Barbara Lezzi e la Questione meridionale tra Gramsci e Carlo Levi

Barbara Lezzi, quarantaseienne leccese, diplomata all’Istituto Tecnico “Grazia Deledda” della città barocca, impiegata, già senatrice del Movimento 5 Stelle nella XVII legislatura, vicepresidente per la commissione permanente di bilancio e membro della commissione permanente per le politiche europee, si appresta ad affrontare una delle sfide più cocenti della storia della Repubblica Italiana: Ministro del Sud nel Governo Conte, un consesso politico formato al 50% da pentastellati e al 50% dalla Lega Nord.

Barbara Lezzi ha il compito di svincolare il Meridione da una serie empia di stereotipi apparentemente anestetizzata. La storiografia nazionale ha dimostrato come il processo di annessione (intempestivo) del Regno delle due Sicilie alla Casa Sabauda abbia creato le basi di un dualismo economico in cui il Nord è ritenuto “norma di rendimento” e il Sud “anomalia di rendimento“, con una forbice sociale dilatata a favore del Settentrione. Fino al 1915 l’Italia non è mai stata Unità: Antonio Gramsci afferma come ci sia voluta la Prima Guerra Mondiale per amalgamare realmente il Paese, con scambi totali a livello linguistico e socio-culturale. Negli anni successivi il Sud è stato indebolito dalle battaglie economiche e belliche del regime fascista, per essere poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, a ogni piè sospinto verso uno sviluppo pilotato dagli States. Riforma Agraria e Cassa del Mezzogiorno furono le strategie degasperiane che portarono risultati altalenanti. Lo storico Salvatore Lupo chiarisce il dualismo di rendimento tra Nord e Sud attraverso il Pil pro-capite, eludendo le nubi di misticismo che da decenni avvolgono la Questione: «Quello dei meridionali tra il 1871 e il 2009, è cresciuto di dieci volte a fronte di una media italiana di tredici volte, e in età repubblicana è cresciuto di 6,4 volte a fronte di una media italiana del 5,6. Ciò significa che il Mezzogiorno, tra momenti di divergenza e convergenza con il Settentrione, ha partecipato del cento cinquantennale trend di sviluppo del paese nel suo complesso. […] Il Mezzogiorno va considerato, al pari di qualsiasi luogo di questo mondo, come un frammento della modernità».

Il Ministro Lezzi si ritroverà a maneggiare nodi magmatici per l’economia del Meridione: la Tap, l’affaire Xylella, il carbone a Cerano e il cancro Ilva. Questioni probanti all’interno della Questione meridionale, che confermano la debolezza politica di un vasto territorio: il popolo rifiuta l’installazione del tubone Tap a Melendugno – che porterà gas azzero in altri Paesi e nel nostro sarà solo di passaggio –, ma lo “deve” ingoiare amaramente, prendendo mazzate dinanzi al cantiere dorato. Il popolo rifiuta l’eradicazione degli ulivi infetti da Xylella, poiché convinto che questi si possano curare in loco. Il popolo muore per l’inquinamento portato dal carbone di Cerano e dagli acciai dell’Ilva e combatte silente tale condanna – perché diversamente migliaia di lavoratori vanno con il culo per terra –. Si ritrova tout court denudato di voce e dignità.

La Ministra dovrà affrontare anche un’altra piaga zampillante della sua terra: una disoccupazione che tallona il 20% e che nelle file dei giovani rischia di raddoppiare il proprio numero. Colpa anche di un fenomeno ritenuto “estinto o in forte decrescita” da molti luminari della società italiana, mentre in Campania, Calabria, Sicilia e Puglia – con il foggiano in forte crescita – è una spada di Damocle perenne: la mafia. Lo storico Francesco Barbagallo ci chiarisce le idee in merito alla camaleontica problematica: «L’esclusione dei giovani dal lavoro e dal futuro in tutta Italia e specialmente nel Sud, che è un fenomeno diffuso anche in altri paesi europei, si accompagna da noi a un blocco totale della mobilità sociale. Il tramonto della politica nell’ultimo trentennio ha favorito in Italia il predominio totalizzante di una sorta di familismo dei clan, che impedisce l’affermazione delle qualità personali in qualsiasi ambito. La selezione in Italia, salvo rare eccezioni, non avviene per confronti di merito, ma per relazioni personali, familiari, di clan».
Edward Banfield sessant’anni fa sottolineava come il “familismo amorale” attanagliasse le mente dei meridionali. Oggi lo stesso sentimento si è trasformato in “familismo di clan“. Una proiezione filosofica che trova terreno fertile a causa della “disgregazione sociale” che affligge da più di un secolo il Sud, malcostume teorizzato splendidamente da Antonio Gramsci, profondo accusatore degli intellettuali meridionali, sempre pronti a valorizzare il proprio tornaconto – andando in braccio all’élite dominante – e mai a lottare per salvaguardare il bene comune.

I capitani della Lega Nord portano in saccoccia le tesi di un altro storico che ha messo bocca sulla Questione meridionale, Robert Putnam. Egli sostiene la dicotomia civic-uncivic: storicamente il Settentrione sarebbe intriso da un forte senso di civicness, grazie all’esperienza dei Comuni durante il Medioevo. Mentre, d’altro canto, il Meridione sarebbe un organismo sociale uncivic, per colpa del feudalesimo medievale e dell’autocrazia vissuta negli anni successivi.

Il “fondamentalismo politico” si può vincere, anche in Italia, con una granitica preparazione scientifica, umana e politica.
Ecco cosa chiede tutto il Sud a Barbara Lezzi: curare i mali che lo affliggono ed essere rispettato dai suoi “sputatori sadici” dell’ultimo trentennio. Per analizzare, criticare e migliorare il Sud, bisogna prima capirlo. Ad aiutarci a farlo è Carlo Levi, un vero intellettuale che fece fermare nella dissonante dolcezza di Eboli il vip dei vip, Gesù Cristo: «Le lotte e i contrasti qui sono cose vere, il pane che manca è un vero pane, la casa che manca è una vera casa, il dolore che nessuno intende un vero dolore. La tensione interna di questo mondo è la ragione della sua verità: in esso storia e mitologia, attualità e eternità sono coincidenti».

 

Annibale Gagliani

Parte il governo Lega-M5S: che non sia una primavera europea

Si è finalmente entrati in nuova epoca, politica e comunicativa. Parte il governo targato Lega-M5S. Destra e sinistra sono morte, insieme ai principali mezzi di informazione, i quali oltre a non aver capito il momento storico, sono stati ad inseguire le dirette Facebook dei due leader che dopo gli incontri a porte chiuse non concedevano esclusive se non alle loro pagine personali. E poi c’è un terzo elemento fondamentale che si inserisce: quello metapolitico. E’ la metapolitica ad aver influenzato i due movimenti-partito dominanti accelerando il processo di disgregazione dello status quo, è la metapolitica che oggi detta l’agenda del giornalismo italiano poiché quelle tematiche geopolitiche, economiche e giuridiche definite “fuori dal mondo” diversi anni fa sono diventate oggi mainstream.

Ora la pars destruens deve trasformarsi in pars construens affinché il miglior governo possibile per il popolo italiano non diventi il suo carnefice. La coalizione Lega-M5S dovrà inserirsi all’interno di una guerra politico-commerciale tra gli Stati Uniti e la Germania (e l’Unione Europea), i quali hanno giocato un ruolo centrale nella formazione del nuovo governo. In questo braccio di ferro tra Washington, Bruxelles e Berlino ad aver avuto la meglio è stato Donald Trump, favorevole alla disgregazione del continente, attraverso il suo emissario Steve Bannon, il grande teorico del populismo globale, giunto in Italia in modo trionfale. Così mentre tutti i mezzi di informazione hanno posto l’attenzione sul veto del Quirinale a Paolo Savona all’Economia (che poi si è preso gli Affari Ue) si è perso di vista chi doveva essere il ministero degli Esteri, che non a caso è stato l’unico a saltare nelle nuove trattative: Luca Giansanti, ex ambasciatore italiano a Teheran, uomo di grande cultura, e intenzionato a ricostruire il dialogo con Russia e Iran nelle grandi questioni internazionali.

L’elezione del cosiddetto outsider repubblicano è stato un primo passo importante pur con forti contraddizioni come tutti i movimenti di rottura (parziale) con un certo establishment. Ma in questi universi politici del resto esistono sotto culture decisamente antitetiche che camminano nella stessa direzione, vuoi per convenienza, vuoi per sintesi storica, e lo stesso è accaduto anche da noi, in Italia, con una coalizione che a differenza dell’amministrazione Trump prova a prendere il meglio del populismo di sinistra (le idee) e del populismo di destra (i principi). Tuttavia il rischio maggiore è che quei populismi invece di rompere un sistema non fanno altro che rinsaldarlo perciò è necessario lavorare alla loro strutturazione dall’interno per non lasciarlo nelle mani di chi vuole utilizzarlo in funzione anti-tedesca (e, di facciata, anti-europea). Se è vero che questa struttura sovranazionale, insieme ai suoi trattati, debba essere riformata o smantellata, è ancora più vero che il compito di chi fa “avanguardia culturale” sarà quello di far luce, spesso con riflessioni impopolari, affinché ci si confronti con un populismo ragionato capace di sfruttare conflittualità di interessi internazionali e spazi vuoti per ricostruire la sovranità di un’intera nazione. I presupposti ci sono tutti, ma guai a chiamarla “primavera”. Se in quelle arabe c’era Obama, in quella europea c’è lo zampino di Trump.

Sebastiano Caputo

A Roma l’artista pakistano più famoso: l’installazione ‘7 ‘di Amin Gulgee presso la Galleria Arte Moderna dal 30 maggio

Roma, XXX maggio 2018 – Nuovo concept espositivo del progetto “From La Biennale di Venezia & OPEN to Rome. International Perspectives” promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, ideato e curato da Paolo De Grandis e Claudio Crescentini, co-curato da Carlotta Scarpa. Servizi museali di Zètema Progetto Cultura. Il progetto generale, attivato dal 2016, è dedicato alla presentazione negli spazi espositivi capitolini di alcune installazioni internazionali provenienti dall’Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia e da OPEN Esposizione Internazionale di Sculture ed Installazioni, collegato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ricomposte e rimodellate site-specific appositamente per la capitale. Lo scopo è quello di fare convergere insieme le “prospettive” d’arte di due città che lavorano per far viaggiare le esperienze dell’arte internazionale sul territorio nazionale. Dalla città lagunare, appunto, alla capitale. In occasione di questo nuovo appuntamento, realizzato in collaborazione con PDG Arte Communications e l’Ambasciata della Repubblica del Pakistan in Italia, è presentata l’installazione, dal titolo “7”, dell’artista pakistano Amin Gulgee, che ha fatto della laicità e della poesia una forma d’arte.

L’artista parte da una frase in arabo, trascritta nella scrittura nakshi, intraducibile ma dal significato universale, dato che il riferimento è alla pace fra i popoli e all’amore umano. Gulgee divide la frase in sette parti, quelle del titolo, mediante delle leggerissime installazioni in bronzo, posate nel chiostro/giardino della GAM di via Crispi. La frase risulterà quindi scomposta e ripetuta più volte nell’installazione, come in una meditazione spirituale, senza essere però leggibile e diventando quindi segno universale.

Al di sotto della frase/segno sarà creato un tappeto di lettere di carbone e rame, non calpestabile, che ripete, sempre scomposta, la stessa frase, creando quindi una struttura metafisica di confronto fra verticali delle opere e orizzontale del tappeto, come metafora dell’alto e del basso, del cielo e della terra. Il giorno dell’inaugurazione in questo “spazio artistico” prenderà forma la performance ideata dallo stesso artista e il reading di poeti invitati dall’artista stesso a leggere loro poesie e scritti ispirati dal tema dell’opera.

I poeti – Lucianna Argentino, Italo Benedetti, Stella Cacciamani, Antonella Maria Carfora, Patrizia Chianese, Laura Colombo, Rossana Coratella, Francesco Del Ferro, Stefania Di Lino, Andrea Felice, Camelia Mirescu, Daniela Monosi, Angelo Palombini e Maria Grazia Savino – e il pubblico presente saranno invitati a scrivere, sempre partendo dalla frase in nakshi, dichiarazioni di pace e d’amore come segno potenziale di libertà degli spiriti uniti da uno stesso pensiero che diventa azione. Arte per tutti, quindi, e non solo privilegio di pochi eletti.
Le frasi ideate saranno inserite in appositi contenitori e portate a Karachi, dove verranno lette dall’artista durante una grande performance pubblica: un collegamento ideale fra Europa e Asia, Roma e Karachi, città unite dal lavoro concettuale di Amin e dalle parole dei partecipanti dedicate all’amore e alla pace.

Amin Gulgee (1969) artista e performer di fama internazionale. Laureato in “Storia dell’Arte ed Economia” presso la Yale University (U.S.A.), inizia la sua carriera artistica realizzando ed esponendo le sue opere, oltre che in Pakistan, negli Stati Uniti, in Europa e nel Medio Oriente. Per quanto riguarda l’Italia non ha mai esposto a Roma, ha partecipato, nel 1998 e nel 2017, a “OPEN – XX Esposizione Internazionale di Sculture e Installazioni”, collegato alla “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia” e rappresenterà il Pakistan alla prossima “Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia”. Leggendarie le sue performances realizzate in molte città mondiali (Karachi, Lahore, Dubai, Nagoya, New York, Philadelphia, Dresda, Londra, ecc.). In queste performance, basate principalmente sulla parola, il segno e la fonetica, vengono spesso coinvolti altri artisti oltre che il pubblico, fra Oriente e Occidente. Il principale critico d’arte del “Washington Times”, Joanna Shaw-Eagle ha scritto nella sua recensione alla mostra personale al FMI nel 1999:

“Amin Gulgee è un artista da guardare sia per l’originalità delle sue idee sia per la qualità sensuale e affascinante del suo lavoro.” Nel 1987 Amin Gulgee ha vinto il “Conger B. Goodyear Fine Arts Award”. Nel 2005 ha ricevuto il prestigioso “President’s Pride of Performance”, che viene conferito solo ad esponenti che hanno raggiunto una statura iconica nel loro campo di eccellenza, dal Presidente del Pakistan. È stato incaricato dal governo pakistano di creare numerose sculture pubbliche, tra cui: Messaggio, per la Presidenza di Islamabad; Minar per l’aeroporto internazionale Quaid-e-Azam di Karachi; Forgotten Text, di 40 mt di altezza, per una rotonda importante a Karachi. Ha partecipato a numerose collettive internazionali, fra le quali: “Pakistan: Another Vision,” Brunei Gallery, Londra, UK (2000); Beijing Biennial (2003); “Beyond Borders,” National Gallery of Modern Art, Mumbai, India (2005); “Paradise Lost,” WAH Center, Brooklyn, NY, USA (2008); “Rites of Passage,” Ostrale, Dresden, Germany (2010) e “New Pathways: Contemporary Art from Pakistan,” UN Headquarters, New York, NY, USA (2016). Ha inoltre realizzato oltre trenta mostre personali in Pakistan, Malesia, Singapore, UAE, India, UK, Portogallo e US. Nel 2017, sulla scia dei grandi artisti/curatori internazionali ha ideato, progettato e curato la “I Biennale Karachi 17”.

“Credo – ha dichiarato Amin Gulgee in un’intervista a John Mc Carry – che il compito di un artista sia quello di percepire l’ordine della natura e di interiorizzarlo tentando di raggiungere un senso di equilibrio con sé stessi. Questo concetto non solo trascende le istituzioni religiose, ma anche l’analisi. Il metodo con cui lavoro è intuitivo e viene dal cuore. E’ la mia preghiera al mio Dio”. Per Imam come per tutti i Sufi, la ricerca del Divino è un passo verso la luce.

L’esame di maturità: indice di inadeguatezza

Come riscontrato dai sondaggi di Skuola.net, sono tanti i maturandi che arrivano all’Esame di Stato senza le conoscenze necessarie per affrontarlo nel migliore dei modi

Maturità 2018, le scuole ‘snobbano’ l’attualità: storia e italiano si fermano agli anni ‘50”: suona inquietante, anche se non inaspettato il titolo dell’Ansa del 25 maggio. L’articolo riporta i sondaggi effettuati da Skuola.net ai maturandi del 2018. I risultati erano prevedibili, ma allarmanti. Per quanto riguarda il programma di storia, il 39% del campione sta affrontando ora (a un mese dall’esame!) la seconda metà del Novecento, solo il 14% è arrivato ai giorni nostri ed è in fase di ripasso e la restante parte è in una situazione drammatica: il 23% arriverà appena alla Seconda guerra mondiale, il 12% sta affrontando il periodo tra le due guerre e il 12% non è ancora arrivato al primo conflitto mondiale. Tra i maturandi alcuni rimediano alle lacune studiando per conto proprio, documentandosi su libri o tramite documentari, in altri casi sono i professori a consigliare letture integrative. Ma il 25% degli studenti non studierà ciò che rimarrà fuori programma perché ritenuto inutile ai fini dell’esame.

Per quanto riguarda il completamento del programma di letteratura italiana, la situazione è solo leggermente migliore. Ma se da un lato si fa fatica a completare i programmi, dall’altro le tracce dell’esame sono sempre più orientate verso l’attualità. Per questo, conclude l’articolo dell’Ansa, per molti maturandi “la Maturità 2018 potrebbe davvero partire col piede sbagliato prima ancora di cominciare ufficialmente”. Ma non sta qui il vero problema: questo è solo l’indice di un sistema scolastico fortemente inadeguato che non è in grado di dare agli studenti gli strumenti necessari non solo ad affrontare l’esame nel migliore dei modi, ma anche ad analizzare criticamente gli eventi di attualità. Come si fa ad avere le opportune chiavi di lettura del mondo attuale se la storia per molti maturandi si ferma al 1945? E se, dopo la drastica riduzione delle ore dedicate allo studio della geografia e la scomparsa dell’educazione civica e delle scienze sociali, anche la storia contemporanea cade sotto le bombe di Hiroshima e Nagasaki, cosa rimarrà ai giovani italiani? Un buco nero.

Degni di lode sono quegli studenti che approfondiscono per conto proprio i temi accantonati dal programma, come i professori che, con una corsa contro il tempo, riescono a trattare in maniera esaustiva l’intero e immenso programma o sollecitano i ragazzi a letture integrative. Ma non basta. L’istruzione, la formazione del cittadino, non può essere delegata a professori illuminati o studenti particolarmente diligenti. La conoscenza e l’acquisizione di elementi critici per l’analisi dei tempi moderni è un diritto inalienabile del cittadino che deve assolutamente essere garantito dalla scuola dell’obbligo (o, per lo meno, dal conseguimento del diploma). Ne vale la salute della democrazia. Cosa fare, dunque? Sicuramente urge una seria riforma scolastica, una rivalutazione della scuola con un’immediata fine degli ignobili tagli ai fondi ad essa destinati e una seria riorganizzazione dei programmi (è impensabile, ad esempio, lasciare lo studio di tutta la letteratura e di tutta la storia contemporanea al quinto anno).

Non meno importante sarebbe una “riforma del pensiero”: non valutare lo studio o un insegnamento con gli ignobili parametri dell’utilità e della praticità, che portano ad affermazioni sull’inutilità di un determinato argomento al fine del superamento di un esame o dello studio di una materia (soprattutto se letteraria) per entrare nel mondo del lavoro. E, infine, un appello ai professori (e alle famiglie dei ragazzi): siate tutti illuminati! Lasciate a casa le vostre credenze, non fate dell’insegnamento una propaganda, spronate i ragazzi al ragionamento, al dubbio. Fateli innamorare dello studio. Non limitatevi a spiegare e interrogare, senza passione. Fate capire quanto anche lo studio delle materie umanistiche sia importante, ma non limitatevi a dirlo, provatelo con esempi concreti. È un compito estremamente complesso, è innegabile: ma occorre farlo. La soluzione ai problemi della scuola si avrà solo con l’intervento dall’alto, quando finalmente le sarà riconosciuta la fondamentale importanza che le spetta. Ma le rivoluzioni, ricordiamocelo, partono dal basso.

 

Alessandra Vio

L’ora più buia della nostra politica, Sergio Mattarella e il colpo di stato tecnico

L’ora è buia più che mai: in Italia stanno letteralmente tremando i pilastri dello Stato democratico e quanto accaduto nella serata di ieri è di una gravità assolutamente senza precedenti nella storia libera del nostro paese. Chi non riconosce la brutale violenza anti istituzionale operata dal colle è uno sciocco o semplicemente in malafede. A proposito di questo è necessario sin da subito esprimere il più sentito e disgustato sdegno rispetto al mondo della stampa e dell’informazione che, in massima parte, colpevolmente ha assunto in queste ore un atteggiamento pavido e subdolo, asservito alla Presidenza della Repubblica mediante argomentazioni vuote, ridicole, meschine. L’ora è buia. Siamo stati noi i primi, in una lunga analisi di ieri, a paventare il rischio di un ricorso all’art.90 della Costituzione, quello relativo alla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica. Oggi ne parlano tutti. E su queste stesse righe adesso, con la stessa identica convinzione, lanciamo un allarme che vogliamo sia percepito come il più drammatico urlo di terrore: il rischio, adesso, è quello di gravi disordini pubblici. Lo stesso Salvini, in serata, si è definito preoccupato in tal senso e ha speso se stesso, forse anche strategicamente, come garante della pace civile in questi momenti di fortissima tensione e concitazione. Il responsabile di tutto questo è il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale nel suo discorso, guardacaso, non ha fatto altro che parlare di Borsa e spread.

È un colpo di Stato e, attenzione, non stiamo ricorrendo ad un’espressione volutamente enfatica e giornalisticamente forzata. Per noi è in corso un vero e proprio colpo di Stato in senso tecnico. Il 4 marzo scorso gli Italiani sono andati al voto con una legge elettorale promulgata dal Presidente della Repubblica e hanno scelto di dare forza a due organizzazioni politiche con idee precise sull’Europa: Movimento 5 Stelle e Lega Nord. Queste due formazioni hanno deciso di costituire una maggioranza parlamentare e si sono legittimamente candidate a guidare il paese, forti di una precisa e netta legittimazione popolare. In Italia la sovranità risiede nel popolo e il popolo ha conferito vigore a queste due forze politiche. Il Presidente della Repubblica ha di fatto impedito a questa maggioranza parlamentare di andare al governo del paese: è un atto politicamente gravissimo, violento e dittatoriale. Non era mai accaduto un fatto del genere: i paragoni a veti del passato, quale quello di Scalfaro su Previti, non c’entrano assolutamente nulla. La dittatura peraltro è un istituto ben preciso, giustificato in alcuni ordinamenti giuridici del passato a fronte di circostanze gravi e impellenti, che fuori dalla legittimazione delle norme configura una tirannide: è il nostro caso.

Andiamo con ordine. Partiamo dal presupposto che questa crisi sul nome del prof. Savona, uno degli economisti più autorevoli del mondo e orgoglio italiano, sia stata ingenerata dallo stesso atteggiamento maldestro di Mattarella. Era assolutamente prevedibile, e infatti anche questo avevamo scritto, che Lega e Movimento 5 Stelle non avrebbero mai potuto cedere: chi darebbe mai fiducia ad un Governo del cambiamento che non sia nemmeno in grado di scegliersi i propri Ministri? Se poi si vanno ad analizzare le ragioni del veto a Savona si resta veramente allibiti: Savona è un mite economista, peraltro a nostro avviso fin troppo moderato, il quale da europeista convinto si è permesso, in talune circostanze, di esprimere delle critiche ad una Europa non più votata allo spirito dei suoi Padri Costituenti. Pertanto il veto è stato espresso non per il pericolo che Savona avrebbe potuto rappresentare, anche perché non è affatto un uomo pericoloso e anzi da sempre si dimostra fedele alle istituzioni, ma semplicemente per il suo pensiero, per le sue idee, per il semplice fatto di essersi permesso di esprimere delle critiche all’Unione Europea e di non aver mai parlato, come dicono alcuni per giustificare la decisione di Mattarella, di uscire dall’Europa, come se si uscisse dall’oggi al domani.

Qualcuno scherzando ha ipotizzato una partecipazione troppo attiva di Mattarella a “cantine aperte”. Qualcun altro suggeriva a Mattarella di dare l’incarico di governo direttamente alla Merkel, la quale continua a guardare a Berlusconi come garante dell’europeismo italiano. Lo stesso Berlusconi che, nonostante le smentite, pare l’abbia chiamata culona inchiavabile. Ironia a parte, però, davvero il comportamento del Presidente della Repubblica ha dell’incredibile e lo ripetiamo fino alla nausea: la Costituzione non gli riserva la facoltà di valutare politicamente i Ministri, ma solo di garantire della loro onorabilità ai sensi della Costituzione medesima. Difatti il Governo giura nelle mani del Presidente della Repubblica prima ancora di presentarsi in Parlamento a chiedere la fiducia politica. I due momenti sono volutamente distinti: il primo è etico e morale; il secondo è politico. Mattarella si è preso tutto e adesso è proprio il caso di dirlo: la paura fa 90. Ai sensi dell’art.90 della Costituzione, è dovere delle forze politiche cui è stato inibito l’accesso democratico e legale al governo del paese quello di mettere sotto stato di accusa il Presidente della Repubblica.
Vedete, fa bene qualche viscido giornalista che in TV chiede provocatoriamente quali siano le prove di un condizionamento internazionale su Mattarella. Fa bene perché tale condizionamento è assolutamente irrilevante: che abbia agito sua sponte o no, resta il fatto che Mattarella ha attentato alla Costituzione e deve lasciare il Quirinale. È il solo e unico responsabile: se vuol bene all’Italia deve dimettersi immediatamente, quantomeno per non aver saputo gestire la crisi nonostante ci fosse una maggioranza parlamentare disponibile ad assumersi l’onere di governare.

Facciamo una cosa: fingiamo per un attimo che tutti questi costituzionalisti da bar sportivo abbiano ragione e che in effetti l’art.92 della Costituzione riservi delle valutazioni politiche da svolgere presso la Presidenza della Repubblica. Ammesso e fortissimamente non concesso il punto, a rileggere le parole pronunciate da Mattarella viene comunque la pelle d’oca: sono la celebrazione funerea della definitiva subordinazione delle istanze democraticamente affermate da un popolo in difficoltà alla tenuta delle borse, ai mercati finanziari, allo spread, al tasso dei mutui. Questa vicenda ha dell’incredibile, del surreale. Siamo in presenza di un comportamento al limite del reazionario puro. Poi gli stessi molli giornalisti si domandano se ne sia valsa la pena: se davvero Salvini e Di Maio abbiano fatto bene a intestardirsi così sul nome di Savona facendo saltare tutto il progetto di governo. Hanno fatto benissimo. A prescindere dal fatto che Savona rappresenti la condensazione dell’accordo tra i due, il veto posto dal Quirinale per pregiudiziali politiche pone un problema sistemico ben più importante di Savona medesimo: la democrazia italiana stessa. Savona è diventato un emblema, una battaglia democratica da combattere a tutti i costi perché un uomo non può essere escluso per il suo pensiero, per le sue idee.

Esiste una sola ideologia politica inammissibile alla guida del paese ed incompatibile col regime democratico e sono le Disposizioni Transitorie e Finali della Costituzione ad individuarla al capo XII: quella fascista, tanto è vero che viene dichiarata illegale la costituzione di un partito con tale vocazione. E allora, se il veto politico di Mattarella è rispettoso della legge, ne deriva necessariamente e logicamente lo scioglimento immediato di qualsiasi partito politico vagamente euroscettico: come minimo il Movimento 5 Stelle, la Lega Nord e Fratelli D’Italia. Se tale scioglimento non dovesse avvenire, allora è Mattarella a non essere nell’alveo della legalità e quindi va messo immediatamente in stato d’accusa dal Parlamento. A questo punto non è più una facoltà assembleare, bensì un dovere.

La verità è che siamo difronte ad una impalcatura che sta collassando e il Governo giallo/verde mette in pericolo il sistema nel suo complesso: è una intera struttura di potere politico, economico, finanziario e mediatico ad essere in pericolo. È assolutamente fisiologico che un sistema lotti per la sua autoconservazione e, tanto grave è la minaccia, più forte sarà la sua reazione. Fino a giungere all’atto criminale perpetratosi ieri. Adesso il Quirinale ci impone letteralmente un Governo tecnico e di minoranza, nonostante ci fossero tutti i presupposti per un Governo politico e di maggioranza alla guida del paese, consumando uno stupro della Carta costituzionale, sputando in faccia al popolo italiano e spalancando le porte a poteri esterni che marciano con i loro lucidi stivali neri nei corridoi delle nostre istituzioni. Si poteva fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: sarà un po’ estremo, vi apparirà un po’ colorito, ma se ieri Mattarella dal suo pulpito avesse pronunciato queste parole la differenza sarebbe stata certamente minima. Una cosa è certa: il voto e la volontà degli italiani non hanno contato nulla.

 

Savino Balzano

La natura in vitro: sette movimenti per raccontare la storia della Terra nell’opera multimediale di Frans Lanting

Sette movimenti per raccontare la storia dello sviluppo della Terra e della vita su di essa, dalle prime cellule fino agli esseri, al momento, più evoluti. Sette movimenti ispirati a musiche già composte, ma che, insieme, raggiungono una forza emotiva inaspettata, lasciando l’ascoltatore in balia degli elementi naturali e delle creature che popolano e che hanno popolato il mondo. Da Philip Glass non ci si poteva aspettare che questo, un concerto capace di far vibrare ogni molecola del corpo e così sentirsi parte di un cosmo totale e totalizzante. Life: A Journey Through Time, però, non è solo questo. L’opera, concepita come multimediale, non riesce ad esprimersi, se non attraverso la musica, tralasciando quella che in realtà sarebbe dovuta essere la principale protagonista: la fotografia di Frans Lanting.

Frans Lanting, olandese di nascita ma americano d’adozione, è l’incarnazione perfetta dello spirito che anima la rivista National Geographic: seguendo il motto inspiring the people to care about the planet, ha sempre cercato di produrre immagini in grado di smuovere coscienze e che potessero mostrare l’innata bellezza di una natura viva e selvaggia. Molte delle fotografie di Lanting sono entrate di diritto nella storia della fotografia naturalistica, alcune di esse si sono rivelate addirittura importanti per la ricerca scientifica (tra le altre, da ricordare le foto “impossibili” scattate all’Aye Aye, lemure notturno del Madagascar, fino ad allora creatura quasi mitologica), eppure può l’approccio di un fotogiornalista davvero mostrare la natura in tutti i suoi aspetti? Può la sua opera davvero incidere nei comportamenti di coloro che ne vengono a contatto?

La società contemporanea, sempre più immersa in un mare di immagini (dove l’attenzione di ogni persona è costretta a disperdersi tra milioni di input, impossibili da approfondire con ragionamenti e pensieri che vadano oltre il like, la faccina o la più complicata indifferenza) non permette un contatto emotivo vero e proprio con un fotogramma: per quanto di pregevole fattura o straordinariamente “potente”, lo schermo di un computer o di un telefono-non-telefono non può che rendere tutto semplicemente effimero, non lasciando tracce neanche nell’osservatore più attento e preparato. Il social network, divenuto ormai la nuova forma della rivista, lascia spazio solo ai sentimenti più istintivi, costringendo in qualche modo perfino rivista storiche come National Geographic a farsi creatori di contenuti “vendibili”, come video e foto che scatenano la lacrimuccia o il sorrisetto facili, che si perdono nel marasma del web.

Perfino video virali come quello girato da Paul Nicklen, altro fotografo storico di NG, viene presto dimenticato causa le caratteristiche intrinseche del mezzo utilizzato, internet. Come suscitare allora un interesse più profondo, in grado davvero di lasciare tracce? Frans Lanting pubblica nel 2006 Life, la sua opera più completa. 300 pagine di scatti frutto di una longeva carriera tra foreste di ogni tipo, passeggiate su vulcani, isole perdute e oceani d’acqua e ghiaccio. Il libro si presenta come una sorta di sunto illustrato dell’evoluzione della vita sul pianeta Terra, dalla sua formazione ad oggi. Suddiviso in diversi capitoli di diversa entità a seconda delle ere a cui si fa riferimento (i paesaggi inospitali che ricordano gli albori del pianeta occupano più spazio delle immagini in cui compare l’uomo), Life ha la pretesa di porsi come un’enciclopedia del naturale.

Enciclopedia è il termine più esatto: le fotografie non lasciano che un sentore di già visto, perfino laddove cerca di stupire con inquadrature o tecniche particolari, e, soprattutto, di una profonda freddezza nell’approccio. Gli animali, le piante, le montagne, i fiumi, i mari, tutto sembra obbedire alle regole della composizione, della bellezza canonica della fotografia che proprio per questo imprigiona, uccide il soggetto. Tutto è immortalato, tutto è cristallizzato. Non resta niente di veramente vivo, vitale. Lanting, vero e proprio cacciatore, non riesce a presentarci altro che icone lontane, impossibili da conoscere, esotismi scientifici. Perfino le immagini dei pattern naturali che compongono il nostro corpo messo a confronto con quelli presenti nella vegetazione, non restano che fotografie dall’approccio didascalico, che non mostrano altro da ciò che si vede. Il visibile è visibile, l’invisibile resta tale.

Nasce successivamente, forse proprio dalla necessità di voler focalizzare l’attenzione delle persone sul tema “pianeta”, l’idea di uno spettacolo in cui musica e fotografia possano raccontare il tutto. Ed ecco allora Life: A Journey Through Time, opera arrivata nel 2018 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sviluppata con la collaborazione di personaggi del calibro di Michael Riesman e Philip Glass. Nemmeno la musica di quest’ultimo, però, riesce a sostenere le immagini che, soprattutto a causa di un montaggio video a tratti insensato a tratti infantile, probabilmente composto con software gratuiti per smartphone, non riescono a suggerire e suggestionare, ma solo mostrare.
Il fotografo naturalista, cacciatore di “belle fotografie”, cerca di superare gli strati accumulatisi per anni per la sua professione, tentando di trasformare le immagini costate tanta fatica in qualcos’altro. Delude lo spettacolo che mette in risalto il chiudere in provetta campioni di natura selvaggia, attraverso una fotografia che si rifà al principio fondatore del medium ottocentesco: il positivismo.

L’uomo sente il bisogno di possedere e controllare tutto ciò che lo circonda, in un modo o nell’altro, e la fotografia gli permette di incorniciare una parte di quell’essenza (per non andare poi a discutere sulla foto turistica con il monumento, altra ramificazione della necessità di possedimento e prova dell’esistere). La visione allora è estremamente umanizzante, non lascia alcuna possibilità allo spettatore di avvicinarsi davvero al mondo animale o vegetale. Il tentativo di coinvolgere gli osservatori, soprattutto per la causa ambientalista (l’ultimo movimento è ispirato alla teoria di Gaia di James Lovelock), si perde in una messinscena dove lo slancio vitale è morto prima di nascere, dove la sistematicità del metodo scientifico ha sopraffatto sì la lacrimuccia facile da social, ma ha anche sotterrato ogni possibilità di avvicinamento emotivo abbastanza forte da poter far interessare alla causa, alle cose o addirittura alla narrazione stessa. Finito lo spettacolo, si spegne lo schermo, applausi per il PCME di Tonino Battista, si torna alla vita quotidiana, tra social e inquinamento, a sognar isole sperdute solo per vacanze ben organizzate.: è tutto ingabbiato in quei quattro bordi.

 

Dario Pellegrino

 

‘Dogman’, il noir di Matteo Garrone che parla di morte e di angoscia

L’oscura pulsazione di un non-luogo dove le persone possono al più sopravvivere. Edifici che sembrano disabitati anche quando non lo sono, strade sterrate, spiagge luride, luci che brillano solo all’alba, locali come buchi aperti sul nulla, recinti e muri scrostati, un mondo di discarica, una latrina da cui non è possibile tirarsi fuori. Dogman, il film di Matteo Garrone non è un sado-thriller qualunque o un report di cronaca nera dalle venature splatter, né tantomeno un saggio autoriale improntato a una morale consolatoria oppure (fa lo stesso) sociologica: Dogman è un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa, si trasforma fatalmente in vendetta e sembra non avere senso finché non ne acquista uno nella logica della narrazione.

Dogman inizia con il ringhio di un pitbull da combattimento ed il terrore speculare degli altri cani chiusi dentro le gabbie del negozio, enucleando così quelle dinamiche di sopraffazione e sottomissione che sono la regola di vita del quartiere. L’ombra di Simone si staglia gigantesca dietro la porta a vetri del canaro, proiezione gonfia di una paura atavica che con il tempo ha dominato gli animi della gente perbene, non soltanto nei quartieri periferici.

E lo sguardo smarrito di Marcello in riva al mare, dopo l’ennesima prepotenza subìta, è quello di un Paese che ha preso consapevolezza del proprio status di vittima, e che “tutto questo non lo accetterà più”. Ma invece di raccontare un’incazzatura alla Quinto potere, o la vendetta efferata e grottesca in cui le cronache hanno abbondantemente sguazzato, Garrone descrive una quieta rivalsa del tutto priva della valenza pulp che ha reso archetipale, e protagonista di uno storytelling ante litteram, il vero Canaro.Garrone, grande pittore di anime, assume ancora una volta come base del suo cinema lo stupore di fronte all’orrore e sembra stavolta procedere in sintonia con le tesi di Salvatore Natoli esposte nel saggio L’animo degli offesi e il contagio del male: <<Certo, il male è pervasivo, ma chi lo compie ne è responsabile e non solo di quello che fa, ma –peggio- delle conseguenze… Ogni atteggiamento reattivo replica il misfatto, non lo riscatta>>. Il noir, che dell’atroce caso del “canaro della Magliana” riprende solo i dati principali, è sorretto dalla straordinaria resa del neoattore Marcello Fonte che s’immedesima nel brutto, fragile, miserabile eppure mite protagonista, confinato nelle brutture della periferia con l’unica consolazione dell’amore per la figlia e per i cani. Dogman, tuttavia, non insiste molto sulla trama perché la stessa è disseminata in decine di minimi, accuratissimi tocchi, nell’alternanza di campi lunghi e primi piani, nella fotografia che trova inquadrature assomiglianti a quadri di un Hopper post-atomico, nei flussi di cocaina che scandiscono il tragico rapporto di Marcello col brutale ed erculeo malavitoso Simoncino trasformatosi in persecutore personale.

Quello di Garrone è un cinema tridimensionale, dove i personaggi prendono corpo e saltano fuori dallo schermo per accompagnarti fino a casa, lasciandoti addosso un’angoscia straziante, come in Gomorra e in Reality, sono più veri degli uomini della cronaca cui si ispirano, perché hanno il carattere dell’universalità.

La sensazione d’angoscia di Dogman si fa di sequenza in sequenza più palpabile componendo un crescendo di sopraffazione che rende Marcello libero solo quando s’immerge in tenuta da sub con la figlia nelle profondità del mare, favorendo in questo modo il dispiegarsi di una vera e propria sinfonia della paura, la stessa che può intravedersi negli insondabili abissi dei comportamenti animali. L’uggiolio del cagnetto si trasforma nel ringhio spaventoso del pitbull da combattimento quando scatterà la trappola messa in atto da Marcello illuso di liberare una buona volta non solo se stesso, ma anche il quartiere, la città, il mondo dall’odioso stupratore. Il sentimento finale, riservato a spettatori dal cuore forte, trascende così l’atto criminale per incarnarsi nella più agghiacciante metafora cristologica che si possa immaginare.

 

 

 

Fonte:

Dogman

Cannes 2018: vince meritatamente il delicato film giapponese ‘Hoplifters’ di Kore-eda Hirozaku. Premiati anche gli italiani Garrone e Rohrwacher

La 71ª edizione del Festival di Cannes è terminata con le melense e prevedibili dichiarazioni anti-Weinstein di Asia Argento che con l’arte del cinema c’entra ben poco, l’assegnazione della Palma d’Oro e diversi altri premi, da parte della giuria presieduta da Cate Blanchett. Ad aggiudicarsi la Palma d’oro per il Miglior Film è la pellicola drammatica giapponese Shoplifters di Kore-eda Hirozaku.
La giuria della kermesse francese ha premiato entrambi i film italiani in Concorso assegnando la Palma d’Oro per la Migliore Interpretazione Maschile a Marcello Fonte, protagonista di Dogman, un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa di Matteo Garrone, che ha ricevuto il riconoscimento da Roberto Benigni e ha dichiarato: “Ringrazio Matteo che ha avuto il coraggio e la follia di volermi con sé”. La pellicola girovaga ma e poco riuscita Lazzaro felice di Alice Rohrwacher che deve molto al cinema del compianto Ermanno Olmi, ha invece ottenuto il premio per la Migliore Sceneggiatura e la regista ha ringraziato la giuria e la sua presidentessa per aver preso sul serio una sceneggiatura così bislacca, così come i bambini prendono sul serio i giochi.

Pawel Pawlikowski è il Miglior Regista con Cold War drammatica storia d’amore ambientata nella Polonia degli anni ’50. Anche nella sezione Quinzaine des Réalisateurs l’Italia si fa notare con Troppa grazia di Gianni Zanasi che ottiene il riconoscimento Europa Cinemas Cannes Label.
Spike Lee porta a casa il Gran Prix per il suo BlacKkK.lansman: “dedico il premio agli afro-americani. Il mio film dice quello che penso su Trump”.

Kore-Eda si è meritato questo riconoscimento per aver realizzato una pellicola intensa e delicata allo stesso tempo, con al centro una famiglia anticonvenzionale che l’autore nipponico ha inquadrato con grande sensibilità. Il film percorre solo in apparenza binari antichi, nascondendo una differente declinazione della materia, che guarda al sociale come l’autore non faceva dai tempi di Nessuno lo sa. Il primo segmento dell’opera sembra esaudire appieno le aspettative di quest’ultimo, introducendolo a un gruppo di ladruncoli che, per interesse prima e per affetto poi, si ritrova a festeggiare un colpo, simulando di avere dei rapporti effettivi di parentela. Tutto sembra procedere nella direzione più attesa, sino alla svolta narrativa che riapre il vaso di Pandora e rimette tutto in discussione. “Buoni”, “cattivi”, giusto e sbagliato, diventano concetti ribaltati sullo spettatore e sui suoi dubbi, con una padronanza della narrazione – già intravista nel “rashomoniano” The Third Murder – che guarda al relativismo di Kurosawa, ancor più che al consueto termine di paragone del connazionale Ozu. Il conflitto tra legge morale e legge sociale trasforma i toni quasi da commedia della rappresentazione della famiglia fittizia in un dramma colorato di nero, che colpisce come una sferzata, dopo aver aperto il cuore al sentimento.

Una Palma d’oro speciale è andata a Jean-Luc Godard, maestro del cinema francese e della Nouvelle Vague, che ha portato quest’anno a Cannes la sua ultima, sperimentale creazione: Le livre d’image.
Miglior attrice, invece, alla kazaka Samal Yeslyamova per Ayka di Sergey Dvortsevoy. Da segnalare anche la Caméra d’or, il titolo per la miglior opera prima, andato al sorprendente Girl del belga Lukas Dhont, film presentato nella sezione Un Certain Regard.
Va inoltre ricordato che il cinema italiano ha ottenuto riconoscimenti importanti anche tra i film presentati all’interno della Quinzaine des Réalisateurs, sezione parallela del festival: Samouni Road di Stefano Savona ha vinto il premio come miglior documentario dell’intera kermesse.

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