‘Autobiografia di mio padre’, l’esordio narrativo della poetessa Gloria Vocaturo

“Autobiografia di mio padre” è l’esordio nella narrativa della poetessa Gloria Vocaturo, che ha voluto offrire ai lettori un’opera emozionante in cui ricorda l’amata figura paterna e in cui allo stesso tempo omaggia la sua intera famiglia, il perno attorno a cui ruota la sua esistenza. Il romanzo è narrato in prima persona dal padre dell’autrice, Romeo, anche se in realtà è lei stessa a donargli il fiato, le memorie e a riempire gli spazi vuoti; nonostante ciò è come se fosse proprio lui a parlare, mentre si trova in una dimensione trascendente molto vicina ai suoi cari, e anche a noi.

Le parti narrative in cui viene raccontata la storia terrena di Romeo e della sua famiglia sono intervallate da brevi istantanee, dei veri e propri soliloqui, in cui egli esprime i suoi pensieri sulla sua nuova condizione spirituale; egli avverte la mancanza dei suoi affetti ma allo stesso tempo respira un amore totalizzante, che lo riempie di pace. Dalla saggezza delle sue parole emerge la certezza che niente va perduto, che ogni cosa che si dissolve si ricrea e che i legami sinceri e puri vivono per sempre.

«Qui nulla è camuffato. Tutti si amano, c’è una felicità stabile, vergine, eterna. Qui la Storia è sempre freschissima, nessuno è nel passato. Qui non c’è la morte».

L’autrice unisce vita e morte in un unico, appassionante dialogo, che non termina mai e che si rafforza nell’amore; nell’opera l’esistenza terrena e quella spirituale si intrecciano saldamente permettendo una serena elaborazione del lutto, che non vede nel trapasso una chiusura netta e definitiva bensì un naturale proseguimento del cammino di un’anima. La morte non è quindi la negazione della vita ma è parte di essa, e in questa verità di fede si intravede tutta la potenza e la bellezza dell’esistenza.

Gloria Vocaturo invita alla riflessione profonda e sincera su ciò che per noi è il senso della vita, della famiglia e dell’amore, e ci offre un’intensa opera che diventa lo specchio attraverso cui osserviamo noi stessi, con le nostre fragilità e paure, con i nostri dubbi e dolori; in questo riflesso arriviamo alla fine a comprendere che non c’è timore, sofferenza o incertezza quando si crede nell’eternità.

 

SINOSSI DELL’OPERA. Un romanzo intimo, emozionale, emozionante. In “Autobiografia di mio padre” Gloria Vocaturo affronta i valori fondamentali della vita: la famiglia, la morte, la spiritualità. Leggendo, si respira l’eternità: i “Soliloqui” fungono da elementi connettivi tra ciò che accade, la vita, e il suo significato spirituale; rappresentano la voce interiore che, post-mortem, rimane indelebile. Il padre diviene immortale. Molto efficace, nel racconto, è la dialettica costante tra la sua presenza terrena – le sue debolezze, la sua italianissima malinconia – e la sua persistenza nell’Altrove.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTRICE. Gloria Vocaturo, romana, vive a Napoli da venticinque anni.

Laureata in Scienze Politiche, ha all’attivo due opere poetiche: “È solo parte di me” e “Speranza”. È inoltre presente in numerose antologie. “Autobiografia di mio padre” è il suo esordio in narrativa.

 

Casa Editrice: Castelvecchi Editore

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 104

 

Contatti

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Link di vendita online

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‘Atom heart mother’ Il concerto-evento dei Pink Floyd Legend torna a Firenze il 29 giugno 2022 al Teatro Romano di Fiesole

Tutti i concerti del tour di Atom hanno sempre incassato il tutto esauritodagli Arcimboldi di Milano allo Sferisterio di Macerata, dal Teatro Romano di Ostia Antica a quello di Verona, dalla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica di Roma al Teatro Colosseo di Torino.
Un grande successo dovuto alla realizzazione “unica e speciale” della celebre suite: dal 2012 i Pink Floyd Legend, infatti, sono i soli a portare in tour ATOM nella versione integrale accompagnati da Coro e Orchestra seguendo la partitura originale (e autografata) del compositore Ron Geesin con il quale i Legend hanno sottoscritto a Londra, anni fa, un sodalizio artistico.

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Al Teatro Romano di Fiesole l’ensemble di cento elementi sarà composto dalla Legend Orchestra, dal Coro Arkè e dai Cori Sesto in Canto e Animae Voces (questi ultimi diretti dal M° Edoardo Materassi), tutti diretti dal Maestro Giovanni Cernicchiaro.
Nel corso del concerto non mancheranno comunque i più grandi successi del gruppo britannico (da quelli degli esordi a quelli più recenti) che la formazione romana suonerà nella classica formazione.

Quella di Firenze è la prima data di un tour estivo anticipato dal concerto del 21 giugno alle ore 21, in occasione della Festa della Musica, che aprirà le celebrazioni ufficiali di #FUTURESIGHT #TorVergata40 nel 40° anniversario della fondazione dell’Ateneo e che sarà esclusivamente dedicato a tutta la comunità universitaria.
L’evento, ripreso con la regia di Maurizio Malabruzzi e presentato da Carlo Massarini vedrà i Legend accompagnati dai 17 elementi della Legend Orchestra diretta da Giovanni Cernicchiaro.

Il 28 luglio i Legend saranno poi in scena al Giardino Scotto di Pisa, insieme a Denys Ganio e ai ballerini della Compagnia Daniele Cipriani, con SHINE Pink Floyd Moon, l’opera rock del celebre coreografo e regista Micha van Hoecke scomparso un anno fa.

Dal 31 luglio al 22 agosto il tour continua con 4 date di Atom Heart Mother.
Il 31 luglio il gruppo si esibirà in Romania all’Anfiteatro Romano di Bucarest per poi tornare in Italia a Roma sul palco della Cavea del Parco della Musica, il 3 agosto, dove si esibiranno con una special guest d’eccezione come Ron Geesin, il compositore inglese della celeberrima suite di Atom.
Ad agosto i Pink Floyd Legend voleranno in Sicilia per la prima volta per due date: il 21 agosto all’Agrigento Live Festival al Teatro Valle dei Templi e il 22 agosto all’Anfiteatro Falcone e Borsellino di Zafferana Etnea (Catania)
Il 7 settembre sarà, invece, la volta del repertorio di The Dark Side of The Moon all’Anfiteatro Romano di Terni.
Atom tornerà il 9 settembre, dopo il sold out del 2018, al Teatro Romano di Verona e il 23 novembre al Teatro Augusteo di Napoli.

Tutti i concerti del tour si avvarranno di un incredibile nuovo disegno luci e laser e di sorprendenti effetti scenografici che, uniti alla fedeltà degli arrangiamenti, ai video dell’epoca proiettati su schermo circolare di 5 metri, agli oggetti di scena, ricreano quel senso di spettacolo totale per vivere un’indimenticabile “Floyd Experience”

PINK FLOYD LEGEND
FABIO CASTALDI – Basso, Voce, Gong
ALESSANDRO ERRICHETTI – Chitarra, Voce
EMANUELE ESPOSITO – Batteria
SIMONE TEMPORALI – Tastiere, Voce
PAOLO ANGIOI – Chitarra acustica, elettrica e 12 corde, Basso, Voce
con
MAURIZIO LEONI – Sassofono
NICOLETTA NARDI / SONIA RUSSINO / GIORGIA ZACCAGNI – Cori

e con
LEGEND CHOIR & ORCHESTRA
diretti dal M° Giovanni Cernicchiaro

PINK FLOYD LEGEND SUMMER TOUR 2022
Biglietti in vendita su www.ticketone.it – www.bookingevents.it

‘Downtown Abbey II – Una nuova era’. Spazio a un duplice intrigo

Sette anni dopo la sesta e ultima stagione –piangono ancora milioni di fan- la saga tv “Downton Abbey” prolunga il suo exploit sul grande schermo. Infatti al film di tre anni fa, impostato sui frenetici preparativi per la visita del Re e la Regina alla magnifica magione dei Crowley, segue adesso un secondo capitolo dedicato al duplice intrigo che coinvolge la più famosa (nella fiction) famiglia aristocratica inglese e la sua servitù.

La trama è ambientata alla fine degli anni Venti e la prima, eclatante novità è costituita dalla buona novella portata a Lady Violet dal notaio di famiglia: l’ineffabile contessa, che ha ereditato a sorpresa dal marchese di Montmirail una sontuosa villa nel sud della Francia, pensa subito di girarne la proprietà alla nipote Sybbie. Mentre i congiunti cercano invano di convincerla a svelare il perché del munifico regalo, magari frutto di un passato imbarazzante, la vedova francese vuole impugnare il testamento facendo sì che i Crowley piombino in massa in Costa Azzurra decisi a fare rispettare la volontà del defunto.

Scelta assai opportuna perché il cinema sta bussando alle porte di Downton Abbey, con un celebre regista pronto a girare in quell’ineguagliabile scenario il suo nuovo film muto… Si cambia, come si sarà capito, qualcosina nel ritmo e le locations affinché non cambi nulla nelle atmosfere, lo spirito, i dialoghi, la sottile vena di humour che il creatore e sceneggiatore della serie Julian Fellowes ha mantenuto così a lungo ad alto livello: come se si trattasse di un cappotto o una giacca fuori moda ma di ottima stoffa, il piacere sta nell’abitudine, nel comfort di ritrovare gli amatissimi personaggi/interpreti (a cominciare dall’indomabile Smith) e imbattersi nei nuovi

arrivati d’oltremanica. Fin qui tutto bene, però dopo avere gustato la gradevolezza del sequel, ci si può anche accorgere che al film –al contrario di quanto succedeva nella serie- manca il tempo necessario per sviluppare in profondità le svariate sotto-trame, le ellissi non sono il punto forte della nuova sceneggiatura e quasi tutte le sequenze sembrano scremate, asciugate e in fin dei conti impoverite facendo assumere ai personaggi una dimensione puramente riepilogativa (la senilità di Violet, la solitudine di Mary, le ambasce di Robert, il segreto di Cora, l’indecisione di Molesley, ecc).

Fa piacere salutare –nel corso della stessa settimana della troppo lunga cerimonia dei David (bravi registi, alcuni buoni film, qualche bluff e un solo capolavoro)- due esordi italiani che confermano la ventata d’ottimismo che –se non sulle presenze in sala- sta soffiando sulle produzioni autoctone, come Settembre della Steigerwalt, sceneggiatrice di punta della Groenlandia Film nonché compagna del suo patròn Rovere.

 

 

Downtown Abbey II – Una nuova era (Gran Bretagna)/Settembre (Italia) – Valerio Caprara – Blog ufficiale

Il cinema napoletano in cattedra ai David di Donatello 2022

Domani sera (diretta su Rai Uno dalle 21.25) negli studi di Cinecittà per la cerimonia di premiazione della 67esima edizione dei David di Donatello ancora una volta ci sarà una predominante partecipazione napoletana che ribadisce l’attuale primato partenopeo nel settore dell’audiovisivo. Ed in particolare, oltre alle 38 candidature napoletane alla prestigiosa statuetta, ci sono ben 12 candidature dei ‘grandi maestri’ del cinema che da anni fanno parte del corpo docenti della Torre della Comunicazione dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, il più grande polo delle scienze della comunicazione e dello spettacolo nel Mezzogiorno.

Ben tre (miglior film, regia e sceneggiatura originale) le nomination ai David per Leonardo Di Costanzo, regista di Ariaferma, film rivelazione del 2021, e docente di Regia cinematografica e televisiva al Corso di laurea magistrale in “Scienze dello spettacolo e dei media. Linguaggi, Interpretazione e Visioni del Reale (LIVRe)” del Suor Orsola. Tre sono le nomination personali anche per Mario Martone (ben 13 quelle complessive per il suo Qui rido io). Il regista napoletano che sta portando al successo il teatro napoletano anche sul grande schermo con l’Università Suor Orsola Benincasa ha un rapporto decisamente speciale.

L’antica cittadella monastica di Suor Orsola è stata per settimane nel 2016 il set di uno dei suoi film più apprezzati: Il giovane favoloso. Pochi mesi fa Martone al Suor Orsola è stato insignito del prestigioso Premio BPER Napoli proprio “per aver ridisegnato l’identità napoletana attraverso i linguaggi del Teatro e del Cinema”. Ed al Suor Orsola Martone già nel 2014 nella laudatio per la laurea honoris causa in Imprenditoria e Creatività per Cinema, Teatro e Televisione al suo grande maestro Ugo Gregoretti aveva ‘disegnato’ gli scenari del futuro del cinema napoletano “attento al linguaggio dei giovani e proiettato alle grandi occasioni offerte dalle nuove tecnologie”.

Quegli scenari che quasi dieci anni dopo registrano ormai un successo planetario per il cinema napoletano e la produzione cinematografica a Napoli. “Il successo del cinema napoletano ed il successo di Napoli e della Campania come luogo attrattivo di importanti e numerose produzioni cinematografiche – sottolinea il Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandrotrova le sue principali radici in quel nuovo contesto normativo, amministrativo e di progettazione culturale con cui la Regione Campania ha effettuato uno straordinario investimento sul cinema e per il cinema del quale si raccolgono ora importanti frutti non solo in termini di prestigiosi riconoscimenti ma anche in termini di indotto economico. Un sistema virtuoso nel quale negli ultimi anni si sono inseriti tanti giovani che abbiamo formato nei nostri corsi di laurea e nei master post laurea dedicati alle scienze dello spettacolo con una particolare attenzione proprio alla progettazione culturale innovativa ed al management della produzione”.

Dalla produzione cinematografica al genere documentario: i grandi Maestri della Scuola di Cinema e Televisione del Suor Orsola

E proprio tra i produttori c’è una delle nomination più prestigiose per i docenti del Suor Orsola. Quella a Nicola Giuliano, produttore da Oscar de “La grande bellezza” e direttore del Master in Cinema e Televisione del Suor Orsola, candidato ai David 2022  proprio come produttore del film di Martone Qui rido io. “L’originalità degli autori napoletani nel contesto europeo – ricorda Arturo Lando, coordinatore scientifico del Master in Cinema e Televisione del Suor Orsola – nel 2015 è stato uno degli impulsi che ci ha spinto a proporre a Nicola Giuliano di creare con noi, nella Torre della Comunicazione del nostro Ateneo, un vero centro di produzione in cui gli allievi imparassero i mestieri del cinema e della Tv realizzando, con le proprie mani, lavori audiovisivi professionali, seguiti nel loro lavoro da nomi prestigiosi del settore, nomi che anche quest’anno sono stati confermati dalle nomination ai David di Donatello. È nato così il Master in Cinema e Televisione che, in 7 anni, ha trasformato tanti studenti in giovani professionisti attivi nel cinema e nella televisione”.

Per anni tra i docenti del Master il regista romano Francesco Munzi che, dopo la storica tripletta ai David del 2015 (miglior film, miglior regista e miglior sceneggiatura per Anime Nere), ritorna quest’anno in nomination per il documentario Futura, un’inchiesta collettiva, svolta insieme con Pietro Marcello ed Alice Rohrwacher, sull’idea di futuro di ragazze e ragazzi tra i 15 e i 20 anni incontrati nel corso di un lungo viaggio attraverso l’Italia.

Tra i grandi Maestri del genere documentario in nomination ai David 2022 c’è anche Gianfranco Pannone, direttore della sezione Cinema del Master del Suor Orsola ed autore del documentario Onde radicali su una delle radio, appunto Radio Radicale, che ha fatto la storia della comunicazione in Italia.

 

Dalla musica al montaggio: le candidature dei docenti dei Corsi di laurea in Scienze della Comunicazione e in Scienze dello Spettacolo

A due pilastri dei corsi di laurea triennale in Scienze della comunicazione (indirizzo cinema e televisione) e del corso di laurea magistrale in Scienze dello spettacolo altre due nomination in settori nevralgici per il cinema: la musica ed il montaggio. Pasquale Scialò, docente di Storia della Musica al Suor Orsola da oltre 25 anni ed autore dell’apprezzatissima colonna sonora di Ariaferma, sfiderà, tra gli altri, il Maestro Nicola Piovani per la statuetta riservata ai compositori.

Carlotta Cristiani, docente di Storia del cinema al Suor Orsola e direttore del montaggio di Ariaferma, sfiderà tra gli altri un grande maestro del montaggio cinematografico come Cristiano Trovaglioli (È stata la mano di Dio). “Formare i professionisti del futuro nel mondo dello spettacolo, formarli al meglio, unendo una solida preparazione accademica all’esperienza delle ‘botteghe artigiane’ nelle quali gli studenti realizzano i propri progetti sotto la guida di maestri di incomparabile valore, è la sfida di LIVRe (Linguaggi, Interpretazione e Visioni del Reale). Ed avere in squadra con noi i protagonisti del David di quest’anno, dalla regia al montaggio, ci riempie di orgoglio e ci conferma di essere sulla strada giusta”.

Così Antonello Petrillo, presidente del Corso di laurea magistrale in Scienze dello spettacolo (LIVRe) del Suor Orsola celebra questi riconoscimenti annunciando per altro che, a testimonianza del lavoro di formazione continua con i grandi maestri del cinema italiano, giovedì 5 maggio alle 11 il LIVReLab “Ugo Gregoretti”, lo spazio laboratoriale interdisciplinare del Corso di laurea magistrale in Scienze dello spettacolo e dei media, dedicato quest’anno al tema della “miseria del mondo”, ospiterà una lectio magistralis di Edoardo De Angelis, “narratore straordinario delle periferie urbane e delle vite degli ultimi” e regista, tra gli altri suoi film, di Indivisibili per il quale nel 2017 ha vinto proprio un David di Donatello come miglior sceneggiatura originale oltre ad aver ricevuto la candidatura come miglior regista.

Da ultimo grande testimonianza delle connessioni interdisciplinari che al Suor Orsola caratterizzano l’alta formazione nei settori di cinema, teatro e televisione è la candidatura ai David 2022 per la sceneggiatura originale di Qui rido io di Ippolita Di Majo, docente di Drammaturgia al Master del Suor Orsola in “Teatro  Pedagogia e Didattica. Metodi, tecniche e pratiche delle arti sceniche” diretto da Nadia Carlomagno.

 

Guerra in Ucraina. È sul fronte dell’informazione la battaglia che tutti dobbiamo combattere

I russi non conoscono la realtà della tragedia ucraina; molti italiani hanno idee sbagliate sulla crisi climatica. Censura e fake news distorcono la percezione, vanno contrastate con la conoscenza e la partecipazione.    

Lo hanno scritto in molti: l’invasione russa dell’Ucraina ha scatenato una doppia guerra. La prima si combatte sul campo, la seconda sui mezzi di informazione. La propaganda ha da sempre accompagnato i conflitti, ma in questo caso colpisce la sproporzione delle condizioni. Nei Paesi liberi abbiamo accesso a tutte le notizie e le dichiarazioni diffuse da entrambe le parti. In Russia, il Cremlino mantiene un ferreo controllo: nonostante i terribili eccidi che le sue truppe compiono in Ucraina e le sconfitte sul campo, Vladimir Putin non sta affatto perdendo il suo supporto tra la popolazione russa. È facile spiegare che questo si deve al totale dominio sui mezzi di comunicazione di massa: social media bloccati, stampa di opposizione chiusa, televisione completamente controllata dal regime.

Accanto agli indispensabili aiuti all’Ucraina che combatte, sarebbe importante riuscire a perforare questa barriera offrendo alla popolazione russa una informazione credibile e alternativa. Lo si è fatto durante la Guerra fredda con Radio free Europe, che trasmetteva al blocco sovietico in una ventina di lingue. I comunisti contrattaccavano con Radio Tirana, anche in italiano, che trasmetteva musiche balcaniche, come cantava Franco Battiato, ma anche tanta propaganda, udibile persino in Africa e in Sud America. Radio free Europe esiste ancora, e diffonde anche istruzioni per bypassare il blocco delle trasmissioni voluto da Mosca, ma evidentemente non basta per raggiungere la popolazione russa. Oggi certamente esistono mezzi più sofisticati, ma non mi sembra che a questo tema si dedichi adeguata attenzione.

In un contesto che (per fortuna) è totalmente diverso, la distorsione delle informazioni riguarda anche l’Italia. È sconfortante apprendere dalla ricerca “Media e fake news”, svolta da Ipsos per Idmo (Italian digital media observatory) e segnalata da “Media e dintorni”, la bella rubrica di Radio radicale, che il 39% degli italiani ritiene “la comunità scientifica molto divisa sul tema del cambiamento climatico”. Si tratta della percentuale più alta, tra le affermazioni scelte dagli intervistatori per verificare le posizioni nella categoria “Accordo con fatti falsi”. E si abbina, nella categoria “disaccordo con fatti veri”, con le affermazioni “L’acqua del rubinetto è salutare quanto quella in bottiglia” (30% che non ci crede) e “L’Italia è il Paese con la percentuale più alta di riciclo dei rifiuti in Europa” (29% che lo nega).

Pochi giorni dopo la diffusione della ricerca, è stata pubblicata la terza parte del rapporto Ipcc, dedicata alla mitigazione. Accanto alla precedente pubblicazione sulle politiche di adattamento, mostra che tra gli scienziati c’è invece un larghissimo consenso, su un messaggio complessivo di grande drammaticità: se vogliamo mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro 2°C, meglio ancora 1,5°C, le emissioni devono diminuire già dal 2025, altrimenti il mondo si avvia verso un aumento di oltre i 3 gradi a fine secolo. Si stima che per raggiungere il limite di 1.5°C i flussi finanziari per la transizione energetica devono aumentare di sei volte entro il 2030; di tre volte, invece, se intendiamo restare al di sotto di 2°C; obiettivi non impossibili, vista la quantità di denaro liquido disponibile sul mercato, con effetti positivi anche su economia e occupazione.

Anche quanto si sta facendo per l’adattamento, cioè per fronteggiare le conseguenze comunque inevitabili del cambiamento climatico, non è sufficiente a proteggere le popolazioni. Questo vale soprattutto per i più poveri, per quel 50% della popolazione mondiale responsabile (ricorda l’Ipcc) solo del 15% delle emissioni, mentre possiamo immaginare che il 10% più ricco e che emette il 40% dei gas serra troverà il modo di proteggersi meglio.

Anche se molti hanno idee sbagliate, la gente è preoccupata per la crisi climatica. Gli Stati Uniti certamente non sono all’avanguardia nella battaglia per la transizione ecologica: il loro livello di consumi, se imitato in tutto il mondo, brucerebbe ogni anno le risorse prodotte da cinque pianeti, rispetto alla media mondiale di 1,7, ci dice l’Earth overshoot day. Eppure la popolazione americana è tutt’altro che insensibile: un recente sondaggio Gallup ci informa che da sette anni il 45% degli statunitensi si dice “molto preoccupato” e una altro 27% “abbastanza preoccupato” per le condizioni dell’ambiente.

Analoghe ricerche in Italia ci danno indicazioni simili, anche se alla preoccupazione non corrispondono adeguate conoscenze e disponibilità ad agire. C’è poco da stupirsi: il Risk report che fornisce ogni anno, per conto del World economic forum, un sondaggio sui più gravi timori di mille leader mondiali, colloca sistematicamente, in testa a tutte le altre, le preoccupazioni per l’ambiente. Anche quando infuriava il Covid, i timori per la pandemia erano solo al sesto posto, mentre restavano in cima alla classifica l’allarme per la mancanza di accordi sul clima, per la perdita di biodiversità e per i fenomeni meteorologici estremi. Insomma, tutti si preoccupano per il clima, anche i big delle imprese e della politica, ma pochi hanno chiaro che cosa bisogna fare, o hanno il coraggio e la disponibilità a mettere in atto le ricette che pure esistono.

Torniamo all’Italia. Il rapporto Ipcc ha avuto un’ampia copertura su stampa e televisioni, compatibilmente con il prevalente e comprensibile orientamento dell’attenzione verso la crisi ucraina, ma penso che, anche se avesse avuto più spazio, non avrebbe inciso significativamente sull’atteggiamento dell’opinione pubblica e tanto meno su quello dei politici. Si pone dunque la domanda: se la diffusione dei fatti attraverso i media tradizionali non basta, che cosa dobbiamo fare per promuovere un salto di consapevolezza degli italiani sulle misure necessarie per fronteggiare una crisi come quella del clima, incombente e gravissima, che potrebbe compromettere il futuro delle nuove generazioni se non anche il nostro?

Certo, annunci politici condivisi che sensibilizzino sulla gravità della situazione e sulla necessità di fare whatever it takes per combattere la crisi climatica potrebbero raggiungere lo scopo. Gli italiani sono anche pronti a sacrifici e a cambiare idea se necessario, come rivela il sondaggio Ipsos – Repubblica a seguito della crisi ucraina, presentato in un articolo di Concetto Vecchio:

Quasi nove italiani su dieci (86,6 per cento) si dicono disposti a ridurre i propri consumi in caso di una crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina. Quasi sei su dieci (58,5 per cento) sono pronti ad accettare l’utilizzo del carbone e il 51,3 per cento si dichiara disponibile a discutere l’ipotesi di un’Italia che torni a investire nel nucleare.

Questo però avviene solo per temi sui quali l’opinione pubblica è stata fortemente sensibilizzata e sui quali avverte una sostanziale unità di buona parte della leadership politica. Non è così sulle misure per il clima, dove si verifica un circolo vizioso: gli italiani sono poco informati su quello che si dovrebbe fare veramente per la mitigazione e l’adattamento; i politici per timore di perdere consenso non si espongono se non con affermazioni generiche. Non informano e non decidono.

C’è dunque una grande battaglia da combattere sul fronte della informazione e in buona parte andrà condotta sui social mediaanche perché l’indagine Ipsos – Idmo già citata ci informa che

La stragrande maggioranza degli italiani (7 su 10) si informa esclusivamente tramite fonti gratuite o solo 1 su 4 è disposto a pagare per accedere ad informazioni di cui si fida.

social, però, spesso contribuiscono a consolidare convinzioni sbagliate, anche perché gli utenti tendono a scambiarsi informazioni tra persone con le stesse idee, creando conventicole contrapposte. La soluzione, come dice la stessa indagine, è il debunking, cioè lo “sfatamento”, l’attività di distinguere il vero dal falso attraverso un adeguato fact checkingNell’indagine si afferma che “il 90% degli italiani dichiara di fare almeno un’attività di controllo davanti a un’informazione trovata online”, ma sulla efficacia di questa attività si possono avere dubbi, se si considera che

il 60% degli italiani ritiene che una notizia sia più affidabile quando condivisa da tante persone (quota più alta tra i più giovani e i meno istruiti) e il 55% (ben più di 1 cittadino su 2) ritiene che sia più affidabile se condivisa da un amico molto attivo suisocial (quota che sale tra i più giovani e tra i meno istruiti, mentre scende nella fascia d’età 31-50 anni e tra i più istruiti).

Insomma, anche le chiacchiere da bar, se sono condivise, tendono a essere considerate vere.

Per contrastare questo effetto si devono impostare battaglie ben precise e mirate, basate su informazione e coinvolgimento. È urgente, ad esempio, promuovere la sensibilizzazione delle comunità locali sulla necessità di accelerare l’installazione delle energie rinnovabili, operazione resa ancor più importante dalla scelta di liberarci per quanto possibile dalla dipendenza dal gas russo. I progetti ci sono, ma spesso sono paralizzati dall’“effetto nimby” (not in my backyard – non nel mio cortile), che in molti casi nascono dalla mancanza delle informazioni necessarie per compiere una adeguata valutazione costi – benefici. Abbiamo scritto più volte che sono necessari interventi governativi (peraltro parzialmente avviati) per snellire gli iter burocratici che condizionano le autorizzazioni. Ma difficilmente l’obiettivo di un grande sviluppo delle rinnovabili entro il 2030 potrà essere raggiunto senza un adeguato impegno sul fronte della informazione e della partecipazione locale. I cittadini devono sentirsi partecipi delle decisioni: di questo tema, “La costruzione partecipativa delle città del domani”, si è parlato il 7 in un webinar di QN città future, organizzato con la collaborazione dell’ASviS.

Un aiuto alla transizione energetica, elemento determinante della protezione ambientale, è arrivato all’inizio di quest’anno dalla modifica dei principi fondamentali della Costituzione che ha introdotto appunto “la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, tra i principi della Carta. Se n’è discusso in un evento dell’ASviS il 5 aprile, arrivando anche in questa sede a una conclusione che ci impegna per il futuro: gli strumenti per la transizione ecologica ci sono, ora più che mai, ma adesso bisogna farli conoscere e agire di conseguenza.

 

Fonte dell’immagine: industryview/123rf

 

Donato Speroni

Santiago Ribeiro partecipa all’Esposizione Internazionale d’Arte del 21° secolo in Cina

Shanghai, Cina – Si terrà in diverse città della Cina una mostra internazionale per sostenere l’educazione dei bambini in Cina con artisti provenienti da più di venti paesi.
Le città dove si svolgerà la mostra saranno Pechino, Shanghai, Hangzhou, Nanchino, Shenzhen, Guangzhou, Chengdu, Chongqing, Changsha, Wuhan, Qingdao Xi’an Art.

Mostra internazionale d’arte sun rainbow, fondo di beneficenza per l’educazione

Con i fruttuosi risultati della riforma e dell’apertura della Cina, Il Paese asiatico è entrato in una nuova fase.
Pur ottenendo notevoli risultati in campo economico, anche il campo della cultura e dell’arte necessitano di ulteriore sviluppo in Cina. Attualmente il Paese si sta concentrando sul funzionamento e sulla gestione di opere d’arte internazionali di alta qualità, cooperando con eccezionali artisti contemporanei provenienti da tutto il mondo e promuovendo la divulgazione delle discipline umanistiche e dell’arte nella società cinese e gli scambi culturali internazionali.Parte del reddito del fondo sarà donato ai bambini nelle aree svantaggiate per la loro istruzione.
L’artista surrealista portoghese Santiago Ribeiro è il mentore e il promotore della più grande mostra surrealista del mondo nel 21° secolo, Surrealism Now International, il suo lavoro è stato esposto a livello globale così come a Berlino, Mosca, New York, Dallas, Los Angeles, Mississippi, Indiana , Denver, Varsavia, Saint Nantes, Parigi, Londra, Vienna, Pechino, Firenze, Madrid, Granada, Barcellona, Lisbona, Belgrado, Montenegro, Romania, Giappone, Taiwan, Brasile, Minsk, Nuova Delhi, Jihlava (Repubblica Ceca ) e Caltagirone in Sicilia e diverse città in Portogallo. Times Square a New York, Stati Uniti, ha riportato molte volte informazioni sulla sua mostra e le sue opere sono state raccolte da collezionisti in molti paesi.
Le opere dell’artista portoghese (nato a Coimbra e ideatore del progetto Surrealism Now, realizzato con il supporto della Bissaya Barreto Foundation) paralizzano lo sguardo, cosicché gli elementi spesso considerati insignificanti, assumono un segreto e una valenza tutte loro, lasciando che la nostra mente compia ulteriori associazioni oniriche.Di fronte alle opere di Ribeiro, che sono attraversate da un linguaggio dove l’individuo e la materia oltrepassano la propria anatomia, scavando nei propri desideri e aprendo i cardini agli spazi di una morale assente, giocando con i nostri impulsi, sembra che si debba andare alla ricerca del fantasma del sonno.
In tal senso il surrealismo di Ribeiro mostra ciò che potrebbe essere se liberassimo totalmente il nostro subconscio; saremmo degli omini nudi e non vedenti che vanno a sbattere contro i paletti dell’immoralità e del masochismo. Tuttavia la nostra volontà, la nostra coscienza e la nostra libertà di scelta ci vengono in soccorso e ci rendono davvero liberi, essendo l’essere umano non solo un complesso biochimico.
Video in italiano tradotto in cinese da Jin Yaotong realizatto da Vincenzo Cali, Annalina Grasso, Maurizio Bianucci 

Oscars 2022. ‘Drive my car’ di Hamaguchi, tra Cechov e Murakami

Tre ore che non affaticano ovvero affaticano a seconda del grado di feeling individuale col cinema di Ryusuke Hamaguchi, la nuova star del cinefirmamento giapponese. “Drive My Car” è il secondo exploit, in effetti, di un anno fortunato perché vincitore del Premio alla migliore sceneggiatura di Cannes 2021 a distanza di poche settimane dal Gran Premio della Giuria della Berlinale andato a “Il gioco del destino e della fantasia”: specialista delle operazioni a cuore aperto sui personaggi soprattutto femminili, il quarantatreenne regista laureato all’Università delle arti di Tokyo.

Yûsuke Kafuku, un attore e regista che ha da poco perso la moglie per un’emorragia cerebrale, accetta di trasferirsi a Hiroshima per gestire un laboratorio teatrale. Qui, insieme a una compagnia di attori e attrici che parlano ciascuno la propria lingua (giapponese, cinese, filippino, anche il linguaggio dei segni), lavora all’allestimento dello Zio Vanja di Cechov. Abituato a memorizzare il testo durante lunghi viaggi in auto, Kafuku è costretto a condividere l’abitacolo con una giovane autista: inizialmente riluttante, poco alla volta entra in relazione con la ragazza e, tra confessioni e rielaborazione dei traumi (nel suo passato c’è anche la morte della figlia), troverà un modo nuovo di considerare sé stesso, il proprio lavoro e il mondo che lo circonda.

il film mette in scena la progressiva “distruzione” di questi due ambienti e l’evoluzione del suo protagonista: dalla ricerca individuale e soggettiva, Kafuku impara ad accogliere e ad ascoltare gli altri, aprendo lo spazio inviolabile dell’automobile a un’altra persona e osservando la realtà che lo circonda con altri occhi.

In Drive My Car ci sono due tipi di silenzio: uno legato al linguaggio dei segni, e dunque in grado di comunicare, e un altro che segna il rapporto fra Kafuku e Misaki. Le loro conversazioni si fanno sempre più rade mano a mano che si conoscono e nel finale, durante il lungo viaggio verso nord, arrivano a capirsi quasi senza parlare. È il loro silenzio a indicare la profondità del loro legame e in qualche modo a farsi anch’esso una forma di comunicazione.

Cechov e lo Zio Vanja sono ovviamente fondamentali nel racconto di partenza, come ha ammesso lo stesso regista (Drive My Car – Film (2021) – MYmovies.it) .

Leggendo Murakami infatti si capisce come il personaggio di Vanja abbia una corrispondenza narrativa ed emotiva con Kafuku, il protagonista della storia. Entrambi devono cominciare una nuova vita dopo aver terminato quella precedente senza aver rivolto alla persona che amavano le domande che più contavano.

Nel film, poi, Cechov assume un’importanza ulteriore per il fatto che al cinema non è possibile raccontare in prima persona e dunque mi servivano le battute del suo testo per comunicare l’intimità dei personaggi. Molte di queste battute sono già nel racconto di Murakami e credo siano una delle prove della grandezza di Cechov, la sua capacità di far dire ai personaggi cose che illustrano l’essenza della vita e che nel quotidiano nessuno di noi ha la possibilità o la libertà di dire apertamente.

 

DRIVE MY CAR – DUNE

Oscars 2022. ‘Belfast’, l’omaggio di Kenneth Branagh alla sua città natale

Belfast, 1969. Buddy vive con la mamma e il fratello maggiore in un quartiere misto, abitato da protestanti e da cattolici. Sono vicini di casa, amici, compagni di scuola, ma c’è chi li vorrebbe nemici giurati e getta letteralmente benzina sul fuoco, aizzando il conflitto religioso, distruggendo le finestre delle case e la pace della comunità. La famiglia di Buddy, protestante, si tiene fuori dai troubles, non cede alle lusinghe dei violenti e attende con ansia il ritorno quindicinale del padre da Londra, dove lavora come carpentiere. Emigrare è una tentazione, ma come lasciare l’amata Belfast, i nonni coi loro preziosi consigli di vita e d’amore, la bionda Catherine del primo banco?

“Mi sento irlandese. Non penso che si possa togliere Belfast da un ragazzo”, così parlò Sir Kenneth Branagh a proposito della scelta di omaggiare la città natale con il film personale, un memoir in bianco e nero, che si è voluto regalare arrivato a sessantuno anni e diventato rispettato, osannato e invidiato nella ex nemica Inghilterra per i primati accumulati nel teatro scespiriano e i mega film d’intrattenimento.

“Belfast” opera lo stesso procedimento di auto-fiction di Sorrentino e non a caso i rispettivi film si ritrovano tra i nominati dei prossimi Oscar; se aggiungiamo, poi, che permane ancora l’eco del capolavoro autobiografico “Roma” di Cuaròn ed è annunciato in post produzione “The Fabelmans”, dedicato da Spielberg all’infanzia trascorsa con un amatissimo zio in Arizona, si capisce quanto il genere diaristico stia registrando presso i grandi autori un revival impetuoso.

A cominciare dalla scelta (parziale) del bianco e nero, il nuovo memoir rappresenta un ritorno semi-romanzato al periodo felice dell’infanzia trascorsa nel quartiere operaio Falls Road e protetta da genitori affettuosi e litigiosi e nonni spiritosi e saggi (i fantastici Dench e Hinds): Ken detto Buddy ovvero l’esordiente Hill interpreta, infatti, il novenne alter ego del regista che ama vedere “Star Trek” alla tv, leggere favole e fumetti, giocare a pallone con gli amici, fremere per la prima cotta e soprattutto andare al cinema.

Gli spezzoni di “Mezzogiorno di fuoco”, “L’uomo che uccise Liberty Valance” o “Citty Citty Bang Bang” diventano, così, il viatico consolatorio per potere affrontare la brutale irruzione della Storia che ad agosto del ‘69 devia il corso tranquillo della comunità con l’inizio del conflitto etnico-nazionalista noto come The Troubles (termine eufemisticamente traducibile come “I disordini”).

I sentimenti e i traumi filtrati dalla percezione di un bambino regalano sempre emozioni allo spettatore, tanto più se, come in questo caso, la firma e la confezione s’avvalgono del top di recitazioni, fotografia e musica. Proprio il sovraccarico di quest’ultima, però, determina la prima di non poche riserve: Morrison, la gloria cittadina, non poteva non collaborare (anche se lo fa con tutti i film ambientati in Irlanda del Nord), ma il troppo stroppia e sembra che il bottino di “Van the Man” costituito da otto brani classici, un inedito e qualche passaggio strumentale finisca col prevaricare lo stile e surrogare i fatti. Inoltre una diffusa leziosità con annesse overdosi di riprese via droni o al ralenti rivela, tra un sospiro nostalgico e l’altro, il didascalismo un po’ gramo che s’intrufola dovunque inficiando la genuinità dell’amarcord. Mentre “Roma” ed “È stata la mano di Dio”, insomma, sono stati scelti dagli Oscar, “Belfast” sembra programmato per farsi scegliere dagli Oscar con le sue didascalie.

Il troppo stroppia, come si dice.

 

Belfast

 

 

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