‘In clinica psichiatrica c’è il glicine fiorito’, la salute mentale secondo Barbara Giangravè

Nel 1978, la cosiddetta “Legge Basaglia” sanci’ la chiusura dei manicomi in Italia. Si prospetta, idealmente, una nuova era, in cui chi soffre di disturbi mentali non venga più stigmatizzato e rinchiuso in spaventose strutture di contenimento, ma riabilitato e reinserito nella società. Ma, da quel momento a oggi, cosa si è realmente fatto? Cosa è davvero cambiato?

In clinica psichiatrica c’è il glicine fiorito (Fides, 2023), di Barbara Giangravè, rappresenta una testimonianza diretta della realtà dei “nuovi manicomi”, uno spaccato di vita all’interno di una clinica psichiatrica italiana, dove l’autrice entra di sua spontanea volontà per provare a sconfiggere quel cancro dell’anima che risponde al nome di “depressione”, un male invisibile e, in quanto tale, troppo spesso sottovalutato e banalizzato da chi non lo prova sulla propria pelle. Un racconto potente nella sua semplicità, un collage di fatti, riflessioni e ricordi, capace di risvegliare le coscienze e scagliare il lettore in una dimensione a cui la maggior parte dei cosiddetti “sani” non vuole neppure pensare.

In Italia, un classico sul tema è il diario Le libere donne di Magliano di Mario Tobino, scrittore e medico che documenta la sua esperienza all’interno di un reparto femminile di psichiatria.

Barbara Giangravè, giornalista e scrittrice, in questo memoir  tratta lo stesso tema: “Questo romanzo se così si può definire – scrive l’autrice in appendice al volume – nasce da un disturbo psicologico non meglio indicato, se non con il termine onnicomprensivo di depressione”.

“Ho assunto e assumo psicofarmaci, come molte persone, che hanno il merito di regolare l’equilibrio della mia mente e di non farmi dipendere sempre dalla presenza di un familiare o di un amico”, confessa l’autrice.

Giangravè sottolinea che la salute mentale è un argomento di cui non si parla abbastanza: “Non ci si vergogna di raccontare di avere un tumore tanto quanto ci si vergogna di dire a qualcuno di avere bisogno di aiuto, di non volere rimanere da soli, di non avere il pieno controllo della propria mente”.
Dal 1978 i manicomi in Italia non esistono più però, racconta Giangravè in un capitolo, c’è ancora tanto da fare: “Oggi i manicomi si chiamano cliniche psichiatriche o case di cura, ma le strutture che ho conosciuto io lasciano tutte piuttosto a desiderare, sia dal punto di vista degli edifici esterni che dal punto di vista dell’ordine e della pulizia interni. I pazienti, i nuovi matti, condividono stanze divise per sesso, ma si trovano in reparti misti, composti sia da uomini che da donne. Non ci sono molte differenze tra noi, se non per età, ceto sociale o istruzione. Una volta entrati qui, però, perdiamo tutti la nostra dignità di persone e diventiamo riconoscibili solo dai numeri delle nostre stanze, mentre vaghiamo in pigiama, senza una meta, per i corridoi”. Il libro di Giangravè è una testimonianza che risveglia le coscienze e arriva al cuore.

Il libri è strutturato sotto forma di diario personale, ricordi e considerazioni si alternano tra le pagine che scivolano veloci. Una storia intensa e interessante quella proposta dall’autrice, dallo stile scorrevole e realistico.

‘Il caso di Stevan Karajan’, l’ingiustizia secondo il premio Nobel Ivo Andrić

Dal 14 febbraio in libreria Il caso di Stevan Karajan, una raccolta di racconti inediti di Ivo Andrić, curata da Božidar Stanišić e tradotta da Alice Parmeggiani.

Dieci racconti, scritti intorno agli anni Cinquanta, incentrati su uno dei temi cardine di tutta la produzione di Andrić: l’ingiustizia.

Le storie de Il caso di Stevan Karajan attraversano le epoche storiche da Ottocento a Novecento, indagando le diverse forme e i molteplici rapporti che si instaurano tra uguaglianza e disuguaglianza, tra forza e debolezza, tra maggioranza e minoranza, nonché sul conflitto fra i concetti di giustizia e ingiustizia.

Una porta chiusa a chiave e dietro una donna testarda; un carpino in cima a un colle е stanchi uomini che pensano; lo sciopero delle donne alla tessitura dei tappeti; un’equilibrista sul filo; un imprenditore in vestaglia su una poltrona, nel salotto della sua villa appena bombardata.

Dieci storie inedite ambientate nel Novecento che raccontano di giustizia e soprattutto di ingiustizia, subita e taciuta, oppure gridata in goffi tentativi di ribellione soffocati dal potere, dal denaro o dalla violenza. Il premio Nobel Ivo Andrić, con sensibilità e maestria, racconta donne e uomini intrappolati dalla burocrazia, sconvolti dalla guerra e dalle ambizioni altrui.

Andrić e la sua percezione dell’ingiustizia

Il motivo dell’ingiustizia è uno dei più frequenti nell’opera letteraria di Andrić. È logico quindi interrogarsi sulle ragioni di quella frequenza. Crnjanski, come Andrić, riteneva che per comprendere ogni artista la cosa essenziale fosse la sua opera. Tuttavia, a differenza di Andrić, che sotto questo aspetto era più radicale del suo amico (l’opera è tutto), per lui era importante anche la vita dell’autore. Per questo riporterò almeno alcuni dettagli dell’infanzia e della giovinezza di Andrić, che, ne sono convinto, ebbero un riflesso sulla sua percezione dell’ingiustizia e di conseguenza sull’espressione creativa delle sue numerose manifestazioni. Fin dalla sua infanzia, per Andrić i libri ebbero una grande importanza; in essi intuiva gli immensi universi dell’ignoto e del magico. Ma il liceale sarajevese, figlio di una povera operaia di una fabbrica di tappeti, per i libri non aveva denaro.

Si fermava spesso davanti alla vetrina della libreria di Jaroslav Studnička, un ceco immigrato nella Sarajevo austroungarica, e poteva solo osservarli da dietro il vetro. «Più volte mi allontanavo da quella vetrina e poi vi ritornavo ancora, finché non iniziava a calare la sera autunnale e finché nella vetrina non si accendeva di colpo la luce, e il suo riflesso non cadeva sull’asfalto bagnato. Allora si doveva lasciare tutto e ritornare nel quartiere lassù, alla mia vita reale…». Lassù, nel ripido vicolo Basamaci, a Bistrik, nel povero appartamentino della madre operaia. Dai libri lo separava una barriera di cristallo, apparentemente equanime (ognuno poteva vederli), ma credo che quella vetrina, come metafora dell’irraggiungibile, fosse per lui anche una delle percettibili manifestazioni dell’ingiustizia. E questa diceva a chiare lettere: tutto si può comprare se abbiamo i soldi. «E quando non li abbiamo, perché non li abbiamo almeno per i libri?» sembrava che si chiedesse il ragazzo, futuro scrittore. (Meša Selimović, criticando a ragione il paradiso promesso dell’uguaglianza nel socialismo, una volta citò il proverbio popolare: “Da sempre, qualcuno ha, e qualcuno guarda”).

Ci fu un’altra barriera che segnò l’esperienza della vita di Andrić nel processo di consapevolezza dei meccanismi sociali dell’ingiustizia: i muri della prigione di Spalato e del carcere di Maribor, dopo l’accusa di aver collaborato con gli autori dell’attentato di Sarajevo. «Costretto e impotente, in quella umida fossa, in una posizione che mi abbassava allo stato bestiale, io per la prima volta intesi con il pensiero e colsi con il sentimento il senso della vita umana e della lotta…».

Solo agli uomini che in sostanza non amano nessuno e niente tranne che se stessi, può, in modo così profondo e durevole, diventare odiosa la vita, come in quei giorni di ottobre del 1944 successe a Stevan Karajan, uomo d’affari e proprietario di immobili. E per lui quella non era una cosa né di oggi né di ieri: era già un anno buono che era cominciata

L’autore

Ivo Andric è il primo rappresentante della letteratura slava meridionale a essere insignito del premio Nobel (1961), destando l’interesse di un pubblico internazionale. Nato a Travnik (Bosnia ed Erzegovina) nel 1892, trascorre la maggior parte della sua vita a Belgrado, dove scrive le sue opere più note e dove è sepolto. È politicamente attivo da quando, terminati gli studi, viene eletto presidente del Movimento progressista serbo-croato. Si dedica alla carriera diplomatica, soggiornando in diverse città europee e approfondendo nel contempo la vocazione letteraria. Risale agli anni Trenta la pubblicazione di alcune novelle e al 1945 quella dei due romanzi maggiori, La cronaca di Travnik e Il ponte sulla Drina. Muore a Belgrado nel 1975. BEE ha pubblicato nel 2017 In volo sopra il mare e altre storie di viaggio, nel 2020 il romanzo La vita di Isidor Katanić, nel 2021 Litigando con il mondo e nel 2022 La Signorina.

“Darkland” di Paolo Grugni, per la Giornata della Memoria

“Darkland” di Paolo Grugni (Laurana Editore – collana Rimmel, 304 pp.) omaggia e ricorda gli ebrei uccisi durante l’Olocausto. Ma quale fu il vero motivo per cui Hitler decise di sterminare gli ebrei? Perché è fondamentale capire il motivo per cui Hitler fosse vegetariano? In che modo la figura di Richard Wagner fu determinante per l’avvento del nazismo? Quale ruolo giocò il nazismo magico? Perché nel cuore nero della Foresta Nera si nasconde una struttura simile al Vaticano e cosa ha a che fare con il nazismo e l’esoterismo? Questi alcuni dei temi inediti che cambiamo radicalmente il modo di approcciarsi e comprendere il nazismo: preparatevi alla verità.

Settembre 2015, 70° anniversario del processo di Norimberga

Germania, Foresta Nera. Karl Jerzyck, professore di criminologia di Monaco, scopre casualmente delle ossa in un borgo vicino a Karlsruhe. I resti appartengono a persone scomparse venticinque anni prima in circostanze mai chiarite. Jerzyck e Arno Schultze, ex ispettore della Kripo che al tempo aveva seguito il caso, riprendono a investigare. Si troveranno coinvolti nelle trame di alcuni gruppi neonazisti legati a sette esoteriche e occulte. Un viaggio che li riporterà indietro nel tempo, ai campi di sterminio e alla figura più spaventosa a essi collegata: il dottor Josef Mengele, l’angelo della morte.

L’autore – Paolo Grugni

(Milano, 1962). Ha esordito con il romanzo Let it be (Mondadori, 2004; Alacràn, 2007, Laurana, 2017). Ha poi pubblicato Mondoserpente (Alacràn, 2006; Laurana, 2021), Aiutami (Barbera, 2008; ebook per Laurana, 2014), Italian Sharia (Perdisa, 2010), L’odore acido di quei giorni (Laurana, 2011), La geografia delle piogge (Laurana, 2012), L’Antiesorcista (Novecento Editore, 2015), Darkland (Melville, 2015; Laurana, 2022). Nel 2018 ha pubblicato Pura razza bastarda (Laurana) e nel 2019 Il palazzo delle lacrime (Laurana). È inoltre autore della silloge Frammenti di un odioso discorso (ebook per Laurana, 2017). Vive e lavora a Berlino

 

‘Tre colori: Blu’ di Kieślowski. La libertà è un obbligo verso se stessi

Tre colori: Blu è un controverso e premiato film del 1993 diretto da Krzysztof Kieślowski e il primo della trilogia che il regista polacco ha dedicato ai tre colori della bandiera francese ed al motto della Rivoluzione francese: Liberté, Égalité, Fraternité! Un film robusto nei connotati estetici e nei contenuti, diretto con maestria e forza evocatrice commista a vibrante malinconia e a sprazzi di speranza e apertura tutt’altro che ingenua a valori universali, o meglio, che dovrebbero avere statuto d’esistenza in ogni latitudine della vicenda umana (il finire del secolo scorso qui testimonia, nello spirito del regista, di una fiducia nel progetto europeista sinceramente laica e fondata sull’eguaglianza e l’equità sociale, sulla libertà e la cittadinanza di diritti non disegnati da confini, che oggi a conti fatti può sembrare velleitaria e aurorale rispetto a quanto sarebbe seguito).

Libertà sta a Blue. Un blu drammatico e innervato di una tristezza dolente ma non desolata, sideralmente distante dalla asciuttezza formale del Decalogo, dalle contraddizioni e dagli aspetti controversi, sdruccioli e non semplicemente evenemenziali, inerenti la cogenza e possibile attualità dei comandamenti biblici.

Un film, questo, purgato da qualsivoglia connotazione politica e squisitamente dedicato alla dimensione individuale ed esistenziale sul piano di un’esperienza intima che non vuole assurgere a paradigma di alcunché, ma narrare un amore per la vita declinato in piccole o grandi azioni che riscattino dall’apparente insensatezza del dolore, dalla lingua astrusa del caso – che solo raramente si può comprendere e ricomprendere in un proprio disegno assertivo di sé e di libertà della scelta.

Blu: trama del film

Julie, una tragica ed ineffabile Juliette Binoche, perde nel medesimo incidente suo marito Patrice, compositore affermato, e la figlia Anna. In seguito a questa feroce tragedia, la donna stabilisce di traslocare a Parigi per intraprendere una nuova vita, avvolta nell’invisibilità dell’anonimato, affatto indipendente ed affrancata da chicchessia, intenzionata ad abbandonare tutto quanto (anche l’agiatezza) possa essere impronta della sua passata vita, con l’intento di ormare sé e nessun altro che sé in una sorta di sinfonia di libertà.

La vita crea un trauma: irreparabile. E la protagonista lo affronta come se le sue prime, istintive decisioni fossero dettate da una sorta di stato di shock e quindi eziologicamente corrive, estreme e imprevedibili.

Ma qui subentra ancora l’imprevedibile da ascriversi alla partitura del caso.

Quando una giornalista comincia a sospettare che sia Julie l’autrice delle musiche del marito, questa demolisce categoricamente questa congettura, negando tassativamente di essere coinvolta nelle composizioni ascritte a Patrice, e in seguito si sbarazza di quella che crede essere l’unica copia degli spariti dell’ultima di esse (il Concerto per l’Europa) rimasta incompiuta; ma Olivier (Benoît Régent), giovane assistente di Patrice, innamorato di Julie da lungo, silenzioso tempo, ne riceve per vie traverse un’ulteriore copia e intende terminarla lui stesso.

Nel frattempo, Julie si ritrova obbligata a misurarsi con il suo passato e con gli ostacoli che insidiano la sua libertà.

Cos’è mai la libertà?

Jean-Luc Nancy così si esprimeva:

“Il motto Libertà, uguaglianza, fraternità ha per noi qualcosa di ridicolo ed è difficile introdurlo nel discorso filosofico. Perché in Francia è un motto ufficiale (una menzogna di Stato) e perché è la sintesi, così si dice, di un ‘rousseauvismo’ ormai inutilizzabile”.

La libertà secondo Kieślowski

Tuttavia, vi è un’uguaglianza che non può essere minimamente inficiata dal nostro essere nel mondo, quella della libertà: non un’Idea astratta, ma fatto concreto e nevralgico di un soggetto autonomo. Anche nell’aspirare allo sconfinamento in zone franche dell’esistenza entro le quali non si belligera con essa, ma al contempo sembrano non vigere le regole consolidate e per orientarsi si deve scegliere e volere la via di un firmamento di valori che la reinventino, la ridefiniscano – anche drasticamente. Libertà anche di disconoscere sé stessi quando e soprattutto qualcosa di mortifero ci è dentro e pervade ogni nostra fibra.

L’Io rischia nella bolgia dell’Etica (o di un compromesso costante con le regole di una normalità che sono altrettante ferite inciprignite incapaci persino di versare sangue visibile) di non realizzarsi mai nel corso di un’esistenza.

L’io della protagonista è invece un Io demiurgo. Soggetto autonomo, libero di tentare il suicidio come di sventarlo in un gesto di estremo riscatto di vita (capace di scollinare oltre la disperazione più cieca) e non figlio del semplice istinto primario; o libertà di sgombrare la mente dal peso della memoria con il suo carico di sentimenti, oggetti, nomi, circostanze, per salvare di essi solo un canto di vita: e così avviene per la lampada di pietre azzurre, gli abbozzi della composizione di Patrice, le melodie al flauto di un suonatore di strada, la catenina con la croce (che diventa il testimone passato di mano al giovane che aveva assistito al drammatico incidente a proscenio di tuta la vicenda), il nascituro dell’amante, la madre malata di Alzheimer. Nel finale di pellicola, il montaggio infatti presiede proprio al ricongiungimento di tutti questi soggetti ed elementi nel segno di una scelta oggi in eclissi nella nostra “matura” società cosiddetta civile: ovvero l’amore per la vita, la scelta che la protegge e salvaguarda, la nutrica di senso e le conferisce una prospettiva altrimenti strozzata da condotte captative e incapaci di farsene carico o gioia.

La Libertà di sprofondare nel Blue, di scegliere come si vuole scegliere e perché così si vuole, è allora ricongiunta a un senso (proprio e distintivo) da calare nell’esistenza e che non si può spiccare già maturo e a portata da un metaforico ramo.Un blu che invade lo schermo sino a confondersi con il nero. Un blu di riverberi fantasmatici del ricordo, che è concreto almeno quanto l’oggetto che ne testimonia, ma assume la consistenza fragile e diafana di qualcosa che non si stringe più ma colora ancora attimi di vita.

“Adesso so che farò una sola cosa: niente. Non voglio più né proprietà né ricordi, amici, amori o legami: sono tutte trappole”, afferma Julie.

Taciturna Julie con compagne fedelissime: le note del pentagramma. A cui si aggiunge la prostituta che la protagonista non vuole “punire”, rifiutandosi di firmare una petizione dei condomini che la vogliono cacciare. Qui, nel genio del regista sarà la voce del caso a parlare o una citazione, preconscia se non volontaria, dall’Inquilino del terzo piano di Polanski? Fatto sta che si stringe fra le due una sorta di sorellanza e Julie, persona solida e generosa ma ferita dal lutto, sembra provare per lei una sottile tenerezza, un atteggiamento protettivo e fedele all’idea che la libertà non sia solo un possesso ma un criterio da esercitare coerentemente in ogni atto della vita.

La Musica è prepotente protagonista in un film che si anima di silenzi: diegetica ed extradiegetica; rifinita modalità espressiva che scardina ogni sovrastruttura sociale, accademica, politica, culturale o economica. Kieślowski racconta che

“il film è stato girato come una illustrazione della musica […] la musica era pronta prima delle riprese. Tutte le scene con la colonna sonora sono state girate con il playback sul set, nella registrazione definitiva.”

Sette note fatidiche per una disperata, universale riflessione sul tentativo di un’umanità afflitta e dolente di smarcarsi da sé stessa per essere autenticamente sé stessa.

È questo un agito pratico e etico possibile?

Jaspers vede nel sempre illusorio e deluso tentativo dell’uomo di conquistarsi la libertà quello che egli chiama “lo scacco dell’esistenza”:

“La libertà non è dunque un mezzo per l’esistenza, ma coincide con l’esistenza stessa: Io non posso farmi da capo e scegliere tra l’essere me stesso e il non essere me stesso, come se la libertà fosse davanti a me solo come uno strumento. Ma in quanto scelgo sono, se non sono non scelgo”.

Anzi, per Sartre la libertà è il segno dell’assurdità della vita dell’uomo “condannato a essere libero”: le cose già sono (sono realizzate), mentre l’uomo è condannato a inventare sempre sé stesso, a inventarsi, tra l’altro, senza punti di riferimento. L’uomo non può negare il condizionamento della naturalità della sua esistenza, e questo lo condanna a non poter mai riferirsi a un valore trascendente ed assoluto.

L’unica libertà che possediamo è, quindi, quella di essere obbligati ad essere liberi?

In verità, il regista sembra suggerire che la libertà è un “obbligo” ma verso se stessi: si risponde di sé in primo luogo alla propria persona, e se questo avviene, sorge anche il miracolo di un gioco delle possibilità che non ricade nel fondale indistinto di una vita anodina e incapace di gesti elargivi di un potente “sì” alla vita. Scrivere lo spartito della propria esistenza dà voce alla più significativa delle sinfonie, quella di una libertà non rintuzzata, ma nutrita e voluta in nome di un canto alla vita. Julie ricomincia a scriverne una che è simbolica e no.

 

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‘Napoleon’. Il rifiuto della sconfitta è l’unica chiave seria della caratterizzazione di Scott

Ancora lui? La mitografia bonapartista non prevede pause. Nel cinema di Ridley Scott, inoltre, l’immagine di “Napoleon” aleggia fin dal suo primo lungometraggio del 1977, “I duellanti”, ambientato negli anni del mandato di Primo Console. L’incontro era dunque scontato, tuttavia il regista britannico ha aspettato sino al 2020 prima di lanciarsi nell’impresa: avviato inizialmente con la 20th Century Fox, il progetto è stato abbandonato a causa del budget di circa duecento milioni di dollari che ha spinto la piattaforma streaming Apple TV+ prima a subentrare e poi a collaborare con un distributore per portare il film anche nelle sale (sui teleschermi sarà messa in onda una versione di oltre 4 ore).

Dando per scontato l’elenco di errori, alterazioni e falsificazioni che diventerà pratica da sbrigare per gli storici specialisti –a cominciare dall’eminente Luigi Mascilli Migliorini-, è doveroso ricordare che più di 100 attori (per difetto…) hanno indossato sul set il fatidico cappello a bicorno ed è facile pronosticare le dispute tra gli appassionati su quale di loro abbia retto meglio la sfida inaugurata da Albert Dieudonné nel kolossal muto diretto da Abel Gance nel 1927 (il languido Boyer di “Maria Walewska”, il carismatico Brando di “Désirée, il torvo Steiger di “Waterloo”?).

A onore del vero Scott ripete da mesi che il film non è un’opera storica e nemmeno un film biografico, ma è inevitabile valutare la credibilità di un personaggio così monumentale e universale: Phoenix è di solito straordinario, però stavolta lascia perplessi la scelta di affibbiare a Napoleon troppe personalità cangianti tra quelle del ragazzino prepotente, il genio militare, il politico megalomane e l’ossessivo consorte della spregiudicata Josephine de Beauharnais (Kirby).

Penalizzando, peraltro, con l’eccessivo rilievo dato alle zuffe della coppia quello che dovrebbe costituire il punto di forza del film ovvero le rutilanti scene di battaglia debitamente aggiornate da dettagli splatter come il corpo dell’artigliere disintegrato da un’esplosione o le truppe austriache e russe ridotte a poltiglia dalle cannonate sul lago ghiacciato. Mentre è altrettanto vero che le sontuose scenografie di Arthur Max, i costumi di Janty Yates e Dave Crossman, le immagini in widescreen del direttore della fotografia Dariusz Wolski, l’uso creativo della musica d’epoca e la colonna sonora di Martin Phipps riescono a suggerire solo un vago parallelo con l’esorbitante iconografia napoleonica al pari dell’eccentrica performance di Phoenix.

La riluttanza a riconoscere la sconfitta di qualsiasi tipo, sia essa coniugale o militare, resta la chiave più seria della caratterizzazione, ancorché la sceneggiatura di David Scarpa, frettolosa nonostante le oltre due ore e mezza di durata, si conceda uscite derisorie come quella di Napoleon che grida “Stiamo vincendo!” su un campo di battaglia disseminato dei cadaveri della sua fanteria.

Persino dopo la catastrofica disfatta di Waterloo, il nostro rimane fermo nel rifiuto dell’autocritica preferendo di gran lunga incolpare i sottoposti di non essere stati in grado di eseguire correttamente i suoi ordini. “La cosa più difficile nella vita è accettare il fallimento degli altri”: con questa battuta emergerebbe un’idea intrigante di leadership illusoria che, però, poi non viene adeguatamente sviluppata per le esigenze di un kolossal all’altezza della nostra epoca iper smaliziata.

Chiunque abbia familiarità con la storia dell’Imperatore “Due volte nella polvere, Due volte sull’altar” sa già che l’irresistibile ascesa non terminerà con l’happy end, ma anche quando arrivano alle bobine finali Scott e Phoenix continuano a tenere curiosamente il soggetto a distanza, senza chiedere mai agli spettatori la comprensione, l’adesione o la ripulsa. Una plumbea rassegnazione permea, piuttosto, l’ultimo N. dello schermo, quasi la consapevolezza che, come nella burrascosa love story con Josephine, pulsasse sempre in lui qualcosa di non corrisposto, d’incomunicabile, irrimediabile o fuori dalla sua portata. Non basterà certo a rendere il film memorabile, ma questa ‘zona grigia’ almeno ci tramanda l’ambiguità e il pathos dell’uomo che cercò di conquistare il mondo senza riuscire a dominare la disperazione intima.

 

Napoleon

Eterea Edizioni a Più libri, più liberi, con tre autori fantasy

Eterea Edizioni è una casa editrice nata nel 2018 a Roma sotto l’egida dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani con l’intento di pubblicare libri (ma non solo) di alta qualità, sia a livello materiale sia a livello di contenuti, nell’ambito dell’immaginario fantasy: saggistica, narrativa, libri illustrati.

Come di consueto, Eterea sarà presente a Più Libri Più Liberi dal 6 al 10 dicembre presso lo stand B70 saranno infatti ospiti tre grandi autori: Artuan Rebis, Ivan Cavini e Roberto Fontana con i loro romanzi.

Un esempio: Helughèa. Il Racconto di una Stella Foglia è un fantasy eco-spirituale, un romanzo ricco di suggestioni che rielaborano miti e tradizioni sapienziali d’Oriente e d’Occidente, un impianto filosofico-spirituale arricchito dal lavoro musicale di Arthuan Rebis, arpista e musicista polistrumentista il quale ha anche composto 9 brani musicali che sono parte integrante della narrazione dando voce a diversi personaggi in momenti chiave della storia.

Il romanzo narra del mondo degli Heludin, le cui vicende si intrecciano a quelle della realtà di Ghèa, il luogo in cui si svolge la vita degli umani. Il racconto si snoda – nel “nostro mondo” – fra due guerre mondiali, e l’universo degli esseri fatati ha un proprio “sottomondo”, Katahelu, la cui purissima oscurità è minacciata da forze malevole, ponendo a rischio il destino dei due ecosistemi.

Un impianto filosofico-spirituale solido, corredato dal elementi di linguistica, citazioni transculturali (dalla cultura classica alle tradizioni sapienziali), arricchito per giunta dal lavoro musicale di Arthuan Rebis: un intero album, Canti di Helughèa, composto per accompagnare i lettori nei luoghi di Helu, traccia dopo traccia.

Infatti, come la musica è la chiave per entrare nel mondo di Helu, la musica pervade la lettura e permette a noi lettori di entrare nel romanzo in modo interattivo, multisensoriale e multidimensionale.

Helughèa, romanzo per lettori di tutte le età, dal tono lirico, epico e ironico ad un tempo, è un invito allo sviluppo interiore e al più ampio concetto di guarigione, trasformazione e superamento dei confini dualistici. Questo è il racconto di un ritorno a casa. In Svizzera avevo avuto l’incredibile opportunità di scolpire draghi e creature giganti, dipingere quadri, progettare arredi, scenografie ispirate alla Terra di Mezzo, e credevo fosse un’occasione unica e irripetibile per un artista, ma un pensiero che si era radicato nella mia testa stava inconsciamente rimettendo in moto il mio lato “Tuc”, quello ereditato da lontano, che mi avrebbe presto portato a iniziare una nuova avventura. Ora, al mutare della marea ritorno a voi, per mostrarvi il Tesoro che ho portato tra le colline della mia Contea, un tesoro fatto di tante monete ammassate sotto un gigantesco drago dormiente, un tesoro fatto di tante opere d’arte tangibili e intangibili, ma soprattutto, un tesoro fatto di tanti amici che mi hanno accompagnato nel viaggio.

«Alla base c’è l’invenzione delle lingue. Le storie sono state scritte per fornire un mondo alle lingue, e non il contrario.» (J.R.R. Tolkien, Lettere, lettera n. 165)

Fu l’amore per le lingue il vero motivo per cui Tolkien decise di iniziare a scrivere il suo immenso Legendarium, dal quale solo molto più tardi scaturì Il Signore degli Anelli. Il professore inventò la lingua elfica e, per renderla davvero viva, decise di creare Arda e tutte le sue storie; e ora che abbiamo la possibilità di esplorarle, senza dubbio le lingue elfiche rimangono uno degli aspetti più affascinanti. Armoniose, e misteriose da vedere, musicali e affascinanti da leggere: sono le tengwar, ovvero i segni che compongono l’alfabeto di cui si servono gli Elfi.

Ma come si usano? Come si scrivono? Come si leggono? Questo libro risponde a tutte queste domande: si tratta del primo manuale completo, che tratta anche la parte sulla calligrafia.

‘Pearson House’, il nuovo romanzo di Mary Rotnan

Dal 19 novembre 2023 esce in tutti i bookstore e ordinabile in libreria il nuovo romanzo Pearson House di Mary Rotnan edito da LifeBooks.

Con una scrittura fluida e intensa l’autrice accompagna il lettore all’interno della storia senza tempo di Gabriel Pearson e Maggie Dorsey in una Fulton degli anni ’30 per poi catapultarci nell’epoca odierna a conoscere Katryn Dorsey, Jared e Garrett.

“Posso dire che è un classico ed emozionante romance” afferma l’autrice. “L’ho scritto in un momento molto particolare e si discosta dai miei soliti action romance. Devo ammettere che mi sono affezionata a Gabriel.”

Fulton, New York 1932 Gabriel Pearson è un uomo ricco e abita nella bellissima dimora di Pearson House. Maggie Dorsey fa parte del personale domestico della villa ed è alle dipendenze della famiglia Pearson da qualche anno. Le differenze sociali e l’odio del padre di Maggie non riescono a frenare il sentimento che nasce tra i due giovani. L’unica a conoscere il loro segreto è Kate, la sorella di Maggie. La forza dei due innamorati non frenerà gli eventi che, a causa di alcune scelte di Gabriel, innescano una serie di lutti anche quello di Gabriel…

Fulton, New York 2018 Katryn Dorsey, pronipote di Kate Dorsey, lascia New York alla volta di Fulton, la cittadina tanto decantata dalla bisnonna. Il sindaco di Fulton Henry Wilbur le commissiona la ristrutturazione di Pearson House, che si trova in condizioni di decadenza. La villa ha un’infausta nomea e nessuno vuole avvicinarsi per paura del fantasma di Gabriel Pearson. Durante un sopralluogo Katryn s’imbatte nell’entità che riesce a vedere e sentire. Superato il primo sconcertante impatto, scopre così uno spirito triste, egocentrico e immerso in un passato doloroso. Il lavoro di Katryn porterà a galla molti segreti.

L’autrice

Mary Rotnan autrice di action romance. Vive in Italia da parecchi anni. Ama le storie cariche di azione, pathos e amore. Pearson House. è il suo quinto romanzo. Le donne come protagoniste delle sue storie. Ha pubblicato All’ombra della Luna, Infiltrato nella tua vita, Azzardo romano, Tornerò da te, Oltre i confini, Infiltrato per amore.

‘Anatomia di una caduta’ di Triet. Tutti i rapporti di coppia possono essere tossici

“La finestra sul cortile” incontra “Storia di un matrimonio” nel mystery alpino “Anatomia di una caduta della francese Triet che ha vinto la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes. Si tratta di un film più femminista dei tanti film femministi per contratto che prevede l’analisi di un ménage coniugale accreditando nel contempo l’ipotesi che non potremo mai comprendere pienamente nessuno tranne noi stessi: la constatazione del fatto che i matrimoni – anzi tutte le relazioni in generale – possano risultare tossici funziona, infatti, solo come una delle spinte e controspinte di un enigmatico resoconto.

La Triet aggira i canoni del genere processuale grazie al gioco di zoom, inquadrature dal basso e movimenti di macchina continui ma sempre tenuti al servizio della sceneggiatura scritta insieme al compagno Arthur Harari, costruita sull’uso di due lingue (francese e inglese in originale, italiano e inglese nel doppiaggio) e gestita su diversi livelli ognuno dei quali complementare all’altro. La trama, insomma, è tortuosa perché il film sta tutto nelle sue scelte stilistiche: Sandra, Samuel e il figlio ipovedente Daniel vivono sopra Grenoble lontani dal mondo e la società. Un giorno Samuel viene trovato morto ai piedi del loro chalet.

Viene aperta un’indagine sulla morte sospetta, ma le testimonianze di alcuni si confondono, i ricordi di altri vacillano… Incidente, suicidio o omicidio? Sandra viene accusata nonostante i dubbi. Un anno dopo, Daniel assiste al processo di sua madre o meglio alla dissezione del nucleo familiare: ogni rivelazione risulta tagliente come un colpo di bisturi che per l’effetto sorpresa fa vacillare le nostre certezze e se la suspense funziona è, appunto, perché possiamo credere alternativamente a tutti i testimoni e protagonisti.

Il riferimento del titolo a “Anatomia di un omicidio” di Preminger non è casuale, ma anche se si profila l’identikit una donna forte e sicura di sé, in realtà la regista preferisce mettere a nudo le sue fragilità e i suoi dubbi; inoltre il leitmotiv -ovvero la rete dei sensi di colpa che il marito ha steso per difendere un patriarcato del tutto inutile rispetto a una moglie in carriera- stavolta risiede proprio nella durata di due ore e mezza che fa percepire il freddo degli esterni innevati penetrato nella casa dove finisce col raggelare anche il nucleo degli abitanti. Cosa peserà di più nel giudizio della corte e soprattutto in quello del pubblico?

Il risentimento? Il tradimento? La sensazione di non potersi mai fidare del partner? O, peggio, la consapevolezza che niente importi a nessuno dei coinvolti? “Anatomia di una caduta” pone domande profonde sui suoi personaggi, ma raggiunge la massima intensità quando riconosce di non possedere le risposte.

La verità, secondo Triet, è scomoda e sottile, crea dissociazione e disagio. E la vita secondo la regista è “un caos in cui tutti siamo persi”, dove la compulsione a giudicare è superiore alla disponibilità a comprendere, e tutti si sentono in credito: di attenzione, di riconoscimento, e soprattutto di amore privo di condizioni e giudizi.

 

Anatomia di una caduta

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