[ads1]Tanto famoso quanto schivo, Murakami preferisce che si parli della sua poetica più che della sua persona, in un atteggiamento quasi antitetico all’altro mostro sacro della letteratura giapponese contemporanea, Banana Yoshimoto. I suoi romanzi, come il suo Paese, risentono fortissimamente degli influssi pop americani, dalla lost generation nella letteratura, al jazz e il blues nella musica e agli anni d’oro di Hollywood nel cinema. Alla prosa postmoderna si unisce una sensibilità tutta orientale, sebbene abbia più volte dichiarato di non amare i narratori più classicisti, come Yukio Mishima e Yasunari Kawabata.
Cosa rappresenta quel piccolo uomo nato il 12 gennaio 1949 in Giappone? Haruki Murakami nasce a Kyoto ma il periodo fondamentale della sua formazione, umana ed artistica, lo passa a Tokyo, dove arriva nel 1968. Per chi non ne fosse a conoscenza, il 1968 non è solo la stagione di Charles Manson e le Brigate Rosse. Il 1968 è una stagione pregna di significato, una stagione di scontri e rivendicazioni che scuote il mondo intero come un terremoto . Anche il Giappone non viene risparmiato da queste scosse telluriche e lo stesso Murakami, un adolescente solitario con il vizio della buona musica e della letteratura, è inglobato in questa spirale; vi assiste, si eclissa ma ne resta segnato, come si può evincere dalla morte del marito della signora Saeki, che in Kafka sulla Spiaggia trova una morte tragica quanto assurda, ucciso in mezzo ai moti rivoluzionari senza alcuna ragione.
Da quest’anno fatidico qualcosa cambia in Haruki, capisce che il fato è qualcosa contro cui non si combatte e decide di vivere come gli pare; invece di formarsi sui polverosi libri di scuola, quei volumi colmi di classicismo stantio, legge avidamente tutto quello che proviene dall’altra parte del mondo, in particolare la letteratura americana, in particolare la “Lost Generation”. Il suo feticismo per il Grande Gatsby è tale da farlo trasudare nelle magnifiche pagine di Noruwei no mori, romanzo sentimentale che lo consacra al grande pubblico. Nonostante ciò, non vi può essere differenza più grande tra Francis Scott Fitzgerald e lui, il primo esibizionista ed il secondo schivo, il primo protagonista dei ruggenti anni venti e il secondo comparsa del riscatto nipponico.
Sebbene delle regole gli sia sempre importato poco, tanto da farsi sospendere dal dormitorio in cui viveva per atti vandalici, riesce alla fine a laurearsi in letteratura, pur con svariati anni di ritardo sul rullino di marcia. Potrebbe essere la rampa di lancio per una carriera di tutto rispetto ma il ragazzo, dopo essersi sposato giovanissimo, decide di aprire un bar e di gestirlo con la moglie. Il luogo di lavoro non è altro che una estroflessione di quello che alberga nei recessi di Haruki Murakami: pareti bianche da riempire di pensieri e nessuna finestra ad ammorbare il suo vastissimo mondo interiore. Sigaretta dopo sigaretta, in quel bar che verrà magnificamente descritto in A sud del confine e a ovest del sole, non ha altro tempo che non sia ripagare il debito che ha contratto per aprire il Peter Cat. Le pareti sono sempre più grigie, in testa vorticano i pensieri ma non si sente ancora pronto, manca ancora la scintilla, manca ancora quel qualcosa che si verificherà nel 1978: in L’arte di correre, Haruki scrive che l’illuminazione per il primo romanzo gli venne da una pallina scagliata in aria da un battitore durante una partita di baseball. Sensibilità tutta orientale. Il primo romanzo è Vento, primo capitolo della “tetralogia del Sorcio” che comprende anche Flipper, Nel segno della Pecora e Dance Dance Dance. Già in questa serie di romanzi vi è tutta la poetica di Murakami, uno scorcio malinconico di Giappone in cui il protagonista senza nome si sente invischiato, una palude che lo avvince ma dal quale non può uscire senza un aiuto esterno, senza un evento kafkiano che lo getti nel mondo, quello vero, quello al quale non appartiene e al quale non vuole appartenere, dovendo risolvere suo malgrado gli intrighi dei potenti, misteriosi e senza nome come lui, solo un po’ più grandi, solo un po’ più importanti.
Niente di speciale, tanti riferimenti letterari, tanta musica e molte riflessioni sulla vita in generale. Eppure c’è quel qualcosa che attira il lettore, lo invischia in quelle storie normali, in cui un elemento accidentale cambia tutte le carte in tavola, una ragazza con quattro dita, un flipper uscito dal mercato, una pecora che incarna il militarismo del Giappone. Se l’opus magnum è sicuramente 19Q4, una storia ciclopica in cui due mondi paralleli si scontrano e si toccano senza potersi mai incontrare, in cui una killer, che uccide i molestatori di donne indifese, sembra profetizzare non solo il #metoo attuale ma anche Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, per capire davvero Murakami bisogna leggere Kafka sulla spiaggia.
Non ci sono processi, non ci sono strane colonie penali, non ci sono insetti giganti ma solo un vecchio autistico di nome Nakata, che uccide un whisky e parla con i gatti, e un ragazzino di nome Tamura Kafka, che ha rapporti sessuali con la madre e si fa masturbare dalla sorella. La sessualità in Murakami è sempre fortissimamente presente, sebbene lo abbia sempre imbarazzato parlarne al di fuori della sua letteratura. La sua giustificazione è la necessità, il dovere di parlare di quello di cui si deve parlare, in una visione finalistica dell’esistenza umana che è esplicitata dall’alter ego di Tamura nelle ultime pagine di questo romanzo:
“Il tempo grava su di te con il suo peso, come un antico sogno dai tanti significati. Tu continui a spostarti, tentando di venirne fuori. Forse non ce la farai, a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo”.
Ecco la chiave per interpretare Haruki Murakami, ecco la sua rilettura in chiave postmoderna dell’opus kafkiano: esiste una Τύχη che trascende l’uomo, schiavo di Lachesi e agnello sacrificale di Atropo. Non ci serve andare altrove, non ci serve espatriare, il nostro destino è scolpito nell’imperscrutabile masso della memoria e la scelta è solo una falsa speranza a cui ci aggrappiamo. Nel mondo però, esistono eccezioni, esistono scappatoie, come quella porta di emergenza in mezzo all’autostrada di Tokyo che collega i due mondi di 19Q4. Forse non tutto è perduto e Haruki lo sapeva, ma l’ha semplicemente scordato. Nel datato Noruwei no mori Watanabe deve scegliere: può scegliere il confortevole passato di Naoko, l’insicura sicurezza dei ricordi, o l’eccitante futuro di Midori, scommessa già vinta al momento della puntata.
Watanabe/Murakami sceglie Midori, sceglie la vita, e forse Danny Boyle si ispirò a lui per il celeberrimo manifesto di Trainspotting, nove anni dopo. Improbabile, così come improbabili sono le scappatoie dalla realtà inventate da Haruki Murakami, celate agli occhi di tutti e accessibili solo a chi sa guardare. Eppure, a ben vedere, Watanabe sceglie Midori perché non può fare altrimenti; Naoko si uccide, anche se lui non lo può sapere. Non si parlava prima della sensibilità giapponese? Ora, dai confini del mondo delle isole Hawaii, Haruki Murakami è in attesa di quel Nobel che gli sfugge da anni. Semplicemente, potrebbe essere il fato.
L’intellettuale dissidente