‘Il riscatto della brutta psiche’. Maurizio D’Andrea in mostra alla Cathart Gallery di Carla Pugliano

Sabato 10 maggio 2025, la Varese la Cathart Gallery ospita l’artista internazionale Maurizio D’Andrea in un evento di grande intensità, arricchito dalla presenza straordinaria del noto Critico e Storico dell’Arte Daniele Radini Tedeschi, voce tra le più autorevoli del panorama artistico contemporaneo, nonché curatore di sei edizioni alla Biennale di Venezia.

L’artista D’Andrea presenta la sua nuova performance-mostra dal titolo “Il riscatto della brutta psiche”, un atto unico che fonde teatro, arte visiva e psicoanalisi, portando il pubblico in un viaggio emozionale dentro i meandri più oscuri e autentici dell’inconscio umano dove “L’Io non è mai padrone a casa sua”.

Sarà Daniele Radini Tedeschi ad aprire ufficialmente la mostra personale offrendo al pubblico una lettura penetrante del progetto artistico e del linguaggio visivo di Maurizio D’Andrea. La sua presenza alla Cathart Gallery rappresenta un’occasione unica per approfondire le implicazioni psicologiche ed estetiche della mostra attraverso lo sguardo critico di uno dei massimi esperti d’arte del nostro tempo.

La serata si apre con “Elogio dell’Imperfezione Psichica”, un breve monologo teatrale scritto dallo stesso D’Andrea e interpretato dall’attore Giulio Prosperi, voce e corpo vibranti di una psiche che reclama ascolto e verità. Il testo, crudo e lirico al tempo stesso, invita gli spettatori ad abbandonare le maschere dell’armonia e del bello per confrontarsi con ciò che viene taciuto: la bruttezza dell’anima, il caos interiore, le ombre che ci abitano. L’intero evento sarà documentato e registrato grazie alla sensibilità visiva del videomaker Francesco Barone, che immortalerà ogni dettaglio dell’azione performativa e della mostra.

Al termine della performance, il pubblico sarà invitato a un secondo tempo espressivo: la mostra di pittura, in cui le opere – inizialmente coperte – verranno svelate come parte di un rito collettivo. Ogni tela è una finestra sull’abisso, un riflesso inquieto dell’inconscio.

Dietro ogni gesto pittorico di Maurizio D’Andrea si cela un percorso interiore e formativo profondo, come quello che l’artista ha intrapreso attraverso la Mindfulness: un cammino fatto di consapevolezza, ascolto, visualizzazione e accettazione dell’inconscio. Ogni colore che utilizza, ogni materia che plasma, nasce da un lavoro sul suo mondo interiore. Non si tratta solo di espressione istintiva, ma anche di un continuo studio, indagine psicologica ed esplorazione della mente. L’artista insiste spesso sull’importanza di ciò che c’è dietro le sue opere, poiché è lì che risiede il senso più autentico del suo fare arte. Maurizio D’Andrea desidera che ogni visitatore, osservando le sue opere,
possa percepire la ricerca, il dubbio, la tensione, il silenzio e la verità che le hanno generate.

L’artista

Maurizio D’Andrea è sostenuto costantemente dalla critica sia italiana che estera, così dice di lui Shannon Permenter, Storica Contemporanea dell’Arte – Stati Uniti “Invisibile all’occhio ma visceralmente percepibile, l’opera di Maurizio D’Andrea rappresenta una sintesi potente tra psicologia, filosofia e astrazione visiva, incarnando il viaggio della trasformazione interiore.

Attraverso le sue ampie composizioni astratte, D’Andrea invita lo spettatore a esplorare i territori inesplorati dell’inconscio, trascendendo la rappresentazione convenzionale per creare esperienze immersive che conducono nel labirinto della psiche umana. Le sue opere, con la loro simbologia e la loro energia viscerale, fungono sia da specchi che da portali, riflettendo le nostre frammentazioni interiori mentre ci invitano alla trasformazione. Ridefinendo magistralmente l’atto del guardare, l’artista ci chiede non solo di vedere, ma di sentire, di elaborare, di prendere parte all’esperienza del divenire.”

Nato ai piedi del Vesuvio e laureato con lode in Scienze Geologiche con specializzazione in vulcanologia, Maurizio D’Andrea è pittore, scrittore e performer. Le sue opere attraversano i territori dell’inconscio, fondendo le teorie di Jung, Freud e Lacan con l’astrattismo lirico-informale. Nel 2022 ha fondato il Movimento Artistico Introversico Radicale, una corrente che pone al centro dell’atto creativo la tensione psichica e il riscatto dell’imperfezione. Tra i suoi numerosi riconoscimenti, spicca il Leone d’Oro per la Pittura alla Triennale Internazionale di Venezia nel 2024.

Ha esposto in tutto il mondo con mostre collettive e personali, riscuotendo premi e notevoli successi. Oggi vive e lavora ad Alba (Cn), nel suo laboratorio “Orizzonti Impossibili”, dove continua a esplorare, con coraggio e coerenza, il linguaggio dell’anima.

 

Il media artist italiano Enrico Dedin tra i nomi dell’arte del XXI secolo

Enrico Dedin, ventottenne originario di San Donà di Piave (VE) e residente a Fossalta di Piave (VE), media artist e art director nel settore comunicazione, è stato incluso nel volume “L’arte del XXI secolo. Temi, linguaggi, artisti” di Viviana Vannucci, docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Brera e curatrice internazionale. L’autrice del libro vanta un’esperienza consolidata nel panorama artistico globale, avendo curato per tre edizioni il Padiglione Nazionale della Repubblica Popolare del Bangladesh alla Biennale d’Arte di Venezia.

L’obiettivo di “L’arte del XXI secolo. Temi, linguaggi, artisti” è fornire una visione d’insieme sul panorama artistico contemporaneo attraverso un approccio innovativo rispetto ai tradizionali manuali e saggi d’arte. Piuttosto che concentrarsi su correnti, movimenti o strumenti tecnologici, il volume esplora i principali temi dell’arte del Duemila e le modalità con cui gli artisti li affrontano. Adottando un linguaggio che unisce rigore scientifico e taglio giornalistico, il testo propone un excursus tra le esperienze post moderniste attuali, studiando le principali tematiche del momento e le modalità con cui esse vengono trattate dai protagonisti della scena artistica internazionale nelle prime due decadi del terzo millennio.

Senza trascurare il confronto tra maestri affermati e le nuove generazioni, questa ricerca prende in esame la fenomenologia degli anni Duemila, esplorando i focus, l’estetica dei linguaggi e tra i più significativi progetti artistici dell’ultima stagione postmoderna.

Un riconoscimento che riempie di soddisfazione Dedin: «essere citato, pur nel mio piccolo, a poche pagine di distanza da maestri del calibro di Michelangelo Pistoletto e Antoni Muntadas, da artisti internazionali che mi hanno sempre ispirato come Aram Bartholl e Jon Rafman, e solo qualche riga prima di leggende della videoarte come Bill Viola e Nam June Paik, sinceramente fa un certo effetto».

L’opera di Dedin inclusa nel volume è “Fungi-Fi”, descritta nel capitolo “L’era della nuova comunicazione digitale”. Si tratta di un progetto cross-mediale che sta ottenendo crescente attenzione internazionale e aprendo nuove conversazioni su tecnologia, ambiente e Antropocene. Dopo installazioni e proiezioni a Bangkok, Bergamo, Bogotà e Venezia, e l’ingresso nell’archivio dell’Harddiskmuseum, l’opera è attualmente in mostra a Berlino.

Presentata come un brevetto rivoluzionario, tramite il tipico storytelling pubblicitario, Fungi-Fi immagina un futuro (forse non così lontano) in cui le big tech si appropriano dell’intelligenza naturale della rete micorrizica per creare una nuova forma di connessione wireless, non senza conseguenze.

La ricerca artistica di Dedin esplora infatti l’impatto delle tecnologie digitali sulla percezione della realtà e sulle trasformazioni sociologiche contemporanee. Le sue opere incentivano la riflessione e la contemplazione, affrontando tematiche come il “deficit di natura”, il consumo compulsivo di immagini, l’iper-connessione, i social media e la dissoluzione dell’identità nell’era post-digitale. La sua produzione artistica
spazia dalla videoarte all’installazione multimediale, dall’arte digitale alla fotografia.

L’inclusione in questo prestigioso volume rappresenta un ulteriore passo nella carriera di Dedin, confermandone il ruolo nel panorama dell’arte contemporanea. Un traguardo che si aggiunge a una serie di recenti successi, tra cui la selezione per il XVI Annuario della Videoarte Italiana, curato da un comitato accademico di rilievo, e l’invito a rappresentare l’Italia alla prima storica Biennale d’Arte Contemporanea di Durazzo.

Inoltre, Dedin è stato recentemente intervistato da MuseumWeek, la settimana internazionale dei musei supportata dall’UNESCO. Attivo dal 2013, con la prima mostra a soli 17 anni, oggi Dedin conta oltre 70 esposizioni in 16 nazioni, tra cui Venezia, Roma, Torino, Berlino, Barcellona, Valencia, Alicante, Seoul, Los Angeles, New York e Caracas. La prossima tappa lo vedrà protagonista al Cairo, in un prestigioso festival all’ombra delle piramidi

Scoperto il ritratto del grande poeta romantico greco Andreas Kalvos

Andreas Kalvos (1792-1869) è considerato uno dei più importanti poeti del romanticismo greco, ma anche patriota che dedicò molte sue opere alla causa dell’indipendenza della Grecia, ma il suo volto è rimasto sconosciuto fino a pochi mesi fa, quando il Professor Giorgio Andreiomenos, dopo lunghe ricerche, ha scoperto all’interno di una collezione privata greca, il ritratto del grande poeta, eseguito a Firenze, nell’abitazione di Ugo Foscolo, del quale fu molto amico e che ammirava profondamente.

Ma andiamo con ordine. Nato, come Foscolo, sull’isola di Zante, ma nel 1802 seguì il padre a Livorno; nel vivace clima della città labronica, dove rimase fino al 1811, imparò la lingua e la cultura italiana, e respirò anche una certa aria di cospirazione, in un periodo in cui, sia in Italia sia in Grecia, si cominciava a parlare di unità nazionale. Nel 1812 si recò a Firenze dove fece di tutto per conoscere Ugo Foscolo, poeta del quale ammirava lo stile ma anche l’impegno patriottico. Foscolo sarebbe diventato la sua guida e il suo iniziatore al neoclassicismo, ai modelli arcaici e al liberalismo politico. Nel 1813 Kalvos, sotto l’ombra di Foscolo, scrisse tre tragedie in italiano: Teramene, Danaidi e Ippia. A Firenze, Kalvos conobbe anche Francesco Benedetti, poeta e carbonaro, con cui rimase in lunghi rapporti, testimoniati dalle lettere ritrovate nell’archivio dell’italiano. Entrato nella carboneria, fu perseguitato politicamente e costretto a lasciare l’Italia nel 1821; riparato a Ginevra, qui entrò nella massoneria, precisamente nella loggia Les Amis Sincères, fondata nel 1806 da Filippo Buonarroti. Come lo stesso Foscolo, soggiornò in più città europee, Londra compresa, prima di ritornare in Grecia, a Corfù, dal 1826 al 1852, dove insegnò anche all’Accademia Ionica. Poi, scelse di tornare in Inghilterra, dove rimase fino alla scomparsa nel 1869.

La poesia di Kalvos combina il drammatico con l’idilliaco, il pagano con il cristiano , i modelli greci antichi con l’attualità rivoluzionaria contemporanea, il puritanesimo con l’erotismo latente, il rigore, la malinconia, la forma classicista con il contenuto romantico. Di questo personaggio, però, fino a ieri era sconosciuto il volto; poi, dopo lunghe ricerche, il Professor Giorgio Andreiomenos si è imbattuto in un ritratto di giovane “letterato”, realizzato “nella prima metà del secolo XIX”, che sul retro recava “illeggibile iscrizione in italiano (probabilmente scritta a penna)”, effigie del Sig. And. Calvo, “e nient’altro che possa aiutare a un’ulteriore identificazione”. Poiché, però, circolano diversi ritratti di fantasia del poeta – realizzati nel tempo sull’onda del fascino dei suoi componimenti, ma non corrispondenti alla realtà del suo volto – la cautela del Professore era massima.

È stato quindi necessario incrociare le descrizioni del suo volto, reperibili sul passaporto rilasciatogli il 24 giugno 1826 dal consolato britannico a Marsiglia, e scoperto qualche anno fa dal compianto Spyros Asdrachas (1933-2017); Kalvos è descritto come “avente un’altezza di cinque piedi e sei pollici (cioè poco meno di un metro e settanta centimetri), capelli neri, fronte nuda, sopracciglia nere, naso piccolo e grosso, occhi castani, bocca media, mento rotondo, viso ovale e carnagione naturale (cioè bianca)”. A questa descrizione il ritratto in questione risponde perfettamente; e si presume che sia stato realizzato a Firenze, negli anni Dieci dell’Ottocento, nell’abitazione dello stesso Ugo Foscolo.

Una lunga ricerca che ha dato finalmente un volto a uno dei poeti ancora oggi più amati di Grecia e che ebbe profonde relazioni anche con l’Italia.

Everland-percorsi di ricerca. Parte la prima edizione della rassegna internazionale a Roma

Roma si prepara ad accogliere un nuovo appuntamento con l’arte contemporanea. Dal 26 aprile al 3 maggio, la Galleria d’Arte “IL LEONE”, a pochi passi dal Colosseo, ospiterà la prima edizione della Rassegna d’Arte Internazionale “Everland Art – Percorsi di Ricerca, un evento che promette di trasformare la capitale in un crocevia di creatività e sperimentazione.

Curata dall’associazione Athenae Artis sotto la direzione artistica di Maria Di Stasio, la rassegna vedrà la partecipazione di 43 artisti selezionati, tra nomi affermati e talenti emergenti. Pittura, scultura e fotografia saranno protagoniste di un’esposizione che abbraccia linguaggi e sensibilità diverse, offrendo uno spaccato autentico delle tendenze artistiche contemporanee.

La selezione ha un respiro internazionale: oltre agli artisti italiani, saranno presenti rappresentanti da Stati Uniti, Francia, Grecia, Spagna e Israele, a testimonianza della vocazione globale della manifestazione.

Durante l’evento saranno esposte 58 opere, tra pittura, scultura e fotografia, creando un percorso espositivo eterogeneo e stimolante. L’esposizione avrà una dimensione fisica, ma includerà anche artisti che parteciperanno con video proiezioni, offrendo così una varietà di linguaggi visivi e arricchendo ulteriormente l’esperienza dei visitatori. Un mosaico di tecniche, materiali e linguaggi visivi guiderà i visitatori in un autentico viaggio sensoriale e intellettuale, dove ogni opera diventa occasione di emozione, riflessione e dialogo con il presente. Temi sociali, visioni collettive e interpretazioni personali si intrecciano, offrendo uno spaccato potente e significativo dell’arte contemporanea.

Maria Di Stasio, curatrice dell’evento, racconta così il senso di questa rassegna:

L’arte rappresenta una delle forme di comunicazione più antiche e universali al mondo, ma allo stesso tempo risulta spesso complesso descriverla appieno. È un intreccio di esperienze sensoriali che ti travolgono come un turbine, trascinandoti nel loro nucleo più profondo. È uno specchio attraverso il quale possiamo percepire noi stessi nella nostra essenza più autentica.

L’arte è un rifugio, una salvezza che ci abbraccia con il coraggio: il coraggio di affrontare e accogliere le nostre emozioni, soprattutto quelle più oscure. Richiede però ancor più ardimento trasformare dolore e traumi in qualcosa di bello. Questa trasformazione, quasi alchemica, è ciò che rende l’arte così potente e umana. La bellezza e le emozioni che l’arte riesce a evocare arricchiscono l’esistenza, offrendoci momenti di introspezione e contemplazione. Inoltre, essa ha il dono straordinario di creare un senso di appartenenza e identità culturale, permettendo alle persone di condividere esperienze comuni e di sentirsi più connesse alla propria comunità. È un linguaggio universale che trascende le parole, capace di unire e dare voce a sentimenti collettivi. L’arte è, in definitiva, una forma di espressione umana unica, attraverso la quale pensieri ed emozioni prendono vita nei più svariati stili e linguaggi visivi. Nello stile scelto dall’artista per dare corpo alle sue opere risiede, forse, la vera essenza dell’arte: la capacità di materializzare ciò che si prova, pensa e percepisce in qualcosa di tangibile. Le cinquanta opere visive, ognuna con il proprio linguaggio unico, tracciano percorsi personali attraverso impatti materici e simbolici. 

Gli artisti partecipanti sono:

Giovanni Vano, Inbal Kristin, Marco Eracli, Carmela Tulino, Donato Stabile, Silvia Orlandi, Alessandra Croce, Andrea Scardigli, Adriana Finazzi, Umberto Falvo, Danilo Calò, Teresa Saviano, Anna Matrosova, Katrien Vanderkelen, Maria Sturiale, Khanh Nguyen, Stefania Botta, Roberta Baldassano, Maria Flora Cocchi, Fabrizio Ceci, Christine Selzer, Lorenzo Trombino, Gabriella Zanchi, Enza Cotugno, Benedetta Dell’Uomo, Giuseppina Irene Groccia, Tommaso Garofalo, Riccardo Furlanetto, Paolo Lelli, Fabio Tolu & Rachele Cialdini, Rita Maurizi, Fabrizio Gentilini, Stefania Tagliabue, Sara Asquini, Simona Carbone, Patrizia Nigro, Giovanni Fasano, Lemma Patrizia,  Antonio Iovine, Antonio Panella, Raffaele Di Stasio, Alessandro Rinaldoni & Francesca Ghidini.

Il 26 aprile alle ore 17:30 si terrà il vernissage inaugurale, segnando l’inizio della prima edizione di questo prestigioso evento d’arte.

A guidare la presentazione sarà Maria Di Stasio, affiancata dalla critica e storica dell’arte Mariangela Bognolo, che offrirà un’approfondita lettura critica delle opere esposte.

Nel corso della serata, Bognolo analizzerà il lavoro di ciascun artista, fornendo spunti di riflessione e chiavi di lettura che accompagneranno il pubblico alla scoperta delle diverse espressioni artistiche. Sarà un momento di grande valore, in cui gli artisti avranno l’opportunità di raccontare in prima persona il significato delle proprie creazioni, svelando ispirazioni, percorsi e visioni artistiche.

Il dialogo tra l’analisi critica e le testimonianze dirette darà vita a un confronto stimolante e coinvolgente, arricchendo l’esperienza dei presenti e offrendo una prospettiva più profonda sulle opere in mostra.

A distinguersi tra i riconoscimenti dedicati agli artisti vi sono premi di prestigio, ciascuno pensato per esaltare un aspetto specifico dell’eccellenza creativa, valorizzando talento, ricerca artistica e innovazione espressiva.

Durante il vernissage, avrà luogo la cerimonia di premiazione, con l’assegnazione delle targhe agli artisti vincitori nelle seguenti categorie:

Premio Rete Top 95, a testimonianza dell’impegno nel promuovere il dialogo tra diverse generazioni e stili.

 

Premio della Critica, un tributo alla visione artistica capace di connettere pubblico e critica.

 

Premio EtereArt, che valorizza il rigore concettuale e l’originalità delle opere.

 

Premio ContempoArte, dedicato alle espressioni artistiche più innovative e sperimentali.

 

In qualità di Media Partner, l’associazione L’ArteCheMiPiace di Giuseppina Irene Groccia, avrà l’onore di assegnare il Premio ContempoArte.

Questo prestigioso riconoscimento verrà attribuito all’artista che si sarà distinto per l’approccio più innovativo e sperimentale, accompagnato da una pubblicazione esclusiva sul Magazine ContempoArte.

Oltre alla premiazione, il Blog L’ArteCheMiPiace sosterrà ogni artista partecipante attraverso un supporto mediatico dedicato. Ad ogni artista partecipante sarà dedicata uno spazio di pubblicazione sul Blog con un’ intervista personalizzata in cui raccontare il proprio percorso e presentare le opere esposte alla rassegna.

Un progetto di comunicazione integrata

L’Associazione Athenae Artis affianca alla qualità curatoriale della mostra un impegno senza precedenti nella comunicazione. Attraverso il suo ufficio stampa, e la Media Partnership con L’ArteCheMiPiace si assicura una gestione impeccabile dei rapporti con i media, la diffusione capillare dei comunicati e la documentazione dell’intera rassegna stampa.

La strategia di promozione si estende ai social network, con contenuti curati, dirette video e foto reportage che coinvolgono il pubblico in tempo reale, rendendolo parte attiva dell’evento. Questa sinergia tra comunicazione tradizionale e digitale punta a massimizzare l’impatto di EVERLAND ART, trasformandolo in un’esperienza condivisa e amplificata da una rete globale.

EVERLAND ART crede fermamente che ogni artista debba essere supportato non solo attraverso l’esposizione delle proprie opere, ma anche grazie a un sistema di promozione che valorizzi la sua individualità e il suo messaggio. In questa visione, i premi e la visibilità rappresentano il coronamento di un percorso che mette l’artista al centro, come protagonista di un evento concepito per supportare il talento in tutte le sue forme.

Questo evento rappresenterà un’occasione importante per valorizzare sensibilità artistiche diverse, mettendo in luce poetiche e visioni provenienti da contesti eterogenei. Una vetrina d’eccellenza che non sarà solo un riconoscimento al talento, ma anche un importante spazio di dialogo, confronto e crescita culturale, dove l’arte diventa terreno di scambio e ispirazione.

 

“EVERLAND ART”

Percorsi di Ricerca

Expò Internazionale d’Arte Contemporanea

Dal 26 aprile al 3 maggio 2025

Organizzata e Promossa da: Associazione Culturale “ATHENAE ARTIS”

Con la collaborazione di: GALLERIA D’ARTE “ IL LEONE”

Art Curator: Maria Di Stasio

Critico e Storico dell’Arte: Mariangela Bognolo

Media Partner: L’ArteCheMiPiace

Vernissage sabato 26 Aprile ore 17.00

Info e comunicazioni: athenaeartis@libero.it

Orario mostra: Dal lunedì al sabato : 10.00 – 13.00 / 15.00 – 19.00

 

“Dio è Morto”, la scultura monumentale di Matteo Mauro critica di una società che perde la speranza della benevolenza

L’artista Matteo Mauro reinterpreta il sacrificio di Cristo alla luce di eventi recenti come guerre e pandemie. L’opera ricorda in alcuni tratti l’iconografia della sacra sindone, ma se ne discosta profondamente per il significato.

A fine anni ’60 Guccini cantava la provocatoria “Dio è morto”, canzone di denuncia che raccontava il senso di sfiducia in una società che stava cambiando e si stava mettendo in discussione. Un sentimento che in molti sentono ancora molto attuale, e che Matteo Mauro, artista contemporaneo, tra i massimi esponenti italiani di arte generativa a livello mondiale, ha reso tangibile nell’opera “God is Dead”, Dio è Morto, una scultura realizzata in marmo di Carrara, iniziata nel 2021 e terminata nel 2025, e fotografato da Nicola Majocchi, che lavorò come assistente del leggendario fotografo Irving Penn a New York.

Una vera opera monumentale, con misure imponenti: 185 x 68 x 40 cm. Scolpita a mano, utilizzando le macchine solo per la sgrossatura, la rappresentazione allude ad un Cristo non più vitale ma in uno stato di decadimento ed erosione. Non più ricoperto da una pelle ancor fresca sotto la sindone, ma un uomo che, morto, rivela la sua eredità ossea. Crolla l’immagine del Dio.

L’opera potrebbe essere accostata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, di cui ricorda non solo il soggetto, ma anche i panneggi, le trasparenze del velo sul volto e la posizione. Se, però, Sanmartino con questa scultura guardava alla salvezza e al riscatto dell’umanità attraverso la sofferenza di Cristo, nel lavoro di Matteo Mauro troviamo disillusione per il futuro della società, che si allontana sempre più dalla fede per scivolare verso la brutalità, l’odio e l’indifferenza.

Negli anni della sua creazione, anni di pandemie, guerre ed una continua perpetrazione del concetto dell’odio sociale, l’artista vive un continuo processo di perdita della speranza di benevolenza e di una umanità che si muove verso la sua redenzione. Il sacrificio di Cristo quindi è vano, insieme al suo messaggio, il suo sogno di rinascita. Un’attesa risurrezione, che qui non avviene, ma che è sostituita da una decomposizione.

La scultura si posiziona, secondo l’artista, in una società che sempre più si distacca, non dal Dio, ma dalla sua parola, ed anche dove questa persiste, in modo formale, al contrario si nega nella realtà delle azioni pratiche. Un mondo quindi non positivamente secolare, ma negativamente perso nella sua brutalità. Un mondo lontano dall’ambita provvidenza.

L’opera evidenzia il problema e le implicazioni di una società in cui la frase “Dio è morto” risuona con inquietante rilevanza. Affrontando la profonda solitudine e l’isolamento in assenza di intimità divina, offre una potente critica della visione moderna della vita, dei comportamenti sociali e della falsa spiritualità dell’uomo e del potere contemporaneo.

Lucio Corsi, il mondo poetico e la campagna come ‘locus amoenus’

Un artista delicato, dolce, onirico, un cantautore ispirato come ormai non se ne incontrano quasi più. Ascoltare Lucio Corsi oggi è rivivere un tempo quasi dimenticato. Una Madeleine di Proust, un ricordo felice che si ripresenta; l’estetica vagamente ispirata a Ziggy Stardust di David Bowie, l’universo musicale che ha sfumature di Ivan Graziani, forse Lucio Dalla e Randy Newman pur mantenendo una linea originale netta. Lucio Corsi piace perché, come i cantautori di un tempo, non si vende al mercato dell’infallibilità ma fa poesia cantando la natura che lo circonda.

I suoi testi sembrano avvolti da una sorta di realismo magico e antropomorfismo: popolati da animali e scenari bucolici, come una favola di Esopo o Fedro, i brani di Corsi raccontano la natura, la campagna, il mondo contadino e le tradizioni legate a un tempo ormai dimenticato. Altalena Boy/Vetulonia Dakar è la raccolta dei suoi primi due EP, in cui mescola l’ambientazione bucolica a sfumature fantastiche, mentre Bestiario Musicale è il primo album dell’artista dove la dimensione favolistica è centrale; i testi, apparentemente scanzonati, celano invece significati profondi e ricordano a tratti la poetica di Gianni Rodari.

Bestiario musicale

Nel disco Cosa Faremo Da Grandi, azzardando un parallelismo, si riscontra ancora una sfumatura rodariana; nello specifico il Rodari della raccolta Filastrocche per tutto l’anno dove il poeta di Omegna racconta aspetti della vita quotidiana, il fluire del tempo, i sentimenti come l’amicizia e l’importanza della solidarietà. Il fiabesco ingloba anche la seconda traccia del disco, Freccia Bianca, pur trattandosi di un brano più autobiografico; il treno è lo spirito di un pellerossa che risale, dall’amata Maremma, la strada verso Milano. E anche il vento, per qualcuno fastidioso, può diventare un buon amico; nel brano Trieste, Corsi scrive:

“Il vento no, non è un freno, ma una spinta”.

Risulta chiara l’immagine lirica di cui l’artista fa dono a chi ascolta la sua musica: una condizione apparentemente avversa può nascondere elementi positivi. Anche nella visione di Eugenio Montale a volte il vento può essere segno di vitalità positiva. Il poeta ligure In Limine ( Ossi di Seppia, 1925) scrive:

‘’Godi se il vento ch’entra nel pomario

vi rimena l’ondata della vita […]’’.

Nei versi di Montale il vento rappresenta l’ondata della vita, il cambiamento che può accadere; proprio come Lucio Corsi ricorda in Trieste: a volte lo scompiglio è opportunità. Quello che colpisce dell’artista è l’abilità di cantare la normalità, un quotidiano intriso di sogno ma anche di sentimenti che accomunano; è il caso di Tu sei il mattino (2024) dove Corsi canta la giovinezza e gli anni del liceo in una dimensione intimistica e nostalgica che ricorda le band anni ’70, come La Bottega dell’Arte nel brano Che dolce lei o ancora il già citato Ivan Graziani che pure nel brano Agnese si lascia andare al ricordo luminoso della giovinezza, rievocando malinconicamente nella figura della giovane ragazza un tempo dorato e perduto. Ascoltando con attenzione i brani di Lucio Corsi ci si catapulta in un mondo che non c’è più, anche per quanto riguarda la poetica; il registro linguistico colto e raffinato dell’artista, così come gli scenari descritti nei brani, evocano un mondo poetico e onirico che rimanda a grandi nomi della letteratura italiana difficile da scorgere nell’attuale panorama musicale.

La campagna come locus amoenus e la visione favolistica 

Per Corsi la campagna è il locus amoenus per eccellenza; la natura georgica e bucolica ritorna spesso nella sua produzione musicale così come le immagini poetiche che rimandano a un mondo fatto di tradizione contadina. In Tu sei il mattino sfilano gli ulivi, le margherite, la neve e la dolcezza di un amore giovanile:

‘’Ho imparato come stare al mondo dagli ulivi nella rete

Che s’inchinano soltanto sotto al peso della neve

Non me ne fregava niente di Pitagora ed Euclide

Gli occhi fuggivano via dalle finestre, nei prati di margherite’’.

Cosa faremo da grandi

Un universo bucolico che ricorda Myricae di Giovanni Pascoli e le sue onomatopee, soprattutto nel disco Bestiario Musicale, dove la musica che accompagna la bellezza dei testi si fonde in una dimensione surreale. Ascoltando in cuffia L’Upupa, La Volpe, La Lepre, sembra quasi di trovarsi immersi nella macchia Toscana, di notte, mentre i rumori si rincorrono formando un’armoniosa melodia e l’odore degli alberi e della terra ulimosa penetra il proprio essere trasportando l’ascoltatore in un panismo di dannunziana memoria. La Maremma di Corsi è descritta nel suo essere brulla ma anche incantata.

Bestiario Musicale dà voce agli animali che la popolano, quegli animali che un tempo avevano molto più spazio per esprimersi e far valere il loro potere. Cosa resta, quindi, del legame dell’Uomo con il mondo animale? Sembra chiedersi e chiedere l’artista. Ma i brani sono anche un ponte che si collega al passato, a quella dimensione intrisa di leggenda e tradizione che appartiene al mondo contadino dove gli animali sono alleati, non nemici.

Corsi ha raccontato in varie interviste di quanto il brulicare di suoni appartenente al mondo animale della sua amata Maremma sia vivo, di come la genesi delle sue canzoni parta da momenti di vita vissuta, da una lepre che spunta in strada durante la notte, dalla vita invisibile ma pulsante che contorna la campagna del suo paese di origine.

In Corsi ritorna il mito bucolico della campagna, il locus amoenus che rimanda ai tipici luoghi dell’infanzia pascoliana. Il rigoglio della natura, in questo senso, diventa palcoscenico di magia e meraviglia e proprio l’ambiente pastorale rappresenta la più fulgida poetica del fanciullino, ovvero la contemplazione sensibile di fronte alle piccole cose; il «(Non omnis) arbusta iuvant humilesque Myricae» di Virgilio da cui Pascoli trae il titolo della sua raccolta Myricae per sottolineare la bellezza dell’apparente semplicità che può essere colta solo dalla purezza del fanciullo. La natura regala letizia solo a chi sa accorgersi delle piccole cose, un piccolo monito che in Bestiario Musicale è più vivido che mai.

L’Upupa di Lucio Corsi e L’Upupa di Eugenio Montale

La capacità immaginativa di Lucio Corsi è talmente potente da farlo sembrare un antico cantastorie, un folletto bucolico e bizzarro della musica che ha come cori e cantori gli elementi della natura. Il brano “Godzilla” è, per esempio, una canzone surreale popolata da falene e cimici e dalla variegata immaginazione di un bambino, o ancora ‘’Le Api’’ dove il kafkiano e il reale si incontrano sfiorandosi in una eterna danza. E poi c’è ‘’L’Upupa’’ (Bestiario Musicale, 2017) che narra di un movimento punk nato nella foresta:

‘’C’è un movimento punk nella foresta

Gli alberi con i capelli sempre verdi sulla testa

C’è un movimento punk ai limiti del bosco

Con l’upupa che canta allegra le sue origini di zebra

E se ne frega di chi la vede come un male

Di chi la vede come un ponte tra il mondo dei vivi e il mondo delle ombre’’.

Lucio Corsi restituisce una certa regalità a questo uccello mitico visto come oggetto di superstizioni e leggende e, spesso, associato alla morte e all’oscurità. E come l’artista, anche il poeta Eugenio Montale squarcia la veste ferale che la maldicenza aveva accostato al volatile nei versi di Upupa, ilare uccello ( Ossi di Seppia, 1925):

Upupa, ilare uccello calunniato

dai poeti, che roti la tua cresta

sopra l’aereo stollo del pollaio

e come un finto gallo giri al vento;

nunzio primaverile, upupa, come

per te il tempo s’arresta,

non muovere più il Febbraio,

come tutto di fuori si protende

al muover del tuo capo,

aligero folletto, e tu lo ignori.

 

La Maremma immaginata, elogio della provincia e dimensione fantastica

In più di un’intervista Lucio Corsi ha parlato dell’importanza della noia e di come la sua famiglia lo abbia fin da subito indirizzato a farci i conti, in quanto aspetto presente nella vita di ognuno. Corsi ha anche sottolineato, tuttavia, quanto il tedio sia stato motore della sua creatività; la vita di provincia può essere lenta ma proficua e ricca di insegnamenti. Il silenzio può consigliare arte e nell’apparente stasi  il brulicare di vita sussurra fantasia. Il poeta Attilio Bertolucci scriveva ‘’Il passo è quello lento e gaio della provincia’’ (Gli Anni, La capanna indiana, Firenze, Sansoni, 1951) perché la lentezza è anche prendersi il tempo per il piacere della scoperta. La bellezza del mondo fantastico di Lucio Corsi è soprattutto aver ricordato come, in un momento storico che spinge alla velocità e fa sentire fuori luogo chi non è infallibile, bisogna sempre rimanere sé stessi, non snaturandosi. E allora ecco che l’artista propone una Maremma che è scrigno di sogno: nella zona Toscana amata dallo scrittore Carlo Cassola la poetica di Corsi, dopo Bestiario Musicale, lascia il posto all’onirico e al surreale come si riscontra nel brano La gente che sogna:

’Se ne hai bisogno

Un albergo non è altro che il pronto soccorso del sonno

Dove puoi fare tutte le esperienze della vita

Senza una vittoria e senza una ferita’’.

Ma le suggestioni della Maremma sono sempre presenti nei brani di Corsi e così il carattere favolistico e visionario che si interseca a influenze glam rock e cantautoriali come quelle di Paolo Conte e Ivan Graziani. Un altro esempio è l’album, con l’omonimo brano, Cosa faremo da grandi? in cui l’artista smonta la narrazione del ‘’traguardo’’ come punto d’arrivo, evidenziando come l’azione del disfare non sia necessariamente un fallimento ma, anzi, una ripartenza perché sì, si può buttare il lavoro di anni in quanto anche da adulti è possibile cambiare visione e percorso:

‘’C’è un mistero in ogni giorno che comincia

Dopo una notte che finisce

Io non ho mai capito

Di che cosa sono fatte le conchiglie

E come fanno ad arrivare

Lungo le spiagge affollate

Se dal cielo non scendono scale

Se dal mare non arrivano strade’’.

Ascoltare i brani di Lucio Corsi è tornare con la mente a tempi lontani, al mondo dorato dell’infanzia, alla dimensione lirica e domestica degli ambienti familiari, alle sfumature crepuscolari di provincia popolate da poeti come Marino Moretti e Guido Gozzano, al giorno svanito nel tramonto e  alla ‘’pace infinita che sui fiumi stende la sera alla campagna’’ di Alfonso Gatto (Arie e ricordi, Tutte le poesie Mondadori, 2017).

Un parallelismo con il poeta Morbello Vergari

La poetica di Lucio Corsi ha ammaliato il pubblico per la sua delicatezza, l’eleganza e la cultura dell’artista. La Maremma Grossetana, luogo natio di Corsi, vanta anche i natali di un altro pregevole poeta: Morbello Vergari nato nel dicembre del 1920 e scomparso nel 1989. La sua è un’infanzia contrassegnata dalla guerra e dalla miseria, ma vicina al mondo contadino e bucolico. Durante gli anni del dopoguerra inizia a proporre i suoi testi poetici e si avvicina alla musica in quanto suona la fisarmonica. La sua prima silloge è ‘’Versacci e discorsucci’’ e nel presentare il proprio pensiero poetico Vergari scriverà:

«Non canto i cavalier, l’armi, gli onori,

come un dì fece il grande Ludovico.

Le guerre infami, i sanguinanti allori;

di tutto questo non mi importa un fico.

Ma i lavoranti, l’ape, i campi, i fiori;

le cose grandi solamente, dico.»

Proprio come Lucio Corsi, Vergari canta la normalità, la consuetudine, le piccole cose che tuttavia sono grandi. L’attaccamento alla  propria terra e la fierezza delle proprie origini è un altro punto in comune fra l’artista visionario, ponte fra presente e passato, e Morbello Vergari. Il poeta intorno agli anni ’70 aveva iniziato una ricerca sulla tradizione canora maremmana; grazie all’amicizia con la cantante folk Caterina Bueno partecipa alla serata conclusiva del Convegno sulle “Tradizioni popolari e la ricerca etnomusicale” , nel 1975 a Firenze. Successivamente, in seguito alla collaborazione con Corrado Barontini, nasce  il gruppo “Coro degli Etruschi” il cui obiettivo era riproporre i canti della tradizione; da qui il libro ‘’Canti popolari in Maremma’’.

Quello che stupisce dell’arte di Lucio Corsi non è solo una sublimazione sognante del quotidiano ma anche la mescolanza fra il surreale e il reale. In alcune interviste tratte dal periodo Sanremese Lucio ha sottolineato:

‘’Bisogna rimanere ancorati alla terra come gli alberi della Maremma’’.

La terra natale è sempre presente e così gli alberi che Lucio ama: sognare sì, tendere al cielo anche ma sempre rimanendo solidi come il paesaggio selvaggio della sua Maremma. In un’intervista risalente al 2015 su La Repubblica Lucio parla anche del suo rapporto con gli alberi:

‘’Ho un rapporto di infatuazione per gli alberi: c’è tipo una quercia vicino casa mia e ce l’ho come riferimento fin da piccino’’.

Il lirismo  di Corsi colpisce anche nelle interviste per il lessico sofisticato e il tono elegante, ma soprattutto per i contenuti consueti ma rivoluzionari. Conversare del potenziale rapporto d’amore con la natura e i suoi elementi è già poesia e Lucio ricorda a chi è preso dalla frenesia del mondo e dalla competizione quanto è bello non avere traguardi ma solo partenze e quanto è liberatorio fermarsi ad ascoltare. Come scriveva il poeta Camillo Sbarbaro, in 38, Trucioli (1914-1918):

‘’Ma ormai, se qualcuno invidio, è l’albero.

Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno. Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato.

Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!

Più che d’uomini, ho in cuore fisionomie d’alberi’’.

 

Entomologia in musica e poesia

Come si evince da alcune dichiarazioni dell’artista e dai suoi testi la passione per l’entomologia e gli insetti è abbastanza evidente. Nel brano ‘’Godzilla’’ Corsi catapulta l’ascoltatore in un universo incantato esortando, quasi, a fare un esercizio di immaginazione:

‘’Provate a mettere le ali

Provate a mettere le ali alle lumache

Diventeranno draghi’’.

Così le cimici diventano carro-armati volanti, gli insetti vedono gli alieni camminare sulla terra e le falene sono farfalle anziane in pelliccia che, alla sera, vanno a ballare. Un giovane poeta del secolo scorso, come Lucio Corsi, intesserà un rapporto profondo con l’entomologia e specialmente con le farfalle; Guido Gozzano, infatti, dedicherà dei meravigliosi versi ai lepidotteri in le ‘’Epistole Entomologiche’’.

‘’[…]Voi contemplate, amica, la farfalla

infissa da molt’anni. Ben più dolce

è meditarla viva nel suo regno

La rivedo con gioia ad ogni estate;

sfuggito all’afa cittadina, appena

giunto al rifugio sospirato, indago

con occhi inquieti lo scenario alpestre […]’’

Gozzano, come Corsi, è un cantore della provincia e delle piccole bellezze che sfuggono agli uomini assorbiti dall’escandescenza della società. Sempre come l’artista toscano che ritorna alla sua Maremma, anche nel mondo poetico di Guido Gozzano la città natale – in questo caso Torino – è al centro del suo universo letterario, culla di ricordi, lirismo e nostalgia; così come la natura che ritorna nella sua contemplazione paesaggistica e il mondo naturale popolato dai suoi elementi caratteristici.

Intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno

Le influenze musicali di Corsi, come sottolineato più volte dall’artista, sono ben note. Ma la sensibilità del cantautore, la preziosità del registro linguistico, la visione immaginifica dei testi lo collocano al centro di un mondo letterario sfavillante in cui confluiscono le poetiche di vari autori del ‘900, a ben vedere, e non solo scrittori di poesia ma veri e propri precursori di tendenze.

Il 15 ottobre 1923 nasceva Italo Calvino, il 15 ottobre 1993 Lucio Corsi; forse una strana coincidenza, o forse no. Il primo ha esplorato il neorealismo, la commedia fantasy, la fantascienza umoristica, il gusto dell’ironia la dimensione mitico-fiabesca che sotto le spoglie del sogno cela la realtà. E Corsi è un artista che sembra uscito da una fiaba, un menestrello che racconta le sue storie attraverso testi fantastici e favolistici che non tralasciano la dimensione onirica e la sfumatura fantascientifica ( si pensi all’Astronave Gira Disco o Altalena Boy, per esempio) una figura eterea, fluttuante  e incastonata in un paesaggio dai toni pastello di Hayao Miyazaki. L’amore di Lucio per gli alberi lo avvicina alle avventure arboree di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista de il Barone rampante (1957) di Italo Calvino che decide di salire su un leccio e di non scendere più, ma anche alla struttura fiabesca di Marcovaldo (1963) dove il tema urbano si interseca alla tematica del surreale e alla purezza del personaggio.

L’incredibile successo di Lucio Corsi è forse sintomo di un necessario  processo di palingenesi: l’arte, la cultura, la musica, la poesia hanno bisogno di una rinascita, una  restaurazione che non releghi i valori, le tradizioni, la normalità e la fierezza di essere sé stessi – come lo stesso Corsi canta nel brano portato al Festival di Sanremo 2025, ‘’Volevo essere un duro’’– ma si interessi all’immagine di uomini fallibili e imperfetti che sognano grazie ad alberi e prati di margherite come Lucio, che immaginino gli allunaggi delle lepri e ombre che non sono lugubri o funeree ma rappresentano lo sguardo illuminato della luna che sfugge alla notte che avanza. ‘’Sono anni che nessuno mi trasforma in qualcos’altro’’, scrive l’artista in un altro suo pezzo, ‘’Danza Classica’’, e probabilmente è stata proprio la sua resistenza al tempo e alle mode, oltre alla sua musica, ad averlo preservato in tutta la sua purezza e luminosità.

 

 

 

 

Silenzi e il sussurrare dei Myosotis. La prima mostra di Rita Zunno, autrice del logo Napoli 2500

Dopo aver vinto il concorso per la realizzazione del logo delle celebrazioni per i 2500 anni della Fondazione di Napoli, Rita Zunno presenta il suo progetto Etimoincerto, con l’esposizione “Silenzi e il sussurare dei Myosotis” che per la prima volta la vede protagonista creativa di opere grafiche dedicate al silenzio, utilizzando tecniche digitali su supporti come specchi, carta e dibond. La giovane graphic designer, che sigilla con il suo logo i festeggiamenti dei 2500 della Fondazione del capoluogo partenopeo, esprime la sua parte più intima in questa mostra a cura di Giovanni D’Alessandro dal 21 al 27 febbraio nella galleria Fatti d’Arte ad Aversa.

 Le opere che rappresentano personaggi muti e senza volto dai quali nascono fiori, simbolo di un linguaggio fragile e potente, solleciteranno l’attenzione del pubblico su un aspetto del processo umano della comunicazione che a volte è dimenticato, pur essendo molto importante e che oggi appare particolarmente necessario richiamare. Si tratta del rapporto tra silenzio e parola: due momenti che devono equilibrarsi, succedersi e integrarsi per ottenere un autentico dialogo e una profonda vicinanza tra le persone. Quando parola e silenzio si escludono a vicenda, la comunicazione si deteriora, quando, invece, si integrano reciprocamente, acquista valore e significato. Il silenzio è parte integrante delle relazioni umane e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nell’assenza ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero, comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro, scegliamo come esprimerci. Tacendo, diamo spazio all’altro per esprimersi e ci liberiamo dal rischio di restare vincolati esclusivamente alle nostre parole o convinzioni, senza un confronto adeguato.

Solo con il silenzio si apre uno spazio di ascolto reciproco e diventa possibile una relazione umana più piena, si colgono i momenti più autentici della comunicazione tra coloro che si amano: il gesto, l’espressione del volto, il corpo come segni che manifestano la persona. Nel silenzio parlano la gioia, le preoccupazioni, la sofferenza, che proprio in esso trovano una forma di espressione particolarmente intensa e deriva un pensiero ancora più esigente, che chiama in causa la sensibilità e quella capacità di ascolto che spesso rivela la misura e la natura dei legami.

 Questa lettura non evoca la nostalgia di tempi in cui non eravamo sovrastati dalle informazioni e dai messaggi ma è precisamente il contrario; dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti, il silenzio diventa essenziale per distinguere ciò che è importante da ciò che è accessorio, per questo è necessario creare un ambiente propizio, quasi una sorta di “ecosistema” che sappia equilibrare silenzio, parola, immagini, suoni e fiori che con il loro sussurrare ci ispirano.


Rita Rosaria Zunno

Nata nel 1986, laureata in scienze dell’architettura e specializzata in grafica e comunicazione presso l’istituto ILAS di Napoli. Ha lavorato come grafica pubblicitaria per circa 16 anni, parallelamente è cresciuta con una forte passione per l’arte; circa 11 anni fa, insieme al socio Gennaro Alterio, ha sviluppato il progetto “Fatti d’Arte”, incentrato sulla ricerca della cornice e sul suo utilizzo in una nuova estetica. L’iniziativa è accompagnata da una piccola galleria d’arte ad Aversa, punto di riferimento per la nascita di numerose collaborazioni con artisti e designer. Nel 2023 ha fondato con l’architetto Tiziana Visconti l’associazione culturale “smART – storie in movimento” che attualmente pianifica mostre per giovani artisti.

Simone Cristicchi tra intolleranza progressista e arte

In questi giorni sanremesi sta tenendo banco tra le polemicucce, quella sulla canzone del cantautore Simone Cristicchi, “Quando sarai piccola”, tacciata di paraculismo.

Al netto degli interventi di chi critica Cristicchi perché vicino agli ambienti di Pro Vita e non di sinistra, sorprende che un artista non possa parlare di temi non mortiferi, con romanticismo, senza che venga accusato di voler vincere facile. Cristicchi non apologizza l’eutanasia, non esalta i diritti civili, non spinge i diktat del progressismo più estremo. Cristicchi, che da sempre tratta temi delicati e drammatici, canta la propria esperienza, in cui molte persone si sono riconosciute.

Lasciando il patetismo a chi quest’anno a Sanremo fa la parte della vittima, riuscendo ad abbindolare anche la sala stampa, e a chi si è dato una ripulita nel look, sarebbe opportuno far conoscere a chi accusa Cristicchi di patetismo, che ad esempio un certo Eric Clapton ha scritto un capolavoro per suo figlio che è morto in tenera età; un autore, un artista prova a condividere un sentimento, un’emozione, scegliendo il modo di comunicarlo che più gli si addice.

Nelle parole di Cristicchi traspare la sofferenza e la fatica di chi si prende cura di una persona affetta da Alzheimer, sottolineando la dolcezza e la pazienza che si dovrebbe avere nell’accompagnare i propri genitori in questo drammatico cammino, e che alcune persone, purtroppo per molti, hanno.

La domanda semmai da porsi è: è una bella canzone quella di Cristicchi? Merita la vittoria? Se l’arte rientra nella capacità di trasmettere un tema, la forma è l’arte stessa, e in Cristicchi la forma c’è, e ha portato il pubblico alla commozione. Se con quella forma si riesce a toccare il cuore delle persone, l’obiettivo è centrato. L’esempio è nel festival stesso: Fedez tratta un tema importante come la depressione, eppure non ha avuto lo stesso impatto di Cristicchi.

Non è indispensabile avere un’estensione vocale pazzesca, gorgheggiare, vocalizzare, urlare, per toccare le corde più profonde dell’anima. La tecnica è fondamentale nel canto, ma non basta per poter parlare di arte o di poesia. A tal proposito, “Quando sarai piccola” non è poesia, né una messa cantata come alcuni detrattore considerano; è una bel testo, cantato con trasporto e commozione che però non ha melodia. Nonostante questo è “arrivata” al pubblico, come arrivò seconda a suo tempo “Signor tenente” di Faletti, canzone che non ha melodia, non orecchiabile, apprezzata da pubblico e critica, considerata una poesia.

Per affrontare la questione canzone/poesia, è necessario sgomberare il campo dai tanti luoghi comuni, dalle affermazioni sciatte che da decenni proliferano intorno a questo tema. Non basta liquidare la questione dicendo che i trovatori sono stati i primi cantautori della storia, che molte canzoni si ispirano alla letteratura (e qui si può stilare un elenco che va da Non al denaro non all’amore né al cielo di De Andrè a La divina commedia di Tedua), o che non è un caso che molti tra cantautori e cantautrici, parallelamente alla produzione musicale, abbiano sempre coltivato interessi puramente letterari, scrivendo romanzi (come quelli di Leonard Cohen, di Ivano Fossati), pubblicando poesie (come hanno fatto Jim Morrison, Patti Smith o Claudio Lolli).

La canzone è poesia? No. È letteratura? Certo.

Ammettendo poi che un testo letto e lo stesso testo cantato non sono la stessa cosa e, in particolare, che un testo scritto per essere letto e uno scritto per essere cantato sottintendono grammatiche differenti, si può anche arrivare a dire che una canzone che in tutto e per tutto assomiglia a una poesia in realtà non è una buona canzone. Eppure quante volte, proprio ascoltando un pezzo di musica leggera, ci capita di affermare come per Faletti o adesso per Cristicchi: questa è poesia? In quei casi è come se elevassimo la forma canzone a uno status superiore, esponendola a situazioni comunicative che trascendono ed eccedono quelle riconducibili a un brano musicale e che normalmente pertengono alle forme espressive ritenute più nobili, prima fra tutte la poesia.

Perché una canzone non può essere valida di per sé, in quanto canzone, ma deve per forza rimandare a qualcos’altro, prendere un po’ di qua e un po’ di là, simulare i modi della cosiddetta letteratura colta?

Va notato come l’influenza non sia soltanto unidirezionale: non è soltanto la poesia a ispirare le canzoni, in cui si riscontra chiaramente come talune proprietà del brano musicale abbiano esercitato un’influenza diretta sull’ideazione e sulla costruzione di testi propriamente letterari, o tranquillamente accolti come tali.

Alcune canzoni di Bob Dylan, di Fossati, di Guccini, di De André, di Battisti, ecc, sono palesemente letteratura, e come tale presuppone una consapevolezza linguistica che è propria del genere e che è giunto il momento di provare a inquadrare: di che specificità si tratta? Cos’è che in modo inconfondibile contrassegna la natura di certi testi musicali?

A questo punto bisogna accennare al fatto che la parola cantata demandi inevitabilmente parte del suo significato complessivo alla componente musicale, il che, a detta dei detrattori più tenaci, comporterebbe una insanabile ‘provvisorietà’ a livello strettamente letterario, una mancanza di esattezza che invece non si ritrova nella letteratura ‘pura’.

Semplicemente non si può valutare una canzone facendo capo ai soli strumenti della poesia. Ci si può limitare a notare come, in alcuni casi di cantautorato, una sorta di sistematica ‘disarticolazione’ della lingua cantata avvicini le parole delle canzoni a quelle del discorso poetico.

Detto ciò, Cristicchi meriterebbe la vittoria solo per il fatto di essere inviso ai progressisti, ma la sua canzone, abbastanza debole sul piano sintattico-ritmico-melodico, non fa di lui un poeta, e nemmeno un paraculo. Una cosa è certa: una canzone per essere bella e meritare la vittoria non deve essere per forza orecchiabile, vedesi la vittoria a Sanremo 2000 di Sentimento della Piccola Orchestra Avion Travel.

 

 

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