Un borghese piccolo piccolo

Un borghese piccolo piccolo e la parodia come memento


Un borghese piccolo piccolo (un titolo ch’è un programma) è quel capolavoro d’esordio del 1976 di Vincenzo Cerami (1940 ˗ 2013), che può essere annoverato, non a torto, tra le cose letterarie più ‘rumorose’ ed osservate del panorama culturale italiano. Italo Calvino, in una nota alla prima edizione, fece notare l’abilità dell’autore (alunno prediletto di Pier Paolo Pasolini) nel rendere, una storia d’impiegati, un grandioso e crudo susseguirsi di fatti romanzeschi.

Severgnini, in un commento dei primi del Duemila, lodò le grandi doti da sceneggiatore di Cerami, evidenziando come, prolisso dove consentito, l’autore riuscisse ad “asciugare” le frasi, rendendo, con lapidaria concisione, i momenti tragici di Un borghese piccolo piccolo. Monicelli ne estrasse un film fedele e degno, in cui un Alberto Sordi in gran forma interpretò divinamente l’enigmatico protagonista, che valse tre David di Donatello e quattro Nastri d’argento.

Arduo, scrivere di questo di Un borghese piccolo piccolo, senza finire per raschiare il fondo d’un barile di banalità. Imprescindibile, però, l’illustrazione, almeno sommaria, dei momenti salienti del racconto.

Un borghese piccolo piccolo: quel misero bisogno di arrivare

Dà il la alla narrazione. Non a caso, probabilmente, la brutale uccisione di un pesce, durante una battuta di pesca tra il protagonista, Giovanni Vivaldi (nome deliziosamente colmo di sonorità), e suo figlio, Mario. Giovanni, in un sublime e futurista andamento leopardiano, sconta la pensione sbrigando pratiche pensionistiche presso il ministero. Da perfetto piccolo borghese, suo unico obbiettivo è “sistemare” Mario, appena diplomato alla ragioneria, nello stesso luogo, aspirando però, per il giovane, ad un ruolo più alto. Compagna di Giovanni è la sterile Amalia. Ella, pur storcendo il naso, fiancheggia il marito anche quando questo, per aiutare il figlio a superare un provvidenziale concorso (esattamente al ministero), segue il consiglio del suo capufficio ˗ il dottor Spaziani ˗ e “si fa massone”. Il placido scacchiere della narrazione viene ribaltato magistralmente, e con violenza improvvisa, quando il giovane, subito dopo aver sostenuto la prova del concorso, viene coinvolto erroneamente in una sparatoria, morendo sotto gli occhi impotenti ed assenti del padre, che riesce comunque a riconoscere il delinquente. Da qui, la via per il finale che non ci si aspetterebbe, fatto di tragedia e di sorprendentemente aspra vendetta.

Si potrebbe indugiare sulla peculiarità di un Neorealismo giammai stucchevole ed artificiale; si potrebbe rallentare sui costrutti semplici, e dunque d’alta fattura; si potrebbe assaporare e svelare il labor limae insospettabile, dietro quest’opera. Si potrebbe. Anche al costo di risultare tediosi, ridondanti, pedanti.

Una delle caratteristiche di Un borghese piccolo piccolo, infatti, è proprio la descrizione di un’intera, goffa cerimonia d’iniziazione all’Ordine. La vicenda comincia quando, alla richiesta d’aiuto per il concorso al ministero, il dottor Spaziani consiglia a Vivaldi: “Hai mai sentito parlare di Massoneria? […] Bene. . . fatti massone”. Ciò pone in essere una sorta di reclutamento fondato non sulla vocazione e la predisposizione ai precetti massonici, ma sul misero bisogno d’arrivare.

Quando Vivaldi, non avendo ben chiara la portata dell’Istituzione, accetta comunque di getto, inizia l’indottrinamento (che, in ambito massonico, prevede un altro elegantissimo termine specifico) tramite una serie di opuscoletti e di libri, che Spaziani consegna al protagonista, perché impari il tutto in gran segreto. Dopo una serie di stereotipi e di luoghi comuni imbarazzanti, la preparazione termina, e giunge il giorno dell’iniziazione, in una loggia abilmente celata all’interno di una comune casa cittadina: “Arrivò finalmente il giorno della prova per il padre. L’appuntamento era fissato per le ventuno e trenta nel seminterrato di una casa, nei pressi del vecchio sambuco”.

Vivaldi vi si reca trepidante, non senza prima concedersi un ultimo istante d’esitazione e di intimità con l’Altissimo, nel “cesso” di casa, lontano dagli occhi della moglie. Inizia la cerimonia. Qui, Cerami dà la prova di quanto sappia essere generoso di parole ed abile di satira, indugiando in particolari curiosi, esasperando descrizioni, parodiando questo e quel gesto sacro, sbagliando i paramenti dei funzionari dell’iniziazione. Elargisce colori, sensazioni, odori, ed entra nel vivo del glossario massonico (“Chi è? [. . .] È un profano che chiede la Luce!”), portando tutto ad un trionfo di ebbra e bizzarra solennità, come la curiosa risposta alla domanda di rito riguardo ad un punto cardine della Massoneria, la Libertà:

“La Libertà. Dunque, per me la Libertà è fare quello che mi pare. . . È essere libero. È. . .  È. . . È la libertà di stampa e di pensiero. . . È. . .  come posso dire?!. . . È una bella cosa. . . peccato che ce ne sia troppa!”.

Giovanni compila un modulo che precede l’inizio dei lavori, ne controlla “la forma e la punteggiatura” e si presta, placido e timoroso, alle prove rituali. Le supera tutte, ma fallisce la principale: a cerimonia conclusa, la Fratellanza si riunisce per  andare alla cena rituale, ed uno degli astanti avvicina il protagonista, chiedendogli mille lire come aiuto per la sua situazione disgraziata di disoccupato con moglie incinta a carico; Giovanni torna ad essere “un borghese piccolo piccolo”, e nega d’avere il portamonete a portata di mano, facendo precipitare la situazione in un teatrino imbarazzante, con il giovane interlocutore che inveisce:

“Non vuole darmi mille lire. . . Fratelli, Fratelli. . . [. . .] L’unica prova vera non l’ha superata. . . Le prove del cerimoniale erano tutte simboliche, ma questa, questa delle misere mille lire non l’ha superata [. . .]”.

L’unica preoccupazione di Giovanni è d’essere ugualmente accolto tra i suoi fratelli (non esserlo, significherebbe perdere il concorso), ma subito capisce che la cosa non ha avuto ripercussioni sul suo cammino in loggia, e subito torna la serenità. Il giovane Mario riuscirà a sostenere la prova del concorso, ma morirà subito dopo esser uscito in strada, senza che il suo povero padre ˗ piccolo ma di grande ingegno e di insospettabile carisma ˗ possa far niente.

Monito a ricordare quanto sia deleterio forzare le cose con scaltrezza, dunque. Quasi un memento verghiano, ottimamente congegnato, e ritratto in un romanzo che ad altro non potremmo accostare, se non ad una gialla ed odorosa polaroid della società italiana (tremendamente attuale). Una polaroid scattata, quasi certamente, per mettere in guardia dai terribili effetti collaterali delle cattive azioni. Un ritratto realizzato da un autore che dimostra di conoscere bene la Massoneria ed il suo ambiente lodevole, ma che decide comunque di mostrarne il lato più assurdo e l’impotenza dinanzi al destino di ognuno di noi, a ricordare come essere l’uomo sbagliato, col giusto farmaco in mano, non porti lontano.

Pubblicato da

Salvatore Conaci

Salvatore Conaci nasce a Catanzaro, nel '90. Conseguita la maturità scientifica, coltiva gelosamente, e con passione, una cultura quasi prevalentemente umanistica ed esoterica. Laureato in Lettere Moderne, attualmente studia Filologia Moderna. "Perle nere" (Montedit, 2015) è il suo lavoro d’esordio. Dopo una breve collaborazione con la rivista Luoghi Misteriosi, scrive, ora, per 900letterario.

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