H. P. Lovecraft, il fascino dell’occulto

Howard Phillips Lovecraft nasce a Providence nel 1890. Il padre viene rinchiuso in manicomio quando lo scrittore ha tre anni, e muore cinque anni dopo, senza essere riuscito a creare alcun rapporto affettivo con lui. La madre si spegne nel 1921, liberandolo dalla sua personalità asfissiante che lo ha influenzato negativamente, facendolo crescere in un’atmosfera familiare opprimente e isolata. La sfortuna, insomma, ha avuto la sua parte nell’esistenza di questo personaggio. Cresciuto nell’agiatezza economica fino alla soglia dell’adolescenza, in seguito non ha potuto goderne, in quanto le speculazioni sbagliate di uno zio dissolsero i risparmi familiari, gettandolo sul lastrico. Lovecraft viene cresciuto da due attempate zie e conduce una vita al limite della povertà, sfruttato per conto di scrittori meno dotati di lui, dei quali rimette in sesto i manoscritti.

Ogni tanto scrive un racconto che non viene nemmeno pubblicato, anche se per alcuni di essi riusce a trovare uno sbocco su <<Weird Tales>>, mensile di storie dell’orrido i cui compensi erano tra i più bassi d’America. Unica parentesi, all’ interno di questa quotidianità ciclica e monotona, è il matrimonio celebrato con una donna molto più grande di lui, che dura soltanto due anni. Questo periodo aggiunge l’incubo all’incubo, Lovecraft si trova infatti a New York, incapace di ottenere un lavoro ben retribuito e costretto a farsi mantenere dalla moglie (modista e aspirante scrittrice), è disgustato dalla sterminata bolgia di razze, ceti e traffici della metropoli.

Decide dunque di far ritorno dalle zie, concedendosi ogni tanto, come unica distrazione, qualche viaggio in autobus verso fascinose mete storiche negli Stati Uniti. A quarantasei anni esala l’ultimo respiro, dopo aver trascorso un periodo di lunga sofferenza fisica a causa di un cancro.

Un’esistenza scarna e vuota quella di Lovecraft che sembra non combaciare con la personalità di scrittore, creatore di storie in cui soggetti repulsivi sono i protagonisti. Questo strano autodidatta solo e sfortunato, infatti, si ritrova ad essere un punto di riferimento per moltissime persone, con le quali instaura una corrispondenza talmente vasta e fiorente –  quasi centomila missive – da non avere termini di paragone in letteratura. In queste lettere egli dimostra un’erudizione senza pari. Il fisico nucleare Jacques Bergier –  considerato ai tempi un mostro di intelligenza – ha affermato: “Mai nella mia vita mi era capitato di corrispondere con una creatura altrettanto onnisciente”. Lovecraft è stato d’ispirazione a molti romanzieri dell’epoca, che grazie ai suoi consigli sono riusciti a formare un’eccellente carriera letteraria, ma sopra ogni altra cosa “il solitario di Providence” ha dato nuovo corpo e sostanza al genere horror, ribaltandone il punto di vista in senso cosmico.

Al civico n. 194 di Angell Street si trova una bella villa in stile coloniale, qui vi risiedeva Whipple V. Philips, nonno materno di Lovecraft, che viveva di rendita dopo aver condotto diversi affari e viaggiato per il globo. La casa era grande e carica di mobili, ninnoli e quadri, raffiguranti soggetti insoliti, appesi alle pareti. Fra quelle stanze immerse nella penombra, il piccolo Lovecraft si aggirava da solo, costretto dalla madre a non uscire nemmeno per recarsi a scuola, essendo la sua educazione affidata a tutori privati. Emarginato e circondato da anziani, il ragazzino trovava comunque il modo di alimentare la sua fantasia e l’intelletto precoce, attraverso i libri presenti all’interno dell’immensa biblioteca situata al secondo piano della villa. Da subito si delineano le preferenze di Lovecraft in fatto di letteratura: il nonno gli apre la strada verso il Fantastico, la nonna, studiosa di astronomia, lo erudisce sulle meraviglie dei cieli.

In questo microcosmo personale, sospeso in un limbo indefinito tra ragione e follia, Lovecraft ha sviluppato una singolare spiritualità neo-pagana, in cui ben presto si è affacciato l’incubo. È lo stesso autore a raccontarlo: “Nel gennaio del 1896, la morte di mia nonna gettò la casa in un’atmosfera cupa, dalla quale non uscì mai più. Le vesti nere di mia madre e delle mie zie mi riuscivano paurose e ripugnanti …  fu allora che la mia vivacità naturale si spense. Cominciai ad avere gli incubi più odiosi, popolati di cose che chiamai Night Gaunts, con un’espressione inventata da me”.

Le esperienze avute durante la fanciullezza hanno segnato profondamente il carattere dello scrittore gotico. Giunto alla maturità egli si ritrova infatti completamente da solo, misantropo e senza alcun titolo di studio, nella sua mente gli eventi giornalieri si trasformano in situazioni inaffrontabili e angosciose.

Lovecraft decide quindi di esorcizzare, a modo suo, e con una nota d’originalità, l’inquietudine del proprio animo, dando a ognuno dei suoi incubi una veste simbolica e una collocazione ultraterrena. Le sue afflizioni e le sue debolezze creano un pantheon dell’orrore, in cui germinano entità deformi e ripugnanti.

“L’immaginazione è il grande rifugio”, probabilmente questa frase riassume non solo tutta la poetica di Lovecraft, ma esplica le ragioni del fascino della sua narrativa che oltrepassa e supera i limiti dell’espressione comune per radicarsi nel profondo, verso qualcosa di più sensoriale.

Autore di numerosi racconti stranianti, come Dagon, Il colore venuto dallo spazio, Il richiamo di Cthulhu, La tomba, Oltre il muro del sonno e L’orrore di Dunwich, e di romanzi, tra cui Il caso di Charles Dexter Ward, Le montagne della follia, La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath e La maschera di Innsmouth, oltre ad alcuni racconti in versi (L’avamposto, L’antico sentiero, Ricordi, Fantasmi, ecc..) Lovecraft, che in vita non ha goduto di grande fortuna soprattutto presso la critica, oggi è considerato tra i massimi esponenti della letteratura horror insieme ad Edgar Allan Poe, nonché precursore della fantascienza angloamericana, influenzando produzioni cinematografiche e musicali.

Le passioni che ci travolgono – ha teorizzato lo scrittore  – possono essere dominate se, con un supremo atto immaginativo, riusciamo ad esteriorizzarle, a contemplarle in tutta la loro grottesca vanità”.

 

 

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