‘L’inizio della notte’, la scienza del futuro secondo Damiano Leone

L’inizio della notte è il nuovo romanzo distopico di Damiano Leone edito Leucotea Edizioni. Il libro introduce il lettore in un’atmosfera fantascientifica e, a tratti, utopica; la narrazione si svolge, infatti, in un contesto che descrive uno scenario di un prossimo futuro apocalittico in cui predomina la distopia. Damiano Leone, però, non tralascia di veicolare importanti messaggi al lettore che, nel corso del romanzo, presenta con maestria attraverso una narrazione attenta e minuziosa.

La storia ha luogo a New York, nella prima parte del terzo millennio; a causa dei cambiamenti climatici anche la popolazione è ormai mutata, sia nella propria visione del mondo che nel percezione delle cose. La protagonista assoluta dell’intera narrazione è la casa farmaceutica Genetic Project fondata dal misterioso miliardario greco Alexandros Cristhopoulos. Il team della Genetic Project è formato da  quattro scienziati, Filippo Grassi, Takeda Nakai, Birgitt Horward e Sara Randi, che lavorano a un progetto rivoluzionario: la creazione di un elisir che possa manipolare la genetica umana. Fra le peculiarità della sostanza creata dagli scienziati c’è quella di rallentare l’invecchiamento fornendo quindi la possibilità di godere di una vita più lunga, ma soprattutto la capacità di far nascere degli esseri umani con delle potenzialità maggiori, sia dal punto di vista fisico che intellettuale e morale.

Fra le diverse tematiche affrontante nel romanzo, l’autore non dimentica di delineare una precisa psicologia dei personaggi che popolano le pagine de L’inizio della notte. Non solo, quindi, argomentazioni che virano sulla fantascienza ma anche la descrizione dei tratti personali e delle loro storie, tutte di grande spessore e impatto, che ben fanno comprendere la personalità dei vari soggetti, rendendoli unici e distinguibili. È il caso di Sara Randi, ex giornalista, che ha perso suo figlio a causa di una bomba. L’amore per il giornalismo e per la verità saranno le due peculiarità che contraddistingueranno una delle creatrici dell’elisir.

Alla tematica del cambiamento climatico, l’autore accosta quella delle mutazioni genetiche: nella realtà distopica del romanzo si inserisce un nuovo tipo di umanità che possiede un DNA modificato e migliorato. La nuova generazione è nominata i ‘’Nuovi’’: una razza diversa ed evoluta sotto ogni punto di vista, soprattutto quello morale, di cui la stirpe umana non appartenente alla nuova progenie risulta spesso manchevole. I Nuovi rispetto agli altri esseri viventi possiedono un profondo rispetto per l’ambiente e per i simili, non hanno alcun tipo di impulso truculento verso l’altro né ideologie che mirano alla supremazia o all’aggressività. Mentre gli essere umani sono immersi in uno scenario apocalittico in cui primeggiano le guerre, le carestie e disastri ambientali, l’Homo homini lupus di Plauto, citato e teorizzato da Thomas Hobbes, diventa una realtà: la lotta per la sopravvivenza è una costante, così come la sopraffazione che induce l’umanità a una involuzione. In questo contesto la generazione de i ‘’ Nuovi’’ è un barlume di speranza. Ma proprio perché pura e concretamente superiore per moralità e intenti,  gli altri esseri viventi, consci di questa evidenza, considerano la nuova razza temibile e in ogni modo tentano di sopraffarla. Alla nuova generazione de i Nuovi appartiene Eleni: Damiano Leone, nell’introdurre questo nuovo personaggio, ha sempre la delicatezza di non far apparire il soggetto superiore rispetto alla ‘’vecchia generazione’’.

Eleni, successivamente, instaura un rapporto determinante con un altro personaggio appartenente al romanzo: Alessandro. L’autore presenta il nuovo personaggio letterario, Alessandro, come un soggetto semplice, seppur caratterizzato da peculiarità che lo contraddistinguono: una forte personalità e una velocità prominente a livello di riflesso e pensiero. Nonostante le prime avversità dovute da alcuni timori da parte di Alessandro, che riconosce in Eleni una concreta diversità rispetto a sé stesso, i due giovani nel corso della lettura si avvicineranno sempre di più anche grazie, e soprattutto, al pieno sviluppo delle capacità emotive della stessa Eleni che faranno da collante alla genesi di questa relazione. Da questo punto di vista, all’interno de L’inizio della notte, in uno scenario in cui distopia e fantascienza che ricorda Orwell, si intersecano c’è spazio anche per l’amore: ecco quindi che l’autore dona al lettore dialoghi densi di emozione e sentimento, un amore che diverrà dirompente e reale il cui culmine sarà una vera e propria relazione fra i due giovani innamorati.

La poetica realistica di Francesco Scarabicchi

Francesco Scarabicchi (Ancona, 10 febbraio 1951 – Ancona, 22 aprile 2021) è il poeta osservatore, cultore della parola intesa come accoglimento di ogni dettaglio. Nativo di Ancona resta orfano di padre a dieci anni: dopo aver conseguito il diploma magistrale si iscrive all’Università di Urbino ma, ben presto, lascia gli studi per lavorare in banca, impiego che mantiene per  trent’anni. L’incontro con il poeta Franco Scataglini determina quella sarà la sua strada: la poesia.

La poetica  di Francesco Scarabicchi nasce dalla consapevolezza: quella presa di coscienza realistica in ogni sua sfumatura, dalla bellezza all’intensa sofferenza. Peculiarità primaria del poeta marchigiano è, senza dubbio, la proiezione di ogni emozione nel reale: Scarabicchi non introietta, ma proietta ogni suo sentire nei versi, nella poesia, nella parole che sceglie con cura per cantare le pieghe delicate della sua anima.

Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.

 

Così si apre Il prato bianco, la raccolta del poeta ripubblicata da Einaudi nel 2017. La poesia di Scarabicchi sembra muoversi in un continuo flusso di malinconia antica e nuova che non fa sconti alla realtà ma, anzi, la inserisce in ogni locuzione, ogni strofa, ogni semantica possibile. Porzioni di reale si intersecano in un lessico semplice ma curato che richiama un certo stile senza orpelli e, al contempo, ricercato.

Nel fondo

Il poco più di notte
che si attarda
sul manto delle more
non tradisce
quel che di te non dici,
gli anni muti

scivolati nel fondo,
in lontananza.

 

La dimensione naturalistica e analogie con la poetica di Giovanni Pascoli

Nella raccolta Il prato bianco è chiara l’influenza del Pascoli: il modello sembra rimandare agli ingenui stupori del fanciullino, tuttavia appare chiara al lettore anche una certa analogia riguardante il linguaggio stilistico usato dai due autori. In Giovanni Pascoli abbiamo una minuzia nella narrazione che riguarda la descrizione e la menzione del paesaggio naturale. Si pensi a componimenti come  L’assiuolo, L’aquilone o L’ora di Barga;  la silloge Myracae così come i Canti di Castelvecchio, e in generale tutta la poetica pasco liana, è attenta a dare la giusta accezione a ogni soggetto presente in natura. Un  rimando che si nota anche in Scarabicchi quando parla del  manto di more, l’ombra dell’erba, le aiuole, i giardini: la natura è presente anche nei versi del poeta marchigiano, tuttavia il lessico si pone su una linea di comunicabilità con lettore, pur annoverando qualche tecnicismo.  La dimensione naturalistica-paesaggistica e quella famigliare e personale che allude al ricordo e al tempo che scorre, si fonde e plasma la poetica di Scarabicchi: due peculiarità che ricordano la poetica Pascoliana. Un esempio tangibile lo si può constatare nella poesia Luci distanti:

Il muschio è quell’odore che non muta
la sua antica infantile identità,

come se fosse sempre ovunque Ortona,
nel silenzio notturno che qui scende,

camera d’un albergo di provincia,
luci distanti che dai vetri vedo,

se appena un po’ m’accosto dopo cena.
Cadrà sempre la neve in ogni tempo,

sarà bianca com’era, fresca e intatta,
nasceranno bambini dai suoi fiocchi

come piccoli uomini che vanno
al paese incantato inesistente

che ciascuno conosce, se rammenta
l’albero dai bei doni illuminato.

I personaggi galleggiano in una dimensiona naturalistica, trasportati da un’atmosfera che rimanda sempre ai tempi dell’infanzia e, senza voler osare, quasi attingendo alla poetica crepuscolare: i luoghi abbandonati, le strade di provincia, le antiche e mitiche memorie di un tempo che  non tornerà. Stesso topos descritto nei versi di  Biglietto di settembre:


Questa pioggia che senti
giovane lungo i muri

picchia, se fai silenzio,
ai nostri vetri,

bagna inferriate e foglie,
crolla dalle grondaie,

allaga il buio,
cancella ponti e polvere

e scompare.

 

Il pensiero di Scarabicchi, tuttavia, è concreto: il poeta non è un veggente, esiste una sola realtà che è quella sensibile e l’artista non ha accesso a nessun altro tipo di dimensione più alta  e privilegiata. L’esistenza, per Scarabicchi, resta incasellata in un perfetto ‘’Eterno ritorno’’ che ne evidenzia la replicabilità, il grigiore e la sua limitatezza. La poesia, in questo caso, è solo un mezzo che ha il delicato compito di cercare e donare un barlume di ragionevolezza nella realtà delle cose, dei giorni, della vita e del suo fluire. Il poeta, in questo caso, non è un profeta ma uno spettatore che diviene interprete delle circostanze attraverso la poesia; le parole sono quindi l’ unico mezzo per accedere e comprendere la realtà.

Il tema della morte nella raccolta ‘’La figlia che non piange’’ e il valore della parola custode di memorie

La figlia che non piange è la silloge di Scarabicchi pubblicata postuma, da Einaudi, nel 2021. Qui, il poeta scomparso nell’aprile dello stesso anno, riflette sul tema della morta intesa come ultimo traguardo dell’uomo e come parte stessa e imprescindibile della vita di ognuno. Scarabicchi, anche in questa raccolta, affronta di riflesso argomenti come il tempo e il ricordo; la silloge è infatti una lunga riflessione sui momenti ormai passati e sfumati, nell’amara  constatazione che mai più faranno ritorno.

Prologo

Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.

 

Scarabicchi procede in un racconto dove la dimensione temporale, il ricordo e la morte si intersecano in versi chiari e delicati. Non è un lamento, il suo, ma la contemplazione di quello che è stato, scompare e permane come si può constatare nel componimento Qui regna il tempo che scompare:

Qui regna il tempo che scompare,
la fuga sua invisibile,
il nome che non resta,
giorno della stagione, breve resa,
limite d’ogni soglia inesistente.

 

E ancora l’istante che si somma agli altri e che ricrea  una dimensione temporale che ammanta emozioni, esistenze, periodi e che prende, parafrasando ancora Scarabicchi, solo per lasciare ancora:

Ah

Ah, il tempo che passa alle mie spalle,
sulle mie scarpe nuove, sulla pelle,
il giovane tempo che non ho incontrato,
il tempo abbandonato a mia insaputa,
quello smarrito lungo vie contrarie,
il tempo solitario d’ogni notte,
il tempo che mi viaggia e non ritorna,
tutto il tempo del tempo che c’è stato,
il tempo immaginato che perdòno,
quello di un’altra estate che scompare,
il tempo innamorato che è lontano,
il tempo che si volta non si ferma,
il tempo muto che si fa guardare,
il tempo intero che non puoi pensare,
quello che prende solo per lasciare.

 

I luoghi e i tempi permangono solo nella poesia, unica dimensione  che accoglie e coglie ogni sottigliezza che nella realtà della vita, e agli uomini, spesso sfugge: ecco, così, che solo la poesia riesce a salvaguardare e far durare in modo sempiterno relazioni e sentimenti in quanto la parola, nella sua insita peculiarità, è sia uno scrigno custode di ricordi che una messaggera di memorie erranti nel tempo senza che la sua essenza venga mai scalfita.

 

 

 

‘Il cavaliere senz’ombra’ di Raffaele Olivieri, il viaggio di un nobiluomo nel Medioevo francese

Il cavaliere senz’ombra è il nuovo libro di Raffaele Olivieri edito Guida Editore. Protagonista è Gualtiero, un nobile rampollo di un’antica casata, figlio di un cavaliere appartenente all’Ordine dei Templari.  La trama si svolge in Francia, nel 1295; per Gualtiero la figura del padre è un alto modello da seguire e emulare, seppur dentro di sé non sgorghi il sacro fuoco del cavalierato e della temerarietà. Quella di Gualtiero è un’anima malinconica, letteraria, ingabbiata fra spade e armature; la delicatezza dell’anima del giovane si scontra con la concretezza e l’austerità del carattere del padre.

Olivieri si potrebbe definire un antimoderno, figura presente del saggio di Compagnon sugli antimoderni francesi. Gli antimoderni non sono figure semplicemente mosse dall’eterno pregiudizio contro il cambiamento, essi hanno una data di nascita preci-sa: il 1798, l’anno in cui la Rivoluzione francese segna una rottura decisiva e una svolta fatale; hanno una casa: la letteratura. Non sono tutti i campioni dello status quo, i conservatori e i reazionari di ogni sorta, non tutti gli ipocondriaci e i delusi del proprio tempo, gli immobilisti e gli oltranzisti, ma i moderni non entusiasti dei Tempi moderni, del modernismo o della modernità. In tal senso il romanzo di Olivieri è antimoderno, alla Michon, ambientato perdipiù proprio durante il Medioevo francese dai risvolti mitologici.

Gualtiero si emoziona di fronte a un paesaggio, seppur non sappia cosa siano le emozioni; ha con sé una lista, un prontuario per vivere secondo certi canoni, in cui l’amato padre ha scritto tutte le situazioni e le persone da cui Gualtiero deve diffidare. Il suo carattere remissivo, troppo codardo per la guerra, gli era valso anche gli scherni della comunità; tuttavia, tutto cambia quando alla morte del padre il giovane rampollo ne eredita l’armatura: una corazza che diventerà una prigione, una sorta di oggetto transazionale di Winnicottiana memoria. L’armatura avuta in eredità diviene una vera e propria fortezza in cui Gualtiero si rinchiude, senza volersi mai staccare, simbolo di una gabbia d’oro e spauracchio di un effettivo e concreto mezzo per sconfiggere i dolori, le sofferenze e le realtà della vita vera. Il giovane, per dimostrare agli altri e a sé stesso di valer pur qualcosa, decide di partire per prender parte alle Crociate; il suo scopo diventa quello di inseguire le guerre, non perché sia un cuor di leone ma perché l’armatura diventa un riflesso di quella temerarietà di cui Gualtiero manca.

La battaglia, nella concezione del protagonista, diventa così un contesto mitico: soverchiato da un alone leggendario quasi come le gesta mitologiche di eroi del calibro di Achille. Tuttavia, le crociate sono finite da un pezzo: il giovane non cede alle sue convinzioni  e, anzi, la sconfinata paura da cui è pervaso lo obbliga a utilizzare questa falsa credenza come pretesto per non abbandonare l’armatura del padre; pesante, ingombrante, ma sicura e appagante dal punto di vista emotivo. Gualtiero intraprende un folle viaggio verso le guerre, schernito da tutti: ma è proprio durante il suo viaggio in Galilea che scoprirà sé stesso, grazie agli incontri singolari con cui si rapporterà durante il suo cammino.

 

La Grande Armonia: prendere coscienza del proprio essere

Durante il suo viaggio verso la Galilea il cavaliere senz’ombra, abituato agli agi e alla comodità, inizia a scontrarsi con le prime intemperie della vita; il timore degli insetti, abili e veloci nell’insidiarsi sotto la sua armatura diventata, oramai, una vera e propria casa e, ancora, la fame, il freddo e il caldo. Ogni tanto, alla vista di qualche paesaggio o di qualche personaggio durante il suo cammino, sopraggiunge un grumo di emozioni che Gualtiero percepisce nel petto, credendo si tratti di un dolore alle costole.

Con lui il suo cavallo e un coniglio selvatico incontrato lungo la strada; un animale la cui simbologia con il protagonista appare evidente: il poco coraggio, la paura, il non lasciarsi mai andare. Durante il corso delle pagine, il lettore noterà la crescita emotiva e umana del protagonista della storia: non solo grazie a una sua graduale evoluzione ma anche, e soprattutto, grazie ai personaggi che saranno riflesso dei suoi timori e che, tramite gesti o parole, li dissiperanno. Da ogni incontro imparerà qualcosa: la calma e la quiete di una comunità che vive senza parlare, al chiarore della luna, la cui dottrina si ispira all’amore, alla cooperazione e alla solidarietà.

Nomadi legati alla terra che insegneranno al giovane il legame con la natura, o la possibilità di una  la vita condotta senza il superfluo che pur può essere serena. Ai lunatici Gualtiero dona alcuni pezzi della sua armatura affinché possano reperire dalla vendita di quest’ultima del denaro per compare cibo e viveri. Questo passaggio è emblematico: l’armatura, co-protagonista del romanzo, si sfalderà nel corso delle pagine rivelando la vera essenza del cavaliere che la indossa.

Alcune parti saranno rubate, altre donate ancora a un uomo deforme dopo aver incontrato i lunatici, altri pezzi andranno perduti. Questa progressiva perdita simboleggia, in realtà, la possibilità di ritrovarsi; ogni pezzo perduto dell’armatura coincide con l’incontro verso la sofferenza, l’empatia, l’amore e, in altre parole, verso l’umanità. Piano piano, il carattere rigido che contraddistingue Gualtiero lascia il posto a una spiritualità che sembra sempre più espandersi, nel corso delle pagine, tanto da arrivare a rifiutare il motivo primario che lo ha fatto partire: la guerra. Incontra, in seguito, Frate Girolamo che lo invita a sostare nel monastero insieme ad altri frati; qui, Gualtiero, dopo una sosta decide di andare via, ancora, per la sua strada.  Successivamente, un menestrello gli indica la via della magia per rispondere a quei quesiti che Gualtiero, nel corso del suo viaggio, si continua a porre.

L’uomo incontrato per strada lo conduce dalla maga Jolanda che, invece di preparargli una pozione, gli rivela una profezia che sconvolge il cavaliere. La stanza della maga è sinistra, gli odori di rane e lumache bollite poco invitanti, le ombre nere dell’aldilà che il giovane cerca di combattere inquietanti. Eppure, la maga, scorge qualcosa di maestoso nel cavaliere dal cuore pavido e gli predice di essere destinato alla Grande Armonia: una condizione che implica lealtà, rispetto,  coraggio ma non la guerra.

‘’Ogni volta che rinuncerete a un pezzo della vostra armatura, riceverete un segno a indicarvi che siete sulla strada giusta. […]. Dovrete imparare ad incassare i colpi della vita, non quelli delle spade. Al termine del viaggio raggiungerete la Grande Armonia’’.

Quell’armatura non è altro che una  barriera fra Gualtiero e il mondo reale che il giovane utilizza per non scendere in campo di battaglia ancor più cruento: la realtà, l’esistere e i suoi flussi. Ogni volta che Gualtiero indossa l’armatura la sua ombra scompare; come se quella ferraglia ingombrante risucchiasse il suo respiro vitale, inglobasse la sua essenza, facendolo vagare per il mondo come mero pezzo di ferro senza più un’identità. La maga Jolanda, però, gli predice un’altra profezia: ogni qual volta toglierà l’armatura riceverà un segno: una piuma bianca dal cielo.

L’archetipo del Viaggio dell’Eroe fra rinascita e autorealizzazione

Le avventure di Gualtiero proseguiranno con altri incontri determinanti: un orso che lo risparmia da morte certa spezzandogli la spada e un filosofo che gli dona gli strumenti per porsi delle domande sul senso della vita e sulla la sua di esistenza, vissuta fino a quel momento. La rinascita di Gualtiero è evidente: il primo punto di rottura con la sua vecchia vita è quando decide di sbarazzarsi della lista degli inaffidabili redatta da suo padre.

Il giovane prende coscienza della propria interiorità, acquisendo sicurezza. I personaggi che incontra lungo il tragitto  lo porteranno al raggiungimento di un nirvana vitale e, di conseguenza, all’acquisizione tangibile del proprio posto nel mondo. Rimasto con pochissime armi e con una corazza sbrindellata addosso raggiunge un’oasi: non del tutto convinto dell’effettiva fine delle guerre, vede ancora aleggiare fantasmi ombrosi di questa sua convinzione, per poi rendersi conto che, le battaglie tanto ricercate, erano solo miraggi, pretesti per non darsi alla luce.

Nell’oasi, il protagonista, si sbarazza della sua armatura-corazza e, in sogno, il Pontefice gli conferma la fine della guerra e un mondo governato dalla pace. Baratta il suo cavallo con un cammello e affida il suo fidato coniglio a una vedova per partire di nuovo ma, questa volta, libero di essere sé stesso senza essere ingabbiato da un’armatura che reprime il suo vero Io, cancellando il suo essere. L’autore riserva, a questo punto, un epilogo inaspettato ed emozionante: Gualtiero non solo troverà quello che stava cercando, ma molto di più.  Il monomito narrato ne Il cavaliere senz’ombra si conclude con i tre punti chiave che caratterizzano l’archetipo del Viaggio dell’Eroe: l’autorealizzazione, l’individuazione e l’illuminazione del protagonista.

 

 

 

Rime Rubate, la nuova raccolta di Michele Piramide: un riverbero antico di parole incastonate nel mondo moderno

Rime rubate è la nuova raccolta di poesie del sannita Michele Piramide, edita Ensemble editore, con prefazione di Alessio Iannicelli epostfazione di Stefano Tarquini.

Cos’è l’arte poetica se non una condizione presente in ogni singola persona? In modi diversi, con sfumature più accese o sbiadite, l’arte è l’atrio del sogno: con l’arte si viaggia, si fantastica, si auspica. La poesia ne è la testimonianza: attraverso la parola si veicolano immagini, sensazioni, emozioni. Chiunque prende in prestito l’arte dal mondo circostante, dalle persone che incontra o dal proprio contesto, per poi costruire la propria visione  dell’universo, unica e soggettiva. Una sorta di apprendimento per imitazione, come teorizzava Albert Bandura, poi rielaborato ad hoc; e grazie a queste ruberie involontarie che si creano mondi irripetibili. Lo stesso Michele Piramide, citando Oscar Wilde all’inizio della raccolta Rime rubate, scrive:

Chi ha talento prende in prestito, chi è un genio, ruba’’.

Quello che colpisce della poetica di Michele Piramide è la maestria con cui riesce a far sì che antico e moderno si incontrino e cooperino, testualmente e letterariamente. Alessio Iannicelli, nella prefazione della raccolta,  afferma a tal proposito:

‘’Michele aveva racchiuso nella sua opera tutto ciò che era antico e attuale nello stesso tempo, aveva saputo catturare l’animo della persona comune e incanalarlo nelle figure di eroi epici, e figure iconiche del mondo moderno’’.

La poesia di Michele Piramide è una mescolanza di linguaggi che ne creano solo uno: il lessico dell’emozione. L’autore, infatti, cita trame mitologiche, personaggi della cultura e diversi riferimenti letterari,  ma quello che colpisce è come ‘’sveste’’ questi  iconici protagonisti della storia e della letteratura, incanalandoli in una visione quotidiana e contemporanea.  La raccolta si apre con un componimento: Marinella. Probabilmente la famosa Marinella di Fabrizio De Andrè, che Michele Piramide inserisce in un contesto attuale, non distorcendo la natura del personaggio:

Pieni i miei sensi di te.

Sinuose forme, strozzati versi caldi corpi.

Mare in tempesta gli occhi bui.

Porto sicuro, straziato viandante, confuso ristoro.

 

Ogni  poesia ha come titolo il nome di un protagonista simboleggiante un riferimento storico o letterario. Nel componimento dal titolo Beatrice l’autore scrive:

Sei aria.

Bianca, come un pensiero,

fredda e leggera.

Sei ricordo d’infanzia.

Intangibile e angelica.

Vorrei aver avuto il coraggio di sfiorarti.

 

La Beatrice di dantesca memoria è qui incastonata  in una dimensione onirica e angelica, come la natura del personaggio suole immaginarla. Emblematico il verso ‘’sei ricordo d’infanzia’’; un chiaro riferimento all’amore di Dante, la cui visione di Beatrice risale proprio a quando la fanciulla aveva nove anni. E ancora  Pier Paolo (Pasolini), Romeo e Giulietta, Enea e Didone: un tuffo in un passato arcaico che non diventa vetusto o ridondante nella poesia di Piramide, ma che invece comunica contenuti attuali. Nella poesia Tenco il contenuto è moderno e struggente, al contempo:

Ora siete liberi.

Liberi di soffrire in silenzio,

muti e attoniti.

Liberi di vedere la sabbia riempirmi i polmoni.

Liberi di piangere fiumi di parole.

Liberi di vivere e fingere.

 

Personaggi svestiti del proprio ruolo e inseriti in contesti quotidiani parlano al lettore: Luigi (Tenco) e la sua libertà, i suoi quesiti, i suoi ideali rivolti all’umanità. Il tutto cadenzato dalla creazione di un ritmo armonico del lessico, frutto di assonanze, allitterazioni, parole scomposte e composte che donano alla poesia di Piramide un suono scorrevole, una sinfonia di parole che appare ora intensa, ora lieve.

 

Rime rubate: haiku moderni fra attualità ed eleganza antica

La struttura della poesia di Michele Piramide si rivela nella sua semplicità: moderni haiku che giungono come un dardo nelle emozioni del lettore, che si accinge a godere di queste flusso di parole incastonate in immagini dal contenuto importante e serio ma non, tuttavia, prolisso.

Non ci sono orpelli nella poesia di Michele Piramide, solo un concentrato di sentimenti in cui il lettore si può rispecchiare. La sua poesia ricorda molto la  poetica di Francesco Scarabicchi, definita appunto ‘’poesia realistica’’,  le cui tematiche ripercorrono i temi del ricordo e del tempo. Alcune delle poesie del poeta marchigiano hanno come titolo un nome, proprio come accade nella produzione letteraria di Piramide. Un esempio è  Ginetta, un componimento datato 1980:

Oh, la follia di sguardi alla rinfusa,

le grida e quel falsetto inimitabile

quando sognava i fiori di conchiglie

o il presepio a Sorrento in una scatola,

il biscuit restaurato e le sue calze

smagliate per sempre dentro gli anni,

polvere e oro nella casa bassa,

tra il giardino e le rose mai appassite.

 

Se per il poeta marchigiano la poesia è figlia della memoria, Michele Piramide rimodella e fa sua questa asserzione, astrattamente e nella concretezza;  cita nomi di una cultura letteraria e storica appartenente al passato e, nella sua produzione, inserisce porzioni di arte che capta durante la sua esperienza di vita,  per poi creare un proprio universo letterario in cui il flusso emozionale è il focus principale della sua poetica. Rime rubate è un inno all’importanza del sentimento e dell’emozione, in cui ogni lettore può riflettersi sentendosi compreso: un libro che è, nella sue essenza, uno specchio letterario che riflette e traduce le emozioni del lettore.

 

‘La società zodiaca’, il romanzo distopico di Andrea Paggi

La società zodiaca, libro scritto da Andrea Paggi ed edito Alter Erebus, è il romanzo perfetto per chi vuole proiettarsi in futuri lontani, riflettere su tematiche oniriche e fantascientifiche, pur non tralasciando problemi attuali. Quello che l’autore Andrea Paggi scrive è, a tratti, distopico:  induce il lettore a soffermarsi, pagina per pagina, nella riflessione di molti aspetti descritti nel libro ma che, tuttavia, appaiono realistici anche nel mondo di oggi. L’autore enfatizza alcune tematiche non mancando, con maestria, di descrivere la psicologia e la vita interiore dei suoi protagonisti inducendo il lettore ad empatizzare con alcuni dei soggetti descritti.

Nel libro non c’è un vero protagonista, ma tante storie che si intrecciano e si combinano in una società estremizzata che cela una velata – e forse neanche tanto indiretta – critica anche al tessuto sociale odierno. Una storia nelle storie, si potrebbe commentare, che inizia con uno psicologo-astrologo, Duccio Bertelli.

Il romanzo è ambientato a Firenze e proprio l’astrologo fiorentino profetizza una grave crisi nel 2023: dopo la pandemia e le guerre, rivolte ancora più sanguinose intaccano l’Europa portando allo scoppio di tumulti e malcontenti popolari. Queste rivolte sono dovute principalmente a una questione astrologica: il transito di Plutone in Acquario che già, molto tempo prima, aveva provocato la Rivoluzione Francese. Se dapprima nessuno crede alla chiaroveggenza di Bertelli, tutto cambia  quando l’astrologo inizia a riscontrare una certa popolarità sul web che crede alle sue previsioni. Intanto le rivolte non si placano e nel 2025, in seguito alle numerose insurrezioni, si decide di indire un Referendum per decidere una forma di governo adatta ad arginare lo status in cui, fino a quel momento, verte il tessuto sociale martoriato da tumulti.

Nasce, così, la Società Zodiaca: una forma di governo creata ad hoc e studiata per contenere eventuali sommosse popolari. Questo tipo di guida si basa sull’assunto che, ogni cittadino, deve eseguire un determinato compito ma, soprattutto, mette al bando le differenze: i simili devono stare con i simili per scongiurare danni politici e sociali.

La società zodiaca: un mondo in cui la sorte è scritta nelle stelle

Nel 2040 la Società Zodiaca è ancora la forma di governo vigente. Un cittadino è legato indissolubilmente al suo giorno di nascita e, quindi, al suo segno zodiacale. I mestieri sono assegnati in base all’oroscopo: gli Ariete sono dei militari, i Gemelli dei giornalisti, i Leone dei politici. Tutto segue una logica astrologica teorizzata da Duccio Bertelli: l’unico modo, secondo l’astrologo, per non incorrere in nuove crisi e riportare la società nuovamente allo sfacelo. C’è di più: il segno zodiacale non costringe solo ad assumere ruoli lavorativi che non si auspicano nemmeno,  ma obbliga anche a seguire una certa vita sentimentale. Sono ammesse esclusivamente famiglie omozodiacali; il calcolo delle nascite deve essere precedentemente e minuziosamente calcolato, in quanto la sorte di ognuno è già scritta nelle le stelle e solo seguendola si può aspirare a una società ideale, senza disoccupazione e malcontenti.

I bambini concepiti secondo un calcolo errato sono invece gli anomali: figli di nessuno, potenziali pericoli per questa società che l’astrologo dipinge come aurea. Partorire un figlio anomalo significa spedirlo al centro relegati dove vivrà per sempre in una cella. Di questo si occupano Alberici e Panunzio ma, se da un lato ci sono  gli ispettori e i militari con Ariete Tv sempre accesa, dall’altro c’è la fazione dei ribelli che lotta contro questa tirannia spacciata per società democratica e ideale. Ai ribelli, nel corso delle pagine, si unirà Ciuto: un ragazzo anomalo cresciuto in cella che riesce poi a scappare e diventa amico di Don Sebastiano, Ada, e Lorenza e tutto il gruppo. Dall’altro lato Corrado Barberini insieme all’infermiera Anna, Tiziana e Antonio: tutti protagonisti di una storia nella storia che, alla fine della lettura, si intreccia in un quadro globale, completo e quasi realistico. Dopo una serie di colpi di scena e intrighi, la Società Zodiaca è ormai sconfitta e l’autore trasporta i suoi lettori alle vicende dei protagonisti dieci anni dopo.

L’universo segnato dall’algoritmo

Se nell prima parte del testo capeggia l’azione, nella seconda parte del libro si vuole indurre il lettore a riflettere su quanto accaduto. Ciuto è cresciuto, Don Sebastiano è ormai anziano, qualcuno non c’è più e quasi tutti sembrano essere ritornati alle loro consuetudini. La società zodiaca sembra un ricordo lontano, perché adesso c’è un’altra forma di tirannia, seppur tecnologica, di cui le persone non riescono a fare a meno: l’algoritmo. I telefoni intelligenti sono scoparsi per lasciare il posto ad ologrammi e braccialetti personalizzati che determinano la vita di ognuno. Una metafora molto attuale e pungente, poiché tutt’oggi siamo costantemente bombardati da immagini e notizie dal web che inducono alla spersonalizzazione, quasi, per adeguarsi alle mode del momento.

La situazione raccontata dall’autore è qui ampiamente estremizzata, ma ben descrive la società di oggi dove il termine algoritmo si associa, per lo più, ai social network riferendosi alle linee guida da seguire, precisamente, per arrivare in alto: esser riconosciuti, visti, lodati. Oggi, avere potere, significa anche e soprattutto – forse – esser popolari su internet.

Andrea Paggi

Questa teoria è la stessa di Don Mario, amico di Don Sebastiano: l’incidente di un ragazzo avvenuto anni prima, lo convince che la tecnologia avrebbe portato al collasso delle interazioni e dell’intera società. Una teoria condivisa anche dal Professore, come si scoprirà nelle ultime pagine: alla liberazione di tutti gli anomali, dopo la sconfitta della Società Zodiaca, qualche ragazzo aveva continuato a vivere in uno ‘’stato di natura’’ insieme al Professore e all’Astrologo: l’obiettivo era dimostrare che la tecnologia era fallimentare, mentre la vita in connessione con gli elementi era l’unica via perseguibile. Un piano che andrà a gonfie vele, fino a quando Bertelli e il Professore non decideranno di mandare un anomalo nella società: Geri, amico di Ciuto, che in preda alla negazione dell’algoritmo come forma di potere sulle vite di ognuno, si ribellerà compiendo un’azione inimmaginabile.

Simbolismi non del tutto velati

Oltre alla linea narrativa avvincente, si evince chiaramente che lo scopo dell’autore è anche criticare alcuni aspetti della società moderna. L’uso smodato della tecnologia, nel testo, cambia anche la forma fisica dei protagonisti: la classica mano ad artiglio che spesso compare quando si tiene in mano uno smartphone nell’atto di usarlo. Alcuni personaggi della storia, poi, avranno delle ripercussioni in seguito all’uso della troppa tecnologia. L’intelligenza artificiale ha ormai sporcato anche i sentimenti; è diventata la padrona del mondo, con un’onnipotenza talmente dilagante da spodestare persino gli uomini che si dicono importanti. Adesso è la macchina a dominare, persino i pensieri, persino le emozioni. C’è un passaggio del romanzo, quello fra Don Sebastiano e Ciuto, che è emblematico:

«Ma il progresso ci ha portato alla società che conosciamo, questo lo so anche io. Non esiste la fatica, la vita di tutti è eccezionale.»

«Sì, ma tu non sei manco capace di capire se una ti piace o no. Te lo deve dire il computer.»

 

Parafrasando Alessandro Manzoni verrebbe da dire: “Non Sempre ciò che vien dopo è Progresso”. Il progresso, come ben spiega l’autore, non è naturale come l’evoluzione ma ha una sola direzione: l’economia. Andrea Paggi, nel testo, riesce a ironizzare su alcuni aspetti della società attuale in un modo dolce-amaro, arrivando anche a introdurre un mondo in cui non si lavora, ma dove ogni cittadino riceve un sussidio a prescindere; senza provare l’ebbrezza dell’ambizione, in un universo dove ormai le macchine hanno sostituito gli individui.

Per ultima l’immagine dell’acqua che evidenzia come tutto possa avere una fine: persone, aspetti sociali, eserciti ma che si riferisce anche al singolo auspicando un possibile risveglio da torpore che un mondo preconfezionato apporta a ogni cosa, senza dimenticare una lezione importante: tutto scompare di fronte alla Natura, la vera sovrana.

‘’Un sogno nel vigneto’’di Emanuela Marra: un romanzo per moderni sognatori

Un sogno nel vigneto di Emanuela Marra, edito Land editore, è il romanzo perfetto per chi ha amato le grandi storie d’amore letterarie. Il libro è leggero, spensierato, piacevole ma soprattutto molto romantico e adatto ai sognatori. La protagonista, a metà fra i personaggi di Jane Austen e le più moderne Bridget Jones, è Emma Bianchi: 30 anni, laureata a pieni voti in economia alla Bocconi, proviene da un contesto familiare agiato e lavora nell’azienda immobiliare di lusso Immobilux.

In questo senso è un personaggio interessante: nonostante provenga da un entourage benestante, il personaggio di Emma è autonomo e indipendente, punta sempre a dare il massimo e veicola un messaggio altamente positivo. Vive in un appartamento di Milano accanto al suo amico di sempre, Patrick, figura fondamentale del romanzo in quanto, spesso e volentieri, è proprio colui che sbroglia le matasse emotive che tendono ad aggrovigliarsi nel cuore e nella mente di Emma.

La protagonista, infatti, nonostante i vestiti alla moda e i tacchi vertiginosi, è una ragazza ingenua e insicura. Il suo mondo si svolge quasi ordinariamente, incasellato in un percorso asettico e per nulla denso di emozioni; il lavoro in ufficio, il capo Andrea, la collega Karen compagna di confessioni e shopping e i luoghi abitudinari frequentati dalla stessa Emma che danno al lettore la sensazione di essere coinvolti in una dimensione intima, quasi di sostare con il personaggio stesso nelle proprie consuetudini. Il testo è abbastanza minuzioso e descrittivo e, grazie ai dettagli, sembra di ritrovarsi fra le pagine e passare le giornate con Emma; il caffè Tiffany che frequenta prima del lavoro, il signor Raimondo che incontra ogni mattina e con cui discorre di letteratura e libri d’avventura. Un evento, però, squarcerà questa routine; Emma ha programmato un viaggio alla Maldive con il fidanzato Luca, affascinante e noto fotografo di Milano, suo ragazzo da anni. Una visione sfumata da una vetrata di un ristorante, mentre cena con l’amico Patrick, manderà in pezzi Emma. Immagine che si concretizzerà nel viaggio natalizio che programmava da tempo. Abbandonata, delusa e a pezzi Emma cerca di raccogliere i cocci di sé stessa fra le lacrime e l’intensa tristezza, cercando di sopravvivere a un evento catastrofico anche con l’aiuto di Pat e del fidanzato di quest’ultimo, David.

Il barlume di speranza diviene di nuovo scintillante quando Emma ha una promozione lavorativa inaspettata, che la porta a seguire la stima, e in seguito la vendita, di un immobile a Siena. Lontana dalla caotica Milano, Emma ritroverà sé stessa e non solo; stare a contatto con la natura, per lei che è una ragazza di città, sarà un toccasana per riconnettersi con la sua anima, stremata e a brandelli per il troppo dolore ricevuto. Ma a Siena ci saranno altri due importanti personaggi a darle forza; come in ogni fiaba che si rispetti, anche in quelle moderne i ruoli di ‘’aiutante’’ sono fondamentali. Alla neo-amicizia di Laura, architetto e assistente di Emma che cresce sempre più durante il soggiorno in Toscana, si affianca l’affetto materno di Marta.

Laura è decisa, sicura, ordinata, un po’ quello che non è Emma. E sarà Laura ad aiutarla in più circostanze, quando l’emotività e l’essere sbadata della protagonista prenderanno il sopravvento. Marta, invece, è l’anziana signora proprietaria dell’appartamento a Siena che hanno affittato Laura e Emma per seguire i lavori della tenuta più da vicino. Il personaggio di Marta personifica la saggezza ma, soprattutto, è materno; un lato che Emma, dalla sua vera madre, ha sperimentato di rado.

Un sogno nel vigneto: le colline senesi foriere di emozioni e intensi colpi di scena

L’anziana signora ha un nipote, Edoardo: amante dei cavalli e della natura, inseparabile solo dalla sua fidata cagnolina, ha un carattere diffidente e cupo dovuto a delle delusioni passate. Emma conoscerà il ragazzo in circostanze accidentali per poi ritrovarlo a pranzo dalla Signora Marta, ignari entrambe di questa conoscenza in comune. Nonostante il carattere scorbutico ed irritante del ragazzo, per Emma è un vero colpo di fulmine che, solo dopo numerose vicende, si scoprirà reciproco; dapprima Emma è restia, non vuole soffrire ancora dopo Luca. Ma ciò che incuriosisce la ragazza è quell’alone di mistero che ha Edoardo.

Solo nel corso delle pagine si scoprirà che, il giovane, cela una sofferenza segreta, sconfinata poi in delusione, che lo costringe a mettere un muro con il mondo femminile. Riuscirà ad aprirsi con Emma, rivelandosi romantico, dolce, sognatore e galante; ma, proprio a questo punto, la protagonista commetterà un passo falso che farà crollare la fiducia che nel tempo era riuscita a costruire nel rapporto con Edoardo. Ecco che ritornano i lunghi silenzi, le spunte grigie di WhatsApp che non si colorano di azzurro, l’angoscia di Emma e le sue emozioni che la scrittrice descrive in dettaglio; l’autrice delinea perfettamente ogni minimo stato d’animo della protagonista, dando spazio sì al contenuto della storia e ai colpi di scena ma anche, e soprattutto, alla psicologia di Emma: i suoi timori, le sue insicurezze, la paura di non riuscire. Sentimenti e atteggiamenti da tutti sperimentabili e sperimentati, almeno una volta nella vita, che avvicinano la protagonista a chi si accosta alla lettura.

Nonostante tutto sembri perduto, e per qualche tempo lo sarà, saranno Patrick e David, insieme ai consigli materni di Nonna Marta, che leniranno il dolore di Emma e faranno rifiorire il sorriso sulle labbra della giovane. Il finale è probabilmente quello che i sognatori amanti del romance ameranno di più; un colpo di scena renderà Emma una vera e propria ‘’Principessa’’… in tutti i sensi! Un sogno nel vigneto è un libro in cui si parla di amore, amicizia e presa di posizione. Il tutto condito da una buona dose di ironia e divertimento che renderà ancora più piacevole il fluire della lettura.

Marino Moretti, la poesia domestica e la letteratura del quotidiano

Marino Moretti, il poeta che affermava ‘’di non aver nulla da dire’’, ma che scrisse più di 70 libri.  Il poeta umile della letteratura domestica, colui che trasferiva la sua estrema modestia anche nella poesia. Celebre la raccolta Poesie scritte col lapis, ovvero, frammenti e versi potenzialmente cancellabili proprio perché non perfetti. Moretti nasce il 18 Luglio 1885 a Cesenatico.

Nel 1902 si trasferisce a Firenze per motivi di studio ma, ben presto, abbandona la vita studentesca per frequentare la scuola di recitazione dove ha modo di conoscere un altro grande nome della letteratura, Aldo Palazzeschi, di cui diviene amico fraterno. Intanto, entra in contatto con altri esponenti del movimento crepuscolare: Govoni, Corazzini, Gozzano. Dichiaratosi, apertamente, contro il fascismo il poeta firma anche il Manifesto antifascista di Benedetto Croce, pur conducendo una vita schiva e solitaria, e non partecipando attivamente alla politica.

La poetica del quotidiano e gli influssi di Giovanni Pascoli

La poesia di Moretti si ispira alle atmosfere proprie del Pascoli; un’evidenza che si concretizza, in particolar modo, nella raccolta Fraternità del 1905 in cui gli affetti domestici sono protagonisti.  Dedicata al fratello scomparso, il centro di questa raccolta è proprio il legame con la madre;  ma soprattutto si evidenzia il tema del nido in quanto casa, immagine ricorrente nella produzione pasco liana, contrapposto al mondo circostante. Seguono i poemetti della raccolta Serenata delle Zanzare, in cui ironicamente il poeta delinea la mentalità piccolo-borghese, con toni sarcastici. Moretti è il precursore della corrente letteraria del crepuscolarismo; quel tipo di letteratura che celebra le nostalgie quotidiane, le periferie, i giardini desolati, la malinconia provinciale; così come l’incedere del tempo nei cicli stagionali, o le figure vicine all’infanzia: le maestre, la scuola, il tempo andato.

Uno dei suoi componimenti legati al mondo scolastico è Le prime tristezze; l’indimenticabile poesia in cui Moretti sottolinea il rapporto fra infanzia e mondo quotidiano. In  Marino Moretti, si ritrovano principalmente versi in cui il rivolgersi al passato è continuo: i ricordi infantili sono spesso legati agli ambienti scolastici, proprio come racconta ne Le prime tristezze , o nei versi de La signora Lalla dedicata a una sua maestra.  La sua produzione letteraria non aspira a nessun lirismo, solo alla mera realtà delle cose che si presentano e sfuggono, insieme al tempo. Il lapis, a tal proposito, è caduco, impalpabile, effimero; così come la sua poetica che nulla ha a che fare con la magnificenza dei versi illustri come quelli di Dante Leopardi, o dello stesso Pascoli da cui Moretti trae principalmente  ispirazione da una sua famosa raccolta: I Canti di Castelvecchio.

Il rapporto fra l’infanzia e la dimensione del quotidiano riflesso nella poesia di Moretti

La poetica di Moretti non ha pretesa, non ha alcuna ambizione né vuole esser ricordata o divenire mitica; narra solo le porzioni di vita vissuta, la giovinezza sbiadita, i personaggi e i luoghi a cui nessuno presta attenzione ma che popolano il quotidiano. Questo tipo di poesia è poi la stessa poetica che si rifletterà in tutto il movimento letterario del Crepuscolarismo, per altro parola coniata dallo stesso Moretti che appare per la prima volta in Poesie scritte col lapis. In questa raccolta è proprio la noia quotidiana a far da protagonista; un tedio rassegnato, venato di insoddisfazioni e repressioni che si rispecchiano nei grigiori degli ambienti di provincia, nelle domeniche lunghe e malinconiche; un altro dei temi dominanti della poesia morettiana è proprio la domenica, emblema del giorno nostalgico, che ricorre spesso in molti componimenti. Nel componimento La domenica delle recluse, Moretti scrive:

Oggi, che noia, che malinconia, 
che desiderio di tornare indietro ! 

Ma il cuore dice con dolente metro, 

come presso all’altare: Così sia.

Il linguaggio è spesso reiterato, uniforme e monotono; l’anima del poeta pare trovare ristoro solo nella regressione al mondo infantile. I banchi di scuola, le maestre e i compagni sono elementi consolatori e tragici, al contempo; se da un lato leniscono l’inquietudine di Moretti, dall’altro gli ricordano momenti svaniti di una spensieratezza perduta.

Tuttavia, le poesie, non sono mai lamentose o insofferenti; spesso, sono pervase da momenti ironici e toni indispettiti e pungenti. Solo nel 1916, nella raccolta Il giardino dei frutti, si intravede un motivo poetico di insofferenza, come la scarsa propensione al Leopardi o l’amore tumultuoso per Carolina Invernizio.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale e, pur non essendo ritenuto idoneo al servizio militare, si arruola come infermiere. A questo periodo appartengono i romanzi; una prosa ambientata, per lo più, nel mondo piccolo borghese in cui Moretti non disdegna di sottolinearne i difetti. Dopo aver scritto numerose novelle, ritorna poi alla poesia nel 1969 con quattro raccolte: L’ultima estate (1969), tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973) e Diario senza le date (1974). Lo stile qui appare più semplice, moderno e immediato intriso da vivida ironia.

Il provincialismo lessicale e delicato nel linguaggio poetico

Il tema della provincia è affrontato da Moretti a diversi livelli di approfondimento; non solo nelle tematiche, anche il lessico si riflette in un linguaggio semplice e immediato. Quello che descrive il poeta di Cesenatico è un provincialismo sonnacchioso, uggioso, fatto di ore vuote e lunghe, di gente che attende treni alla stazione o di signorine appassite che vagano fra i viali silenziosi e i giardini dipinti delle piccole città, ornati in base alle stagioni di riferimento. Emblematica è la poesia Il giardino della stazione:

E noi si va chi sa dove,
poveri illusi, si va
in cerca di felicità,
verso città sempre nuove,

verso l’ignoto e la sera!
Invece lì nel giardino
veduto dal finestrino
c’è tutta la primavera!

Due strofe presenti nella parte centrale della poesia che, tuttavia, sottolineano l’intero universo morettiano; la malinconia, la ricerca di una felicità senza vie da percorrere, mentre nel passato e nelle piccole strade che sono appartenute ai giorni dell’infanzia c’è tutta la felicità che si tenta di rincorrere, per tutta la vita, una volta trascorsa l’età dorata.

Il linguaggio utilizzato è spesso molto simile al parlato: la semplicità del lessico si evince dai termini di uso quotidiano che, il poeta, spesso usa nelle sue opere fino a giungere a una sorta di cantilena quasi infantile composta da ripetizioni. L’usus scribendi del Moretti persiste nell’utilizzo di aggettivi per descrivere la noia del quotidiano, ma anche diminuitivi o termini legati al mondo dell’infanzia,  quindi alla scuola o alla vita familiare che rimandano ancora una volta al Pascoli:

Vanno, vanno col loro
lumino mezzo verde,
come in soffio d’oro…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Oh, non aprire il pugno
per afferrarle… Guai!
Esse, bimbo, non sai?
son le fate di giugno…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Bimbo, che ne faresti
d’un lumino cosi
lieve? Immagino, si,
che me lo spegneresti…
«Lucciola, lucciola, vien da me! ».
Lucciole! Col lumino
loro, il lumino verde,
a qualcun che si perde
ti insegnano il cammino:
sono le nostre stelle,
le stelle della Terra,
o tu che ami la guerra,
fanciulletto ribelle.
«Lucciola, lucciola, vien da me!

In questa poesia dal titolo Lucciole si riscontra il tipico linguaggio di Moretti: la ripetizione, i diminuitivi, l’abbondanza del sostantivo per descrivere il momento ma, soprattutto, la beltà dell’infanzia. Seppur Moretti sia spesso legato alla antologie di un tempo e relegato al mondo infantile, la sua è una poesia introspettiva, malinconica e, soprattutto, dettaglia: il regredire al mondo dell’infanzia permette di conoscersi e di auto-riconoscersi nel tempo storico della realtà.

‘Il figlio smarrito’ di Paolo Avanzi, un thriller psicologico incentrato sulla perdita

Il nuovo libro di Paolo Avanzi ‘’Il figlio smarrito’’, edito Rossini editore, è un romanzo prevalentemente incentrato sulla perdita; una perdita, tuttavia, che cela l’atto di ri-conoscersi attraverso le proprie debolezze scaturite, inevitabilmente, dalla mancanza. La trama si presenta senza colpi di scena evidenti, e si basa soprattutto sui pensieri dei personaggi, tuttavia riesce a tenere il lettore incollato alle pagine fino all’ultima riga. Parola per parola, lo scrittore nato a Rovigo, è capace di far trasalire chi legge attraverso piccoli momenti, guizzi di dinamismo emotivo, che si insinuano nel corso del romanzo.  Si carpisce immediatamente come l’autore voglia mettere in risalto gli aspetti emozionali e psicologici dei suoi personaggi.

Il figlio smarrito: trama e contenuti

Filippo Tirsi è un dirigente a capo del personale sposato con Veronica, cardiologa. La coppia, da sempre concentrata sulle rispettive carriere, ha un figlio: Claudio. Un pomeriggio di luglio, il ragazzo sparisce nelle acque del Lago di Como. Nonostante le ricerche effettuate, il corpo di Claudio non si trova; il ragazzo sembra essersi volatilizzato. Da questo punto cruciale inizia la rinascita, dolorosa, di un padre assente. Il  figlio smarrito di Paolo Avanzi è prima di tutto un affresco lucido sul rapporto genitori-figli e sulla pressione sociale che, spesso, molti genitori riflettono sulla prole.

L’autore delinea un momento importantissimo della fine dell’adolescenza; quando finito il liceo si deve decidere cosa fare. Spesso, la pressione sociale, o forse una morale stantia che obbliga a voler tutti incravattati, fa in modo e maniera che molti genitori indirizzino i propri figli verso un percorso universitario; una strada che, entro pochi anni, coronerà il figlio a un membro integrante della società, con un proprio ufficio e una propria reputazione da professionista. Ed è questo che Filippo e Veronica auspicano per Claudio, un ragazzo riservato, diverso, che non ama particolarmente studiare ma che è spinto dentro a un ambiente che detesta per un’idea imposta dai genitori.  Questa imposizione è il frammento chiave di tutta la storia.

Indirettamente Avanzi fa percepire al lettore come quella in cui si è imbattuto sia una famiglia che, prima del disastro, era solo felice in apparenza. Per di più, emerge un altro dettaglio: due genitori che non ascoltano, o meglio, non vogliono ascoltare né vedere un problema tangibile, fingendo che vada tutto bene per non affrontare la realtà.

Se un figlio non ha nessuno che lo porti a riscoprire sé stesso e le proprie attitudini che adulto sarà? Alice Miller, nota psicoanalista, attraverso il concetto di pedagogia nera, già introdotto da Katharina Rutschky, si pone questi quesiti. I figli che subiscono un ascolto poco attivo, mancanze, o svalutazioni all’interno della famiglia avranno esiti negativi nella vita adulta. O magari, non avranno proprio esiti, poiché cristallizzati in un perenne stato di blocco e indecisione: una vera e propria ineducazione alla scelta. E Claudio è un ragazzo poco ascoltato, quasi oppresso dalle scelte altrui, che tenta di fuggire da un mondo che lo gli appartiene.

Una riscoperta interiore foriera di umanità

Filippo Tirsi decide, dopo quattro mesi di silenzio, di mettersi sulle tracce del figlio scomparso. Va a vivere sulla villa che la famiglia ha presso il Lago di Como. Le immagini che l’autore dipinge con le parole appaiono suggestive; la cornice del lago, la villa desolata, Filippo che nel riguardare lo specchio d’acqua di fronte sente una stretta allo stomaco e al cuore; per la prima volta percepisce di sentire la mancanza di suo figlio, non come voleva che fosse, ma come è realmente: semplicemente lui, senza pretese di essere chi non vuole. Il romanzo è un continuo monologo interiore di un padre che si colpevolizza, sbiascica un’esistenza ormai cinerea, si rende conto di una perdita incolmabile ma non si dà per vinto.

Le sue indagini iniziano dalla stanza al lago, dove scorge un armadietto con dei liquori: un altro elemento simbolo di questa storia, un altro particolare in cui emerge come Filippo e Veronica non conoscano il figlio. Filippo cerca in lungo e in largo: sul PC personale di Claudio, sul profilo Facebook, studiando ogni minima traccia che il figlio avrebbe potuto lasciare su internet. Colpisce come la figura di Filippo, allo struggimento interiore e all’ammissione di colpevolezza, abbini una ricerca attiva e concreta non solo del figlio perduto ma anche di una porzione di sé stesso che auspica a esser migliore della versione precedente.

Tutto sembra ormai sbiadire: il lavoro in azienda, ormai rilevata da una società americana che mira a imporre le proprie regole, il posto che Filippo sente suo, come se quella mansione lo identificasse. C’è una parte del  romanzo che si lega, con un filo sottile, all’immagine da cui scaturisce tutta la storia; una scena ricorrente è quando Filippo, mentre chiede informazioni sul figlio, porge il suo biglietto da visita. Strumento che lo identifica in quanto professionista, dirigente di azienda, e quindi con un quasi dovere di rispettabilità nei suoi confronti, visto il suo status. Quel biglietto è anche un mezzo per assicurarsi rispetto; questa sua parvenza di sicurezza legata a un’ etichetta, che funge da oggetto transazionale di Winnicottiana memoria, lo induce a riflettere alla miserabilità della sua condizione e alla pressione esercitata su Claudio.

Adesso Filippo si trova a fronteggiare un figlio scomparso, un lavoro al limite, una quasi ex moglie che cerca di sostituire il figlio perduto con un giovane volenteroso che prende in casa. Se Veronica sposta il dolore su Kevin, aiutandolo con i suoi studi, e proiettando su di lui quel figlio che tanto avrebbe desiderato, Filippo raccoglie la sua sofferenza e la trasferisce su Milena. Bella, giovane, ex badante della madre, Milena, per Filippo, diventa un personaggio indiretto di riscatto. Prima cerca di farla assumere nella sua azienda, prova a farle rinnovare il contratto in un altro reparto, proponendole prima il matrimonio, poi un figlio. Ogni rapporto destinato alla procreazione costa a Filippo 30 mila euro e, pur cosciente che la donna, quasi sicuramente, lo stia prendendo in giro continua per la sua strada. Sarà la stessa Milena a fermare questo gioco pericoloso, in un secondo momento, dimostrandosi anche più leale di come il lettore possa inquadrarla prima di arrivare a un certo punto della storia.

La debolezza come punto di forza per agire

Filippo è di nuovo solo: Milena era l’appiglio e il riscatto, di quella vita ormai a rotoli. Ma il padre di Claudio, nonostante gli errori, è probabilmente il personaggio più positivo dell’intero libro. Fin dalle prime pagine ha una presa di coscienza; non cerca scappatoie né giustificazioni. Anche nel tetro momento dovuto all’abbandono di Milena, o al dissolversi della sua carriera, non demorde e  lucidamente studia sé stesso, portando alla luce una parte quasi assopita nel corso degli anni; senza, comunque, tralasciare le ricerche di Claudio. Un’attestazione di questo suo spirito resiliente è dimostrabile anche nella chiamata allo psicologo; il protagonista, dalle prime pagine, si presenta come un uomo risoluto che quasi non accetterebbe mai di farsi aiutare. Questo lasciarsi andare denota come nel corso delle pagine, Filippo si sia allontanato dal modello preconfezionato di una società che vuole soggetti in carriera e per nulla deboli.

In seguito, sarà l’incontro con Enrico, ex compagno di scuola di Claudio, che accenderà in Filippo un barlume di speranza; quello che prima sembra un raggiro, è in realtà la pista giusta da percorrere. Dopo un’incursione nella casa di Enrico, sita sull’altra sponda del lago, i pezzi del puzzle iniziano a ricomporsi; il pezzo mancante è proprio la giacca verde di Claudio. Per tutto lo scorrere delle pagine l’autore ha l’abilità di tener sospeso il lettore, una suspence che invoglia a proseguire; ma soprattutto, colui che legge, può immedesimarsi nei personaggi della storia e nei racconti, minuziosi e delicati, delle loro emozioni, debolezze e sofferenze.

 Un finale inaspettato

Nella scena finale del libro, Veronica e Filippo cenano in un simposio quasi idilliaco per la loro situazione; probabilmente, per la prima volta, si parlano davvero. Solo poche ore prima Filippo si era recato in obitorio per effettuare un riconoscimento. Ma dopo averlo confessato alla moglie, e dopo la presa di posizione di Veronica di volersi altresì recarsi lei stessa in obitorio, si parlano a cuore aperto; per la prima volta, decidono il da farsi su quella situazione che, da tempo, li sta consumando. Claudio è morto, è una decisione che devono prendere, digerire, metabolizzare senza cercare più appigli ma andando avanti.

Per un momento si percepisce un’atmosfera sollevata, leggera, di decisione ormai presa, di zavorre faticosamente abbandonate dopo tanto patire … Ed ecco il colpo di scena: suonano la porta. Quell’attimo sarà indicativo per Veronica e Filippo che, attoniti e increduli, prenderanno coscienza di tutto quello che hanno passato in quei mesi così difficili. Quel suono alla porta inaspettato sancisce il momento della verità.

 

L’autore

Paolo Avanzi nasce nel 1958 a Rosolina (Rovigo) e opera a Bresso (Milano). Laureato in Psicologia. Approda alle arte figurative, dopo studi ed esperienze in ambiti musicali e letterari. Le sua produzione iniziale è di tipo polimaterico e privilegia l’informale. Opera come promoter culturale realizzando mostre di pittura, scrivendo recensioni critiche e presentando artisti e scrittori nell’ambito di video da lui prodotti.

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