“Tanto che andrò di ruspa / e sangue / sul disordine dei fiori / pestati”. Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni è una piccola raccolta di poesie reca la firma di Francesca Pellegrino. Nonostante sia stata pubblicata nel 2009 resta ancora oggi un esempio positivo su quanto la poesia contemporanea possa ancora considerarsi un luogo vivo e in grado di significare. Si scrive sempre meno intorno alla poesia e si potrebbe pensare che interessi pochi estimatori. Tuttavia le parole, se adoperate non come slogan pubblicitari, conservano un intenso grado di suggestione tale da riuscire a raccontare in un solo colpo un intero mondo o squarciarne di nuovi.
La cornice che circonda l’io poetico, in Dimentico sempre di dare l’acqua ai sogni, appartiene alla quotidianità. Quest’ultima è fortemente interiorizzata da Francesca Pellegrino e le consente di conferire concretezza ad uno scenario emotivo fatto di macerie. Eppure da un animo tormentato, apparentemente arido, scorgano versi vibranti (“Ci sono cose trasparenti e / fragili / tra me e il mondo”). Più le emozioni sono dolorose più la pagina e la scrittura divengono il mezzo per esprimere in un grido autentico quel che più volte la poetessa fa sentire come strozzato in gola.
I componimenti non sono forgiati da una bocca muta ma capace di comunicare al lettore lo strazio destabilizzante di una sofferenza lacerante. Il risultato è ammirevole, merito anche di un labor limae accurato intorno alla parola, alla punteggiatura e alla combinazione surreale tra le parole stesse. Francesca Pellegrino si configura come una nuova artigiana della parola, mossa dal desiderio di ricostruire, come in mosaico, i tasselli della propria anima spezzata.
Questa raccolta dimostra quale affabulazione ancora oggi la poesia possa esercitare sul lettore. La poesia, forma d’espressione che nasce dalle frontiere del proprio io, è in grado di elevarsi al di sopra della mediocrità da cui è affetta molta della nostra letteratura, vittima della banalità più disarmante e nauseante. Un cuore in decomposizione che infetta la pagina e vibra ad ogni rilettura.
Il testamento d’amore, di un amore travagliato, corrotto, si infrange contro i limiti della realtà e la portata devastante caratterizza ogni singola pagina. Dopotutto quello che sopravvive sono il dolore e i ricordi di una identità che si è fusa con un’altra nell’ebbrezza di un sentimento caduco e a quel punto restano solo cumuli di macerie a cielo aperto. Ed è da questa contingenza inopinabile che la poetessa mette insieme i cocci, consapevole di dovere riaprire vecchie cicatrici. Si ritrovano la carne, le lacrime, i rancori, il bisogno di perdersi nell’altro, di afferrare quell’ebbrezza pur di dimenticare la realtà. E cos’è quest’ultima se non un odioso compromesso dai volti anonimi? Ritrovare un attimo autentico appare vitale, anche se fugace e tra lenzuola di oblii restano amare solitudini. L’amore, il più ipocrita dei sentimenti, può diventare dunque una trappola, una forma di tradimento verso se stessi che si esaurisce lentamente e non senza cognizione del dolore che esso contempli.
Il risultato è un acrilico sentimentale. Francesca Pellegrino è una voce sincera che sa raccontare ma che è anche in grado di mormorare sulla pagina parole che restano incise sotto la pelle del lettore. Notevoli sono i punti di contatto con la poetica di Sylvia Plath che conferiscono a questa raccolta in versi un raffinato valore.
Un lavoro originale che conferma che un buon ‘romanzo’ non può misurarsi dal numero di pagine ma dalla densità con cui è forgiata ogni singola riga. Un’opera d’arte che sorprende e toglie meravigliosamente il fiato.