta il ruolo di moglie premurosa, ma la Cather, esaltandone i gesti, gli angoli del viso, gli sguardi e gli occhi, fa intuire che il suo animo cela una verità che il lettore è in grado di apprendere solo in parte. Mrs Forrester è forse uno dei personaggi più complessi del romanzo e intensificarne il mistero contribuiscono le sfumature che la Cather aggiunge in ogni capitolo. È possibile percepire la crisi dei valori nella società moderna attraverso questa singolare eroina e non attraverso Neil o il Capitano. Infatti, nei personaggi maschili non esiste una maturazione o una reazione al progresso e ai suoi valori antidemocratici. Neil appartiene per data di nascita e per educazione alla nuova generazione, anche se non ne condivide i valori; il Capitano è talmente ancorato ai valori jeffersoniani e al passato da non avvertire quanto i tempi siano mutati. Le contraddizioni e la crisi d’identità sono da ricercare in Mrs Forrester e l’aver reso una donna la depositaria di un disagio, rende più complessa e difficile la sua realizzazione sociale.

L’autrice si oppone agli stereotipi letterari e ne mostra i pericoli, anche se in modo meno critico rispetto a Virginia Woolf e Katherine Mansfield, le quali affrontano la critica agli stereotipi da una prospettiva femminile (e femminista). Non c’è progresso, cambiamento e sviluppo laddove si riscontri un idealismo nutrito da sentimentalismo. La Cather mostra che ogni forma di idealismo fa perdere il contatto conoscitivo con il presente e non permette di cogliere la vera essenza delle cose.
In A Lost Lady un ulteriore nucleo tematico è costituito dal rapporto tra l’uomo e la natura. Si riscontra che non è possibile alcuna relazione costruttiva poiché l’uomo distrugge le lande selvagge in nome del progresso e si arricchisce per mezzo di tale distruzione. L’importanza che la Cather attribuisce alla natura è rintracciabile nel suo interesse per Emerson ed il trascendentalismo. Emerson propone un abbandono emotivo dell’uomo alla natura per conquistare la libertà e prendere coscienza del proprio esistere. L’uomo diviene incapace di valori positivi quando perde ogni rapporto con la Natura e la distruzione dell’ambiente naturale che lo circonda coincide con l’inaridimento del proprio animo, con l’incapacità di amare e con il rendersi fautore di nefandezze e crudeltà.
La seconda parte del romanzo coincide con il senso di decadenza poiché le illusioni che caratterizzano la prima parte sono qui inevitabilmente perdute. La giovinezza, gli ideali, la speranza, l’amicizia, il piacere di inebriarsi della natura appartengono al passato, il presente coincide con la perdita e la presa di coscienza da parte di Neil dell’ineluttabilità degli eventi (e del destino umano). Il gusto estetico che tutelava l’ambiente naturale è ora sostituito dalla distruzione e da un utilitarismo nutrito da una spregiudicatezza che annienta ogni idealismo. Tutto sommato, i pionieri hanno distrutto per primi le foreste per costruire delle fabbriche di fiammiferi, si sono sostituiti ad una cultura preesistente con violenza ed arroganza; la nuova generazione è figlia di quella precedente, ne ha ereditato i valori ma, a differenza dei progenitori, evita ogni idealismo e ipocrisia. Gli ideali si rivelano inutili se il fine è il medesimo: la sopravvivenza del più forte.

Il personaggio di Mrs Forrester è ben lontano dalle eroine che tentano di affermarsi socialmente attraverso la propria indipendenza economica e la coltivazione del proprio intelletto, come il personaggio di Olive in The Bostonians di H. James. Non si può cogliere in Mrs Forrester nessuna emancipazione ma una trasgressione alle convenzioni. Per esempio, non approva che le donne fumino, poiché secondo lei il fascino femminile risiede nella diversità dagli uomini. Si può cogliere una nota polemica dell’autrice nei confronti del movimento femminista, che, proponendo pari opportunità per le donne, più che rappresentare un incentivo per l’innovazione sociale mediante una profonda adesione ideologica, è stato da molti limitato ad un atteggiamento superficiale. La Cather prende le distanze da ogni scelta suggerita da una tendenza comune e dimostra che la vera libertà comincia dall’essere. Inoltre, Mrs Forrester è consapevole dell’importanza del denaro, ma non lo usa per raggiungere una propria autonomia, come propone la Woolf in Una Stanza Tutta per Sé, ma per una felicità materiale comunque raggiunta attraverso un uomo.

La realizzazione personale di Mrs Forrester è determinata sempre da un uomo e di volta in volta ne eredita i valori. Mrs Forrester ha un’unica ansia: il tempo. Tenta di fermarlo vivendo intensamente e non accettando di invecchiare, in seguito truccandosi in modo eccessivo apparirà grottesca, simile ad una donna da saloon. In lei è assente ogni tentativo di emancipazione, poiché il suo agire si rivela frivolo e limitato alla mondanità.
Attraverso un’attenta forma di costruzione, la Cather conferisce al romanzo una grande intensità narrativa. La conclusione aperta, la mancanza dell’happy end e di precetti da seguire riproducono la condizione dell’uomo moderno che mutando «si è fatto frammentario ed elusivo». L’autrice non prende una posizione predeterminata verso i personaggi e le vicende che descrive; ma cerca una sintesi ed unità attraverso di essi.

La Cather riproduce abilmente il colore locale e i dettagli della vita di frontiera nel Midwest, che in parte conosce per esperienza personale, senza rinunciare al ricorso alla propria immaginazione. A tale proposito non si può ignorare la teoria del romanzo da lei sostenuta e l’importanza che attribuisce all’immaginazione. Quest’ultima contribuisce a rendere il processo artistico qualcosa di misterioso che non può essere misurato dal ragionamento. Facendo tesoro della lezione di Poe, Willa Cather riesce a materializzare un tono o un’atmosfera in immagini precise, inserendole in una scenografia. La «magical memory» rappresenta per la scrittrice una fonte d’immaginazione, poiché senza il potere creativo di quest’ultima, la memoria non potrebbe produrre opere d’Arte. La romanziera ricorre alla semplificazione, alla riduzione della storia a favore della scena e all’immaginazione per occuparsi del campo riflesso della vita, del mondo dell’interiorità, de «l’umana fragilità e sofferenza».
All’interno del romanzo si possono riscontrare numerose opposizioni tra: la campagna e la città, il genio artistico e la mediocrità, la natura e l’artificio, l’ordine e il caos, il maschile e il femminile. Ma il conflitto più grande resta quello tra la mediocrità e l’eccellenza, tra il pretenzioso e la mente colta, tra l’imprigionamento dello spirito umano in preoccupazioni grette e ridicole e il suo appagamento attraverso la liberazione di forze creative mediante l’Arte, la natura e le relazioni umane.

Nemici dell’Arte sono la cupidigia, il conformismo, la passività e la mediocrità, che caratterizzano i personaggi in A Lost Lady. La Cather indaga le conseguenze di questi nemici dell’energia creativa in molteplici aree tra loro differenti quali le relazioni umane e gli eventi sociali. C’è spesso nei racconti di Willa Cather, un’immagine di delicata bellezza che ci viene presentata al principio della narrazione, tratteggiata per mezzo di successive pennellate brevi e precise, che insistono sullo splendore e l’intensità di uno sguardo o sui chiaroscuri di uno spazio interiore. Ma man mano che quell’immagine diviene nitida nella mente del lettore, si avverte l’aleggiare di qualcosa d’ignoto e grigio, come il progredire di un’ombra.

Willa Cather riserva grande attenzione allo stile, riuscendo a misurarsi con immagini di povertà e di squallore materiale. La convinta riproposta del mito americano del self-made men è corredata dalla postilla per cui la vita da liberi pionieri dev’essere concreta, essenziale, persino frugale. Così su un isolotto sperduto del Nord Atlantico o nelle praterie del Nebraska o nel caos di New York, il passo attento e leggero dello stile della scrittrice ci accompagna mostrandoci la trama e l’ordito delle esistenze, il farsi e disfarsi dei destini. Ed è bello regolare la nostra andatura di lettori sulla melodia del suo stile.

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