‘Il figlio smarrito’ di Paolo Avanzi, un thriller psicologico incentrato sulla perdita

Il nuovo libro di Paolo Avanzi ‘’Il figlio smarrito’’, edito Rossini editore, è un romanzo prevalentemente incentrato sulla perdita; una perdita, tuttavia, che cela l’atto di ri-conoscersi attraverso le proprie debolezze scaturite, inevitabilmente, dalla mancanza. La trama si presenta senza colpi di scena evidenti, e si basa soprattutto sui pensieri dei personaggi, tuttavia riesce a tenere il lettore incollato alle pagine fino all’ultima riga. Parola per parola, lo scrittore nato a Rovigo, è capace di far trasalire chi legge attraverso piccoli momenti, guizzi di dinamismo emotivo, che si insinuano nel corso del romanzo.  Si carpisce immediatamente come l’autore voglia mettere in risalto gli aspetti emozionali e psicologici dei suoi personaggi.

Il figlio smarrito: trama e contenuti

Filippo Tirsi è un dirigente a capo del personale sposato con Veronica, cardiologa. La coppia, da sempre concentrata sulle rispettive carriere, ha un figlio: Claudio. Un pomeriggio di luglio, il ragazzo sparisce nelle acque del Lago di Como. Nonostante le ricerche effettuate, il corpo di Claudio non si trova; il ragazzo sembra essersi volatilizzato. Da questo punto cruciale inizia la rinascita, dolorosa, di un padre assente. Il  figlio smarrito di Paolo Avanzi è prima di tutto un affresco lucido sul rapporto genitori-figli e sulla pressione sociale che, spesso, molti genitori riflettono sulla prole.

L’autore delinea un momento importantissimo della fine dell’adolescenza; quando finito il liceo si deve decidere cosa fare. Spesso, la pressione sociale, o forse una morale stantia che obbliga a voler tutti incravattati, fa in modo e maniera che molti genitori indirizzino i propri figli verso un percorso universitario; una strada che, entro pochi anni, coronerà il figlio a un membro integrante della società, con un proprio ufficio e una propria reputazione da professionista. Ed è questo che Filippo e Veronica auspicano per Claudio, un ragazzo riservato, diverso, che non ama particolarmente studiare ma che è spinto dentro a un ambiente che detesta per un’idea imposta dai genitori.  Questa imposizione è il frammento chiave di tutta la storia.

Indirettamente Avanzi fa percepire al lettore come quella in cui si è imbattuto sia una famiglia che, prima del disastro, era solo felice in apparenza. Per di più, emerge un altro dettaglio: due genitori che non ascoltano, o meglio, non vogliono ascoltare né vedere un problema tangibile, fingendo che vada tutto bene per non affrontare la realtà.

Se un figlio non ha nessuno che lo porti a riscoprire sé stesso e le proprie attitudini che adulto sarà? Alice Miller, nota psicoanalista, attraverso il concetto di pedagogia nera, già introdotto da Katharina Rutschky, si pone questi quesiti. I figli che subiscono un ascolto poco attivo, mancanze, o svalutazioni all’interno della famiglia avranno esiti negativi nella vita adulta. O magari, non avranno proprio esiti, poiché cristallizzati in un perenne stato di blocco e indecisione: una vera e propria ineducazione alla scelta. E Claudio è un ragazzo poco ascoltato, quasi oppresso dalle scelte altrui, che tenta di fuggire da un mondo che lo gli appartiene.

Una riscoperta interiore foriera di umanità

Filippo Tirsi decide, dopo quattro mesi di silenzio, di mettersi sulle tracce del figlio scomparso. Va a vivere sulla villa che la famiglia ha presso il Lago di Como. Le immagini che l’autore dipinge con le parole appaiono suggestive; la cornice del lago, la villa desolata, Filippo che nel riguardare lo specchio d’acqua di fronte sente una stretta allo stomaco e al cuore; per la prima volta percepisce di sentire la mancanza di suo figlio, non come voleva che fosse, ma come è realmente: semplicemente lui, senza pretese di essere chi non vuole. Il romanzo è un continuo monologo interiore di un padre che si colpevolizza, sbiascica un’esistenza ormai cinerea, si rende conto di una perdita incolmabile ma non si dà per vinto.

Le sue indagini iniziano dalla stanza al lago, dove scorge un armadietto con dei liquori: un altro elemento simbolo di questa storia, un altro particolare in cui emerge come Filippo e Veronica non conoscano il figlio. Filippo cerca in lungo e in largo: sul PC personale di Claudio, sul profilo Facebook, studiando ogni minima traccia che il figlio avrebbe potuto lasciare su internet. Colpisce come la figura di Filippo, allo struggimento interiore e all’ammissione di colpevolezza, abbini una ricerca attiva e concreta non solo del figlio perduto ma anche di una porzione di sé stesso che auspica a esser migliore della versione precedente.

Tutto sembra ormai sbiadire: il lavoro in azienda, ormai rilevata da una società americana che mira a imporre le proprie regole, il posto che Filippo sente suo, come se quella mansione lo identificasse. C’è una parte del  romanzo che si lega, con un filo sottile, all’immagine da cui scaturisce tutta la storia; una scena ricorrente è quando Filippo, mentre chiede informazioni sul figlio, porge il suo biglietto da visita. Strumento che lo identifica in quanto professionista, dirigente di azienda, e quindi con un quasi dovere di rispettabilità nei suoi confronti, visto il suo status. Quel biglietto è anche un mezzo per assicurarsi rispetto; questa sua parvenza di sicurezza legata a un’ etichetta, che funge da oggetto transazionale di Winnicottiana memoria, lo induce a riflettere alla miserabilità della sua condizione e alla pressione esercitata su Claudio.

Adesso Filippo si trova a fronteggiare un figlio scomparso, un lavoro al limite, una quasi ex moglie che cerca di sostituire il figlio perduto con un giovane volenteroso che prende in casa. Se Veronica sposta il dolore su Kevin, aiutandolo con i suoi studi, e proiettando su di lui quel figlio che tanto avrebbe desiderato, Filippo raccoglie la sua sofferenza e la trasferisce su Milena. Bella, giovane, ex badante della madre, Milena, per Filippo, diventa un personaggio indiretto di riscatto. Prima cerca di farla assumere nella sua azienda, prova a farle rinnovare il contratto in un altro reparto, proponendole prima il matrimonio, poi un figlio. Ogni rapporto destinato alla procreazione costa a Filippo 30 mila euro e, pur cosciente che la donna, quasi sicuramente, lo stia prendendo in giro continua per la sua strada. Sarà la stessa Milena a fermare questo gioco pericoloso, in un secondo momento, dimostrandosi anche più leale di come il lettore possa inquadrarla prima di arrivare a un certo punto della storia.

La debolezza come punto di forza per agire

Filippo è di nuovo solo: Milena era l’appiglio e il riscatto, di quella vita ormai a rotoli. Ma il padre di Claudio, nonostante gli errori, è probabilmente il personaggio più positivo dell’intero libro. Fin dalle prime pagine ha una presa di coscienza; non cerca scappatoie né giustificazioni. Anche nel tetro momento dovuto all’abbandono di Milena, o al dissolversi della sua carriera, non demorde e  lucidamente studia sé stesso, portando alla luce una parte quasi assopita nel corso degli anni; senza, comunque, tralasciare le ricerche di Claudio. Un’attestazione di questo suo spirito resiliente è dimostrabile anche nella chiamata allo psicologo; il protagonista, dalle prime pagine, si presenta come un uomo risoluto che quasi non accetterebbe mai di farsi aiutare. Questo lasciarsi andare denota come nel corso delle pagine, Filippo si sia allontanato dal modello preconfezionato di una società che vuole soggetti in carriera e per nulla deboli.

In seguito, sarà l’incontro con Enrico, ex compagno di scuola di Claudio, che accenderà in Filippo un barlume di speranza; quello che prima sembra un raggiro, è in realtà la pista giusta da percorrere. Dopo un’incursione nella casa di Enrico, sita sull’altra sponda del lago, i pezzi del puzzle iniziano a ricomporsi; il pezzo mancante è proprio la giacca verde di Claudio. Per tutto lo scorrere delle pagine l’autore ha l’abilità di tener sospeso il lettore, una suspence che invoglia a proseguire; ma soprattutto, colui che legge, può immedesimarsi nei personaggi della storia e nei racconti, minuziosi e delicati, delle loro emozioni, debolezze e sofferenze.

 Un finale inaspettato

Nella scena finale del libro, Veronica e Filippo cenano in un simposio quasi idilliaco per la loro situazione; probabilmente, per la prima volta, si parlano davvero. Solo poche ore prima Filippo si era recato in obitorio per effettuare un riconoscimento. Ma dopo averlo confessato alla moglie, e dopo la presa di posizione di Veronica di volersi altresì recarsi lei stessa in obitorio, si parlano a cuore aperto; per la prima volta, decidono il da farsi su quella situazione che, da tempo, li sta consumando. Claudio è morto, è una decisione che devono prendere, digerire, metabolizzare senza cercare più appigli ma andando avanti.

Per un momento si percepisce un’atmosfera sollevata, leggera, di decisione ormai presa, di zavorre faticosamente abbandonate dopo tanto patire … Ed ecco il colpo di scena: suonano la porta. Quell’attimo sarà indicativo per Veronica e Filippo che, attoniti e increduli, prenderanno coscienza di tutto quello che hanno passato in quei mesi così difficili. Quel suono alla porta inaspettato sancisce il momento della verità.

 

L’autore

Paolo Avanzi nasce nel 1958 a Rosolina (Rovigo) e opera a Bresso (Milano). Laureato in Psicologia. Approda alle arte figurative, dopo studi ed esperienze in ambiti musicali e letterari. Le sua produzione iniziale è di tipo polimaterico e privilegia l’informale. Opera come promoter culturale realizzando mostre di pittura, scrivendo recensioni critiche e presentando artisti e scrittori nell’ambito di video da lui prodotti.

Ricordando la poetessa Antonia Pozzi a 110 anni dalla sua nascita

Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 Febbraio 1912. Figlia di Roberto Pozzi, rinomato avvocato, e della contessa  Lina Cavagna Sangiuliani trascorre un’infanzia serena e ricca di stimoli intellettuali. Antonia, infatti, appartiene a una delle più facoltose famiglie lombarde; dapprima, risiede a Milano nei pressi di Corso Magenta. Solo nel 1917 la famiglia decide di acquistare una villa settecentesca  a Pasturo, in Valsassina (Lecco).

L’antica villa sarà un luogo cardine per Antonia: il famigerato nido pascoliano in cui amerà tornare, di volta in volta, sia per immergersi nello studio della sua biblioteca sia per trovare gli spunti adatti alla sua poesia: la natura e le adorate montagne. La parentesi adolescenziale della poetessa lombarda produce i primi tormenti all’interno del suo animo; Antonia Pozzi studia al liceo classico Manzoni, ed è proprio qui che intreccia una passione amorosa con il suo insegnante di latino e greco, Antonio Maria Cervi. La relazione dura fino al 1933 e, fino a quel periodo, i genitori cercano di osteggiarla in ogni modo.

Antonia Pozzi: un animo ipersensibile

La grande italianista Maria Corti descrive Antonia Pozzi come un vortice di ipersensibilità, dalla cui sommessa e dolce inquietudine estrapolava una potente angoscia creativa; la Corti paragonava il suo animo alla selvaggia vegetazione di montagna, quelle piante che crescono lungo i crepacci e che per necessità devono essere libere di espandersi, sempre in bilico sull’orlo dell’abisso. Una comparazione lineare con lo spirito della poetessa poiché erano proprio gli elementi presenti in natura a consolarla << più dei suoi simili>>.

Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, frequentando il corso di Filologia Moderna: gli anni universitari sono fondamentali per la giovane Antonia poiché non solo acuisce e intensifica i suoi interessi culturali ma conosce nomi importantissimi del futuro panorama letterario: i filosofi  Enzo Paci ,Remo Cantoni e Dino Formaggio. Qui stringerà un’amicizia fraterna con un altro grande nome della poesia italiana, Vittorio Sereni. Di lui, la Pozzi, dirà:

<<Quell’essere di sesso diverso, così vicino che pare abbia nelle vene lo stesso tuo sangue, che puoi guardare negli occhi senza turbamento, che non ti è né di sopra né di fronte, ma a lato, e cammina con te per la stessa pianura>>.

Si laurea con Antonio Banfi nel 1935, discutendo una tesi su Gustave Flaubert.

 

Le leggi razziali e le prime avvertenze di cupa inquietudine

Antonia viaggia, coltiva la passione della fotografia, ama le escursioni in bicicletta immersa nella natura, progetta un romanzo storico sulla Lombardia e studia il tedesco, l’inglese e il francese. Tuttavia, appartengono a questo momento storico le prime sfumature di cupa inquietudine.

Antonia sente che il clima politico si è incupito; quasi profetica, immagina la tragedia, la sente avanzare. Nel 1937, nel tentativo di trovare un equilibro, ricostruire sé stessa ed emanciparsi dai genitori, inizia a insegnare letteratura presso l ‘Istituto Schiaparelli di Milano. Dopo aver trascorso l’estate del 1938 fra Pasturo e Misurina, progettando il grande romanzo storico lombardo che aveva in mente, l’avvento delle Leggi razziali nell’autunno 1938 si  scaraventa ingiustamente contro molti dei suoi amici, alcuni dei quali espatriano o si trasferiscono.

La sua migliore amica, Elvira Gandini, si è sposata e si è trasferita in Valtellina; un’altra sua cara amica, Lucia Bozzi, insegna a Brescia. Quasi accorata e impotente scrive al suo caro amico Vittorio Sereni, costretto a frequentare un corso ufficiali presso Fano:

«Forse l’età delle parole è finita per sempre».

Una frase d’effetto che, sicuramente, si riferiva all’angoscia provata per la situazione cupa del tempo, ma che probabilmente presagiva anche quel gesto che, di lì a poco, avrebbe compiuto. Poco prima del suo suicidio si dichiara all’amico e filosofo Dino Formaggio; Formaggio le dirà che, nonostante l’affetto, quel loro rapporto non potrà mai essere contraddistinto dal sentimento amoroso. Il 2 dicembre 1938, come consuetudine, si reca a scuola; alcuni ragazzi la sorprendono mentre piange, tacitamente.

Sono le 11.00  quando dichiara di avere un malore e, dopo aver salutato gli allievi intimandoli a essere buoni, si dirige nella periferia milanese, presso Chiaravalle. Si adagia, leggiadra, sul prato; tra la neve di quella gelida mattina di dicembre, ingurgita una pesante dose di barbiturici e aspetta che la colga la morte. Un contadino la intravede: tuttavia, è ormai agonizzante e a nulla servono i soccorsi. Muore la stessa sera, il 3 dicembre nella sua casa.

Antonia aveva premeditato quel gesto, probabilmente divorata da un malessere vivido e fattosi carne, a poco a poco. Lascia tre messaggi: uno all’amico amato, Vittorio Sereni, in cui trascrive una sua poesia, Diana; uno a Dino Formaggio; l’ultimo ai genitori:

‘’Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. […] Direte alla Nena –  l’amata nonna –  che è stato un male improvviso, e che l’aspetto. Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. La vostra Antonia’’.

Una poetica trasfigurata: inquietudine, tragedia personale e asciutte parole

Dopo il suicidio di Antonia, il padre racconta che la scomparsa della figlia è da imputare a una polmonite. Roberto Pozzi, per rendere lindo il ricordo della figlia, decide di pubblicare la prima raccolta di Antonia; elogiata dalla critica e dallo stesso Montale, presto ci si rende conto di qualcosa di oscuro: i testi di Antonia sono stati manipolati.

Il padre, infatti, prima di pubblicare le poesia ha effettuato una revisione tagliando i versi più scabrosi o che potessero inficiare il ricordo della stessa Antonia e della famiglia. Un’evidenza palese, perché quei tagli riemergono prepotenti, svilendo profondamente il vero pensiero della giovane poetessa lombarda. Sarà, agli inizi degli anni ’80, Onorina Dino a documentarsi sui manoscritti originali della poetessa riportando i suoi versi agli antichi splendori conferiti da Antonia. La poesia della Pozzi è, infatti, essenziale, scabra, asciutta: nelle sua parole coesistono gli echi dell’espressionismo tedesco e la semplicità del crepuscolarismo. E’ l’elemento naturale a non mancare mai. In Prati (1931) dice la Pozzi:

Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.

Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.

Antonia Pozzi si serve delle immagini della natura per far congiungere come ponte dorato, al loro interno, il riflesso dei suoi sentimenti. Il legame con l’elemento natura si nota anche con un’espressione che, quasi ridondate, ritorna in molti dei suoi componimenti; l’universo lirico pozziano si schiude interamente nell’immagine del cielo, simbolo di ascesi, di brama di luce, di infinito e contemplazione.

Il suo è quasi un tendere costantemente alla luce, una ricerca di bagliore quasi in contrasto con una vita punteggiata di malinconie e delusioni. La poetica è luminosa composta da grovigli esistenziali squarciati da baluginii luminosi: le parole e la natura. E’ una poesia tragica, che non si oppone ma si rassegna al tempo in un’attesa angosciante fatta di amori svaniti e animi turbati: Antonia è la poetessa del silenzio, ossimoro con la sua costante ricerca di luce.

La vita, adesso, è percepita come un nulla: Antonia Pozzi non regge i sentimenti contrastanti che la dilaniano ed è alla continua ricerca di una fede, un sentimento religioso che lenisca il suo dolore. Nella lirica  Grido del 1932 si scorge tutta la sua impotenza, la resa di una donna alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi:

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono.

In Confidare del 1934, troviamo i tre elementi caratterizzanti la sua poetica: la ricerca di fede, la luce costante, la natura:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.

Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.

Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.

 

L’indissolubile legame con la natura, una geografia lirica alla costante ricerca di luce

La natura è lo specchio del mondo in cui Antonia trova conforto e si riflette, mescolando pulsioni di vita e di morte in un continuo dialogo dei contrari, testimonianza di un’anima imbevuta di oscurità ma anelante al bagliore, sinonimo di eventuale e auspicato calore umano. La lirica Bellezza del 1934 è il manifesto della sua anima, dove la sua amata natura e la sua continua ricerca si susseguono in immagini arcadiche e bucoliche, le uniche capace di lenire le sofferenze di Antonia:

Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote.

Ti do me stessa,
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive
tra superstiti colonne
e ulivi e spighe.

Ti do me stessa,
i meriggi
sul ciglio delle cascate,
i tramonti
ai piedi delle statue, sulle colline,
fra tronchi di cipressi animati
di nidi –

E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch’io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –

 

Nella lirica Periferia del 1938, dedicata alla periferia milanese dove faceva volontariato in Via dei Cinquecento, Antonia esprime tutta la sua paura per la vita dicendo << ho paura dei tuoi passi fangosi, cara vita>>; eppure emerge la sottile e reiterata sensibilità della sua anima: le fabbriche  avanzano senza lasciar spazio alla natura e ai suoi elementi soffocati dal cemento:

E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.

Il silenzioso avanzamento delle fabbriche, come un rombo distruttivo dal passo felpato che sovrasta la natura, provoca in Antonia un turbamento doloroso; l’uccisione della sua fonte di consolazione primaria che scalpita, nella potente immagine che dà delle betulle spaesate di fronte a un’irruzione senza sosta di elementi artificiali e asettici. La poesia di Antonia di destreggia in un quotidiano scolorito, fatto di espressioni rudi, linguaggi ruvidi e realistici: la vera Antonia è quella della lirica di Via dei Cinquecento, dove soffre ed empatizza con le sofferenze altrui.

La sua è una voce lucida, attenta, dedita a cogliere le sfumature; un’anima intrisa di tormento che brama leggerezza, come scriverà poi nella lirica Desiderio di cose leggere del 1934:

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’altra scogliera
di stelle.

Antonia Pozzi, quasi profetizzando la sua fine appena quattro anni dopo, libera la sua anima proprio fra i giunchi di un prato, su una riva gelata con il volto rivolto al sua amato cielo. Una delle poetesse più dimenticate del ‘900, riscoperta postuma, la cui vicenda personale ha sporcato e svilito la sua produzione alta, lirica, visionaria,  come spesso accade alle anime di un certo calibro.

 

 

 

Vincenzo Cardarelli, poeta inquieto alla ricerca del mondo dell’infanzia

Vincenzo Cardarelli, fra le più grandi personalità letterarie della poesia del ‘900, nasce l’1 maggio 1887 in provincia di Viterbo. La sua è una famiglia di origini modeste; il padre, Angelo Romagnoli, gestisce un piccolo caffè mentre la madre Giovanna, è una presenza sospesa e ambigua nella vita del piccolo Vincenzo poiché praticamente assente nella sua vita. Il vuoto lasciato dall’assenza della figura materna e i suoi problemi fisici contribuirono a intaccare la sua produzione artistica. Le sue poesie, infatti, sono versi che aleggiano nel ricordo: emerge chiaramente la sofferenza percepita dal Cardarelli circa il suo rapporto conflittuale con il padre ma, anche, per la sua difficile condizione familiare.

Le opere di Cardarelli sono in bilico perenne; un contrasto di odio e amore per la figura paterna che sì, riconosce come tale, ma quasi disconosce in quanto il genitore non comprende la sensibilità artistica del figlio. Desiderio del padre era infatti che il giovane Vincenzo diventasse un commerciante; a tal proposito, gli impedisce di continuare in modo regolare gli studi. Solo nel 1906, alla morte del padre e dopo aver intrapreso lavori fra loro differenti, inizia a scrivere per l’Avanti come correttore di bozze e critico. In seguito, lavora per La Voce e, nello stesso tempo, si trasferisce a Firenze; mentre, nel 1914 avvia la stesura dei Prologhi.

 

Cardarelli: produzioni inquiete e influenze dal simbolismo francese

A questo periodo appartengono le sue prime opere; le prime produzioni di Cardarelli rispecchiano totalmente la veridicità della sua storia personale. Sono versi permeati di sgomento, inquietudine, agitazione, malinconia. Cardarelli legge Leopardi e Pascoli: i due grandi poeti lo influenzano in gran parte della sua produzione. Nel 1914 vince una borsa di studio e  parte per la Germania; tuttavia, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, arresta il desiderio di proseguire finalmente il percorso di studi tanto sognato.

Arriva a Lugano dove si ferma per cinque mesi, in seguito agli orrori della Grande Guerra, ma non è richiamato alle armi a causa di una malformazione alla mano sinistra; in condizioni economiche precarie fonda la rivista La Ronda nel 1919,  sempre attento a tenersi ben lungi dalla politica.

Purtroppo, chiude nel 1923. La Prima Guerra Mondiale, le influenze letterarie e la storia personale del poeta danno vita a una produzione letteraria corposa, che diventa sensibile e aulica anche  grazie alle influenze del simbolismo francese. Cardarelli apprezza e legge  BaudelaireVerlaine e Rimbaud. Dopo poco tempo, parte per la Russia con lo scopo di osservare il contesto, la società e il mondo sovietico scrivendo per il quotidiano romano Il Tevere.

 

Una poetica imbevuta di tormento e la ricerca costante del mondo dell’infanzia

L’inquietudine, il tormento, l’eterno moto dell’anima non lo abbandonano mai. A ridosso della Seconda Guerra Mondiale è paralizzato in una rete di concezioni che si intersecano con i grovigli della sua anima claudicante, i ricordi dell’infanzia, e i pensieri di un presente funereo. Vive in mondo parallelo, quasi in un tempo fatto di sospensione; ogni giorno si fa portare al caffè Strega vicino casa sua, dove rimane galleggiante nei suoi pensieri.

La ricerca del mondo infantile lo attanaglia, così come la figura di una madre assente che, nonostante il tempo e il dolore, prova a ricercare in una dimensione che fu. Decide quindi di recarsi nella sua città natale tentando di immergersi e rivivere le atmosfere della sua infanzia, rimanendone deluso. Torna a Roma nel 1945 ma l’angoscia e la malinconia protagoniste della sua vita, si acuiscono ancor di più; sfumature palesi nella sua opera datata 1948 e vincitrice del Premio Strega: “Villa Tarantola”. Muore a Roma il 18 giugno del 1959, all’età di 72 anni.

‘’Crudele addio’’, l’abbandono della figura materna foriero di fragilità future

La poetica di Cardarelli è interamente permeata dalla mancanza della madre. Il dolore di quest’assenza si riflette in ogni verso, quasi come un canto di dolore sopito che infiamma l’anima del poeta. Nonostante il tempo trascorso per Vincenzo Cardarelli la mancanza della figura materna è una ferita che pulsa, non si rimargina; nel dolore lancinante c’è sempre spazio ai quesiti che, il poeta ormai adulto, continua a porsi con un modo di fare ingenuo e delicato quasi come se una parte di lui fosse rimasta cristallizzata nel momento esatto dell’abbandono della madre.

Il dolore che Cardarelli esprime nei suoi versi, non è crudele, rabbioso, auspicante vendetta. Si potrebbe paragonare a una mistura: un veleno fatto di angoscia, tristezza, quesiti senza risposta che corrodono l’intimo, sgretolano l’anima. Quello che balza subito allo sguardo è la dignità immersa nella compostezza del dolore che, questo poeta dall’animo delicato, non smette di propagare. Da questi sentimenti contrastanti nasce la lirica ‘’Crudele Addio’’, il cui protagonista è un bimbo solo deriso dai coetanei:

Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.

 

Facile pensare che si trattasse di una poesia autobiografica in quanto, lo stesso poeta, era schernito per la sua umile condizione d’origine e la sua malformazione all’arto superiore. Il dolore derivante dalla mancanza non lo pone in una condizione di ricerca attiva; non c’è nessun desiderio di trovare un panacea, un unguento miracoloso, ai suoi mali.

La sofferenza per l’abbandono è talmente forsennata e decisa che crea un vuoto, un vortice in cui è possibile scorgere solo un unico sentimento: un’angosciata rassegnazione. Questa solitudine iniziata con l’abbandono della madre si protrae anche nelle scelte sentimentali della vita del poeta; molte donne squarciano il suo animo, mettendo fulmineamente fine ai legami con Cardarelli. Di animo troppo sensibile, si lega a donne mondane, forti e probabilmente troppo indipendenti per un uomo che ricercava, come appunto un bambino, un affetto smisurato. Le sue relazioni, infatti, sono il prodotto di questa mancanza, questa fauce in cui scorre impetuosa una mestizia primordiale che per tutta la vita non riesce ad arginare.

 

Le donne di Cardarelli e la fobia del rifiuto

La benzina sentimentale e poetica che aiuta Vincenzo Cardarelli nella stesura delle sue opere, oltre alla sofferenza per la figura materna, sono proprio le relazioni naufragate. Le donne cantate da Cardarelli sono esseri evanescenti, ambigue, fluttuanti: si riflettono nei suoi versi quasi nell’anonimato ed è interessante notare come, in ogni poesia, sembra che Cardarelli parli di storie a senso unico, quasi immaginate e illusorie. Solo di una donna si conosce l’identità: Sibilla Aleramo. Il rapporto con questa personalità letteraria sopra le righe è magistralmente riassunto nella lirica ‘’Attesa’’:

Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.

 

Le palesi differenze caratteriali fra i due portano il rapporto a incrinarsi: lui timido, fragile, lei spregiudicata, indipendente. La separazione è, adesso, un’ulteriore fonte di dolore per il poeta; c’è l’amarezza di aver creduto in un rapporto, nelle promesse che lo stesso amore, all’inizio idilliaco, aveva dichiarato. Adesso il naufragio è un’ennesima separazione, quindi una disfatta: per Cardarelli le relazioni sono quasi sempre motivo di rivalsa che, adesso nella catastrofe, generano un senso di fallimento. Dopo un’ulteriore scommessa si ritrova in solitudine e con sentimenti contrastanti di chi ama ma, per scelta altrui, è costretto a non amare più per tutelare la propria anima, le proprie fragilità.

I timori del poeta, nel tempo, si intensificano sempre di più fino a diventare delle vere e proprie nevrosi e sconfinare nella patologia. Cardarelli inizia a soffrire di una vera e propria fobia del rifiuto, addirittura arrivando a presagire segnali di abbandono in ogni sua relazione; i presagi e i segni che vede sono sempre più intensi, dolorosi e angoscianti. Il non sentirsi adatti, la rassegnazione di una vita fatta di abbandoni e partenze, lo scorrere del tempo; le immagini fluttuanti del ricordo misto a malinconia riverberano la poetica e l’animo del Cardarelli. Nella lirica ‘’Abbandono’’ si coglie quel sentimento di impotenza tipico del poeta, sussurrato in modo sommesso, tacito, come se il suo animo fosse cosciente che, la propria esistenza, non potesse riservargli nient’altro che questo.

Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa, là, verso oriente.
Ma sono rimasti i luoghi che ti videro
e l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.

 

Cardarelli riesce a cogliere il tormento e il senso di impossibilità che si ripercuote su un individuo quando è costretto, per decisione altrui, a subire la fine di una storia.  Ma, nonostante tutto, il poeta non mostra la sua collera: resta nell’attesa di un qualcosa, una speranza vana nonostante le ‘’ore deserte’’; la solitudine  lasciata dall’amata è adesso viva, un sepolcro in cui la mancanza si è fatta morte ma che Cardarelli non abbandona e, anzi, attende facendo la guardia a un’assenza.

 

Cristina Campo, la poesia, le fiabe e il mondo letterario di un animo solitario

Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce a Bologna il 29 Aprile 1923. Fin dalla tenera infanzia, Cristina è figlia del celebre compositore musicale Guido Guerrini e di Emilia Putti, nipote di Enrico Panzacchi, poeta e critico d’arte, e sorella di Vittorio Putti;  noto chirurgo ortopedico.

A causa di una congenita malformazione cardiaca che rende, da sempre, precaria la sua salute Cristina cresce in una naturale solitudine: lontana dai coetanei e seguendo un percorso scolastico frammentato. Vive insieme alla famiglia a Bologna fino al 1925; successivamente a Parma e, nel 1928,  a Firenze città in cui Guido Guerrini dirige il conservatorio Cherubini.

L’ambiente culturale fiorentino è determinate per il percorso di Cristina Campo: a Firenze incontra il traduttore Leone Traverso affettuosamente soprannominato dalla poetessa Bul. Fondamentali sono gli incontri con Mario Luzi e Gianfranco Draghi in quanto introducono la Campo al pensiero di Simone Weil: Cristina Campo fu fra i pochi intellettuali a divulgare, in seguito, il pensiero di Simone Weil in Italia. A Firenze conosce anche Gabriella Bemporad, Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell che, successivamente curerà la pubblicazione delle sue opere.  Nella sua vita privata la poetessa bolognese frequentò Mario Luzi. A tal proposito, Margherita Dalmati affermò sul loro rapporto:

«I suoi amori erano tempestosi, sfrenati – e condannati. Nessuno può resistere, in continua tensione, a un volo senza stasi […] Il grande amore, e l’unico della sua vita, fu un’altra persona, quella del Moriremo lontani, un amore impossibile poiché la persona amata aveva tutte le virtù cantate dai poeti; inoltre lei era libera, lui no […] Parlava troppo e a voce alta – questo tradiva la solitudine della sua infanzia».

Negli anni ’50 è Gianfranco Draghi che la esorta a pubblicare i suoi primi saggi su ‘’ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino’’. Nel 1955, invece, si trasferisce definitivamente a Roma. Sempre nei primi anni ’50 lavora a un’antologia di scrittrici:, Il Libro delle ottanta poetesse, una raccolta con le 80 poetesse che, secondo Cristina, rappresentano il culmine della poesia femminile. Purtroppo, questa antologia, non sarà mai pubblicata.

Nel 1958 incontra lo scrittore, filosofo e conoscitore di dottrine esoteriche Elémire Zolla; con lui avvia un lungo sodalizio. Il periodo storico vissuto da Cristina Campo è disseminato da tensioni politiche, per questo tutta la cultura, e allo stesso modo la poesia, si rivolge all’impegno sociale collimando nello sperimentalismo.

Sono gli anni  delle avanguardie storiche, dell’immediatezza. La sua scrittura è considerata elitaria, la sua formazione intellettuale dovuta a una recondita riservatezza e a una frequentazione di un numero ristretto di amicizie la porta ad avere disguidi e incomprensioni; è il caso dell’acceso contrasto con un’altra scrittrice influente nel panorama della letteratura italiana, Anna Banti. A quel tempo, la Banti, dirige ‘’Paragone’’ una rivista con cui Cristina Campo collabora come traduttrice e dove pubblica la traduzione delle poesie di John Donne.

La poetessa che rifugge la gloria: il rito della traduzione

Approssimativo e impreciso collocare la figura di Cristina Campo esclusivamente nella poesia. Cristina  scrive fiabe, saggi, epistolari ed è un’ottima traduttrice: traduce testi della più alta letteratura inglese come Virginia Woolf, Emily Dickinson, Katherine Mansfield. Tradurre, per la poetessa schiva, è un vero e proprio rituale: l’azione del rendere un’opera in un’altra lingua è connotata di sacralità.

Tradurre è far riflettere le emozioni,  le tensioni, le inquietudini dell’autore originale che, colto dall’impulso poetico, manifesta di getto; è mediare con lo spirito dell’autore, in tutta la sua più totale purezza.

Il processo di traduzione per  Cristina Campo è frapporsi oggettivamente fra le emozioni e le parole del legittimo autore senza ‘’sporcare’’ il lavoro poetico con i propri sentimenti. Cristina scrive per amore della stessa poesia e della scrittura: non ama i salotti mondani, i premi, le auto-celebrazioni. Sceglie, appositamente, un nome d’arte e firma molte altre opere con ulteriori pseudonimi: da Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca.

I suoi versi sono essenziali, così come le parole che li compongono: è ossessionata dall’idea di perfezione e la sua scrittura emana una singolare raffinatezza antica. Un linguaggio diretto, essenziale e preciso che pone le sue strofe in analogia con gli haiku, componimenti giapponesi noti per la loro brevità. Questi i versi di Passo d’Addio, la prima raccolta della poetessa pubblicata nel 1956:

Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.

Trema l’ultimo canto nelle altane
dove il sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.

E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.

Quella di Cristina Campo per la perfezione dei testi è una passione febbrile: soffre di insonnia, si alza a mezzogiorno e lavora alle sue opere fino all’alba. Scrive, traduce, legge, rielabora e rifugge con disprezzo tutta la patinata mondanità che la circonda. In un’intervista per il Tempo, datata 1972, dice di sé stessa:

«Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno».

 

Una poetica priva di orpelli e l’amore verso gli ultimi

Il suo stile scabro e privo di fronzoli la induce a far coincidere la parola con la sua semantica più viscerale e profonda, tenendosi ben lontana da qualsiasi contesto scontato, patinato e superfluo. Uno stile di vita che coincide, soprattutto, nei suoi testi: è nella solitudine che si ha l’ascesi per l’ispirazione poetica, non mescolandosi alla massa, alla mediocrità, alle mode.

Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.

 

Poesia di  Hèctor Murena tradotta da Cristina Campo, La tigre assenza (Adelphi, 1991)

 

Di animo sensibile era solita accogliere gli ultimi in casa dando loro le cure dovute: profughi, barboni, donne in difficoltà, poveri. Detesta il consumismo, ama i perdenti, gli ultimi, coloro che non hanno alcuna voce. Cristina Campo non è una donna capace di scendere a compromessi, non se questo significa indurre in oblio una parte di sé autentica, pura. Determinata, raffinata, sopra le righe e forte nonostante la sua riservatezza non si abbassa mai alle dinamiche del tempo. A questo proposito non riesce a inserirsi nella società letteraria italiana di quell’epoca; troppo preziosa, elegante, fuori dagli schemi. Non scrive come gli altri, né nello stile, né nei contenuti. Attinge le sue ispirazioni da un’altra parte con una fierezza appartenente solo alle anime incontaminate e  passionali, allo stesso tempo. Nel 1953 scrisse a Margherita Dalmati:

« La mia lingua, lo so bene, è armoniosa, troppo, persino. È proprio questo che a me non va.  Io faccio dell’oreficeria,mentre si deve lavorare la pietra ».

 

Cristina Campo, la poetessa e il simbolismo delle fiabe: l’infanzia, condizione necessaria per la poesia

Cristina resterà sempre imbrigliata nel mondo meraviglioso e mistico delle fiabe, attingendo da esse il suo universo letterario e gran parte della sua poetica:

«A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile».

Nel 1962 tratta il tema della fiaba nella raccolta di saggi Fiaba e Mistero. Cristina Campo attribuisce al genere fiabesco sfumature ben più complesse, non rilegandolo a una narrazione infantile. La sua produzione poetica, infatti, verterà principalmente sulla fiaba, il destino, il misticismo, i simboli e i miti.

Cristina non è una poetessa fruibile, non ha una poetica da ‘’mercato letterario’’ né è di suo interesse esserlo; non frequenta i salotti o le associazioni di alta letteratura: scrive, immagina e produce grazie al suo mondo interiore fatto di riflessioni opalescenti. Per comprendere la poetica dell’autrice è utile citare Diario Bizantino, testo composto da quattro sezioni da cui ben si può evincere la varietà e la sensibilità del suo mondo interiore. L’incipit di quest’opera basta già a tracciare la personalità della Campo:

Due mondi – e io vengo dall’altro.

Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.

In questi versi l’autrice lega la conoscenza acquisita per mezzo della fiaba alla brama necessaria di un ritorno alle origini, ai luoghi dell’infanzia. Una teoria esplicata in modo più dettagliato nel saggio In medio coeli.

Nello stesso saggio la Campo connota alla ‘’perfetta poesia’’ il potere di ricondurre l’uomo a un ‘’sapere antichissimo’’, lo stesso sapere in cui scalcia, prorompe e si agita un primordiale ‘’tripudio infantile’’. In Cristina Campo coesistono le fiabe e la fede: l’autrice accomuna fate ed eroi alle religioni con un obiettivo comune, cercare risposte sui perché della vita; la nascita, l’amore, la morte, l’esistenza tutta.

Le lezioni apprese dalle fiabe ascoltate da bambini grazie ad un’insegnante, i genitori, o una nonna è una guida essenziale che aiuta nella crescita e nella formazione; a superare pericoli e fronteggiare ostacoli: il tutto, mantenendo un necessario legame con l’infanzia. E sarà proprio grazie alla fiaba che un adulto comprenderà il valore e la semantica dei simboli.

Una teoria già acclamata da noti autori di fiabe come Hans Christian Andersen,  il cui obiettivo è educare tramite la fiaba o da Jean de La Fontaine. Quello delle fiabe è quindi un mondo sì magico e ricco di allegorie, ma anche colmo di analogie con il concreto, il reale e il percorso psicologico di ogni essere umano. Diario bizantino è solo la rielaborazione in versi del pensiero e delle teorie sulla fiaba e sul  mondo letterario di Cristina Campo, in cui a predominare è il misticismo e la fiaba ne è porzione centrale:

«Così, se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe».

 

Rocco Scotellaro, poeta del mondo contadino e della lotta per il riscatto del popolo meridionale

Rocco Scotellaro nasce il 19 aprile 1923 a Tricarico, un piccolo paese in provincia di Matera. Di famiglia umile figlio di Vincenzo, calzolaio, e di Francesca Fermento, casalinga,  all’età  di 12 anni dopo i primi studi si sposta fra Matera, Roma, Potenza, e Tivoli, riuscendo a terminare gli studi classici.

Nel 1942 Scotellaro si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Roma, senza riuscire a conseguire la laurea. La guerra imminente  e la morte del padre fanno maturare in Rocco Scotellaro  l’idea di far ritorno al suo paese natale. Inizia, così, quella che probabilmente è la missione della sua breve vita.

Il poeta conosce bene la situazione disastrosa in cui vertono le condizioni dei contadini meridionali. In concomitanza agli studi avvia un’intensa attività sindacale.  Nel 1946, a ventitré anni, è eletto sindaco di Tricarico: nello stesso anno, il poeta incontra Carlo Levi che indicherà, in seguito, come suo mentore.

Nel 1950 Scotellaro è accusato di truffa e concussione dai suoi avversari politici; la cospirazione politica ai danni di Scotellaro è ben presto distrutta: il poeta, infatti, è assolto per non aver commesso alcun fatto. Questa circostanza, unita alla delusione per la mancata elezione a livello provinciale, convince Scotellaro a ritirarsi dalle scene delle politica, pur portando avanti gli impegni e gli ideali verso il popolo meridionale, dedicandosi interamente all’attività letteraria.

Nello stesso anno il poeta lucano si reca presso l’Osservatorio Agrario di Portici per compiere degli studi archeologici  sulle condizioni di vita delle popolazioni del Sud, per conto della casa editrice Einaudi. Tuttavia, il 15 dicembre 1953, muore improvvisamente stroncato da un infarto a soli 30 anni.

Scotellaro: un idealista temerario

Rocco Scotellaro è una delle maggiori personalità letterarie impegnate nelle problematiche del  Secondo Dopoguerra. Idealista, temerario, intenso: i tre aggettivi più consoni per descrivere l’anima del poeta lucano, il poeta dei contadini, degli ultimi, degli indifesi, degli ambienti rurali.

Il suo obiettivo era riscattare la popolazione contadina dai soprusi e le ingiustizie subite nel tempo. Un pensiero maturato fra il 1943 e il 1944, gli anni in cui vive la sua Basilicata assaporando la sua terra in maniera drammatica; un territorio, a quei tempi, ricco di confinanti politici come Carlo Levi, Manlio Rossi-Doria, Emilio Sereni.

L’intensità del suo impegno politico-sindacale coinvolge la popolazione a tal punto da creare un consenso omogeneo fra contadini e braccianti. Il poeta sottolinea l’importanza di una società basata sulla solidarietà internazionale, sul lavoro e sulla libertà: valori auspicabili solo secondo un modello di rieducazione politica, morale  e valoriale del popolo.

Ciò che contraddistingue l’operato politico di Scotellaro è la concretezza: la sua amministrazione coinvolge sé stesso in prima linea, insieme al popolo. Gli obiettivi principali sono la risoluzione dei problemi a favore delle persone più in difficoltà, quindi, la costruzione di ospedali, scuole e strade. La peculiarità di questo giovane poeta è proprio l’idealismo bruciante e coraggioso nei confronti della vita: i suoi ideali non sono impressi solo nei versi, ma nella vita vera, lì dove potevano esser visti.

Nella passione, nella lotta contro le ingiustizie, verso coloro che non hanno voce. Scotellaro si mette in prima linea anche nelle occupazioni delle terre rivendicando i diritti dei contadini contro lo sfruttamento dei latifondisti.

L’istruzione è un requisito fondamentale per sconfiggere i poteri forti: l’apertura delle scuole, così bramata da Scotellaro, è  l’unico modo democratico da parte dei popoli per elevarsi culturalmente. La lotta all’analfabetismo è la chiave della vittoria. Avendo vissuto gran parte della sua infanzia e molti anni dell’età adulta in un centro rurale, Rocco Scotellaro, conosce la situazione di carenza a cui è costretta a sopravvivere la civiltà contadina: condizioni igienico-sanitarie inesistenti, povertà, carenze di ogni genere. A tal proposito, si configura fra i maggiori promotori della Riforma Agraria del Sud.

 

Poetica e attività letteraria di Scotellaro: la rivendicazione di un uomo orgoglioso di appartenere a una società contadina

Le produzione letteraria di Rocco Scotellaro si concentra, per lo più, sulla poesia. E tutta la sua produzione poetica è un continuo ribadire, con orgoglio, la sua appartenenza a una società agreste, la stessa che fa affiorare i moti di lotta e passione del giovane poeta.

Gran parte delle opere  hanno avuto delle pubblicazioni postume, grazie all’impegno di Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria. Alcune opere, nel 1954, ottengono il Premio Viareggio e il Premio San Pellegrino. Fra i componimenti più noti di Rocco Scotellaro spicca  La mia bella Patria:

Io sono un filo d’erba

un filo d’erba che trema

E la mia Patria è dove l’erba trema.

Un alito può trapiantare

il mio seme lontano.

Pochi versi, leggere metafore, l’amore per gli ultimi. Una poesia potente e attuale in cui Scotellaro identifica nel filo d’erba che trema il mondo degli emarginati, dei derelitti, di chiunque viva ai confini di tutte le città; coloro che non hanno voce.

La letteratura per Scotellaro è uno strumento: la sua voce e la sua attività politica in prima linea un grido disperato verso gli assopiti del mondo. Una poesia che condanna le ingiustizie e disapprova quella civiltà industriale che ha costretto alla forca un’antica civiltà contadina, anch’essa con una propria dignità. Il suo amore verso l’attività poetica risale, tuttavia, all’adolescenza. Nel 1940 compone Lucania:

M’accompagna lo zirlio dei grilli

e il suono del campano al collo

d’un’inquieta capretta.

Il vento mi fascia

di sottilissimi nastri d’argento

e là, nell’ombra delle nubi sperduto,

giace in frantumi un paesetto lucano.

 

In questa lirica si intravede il poeta della natura: bucolico, pastorale, agreste. L’ambientazione descritta nei versi crea un’atmosfera quasi arcadica, un’armonia di visioni realistiche  e fantastiche, al contempo, che esalta un’esistenza bucolica di virgiliana memoria.

 

Cambiamenti stilistici: realismo, nostalgia e aspri versi

La guerra, gli stenti della vita del tempo, le asperità portarono il giovane poeta a un cambiamento di rotta stilistica. Le composizioni, ormai, perdono la letizia  e la serenità di una volta tingendosi di criticità e realismo. La guerra e la nostalgia del paese lontano portano alla nascita di “Passaggio alla città” e “La fiera”.

Tuttavia, da questo sconforto nascono le gemme del riscatto politico e sociale verso la civiltà contadina. La lirica di questo periodo assume un tono quasi epico. Un esempio concreto è Sempre nuova è l’alba, definita da Carlo Levi “Marsigliese del movimento contadino”:

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna –

l’oasi verde della triste speranza –

lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova,

perché lungo il perire dei tempi

l’alba è nuova, è nuova.

Uno spazio importante nella poetica di Scotellaro è riservato alla figura dei genitori, il padre in particolar mondo verso cui nutriva un ampio sentimento di affetto e stima.

La scomparsa improvvisa della figura paterna fu per il giovane poeta fonte di estremo dolore come attestano alcuni dei suoi componimenti dedicati alla sua figura:’’ Mio padre’’, ‘’Al padre’’, ‘La benedizione del padre’’.

L’immagine della madre è invece percepita dal poeta in modo ambivalente: in alcuni componimenti guarda la madre con compassione  e amore, quasi con tenerezza per la vita che è costretta a vivere.

Ne esalta le virtù evidenziando i limiti della sua condizione sociale. In altri versi emerge il rapporto conflittuale con la figura materna dove si evince un tono aspro e più deciso, come  nelle poesie ‘’A una madre’’ o ‘’Il grano del sepolcro’’.

Gli scritti in prosa

Seppur minore rispetto alla produzione poetica, Scotellaro scrisse anche delle opere in prosa che andarono, successivamente, a concretizzare tutto il suo ideale letterario futuro.

Spicca fra i primi ‘’L’uva puttanella’’, un romanzo autobiografico  iniziato nel 1950 ma, tuttavia, rimasto incompiuto a causa della morte improvvisa del poeta. Si parla della sua infanzia, del carcere, delle sue dimissioni da sindaco, nei primi capitoli; in seguito, ecco emergere le ambizioni, i sogni, gli ideali di quello che non era un tacito diario asettico di eventi personali.

La negatività degli eventi, i dispiaceri e gli sconforti vissuti sono un trampolino di lancio verso una riflessione intimistica ma anche oggettiva sul contesto storico in cui il poeta viveva. Protagonisti sono quel sottobosco di personaggi degli ambienti rurali; il sottoproletariato che, Scotellaro, ben conosce e paragona ad acini d’uva maturi ma fin troppo piccoli.

Fra pensieri, tribolazioni  e sofferenze Scotellaro tenta di unire emozioni a soluzioni. ‘’Contadini del sud’’ è, invece, un’indagine sociologica rimasta incompiuta in cui l’autore tratteggia il profilo della civiltà contadina contraddistinto dalla sofferenza  e dalla voglia estrema di riscatto.

 

 

 

 

 

 

 

Beppe Salvia, poeta malinconico degli ossimori e delle contraddizioni

Nato a Potenza il 10 ottobre 1954, Beppe Salvia è stato fra i più autorevoli poeti della nuova scuola romana. Un rinnovamento dell’arte poetica fatta di contrasti, ossimori, malinconia e nichilismo, senza mai perdere l’eleganza.

Alla fine degli anni ’70  pubblica le prime poesie sulla rivista Nuovi Argomenti; successivamente, pubblica le sue opere su Prato Pagano, rivista diretta da Gabriella Sica e, qualche tempo più tardi, su Braci fondata dallo stesso Beppe Salvia con Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti e Marco Lodoli.

Beppe Salvia

 

Beppe Salvia appartiene alla poesia contemporanea e a quelle personalità letterarie dalle sfumature sfaccettate come opali: Salvia decide di togliersi la vita a soli trentun anni, il 6 aprile 1985. Marco Lodoli nell’articolo Morte di un giovane poeta pubblicato su Paese Sera, il 18 aprile 1985, afferma:

«Beppe Salvia è morto a Roma, a trent’anni, gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico.»

Via del Fontanile Arenato è infatti uno zampillo di idee opalescenti, quelle di Beppe Salvia, arenate dalla troppa sensibilità, madre di una poesia lirica e tragica al contempo.

La poesia di Beppe Salvia, il realismo poetico fatto di opposti e fragilità

Un’affermazione che lega una negazione e produce una contraddizione. Questo  è lo schema poetico di Beppe Salvia, dove la negazione non è un atto di repellenza alla vita, bensì un’affermazione sulla crudeltà della vita stessa, incapace e illusoria. Salvia sottolinea la perfidia e la disumanità di un’esistenza che si alimenta di opposti e di contraddizioni: l’amore e l’odio, la presenza ingombrante del pensiero della donna amata che gli insegna ad amare con la sua assenza.

La visione della vita di Salvia è scabra, priva di orpelli, concreta. Lo stesso poeta è infatti esposto a un’esistenza a tutto tondo e in tutta la sua fragilità; ed è proprio questo esporsi al realismo della vita, questa empatia con la ruvidezza dell’esistere e questa delicatezza che fortifica tutto il resto. Il poeta è nudo di fronte a tutto ciò che la vita intende presentagli: non rifugge i dispiaceri, non aggira gli ostacoli, li affronta con le sue malinconie  e debolezze umane.

Così, la sua poesia, è sacra, ruvida, concreta, malinconica e oggettiva allo stesso tempo: Salvia non si arrende alla cruda verità della vita, pur avendola ormai assimilata e interiorizzata, ma cerca di coglierne le contraddizioni e le sfumature, con chiarezza espressiva ed erudizione. C’è un componimento che, probabilmente, è il manifesto dell’anima di Beppe Salvia, nonché, della sua poetica e del suo stile. I versi di seguito sono tratti da Cuore (cieli celesti), Rotundo, 1988:

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

Sono anni tumultuosi quelli in cui vive Salvia, anni in cui l’intuizione poetica si appresta a fungere da strumento per la ricerca della verità; eppure, appare evidente come i versi di Salvia, fossero anche un ricongiungimento totale alle idee pure, semplici, ai valori di un tempo. Un ritorno all’armonia letteraria,  alla contemplazione della normalità della vita.

Analisi della poesia

Questo è, senza dubbio, un componimento in cui confluiscono numerose sensazioni contrastanti: uno scrittura quasi febbrile, nonostante citi circostanze consuete come il dolore, gli amici, le lacrime, situazioni tipicamente umane. Successivamente, un verso che quasi rompe l’iniziale malinconia per dar spazio a un’emozione aggressiva, negativa: Salvia scrive di non aver più pazienza, ma menziona anche il verbo odiare: imparare a odiare, forse, per sopravvivere?

Eppure, i due versi finali sono rivelatori: ‘’Anche a odiare ho dovuto imparare / e dagli amici e da te e dalla vita intera”. Persino una personalità così sensibile e fragile come quella di Salvia, ha introiettato automaticamente dagli eventi della vita, un’emozione così spiacevole come l’odio.

Traspare quasi un risentimento poetico e intimo in Salvia: un’impazienza scaturita da una poesia che si slega dalla sua purezza antica , per piegarsi a ideologie di potere che, quasi, la sporcano nel suo candore.

Le aspirazioni di Salvia confluiscono tutte in un auspicio che brama un’armonia universale ma che, tuttavia, non riscontrano mai un’ effettiva serenità.  Poeti dilaniati da tensioni culturali, tormenti e inquietudini, così come la loro poesia; ma anche da sofferenze personali e dolorose, come nel caso dello stesso poeta lucano che morì suicida.

La poesia di Salvia è una lirica tragica e struggente perché rivela una grande verità, valida per tutti gli uomini: l’uomo è tutto quello che è grazie agli altri, e tuttavia, diventa ciò che è senza l’altro.

 

Una poetica volta alla tensione tragica

 

‘’Ho offeso con la mia stupidità

la legge della vita, l’infinita innocenza

della sua crudeltà. Adesso ho un cuore

nobile ma la mia carne è pietra. ‘’

 La poetica di Salvia è contaminata da un’inebriante tensione tragica che procede per conferme e smentite: l’euforia iniziale delle sue poesie lascia sempre il posto a un principio di realtà che afferma tutto il contrario di ciò che, in precedenza, esplica.

La stupidità di cui parla il poeta è, probabilmente, l’ingenuità di ergersi al di sopra delle leggi della vita, quasi di riuscire a controllarle; amara illusione smentita dal verso successivo in cui Salvia non è arrabbiato con le procedure vitali, ed ecco l’ossimoro: la vita ha un’innocenza sconfinata nella sue estrema crudeltà, tanto da averlo trasformato in un animo puro per aver appreso questo tacito segreto, ma in un corpo marmoreo per parare e sconfiggere le sofferenze che il vivere gli presenta. Per Beppe Salvia non si può fuggire dalle cose del mondo:

M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.

Una poesia che sembra quasi la fotografia dell’anima del poeta: Salvia ha finalmente trovato il suo posto nel mondo, un margine claudicante, un confine a cui, ogni uomo, deve sottostare.

Ma questa idilliaca stabilità è spaccata dalla nostalgia pungente delle cose impossibili: Salvia è un nubìvago che preferisce le sue chimere a una realtà imposta. Uno scandire ritmico che procede, nel suo lirismo, realismo e tragicità, quasi a ritroso: nella poesia come, nella vita.

 

‘La cognizione del dolore’ di Gadda: una lettura psicoanalitica

La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è uno dei primi romanzi a sfondo nevrotico, oltre che il primo romanzo che diede fama all’autore.

Gadda è uno scrittore che attingerà sempre alle vicissitudini e le esperienze familiari per ispirarsi nelle sue produzioni. Ogni libro è una trasposizione delle difficoltà affrontate nel corso della sua esistenza.

Seguendo schemi di lettura freudiani, Gadda, coglie nella propria infanzia un radicato nucleo traumatico che si esplicherà in maniera superba ne La cognizione del dolore.

Nei suoi contenuti, nel continuo richiamo alla figura materna e alle figure ”perbeniste”  che pullulano in quell’Italia marchiata dal fascismo – e al fascismo stesso! – si riscontrerà sempre e comunque un fondo nevrotico all’interno della sua scrittura.

Carlo Emilio Gadda, quando dalla sofferenza scaturisce la letteratura

L’infanzia di Gadda si cristallizza in un’immagine: quella del padre che,  per costruire la famigerata villa in Brianza, si porrà in una condizione che determinerà la sua rovina.

La madre invece, nonostante le evidenti difficoltà economiche familiari, svilupperà un attaccamento spasmodico alla villa tanto da non volerla vendere, a discapito dei suoi stessi figli. La villa diventa il simbolo del rancore verso la madre che  farà riflettere nelle sue opere e, in particolar modo, ne La cognizione del dolore; alla morte della madre lo scrittore finalmente si libera di quella che definì «la bestia nera della sua psicosi».

Una volta venduta la Villa tanto odiata in giovinezza, inizia la stesura di quello che sarà il suo romanzo introspettivo e autobiografico per eccellenza. Va alla ricerca di oscure ragioni che, impellenti, sottolineano in lui l’astio e  il rancore verso la madre, e non di meno l’odio verso la stupidità dilagante del mondo da cui si sente circondato.

Tutto questo avviene attraverso la costruzione di un perfetto alter-ego letterario che realizza ad hoc; anche per i meno attenti è facilmente intuibile come il protagonista di questa opera umoristica e dissacrante, nonostante tutto,  non è altro che lo stesso autore riflesso nell’ingegnere Gonzalo Pirobutirro.

Anche Gonzalo è un ingegnere, ed è questa sua formazione scientifica che lo sprona a rappresentare la realtà così come si pone, ponendo un’indagine razionale e un approccio scientifico, quasi sperimentale,  agli eventi, i personaggi, e le situazioni.

Lo scrittore in seguito alle sue esperienze più traumatiche, dal rapporto ostico con la madre all’esperienza del fascismo, maturerà anche grazie alla sua formazione scientifica, quanto sia un dovere scardinare la realtà e descriverla come veramente si pone senza gli orpelli del perbenismo. La realtà è sporca, abietta, sconvolgente.

La consapevolezza di appartenere a un destino condiviso

La vicenda in cui si snoda la trama de La cognizione del dolore, si svolge in un paese immaginario del Sud America. La figura centrale è, appunto, Don Gonzalo il figlio misantropo della Padrona della Villa, il quale viene affidato alle cure del Dottor Lukones  al quale Gonzalo comunica la sua visione sugli uomini e sul mondo, società in cui rientra anche la madre uguale alla massa stessa.

Gadda/Gonzalo riconosce nella moltitudine contenitori vuoti e inutili e se ne distacca, consapevole di non far parte di un  gregge privo di valori. Gonzalo è dominato dal pensiero di morte e ossessionato dalla figura della madre: pensieri nevrotici che andranno snodandosi pian piano in ogni pagina investendo ogni  porzione di vita del protagonista.

Grazie a questo insano rancore verso la figura materna, Gadda si mette alla ricerca delle ragioni per il quale Gonzalo ne La cognizione del dolore odia tutti per difendersi da un’esistenza in potenza, una vita attiva dalla quale si sente respinto.

La sua è un’ira che non risparmia nessuno, nemmeno gli umili, una collera infettata da raziocinio che lo porta sì a esser consapevole della stupidità del mondo ma, anche, a concretizzare la consapevolezza di far parte anche lui  di questa sofferenza comune e di avere il medesimo destino di tutti coloro che rifiuta.

Il dolore di Gonzalo

É questa insofferenza, questo dolore, il cardine dell’irritazione di Gonzalo, la causa dei suoi pensieri deliranti e sarcastici. Il rapporto con la madre ne consegue essere solo una conseguenza.

In psichiatria si parlerebbe quasi di una forma di delirio interpretativo che, come lo stesso Gadda fa intendere, non deve avere un’accezione di diagnosi al negativo, tutt’altro! Nelle pagine del romanzo, ci si ritrova di fronte a un personaggio scostante, nevrotico, allucinato e delirante.

Tuttavia Gonzalo non distorce la realtà, non inventa universi paralleli. I suoi pensieri deliranti hanno dei moventi razionali poiché tutto è conseguenza, è una reazione ad un trauma. Un’opera grottesca, nevrotica, sarcastica che l’autore lascerà incompiuta, atterrito e spento dalla ”vanità vana del nulla!”.

Renzo Pezzani, una poesia pedagogica e tragica

Probabilmente è uno dei poeti meno ricordati nel  panorama letterario italiano: stiamo parlando di Renzo Pezzani, nato a Parma il 4 giugno 1898, figura fondamentale nella poesia dell’infanzia.

Appartenente a un’umile famiglia di artigiani, figlio di Secondo, artigiano del ferro, e di Clementina Dodi, Penzani visse la sua fanciullezza nella semplicità; un ambiente popolare, provinciale e poco mondano, caratteristiche che rivivono, in particolar modo, nelle sue produzioni poetiche dialettali.

La poetica di Pezzani si ispira certamente a quella di Giovanni Pascoli, così come a Diego Novaro e Marino Moretti; tuttavia, scevro da imposizioni letterarie, Pezzani ha tratto la massima ispirazione dalla realtà vissuta: un realismo fatto di piccole cose consuete, una realtà osservata da angoli della sua fanciullezza .

A ventitré anni consegue il diploma di maestro elementare ma, oltre alla carriera da insegnante,  si accosta sin da subito alla poesia in dialetto parmigiano. Successivamente fonda la rivista Difesa Artistica e collabora anche con  Il giornale del BalillaCuor d’oro e Corriere dei piccoli.

Una carriera che sembra quasi simile a un altro grande poeta che, anni dopo, utilizzò la sua poesia come strumento pedagogico: Gianni Rodari, infatti, come Pezzani, fu maestro elementare, giornalista e si occupò di letteratura per l’infanzia con particolare riguardo alla poesia.

A differenza del poeta di Omegna, Pezzani abbandonò la carriera da insegnante rapidamente – nel 1926 – a causa di motivazioni politiche. Nel 1920 l’esordio letterario con la pubblicazione della raccolta di liriche ‘’Ombre’’ e, nel 1923, il suo primo libro, ‘’Artigli’’: una raccolta di versi che, ai tempi, suscitò interesse per l’originalità dei componimenti.

Nonostante le poesie composte in dialetto parmigiano, Pezzani si dedicò quasi interamente al mondo dell’infanzia: poesie semplici, che rifuggono le leziosità.

Al centro della sua poetica si ritrova la natura, la genuinità di ambienti agresti, l’umiltà di un mondo popolare e antico. Dalla purezza provinciale e incontaminata fatta di piccole cose, da questa ‘’felicità domestica’’, Renzo Pezzani baserà tutto il suo lavoro letterario volto all’universo della fanciullezza: antologie, poesie, racconti.

Pezzani: poesia possibilistica  e matematica priva di immaginazione

La poesia, per questo autore rivoluzionario, è immaginazione, possibilità, strumento di apprendimento. Più volte egli ha sottolineato la sua predilezione per la letteratura, orgoglioso di non essersi soffermato sulle discipline scientifiche come la geometria o la matematica:

‘’Le  poche volte che scrissi numeri sulla lavagna erano frazioni che davano la sensazione del numero schiavo e del numero trionfante. La geometria con le sue figure balenò sulla lavagna, per dire che al di là di un limite c’è l’infinito del piano, ma noi eravamo fuori del limite, nello spazio nero”.

Per il poeta parmigiano la poesia è sempre stato lo strumento primario pedagogico. Del resto per un bambino, la poesia è apprendimento ma anche esercitazione all’immaginazione e alla creatività in potenza.

Le parole di Pezzani in tal senso sono possibilistiche, tutte hanno sfumature diverse nella loro semantica, è come se, per Pezzani, la matematica fosse  priva di possibilità o fantasticheria: un’addizione darà sempre uno stesso risultato per tutti.

Il vero poeta per Renzo Pezzani è colui che coltiva e non abbandona la propria parte fanciullesca: non rifugge il proprio passato infantile, né dimentica il bambino che è stato ma, anzi, lo accoglie.

La poesia nel suo senso più alto e puro è generata dal periodo dorato della vita, l’infanzia: una dimensione che mai si deve abbandonare se si vuol vivere di ispirazione poetica. Tale concenzione è molto simile al‘’Fanciullino’’ di Giovanni Pascoli. Come Pascoli, anche Pezzani condividerà la concezione dello stupore infantile: il bambino è, di fatto, un poeta poiché riesce nel suo candore a cogliere le sfumature del mondo.

Il lato pedagogico della poesia: quando i versi possono educare

Se il bambino è un poeta poiché incontaminato dalle brutture della vita adulta, la poesia è lo strumento educativo per eccellenza.

Pezzani esorta alla riflessione dell’innocenza infantile intimando a una profonda regressione verso il proprio lato fanciullo; solo la riappropriazione del mondo dell’infanzia riporterà a una serenità auspicata, ora contaminata dalla vita adulta. Esortazione riportata anche nel componimento ‘’Gioia’’:

Gioia che cerchi
su eccelse pendici / s’è forse nascosta tra
erbe e radici. / Ritorna quel ch’eri, un
bambino innocente / ch’è lieto d’un fiore,
che canta per niente

Una pedagogia quella di Renzo Pezzani che attinge la propria didattica dalla voglia di preservare la purezza del mondo infantile nell’età adulta.

La poesia di Pezzani è immediata poiché racconta la vita stessa, senza fronzoli: il suo è un realismo delicato.  Il suo obiettivo fu dimostrare il valore insito della poesia che è non solo un potente strumento educativo ma, anche, un mezzo salvifico.

L’educazione alle emozioni passa, necessariamente, dalla poesia che è sinonimo di salvezza. Persino come insegnante la didattica di Renzo Pezzani è stata rivoluzionaria: non applicava il nozionismo nell’apprendimento, e per lui non contavano nemmeno gli errori di grammatica.

Era la filosofia mentale del bambino al centro di tutto: i pensieri di questo piccolo adulto in potenza. Compito del maestro era guidare gli allievi verso la propria parte adulta,  esortandoli al candore dell’anima e a un tocco delicato delle cose.

Le tematiche di Pezzani

I temi ricorrenti nella poesia di Pezzani sono, per lo più, proiettati alla natura, la religione, il ciclo delle stagioni; ma anche la maternità, la vita di provincia, i luoghi consueti  come la scuola, le strade di campagna, i campi.

Leggendo  alcuni dei componimenti di Pezzani possono scorgersi delle analogie con Myracae e I Canti di Castelvecchio, raccolte pascoliane che affrontano  le tematiche stagionali e le figure familiari: la madre, gli amici di scuola, le festività religiose ma, soprattutto, l’empatia con la povera gente.

Un esempio poetico di Pezzani in cui si riscontrano natura, religione, e buoni sentimenti, oltre che un linguaggio semplice e immediato adatto a un pubblico fanciullo, è il componimento ‘’L’ape e il fiore’’:

Il fiore disse all’ape affaccendata:
“Sei davvero sfacciata!
Il nettare mi rubi e te ne vai
e un dono, in cambio, non mi lasci mai.”
Disse l’ape sincera:
“Sono operaia della primavera
e tutto il giorno faccio miele e cera.
Ai bimbi piace tanto il miele mio
e la cera che arde piace a Dio.
Se quel che abbiamo non lo diam col cuore,
che diremo al Signore?”
“Prendi quello che vuoi” rispose il fiore.
“M’hai insegnato che cos’è l’amore”.

Pezzani presenta similarità anche con i crepuscolari: la poesia del quotidiano che investe  i vecchi quartieri, i parchi di periferia, o i pomeriggi domenicali trascorsi in un salotto di provincia.

I luoghi consueti e quasi consunti della vita di ogni giorno. Nonostante tutto, non è solo la malinconia ad aleggiare nei versi del poeta: la poesia di Pezzani si discioglie in una descrizione di Parma dipinta come piccolo borghese, stantia e cupa.

Una gabbia su cui aleggia un dolore cristallizzato nel tempo che unisce  il perenne senso di nostalgia verso un’infanzia, ormai trascorsa, alla percezione di una vita fallimentare. Per questo nonostante la poesia di Pezzani abbia uno scopo alto e pedagogico, è quasi sempre tragica e desolata.

 

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