Il brutto che avanza nell’arte, ovvero quando l’artista è diventato anche antropologo e sciamano: da Duchamp ai giorni nostri

Nell’immaginario collettivo entrare in un museo o in una galleria d’arte ha significato accedere a una sorta di wunderkammer: luogo speciale dove erano esposte mirabilia, statue e quadri carichi di fascino e di bellezza. Guardare un’opera d’arte, in passato, significava entrare in empatia con essa e sottoporsi a un’esperienza estetica, ovvero a un confronto critico e intellettuale diretto con la creazione dell’artista, finalizzato ad esprimere un giudizio personale: le sculture e i dipinti potevano essere decodificati e vagliati, seppur in maniera soggettiva, dalla sensibilità dell’osservatore. Oggi questo non accade più: le opere, andando oltre i tradizionali valori dell’estetica, sono esposte nei musei e nelle gallerie di tendenza, collocate all’interno di scenografie e di allestimenti realizzati con l’intento di esaltare la loro natura meta-artistica, il loro essere intrise di iper-significati o di espressioni dal carattere puramente concettuali, e i musei di rispondere a esigenze di marketing e di show looking.

Al di là delle potenzialità offerte dai nuovi mezzi espositivi e tecnici messi a disposizione degli artisti, all’opera d’arte è venuto a mancare quel quid di magia, di fantasmagorico e di sublime che garantiva all’oggetto artistico il fascino di una certa aura. Ciò che ha mutato l’odierno approccio dello spettatore all’opera d’arte è stata una questione di natura non solo estetica ma il frutto di un processo comunicazionale e cognitivo che ha coinvolto chi la guarda e gli artisti stessi nel modo di concepire il loro lavoro creativo.

L’artista si è trasformato in filosofo, in scienziato, in antropologo, in messaggero portatore di verità assolute, ha vestito i panni del sacerdote e dello sciamano incaricato di iniziare i profani al culto dell’arte: figure dotate di potere, di visibilità e che non sfigurano rispetto al ruolo principale dell’essere Artista. Tuttavia, tali attività parallele hanno finito per inficiare la capacità creativa degli artisti e il loro essere fino in fondo visionari, senza mettere in evidenza la qualità essenziale della loro pura creazione artistica, ossia l’originalità. Questo nuovo ruolo ha fatto sì che la stessa opera d’arte, superando gli argini della figurazione e della ricerca della qualità del disegno, ha finito per diventare installazione, esibizione di gesti o di materiali, anche di scarto, prelevati dalla realtà, riattualizzati in nuove finzioni e messi accanto a oggetti culturali inclusi in contesti alternativi.
Tale sviluppo ha portato l’artista a superare i limiti imposti dalla propria natura fisica, occultando il significato e le finalità delle sue azioni artistiche. D’altro canto i visitatori di musei, di gallerie, di installazioni en plein air, sono stati costretti ad addomesticarsi e a mutare il modo di vedere l’arte per ripensarla, per lasciarsi assorbire da realtà nuove, finendo proiettati in spazi, in ambienti e creazioni liberate da qualsiasi parametro estetico tradizionale, giungendo sino a varcare la soglia dell’inutilità e dell’immateriale: in talune situazioni, l’artista è arrivato a redigere un atto notarile nel quale ritirava dalle sue creazioni qualsiasi qualità e contenuto di carattere estetico, o dichiarava di non essere più interessato ad esporre le proprie opere e di non dipingere più.

Il padre storico, l’iniziatore di questa radicale sovversione artistica è stato Marcel Duchamp che, all’inizio del Novecento, con i ready-made (e gesti) dadaisti, prelevando gli oggetti dal mondo reale e trasformandoli in opere d’arte, ha attaccato il concetto di rappresentazione artistica per introdurre una Nuova estetica vocata alla distruzione del mito della Bellezza, ma che, purtroppo, incompresa nella sua complessità, ha avvantaggiato l’avvento dell’osceno e della bruttezza in arte.

L’Arte moderna ha coltivato questa insurrezione contro il buon senso comune: nel Novecento ha riecheggiato la volontà di demolire i principi dell’arte tradizionale e prima di Duchamp, la rivolta contro il Bello è cominciata con la violenza pittorica del Cubismo, passando attraverso l’Espressionismo tedesco, snodandosi dal Futurismo al Dadaismo, dal Surrealismo all’Astrattismo, dall’Arte Povera all’Arte Concettuale, sino all’avanguardia post-moderna e post-umana. Il gesto rilevante di Duchamp di proporre al pubblico nei musei il suo orinatoio rovesciato (Fountain) o di esporre una ruota di bicicletta appoggiata a uno sgabello, ha rappresentato l’inizio di una rivoluzione che ha trasformato l’azione simbolica di rottura dell’artista in una norma, anzi nella prassi quotidiana del lavoro artistico; tant’è vero che tutte le forme d’arte e le performance che hanno fatto scandalo in passato sono diventate dei luoghi comuni, dei modelli di riferimento e gli artisti oggi hanno diluito il loro potere di scandalizzare la gente copiando le gesta precedenti incapaci di inventare qualcosa di nuovo.

Secondo un mostro sacro dell’arte moderna, Joseph Beuys, teorizzatore dell’arte sociale negli anni Settanta, tutti gli individui potevano essere artisti, senza avere la pretesa di essere stati educati all’Arte e alla emozione estetica: un concetto già espresso dal fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, il quale fu il primo a sostenere l’esigenza della fusione-sintesi della vita e dell’arte in ogni sua espressione e manifestazione. Con Marinetti prima, e con Beuys dopo, l’arte è cambiata, o meglio, nel mondo dell’arte si è andato affermando il principio per cui non è più necessario saper scolpire, dipingere e disegnare: per essere artisti occorre invece saper trasformare le proprie creazioni in cose visibili e percepibili dai sensi, e non importa a quali sensi si va incontro attraverso la loro presentazione al pubblico.

Al tempo stesso è diventato assolutamente relativo che le creazioni di un’artista siano belle o brutte: basta che assorbano l’attenzione degli osservatori, ne perturbino la mente con provocazioni fini a se stesse, e che l’opera, grazie alla manipolazione dei media, diventi uno scandalo. Persino le mostre allestite nei grandi spazi espositivi e museali, diventano l’occasione per provocare e scandalizzare, e nel caso di esposizioni come Sensation (1997) e Post-Human (2006) sono apparsi cartelli che avvisavano i visitatori che il contenuto delle mostre poteva essere disgustoso, provocare shock, nausea, confusione mentale, panico, euforia o angoscia. Con l’avvento della modernità il disgusto è entrato prepotentemente nella riflessione estetica costringendo lo spettatore a dimenticarsi la contemplazione pura e disinteressata dell’opera d’arte, privilegiando una esperienza fisica basata sull’interazione, sulla collaborazione e anzitutto su di un mescolamento di attrazione e repulsione, rifiuto e complicità.

Non esiste una classifica in arte del Brutto e delle opere considerate attualmente più disgustose, ma vale la pena ricordare che a riprova di questo (cattivo?) gusto della pretesa partecipazione e compartecipazione del pubblico alle creazioni artistiche, nel 2011 il tedesco Carsten Höller ha invitato i partecipanti ad un evento nel museo Hamburger Bahnhof a Berlino a bere l’urina di un gruppo di renne che aveva ingerito sostanze afrodisiache e allucinogene prima di osservare le sue opere esposte; mentre, restando in tema di Brutto intenzionale, lo scultore Marc Quinn ha realizzato il suo autoritratto utilizzando il proprio sangue congelato, e Chris Ofili ha presentato un sacrilego ritratto della Madonna, The Holy Virgin Mary, realizzato assemblando con la tecnica del collage sterco di elefante e immagini pornografiche; ancora, Damien Hirst continua a proporre anti-graziosi animali sezionati e conservati in formaldeide sostenendo in maniera apotropaica di voler esorcizzare in questa maniera la morte fisica, e di recente ha incapsulato persino il corpo defunto di un bancario impiegato presso la Merryl Linch intitolando l’opera Oh Shit – Oh Merda –, poi venduta all’asta per oltre due milioni di euro.

Senza dimenticare le performance trash di Paul McCarthy, le sculture porno-kitsch di Jeff Koons e le sculture-installazioni di Maurizio Cattelan che più che costringere a una reazione invitano lo spettatore ad arrendersi di fronte alla banalità e alla volgarità della provocazione (a differenza del progetto espositivo offerto dall’avveniristico Museo della Merda, realizzato a Castelbosco in provincia di Piacenza, non a caso definito dai curatori: un contemporaneo gabiNel settembre del 1957, artisti come Piero Manzoni, il padre della celebre (e malentendu) Merda d’artista, Arman, Yves Klein, Lucio Fontana e altri, nel redigere il manifesto programmatico intitolato Contro lo stile, dichiararono che ogni invenzione, creazione o performance artistica da allora rischiava di divenire oggetto di ripetizioni stereotipe a puro carattere mercantile e che era quindi urgente intraprendere una vigorosa azione anti-stilistica per un’arte che fosse sempre unica:

Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte: e che l’essenza della stessa si ponga come “presenza modificante” in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze.

Gli artisti che li hanno succeduti nel panorama artistico internazionale hanno finito per non avere più idee: le loro novità, senza alcun input creativo (se non una celebrativa autoreferenzialità), non sono altro che repliche costanti di idee altrui, prive quindi di originalità e essenzialmente brutte ma idolatrate dal pubblico dimentico del fatto che – come sostiene il critico americano George Dikie – si può fare un’opera d’arte con l’orecchio di una scrofa, ma ciò non ne fa necessariamente una borsa di seta.

 

Guido Andrea Pautasso

 

‘L’uomo che uccise Don Chisciotte’, di Terry Gilliam: l’atteso film in uscita il 27 settembre

L’uomo che uccise Don Chisciotte è uno dei film più attesi dell’anno. Il film, diretto da Terry Gilliam, è una storia di fantasia e avventura, ispirata al leggendario protagonista di un classico della letteratura mondiale: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, pubblicato in due volumi nel 1605 e nel 1615. Terry Gilliam, ex Monty Python e celebre regista di La leggenda del re pescatore, L’esercito delle 12 scimmie, Brazil, Parnassus L’uomo che voleva ingannare il diavolo e Paura e delirio a Las Vegas, ha lavorato al progetto per quasi 25 anni dopo che vari tentativi di realizzarlo sono stati funestati e interrotti da ogni possibile disavventura produttiva, facendogli guadagnare la fama di film maledetto.

Nel cast figurano Adam Driver (Star Wars: Il risveglio della Forza, Paterson, Silence), Jonathan Pryce, che aveva già lavorato con Gilliam (la saga di Pirati dei Caraibi, I fratelli Grimm e l’incantevole strega, Brazil, Il domani non muore mai) nel ruolo di Don Chisciotte, Stellan Skarsgård (Le onde del destino, Mamma Mia!, Will Hunting – Genio ribelle), Olga Kurylenko (Quantum of Solace, Oblivion, To the Wonder), Joana Ribeiro (Portugal Não Está à Venda, A Uma Hora Incerta), Óscar Jaenada (Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare, Cantinflas), Jason Watkins (premio BAFTA per The Lost Honour of Christopher Jefferies, Trollied, W1A), Sergi López (Il labirinto del fauno, Piccoli affari sporchi, With a Friend Like Harry), Rossy de Palma (Julieta, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Three Many Weddings), Hovik Keuchkerian (Assassin’s Creed, The Night Manager) e Jordi Mollá (Criminal, Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick, Blow).

L’anteprima per i giornalisti è prevista a Roma, mentre per gli spettatori il film uscirà il 27 settembrem e i fans di Gilliam sono curiosi nel vedere se il regista è stato abile nel trasferire sul grande schermo il genio di Cervantes, il suo sarcasmo, il suo acume, unendo dramma e tragedia, riflettendo sull’universo cavalleresco medievale e i suoi rituali.

‘Solaris’, uno dei migliori film di fantascienza degli anni ’70, torna in DVD in versione restaurata: dal cosmo alla psiche umana

Torna in DVD la versione restaurata di uno dei migliori film di fantascienza degli anni settanta, Solaris, film che celebra un lungo viaggio che inizia nel cosmo per finire nella psiche umana.

Lo psicologo Kris Kelvin (Donatas Banionis) sta per partire alla volta del pianeta Solaris attorno al quale orbita una stazione spaziale sovietica. Si tratta di un compito molto delicato perché le autorità vorrebbero mettere fine alla sua missione scientifica – volta alla ricerca di forme di vita intelligente – poichè, dopo un inizio promettente, si è improvvisamente bloccata. Si sono inoltre verificati strani fenomeni che hanno messo in dubbio l’equilibrio mentale degli ultimi tre occupanti della Stazione.

Il viaggio alla volta del pianeta sarà molto lungo e così Kris decide di trascorrere gli ultimi giorni nella dacia dell’anziano padre (Nikolaj Grin’ko), consapevole che probabilmente non lo rivedrà mai più. E mentre ammira una campagna di una struggente bellezza, arriva, indesiderato ospite, un amico di famiglia, Henri Berton (Vladislav Dvoržeckij), che vuole raccontargli cosa ha visto anni prima quando si era recato su Solaris. Una testimonianza che la commissione del Consiglio aveva liquidato come frutto di allucinazioni. Kris, infastidito dal suo intervento, si congeda da lui bruscamente, deciso ad appurare la verità senza farsi influenzare da nessuno .

Questo lungo e denso prologo, della durata all’incirca di quaranta minuti, fondamentale per capire l’antefatto, non faceva parte della versione del film circolata in Italia nel 1972, ed è stato invece reinserito nella versione home video restaurata, distribuita da Cecchi Gori Home Video.

Un lavoro che rende giustizia al regista Andrej Tarkovskij, che a suo tempo aveva duramente criticato i tagli, inerenti non solo il lungo antefatto, che conteneva parecchi punti in comune con l’omonimo romanzo di Stanisław Lem, ma anche molte altre scene importanti per la comprensione del film stesso e della psicologia dei personaggi. Ad esempio il lungo tragitto, compiuto da Henri Berton, in una autostrada urbana di una Tokio all’epoca avveniristica, che Enrico Ghezzi, nel commento allegato al film, descrive come un viaggio in un non luogo, un anticipo del lungo viaggio compiuto dal Kris Kelvin di lì a poco. O quei dialoghi senza i quali i personaggi rischiano di apparire delle figure prive di spessore psicologico e la scena della festa di compleanno, tagliata in gran parte nella prima versione distribuita in Italia, dove si assiste a una spettacolare scena di levitazione, che ricorda 2001 Odissea nello spazio.

La versione restaurata permette di apprezzare il lavoro di Tarkovskij, che ha saputo realizzare uno dei migliori film di fantascienza degli Anni Settanta, con ritmi narrativi lenti ma mai noiosi, perché l’opera è caratterizzata da una tensione costante, la quale supplisce alla mancanza di azione. Tensione amplificata dai lunghi piani sequenza delle scene, girate dentro l’ambiente claustrofobico della navetta. I tre scienziati sono come topi in gabbia, tre cavie da esperimento che Solaris analizza, scandaglia e a cui propone i sogni più reconditi: un bambino al Dr. Snaut (Jüri Järvet), un nano al Dottor Sartorius (Anatolij Solonicyn) e una ragazzina al Dottor Gibarian (Sos Sarkisjan). Tutti e tre ne sono turbati, consapevoli dell’origine non umana di queste presenze e Gibarian ne sarà così destabilizzato da scegliere la via del suicidio come forma di evasione da una realtà che non riesce ad accettare e controllare.

Kris Kelvin, che rispetto agli altri scienziati ha probabilmente un rapporto positivo con il proprio subconscio, si troverà di fronte ad Hari (Natal’jaBondarčuk), la moglie morta suicida dieci anni prima. L’incontro è ovviamente disturbante, ma Kris riuscirà gradualmente ad accettarla, ad amarla, provocando la reazione sdegnata degli alti due, Snaut in particolare, ma anche quella della stessa Hari che chiede di essere considerata “umana” e di essere accettata come tale.

Tale situazione spingerà i tre occupanti della navicella, ad interrogarsi su cosa caratterizzi un essere umano – Amore? Empatia? Domande che rimangono senza risposta -, fino a prendere atto dei propri limiti e dell’incapacità di comunicare con altre creature. “Perché andiamo ad esplorare l’Universo quando non sappiamo nulla di noi stessi?” si chiederà uno dei protagonisti del film. Di fronte a una creatura extra-terreste dalle notevoli capacità intellettuali, i tre scienziati si rivelano indifesi e ignoranti, incapaci di comprendere altre civiltà, perché prima di viaggiare nello spazio, l’uomo dovrebbe viaggiare dentro di sè, esplorare quegli abissi dove si nascondono i pensieri più profondi e inconfessabili.

 

Speciale Home Video: SOLARIS

La Magistratura migrante da riformare, e l’inchiesta contro Salvini

Un’inchiesta da manuale, quella del procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio. Secondo la migliore tradizione italiana. Leggasi infatti: inchiesta dai risvolti politici. Anzi, politicissimi. La vicenda ha inizio dopo Ferragosto, quando un’imbarcazione carica di extracomunitari viene intercettata dalla Squadra marittima delle Forze armate di Malta in acque maltesi. La nave, proveniente dalla Libia, non corre il rischio di affondare e perciò viene rimbalzata dalle faine isolane. Lasciata al proprio destino in mezzo al mare, è lì che viene rinvenuta dal pattuglia-barconi Diciotti, unità della Guardia costiera italiana. Alla richiesta di individuare un porto sicuro dove poter far sbarcare gli immigrati, La Valletta risponde niet. Tradotto: li avete salvati voi, ve li tenete voi. Da far invidia a Ponzio Pilato. E in barba al fatto che si trovassero nell’area Sar dell’isola, di competenza maltese.

A quel punto, la Diciotti ha fatto rotta verso Catania. Certo, quegli extracomunitari potevano finire a mollo a causa della negligenza di Malta, ma i magistrati non metteranno mai sotto accusa l’isoletta di Muscat. Perché, per i magistrati, Matteo Salvini è preda molto più ambita. È infatti notizia di sabato scorso che il procuratore capo Luigi Patronaggio, accompagnato dal procuratore aggiunto Salvatore Vella, si è recato a Roma per ascoltare i dirigenti del servizio Libertà civili del Viminale e alcuni funzionari della Guardia costiera. Il tutto dopo aver aperto un fascicolo per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio a carico del Ministro dell’Interno, reo di aver impedito lo sbarco degli immigrati dal pattugliatore Diciotti. Fascicolo aperto evidentemente non sulla base di sole valutazioni penali, date le personali vedute del procuratore, il quale ritiene, come riporta Il Giornale, che si debba fare i conti col fenomeno immigratorio tenendo a mente che “si tratta di persone costrette a lasciare con dolore terra e affetti, a fuggire da guerra e miseria.”

E non importa se non è vero che la maggior parte degli extracomunitari fugge dalla guerra e che è contro la legge non rimpatriare coloro che non hanno diritto a rimanere in Italia. Perché l’unica cosa importante, per certi apparati dello Stato, sembra esser quella di far naufragare l’esecutivo giallo-verde, in anticipo persino rispetto al paventato attacco dei mercati. E mettendo nel mirino l’uomo forte dell’esecutivo, colpevole soltanto di voler far rispettare la legge, ovviamente con l’appoggio morale del popolo degli arancini, appendice portuale dell’annaspante Partito Democratico, che nemmeno si è presentato in tutti i suoi ranghi per i funerali di Stato a Genova. Senza però farsi sfuggire la passerella catanese: ecco le priorità di una compagine politica ormai allo sfascio. Di una compagine politica che non ha compreso (o che ha volontariamente ignorato?) le cause e le implicazioni dell’attuale fenomeno immigratorio, parte di una strategia che mira a privare di coesione il sistema socio-politico italiano con un obiettivo ben preciso: appropriarsi del nostro capitale.

Lo spiega anche la Prof.ssa Greenhill nel suo libro Armi di migrazione di massa. Quante figuracce avrebbero evitato le anime belle del Nazareno, se solo l’avessero letto! Quel che è certo è che con avversari simili Salvini può permettersi qualunque cosa. Anche vincere quando sembra perdere. Infatti, nonostante i suoi limiti in materia di geopolitica, continuerà a mietere consensi. Soprattutto se continueranno a piovere inchieste ad hoc.

Claudio Davini

Dannunzianesimo tragico e gusto per la ricercatezza nei film ‘aristocratici’ di Luchino Visconti

Nel marzo del 1976, dopo aver visionato il primo montaggio del suo ultimo film: L’innocente, tratto dal celebre romanzo di Gabriele d’Annunzio, si spegneva a Roma, Luchino Visconti di Modrone, Nobile dei duchi, Duca di Grazzano Visconti, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, Consignore di Crenna, Consignore di Agnadello, Patrizio Milanese. Questi i suoi titoli nobiliari. Non è affatto superfluo, come qualcuno potrebbe pensare, ricordare chi fosse e da dove provenisse il regista milanese, perché il tempo della scienza, misurabile, regolare, rettilineo non esaurisce mai il tempo della durata, composto da ricordi e interiorità, come ci avrebbe insegnato Bergson e come ce lo ha rivelato nel suo capolavoro de La recherche, Marcel Proust.

Il giovane Luchino si appassiona di teatro non ancora adolescente. E’ un lettore vorace di libretti teatrali, in particolare di Shakespeare. Naturalmente la vicinanza al Teatro alla Scala, cui la sua famiglia è da generazioni benefattrice, contribuisce in maniera non irrilevante ad accrescere in lui l’amore per la scena, per la rappresentazione delle passioni e dei desideri che si celano nell’intimo della natura umana. La permanenza parigina, avvenuta poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, gli permetterà di incontrare intellettuali come Jean Cocteau e di essere assistente alla regia di Jean Renoir, esperienza questa che costituirà la sua vera iniziazione al mondo del cinema. Sempre a Parigi, infine, si deve il suo incontro con il mondo comunista d’oltralpe e italiano, all’epoca in esilio proprio all’ombra della tour Eiffel.

Visconti, spirito libero, è visto con malcelato sospetto dalla sinistra a causa delle sue origini nobiliari, cosa questa che lo accompagnerà per tutta la vita e spesso servirà da pretesto per catalogare aprioristicamente i suoi film come frutto di uno spirito reazionario, nostalgico e conservatore. Ma il regista milanese, nei confronti di chi avrà da ridire sulle trame e sulla provenienza sociale dei protagonisti di alcune delle sue sceneggiature, ci terrà sempre a precisare:

[…] è invalsa la credenza, anch’essa singolare, che fare del realismo nel cinema voglia dire approfondire moti, sentimenti e problemi delle classi povere della nostra epoca. Come se fosse proibito a un regista realista indagare criticamente sui moti, sentimenti e problemi delle classi dominanti in una qualsiasi altra epoca, ricavandone una lezione d’attualità, naturalmente, allorché si va a ricercare nel passato i motivi che mossero o cristallizzassero determinati strati sociali.

Film che costituiranno quel corpus fatto di ricercatezza, scavo interiore e drammaticità – in una sintesi sua propria – che faranno di Visconti tra i massimi, se non il massimo, interprete del cinema italiano ed europeo del ‘900.

La doppia chiave di lettura che il regista milanese fornisce, in tutti i suoi film, assegna a questi un posto speciale, dal sapore quasi mistico, esoterico, mai circoscritto nella apparente semplicità della trama in cui si inscrivono le vicende narrate. In Senso (1954), per esempio, in una fosca atmosfera veneziana, ancora sotto il dominio austriaco, va in scena una tragica storia d’amore tra un’aristocratica che sogna e combatte per l’ideale unitario e un giovane tenente dell’esercito austriaco. L’amore unisce ciò che la politica non è in grado di unire, si potrebbe subito pensare; ma ad uno sguardo più profondo, svelatosi solamente nelle scene finali, si consuma la disfatta non tanto di una relazione amorosa, quanto di una classe dominante, universalmente considerata, all’indomani del trionfo della borghesia avida e bracconiera che ha ormai infettato dei suoi istinti mercantilistici anche le decadenti classi dominanti.

E’ proprio questa considerazione, questo atto di lesa maestà verso tutto un mondo, l’unico a cui era degno credere, quel mondo ove la Rivoluzione francese ancora non aveva fatto capolino, è ciò a cui allude il tenente Mahler, quando in preda alla disperazione, dinanzi al suo ormai consunto amore, afferma:

[…] cosa mi importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza, quando so che perderanno una guerra e non solo la guerra; e l’Austria tra pochi anni sarà finita e un intero mondo sparirà, quello a cui apparteniamo tu ed io. Il nuovo mondo di cui parla tuo cugino non ha alcun senso per me.

La medesima aspirazione alla ricerca di un senso perduto, del resto, agita la mente e le membra di uno stanco ed esausto uomo come il principe di Salina nel Gattopardo (1964). Egli è costretto a guardare inerme le trasformazioni sociali e politiche della nascente Italia. Stato nuovo che ha come imperativo quello di creare italiani nuovi, come don Calogero Sedara, astro della borghesia in ascesa, dai modi villani e rozzi, che sa parlare solo di affari, di patrimoni e di nuove terre da incamerare, e con cui aristocratici come don Fabrizio devono venire a patti per la potenza economica e politica che questo nuovo ceto esprime. In una scena del film, il principe stesso, dialogando con don Pirrone, espone al meglio cosa avverrà presto:

Ho fatto importanti scoperte politiche. Sapete che succede nel nostro paese? Niente succede, niente. Solo un’inavvertibile sostituzione di ceti. Il ceto medio non vuole distruggerci, ma vuole solo prendere il nostro posto, con le maniere più dolci; mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. E poi tutto può restare com’è. Capite Padre? il nostro è il paese degli accomodamenti.

Luchino Visconti lascia al ballo finale la nostalgia nei confronti di un’epoca che sta volgendo al termine. Il valzer e lo sfarzo dei saloni dell’aristocrazia siciliana, dai cui soffitti respirano blasoni illustri, devono cedere il passo ai nuovi affamati, a coloro i quali i cerimoniali, il galateo e il bon ton appaiono come piccinerie da museo, a coloro i quali manca sia il senso dell’onore che della bellezza.

Nel 1971, con Morte a Venezia, il regista milanese consacrerà appositamente al tema della bellezza il suo film, tratto dal romanzo di Thomas Mann. Il compositore Gustav von Aschenbach rappresenta l’artista umanamente appagato, e proprio per questo profondamente irrequieto, che decide di passare un periodo di riposo a Venezia, alla ricerca spasmodica e disperata dell’idealtipo di bellezza. In un’atmosfera pregna di estetismo di un celebre e storico hotel veneziano, sul finire della Belle Epoque, il bello ideale si materializza in un adolescente di una nobile famiglia polacca. Seppur attraverso metodi discutibili, ricalcando la trama di Mann, Visconti mette in scena la capacità della bellezza di rompere qualsiasi schema interiore, di suscitare nell’anima di colui che la contempla energie inestinguibili, arrivando financo alla pazzia pur di coglierla, almeno per un istante.

La volontà di Luchino Visconti va al di là di una certa morbosità che in certe scene sembra adombrare il messaggio di fondo; essa, al contrario, esamina il desiderio umano, scruta nelle segrete della nostra coscienza per mostrare a noi spettatori che il desiderio di bellezza è inscritto nelle nostre più intime corde. Di un anelito religioso si tratta, evidentemente. Sconta, come questo, il rischio dell’esagerazione che manda in cortocircuito l’equilibrio umano. Le scene finali, che vedono il protagonista truccato, in preda ad una folle ricerca di quella bellezza tanto agognata, mostrano nella sua interezza proprio questo aspetto. Tuttavia, la morte di von Aschenbach, con cui si conclude il film, nell’istante in cui protende la mano verso il giovane Tadzio che scompare lungo l’orizzonte del mare, testimonia anche la perenne insoddisfazione di colui che ripone nelle creature non il miraggio, ma l’essenza del bello.

Bellezza e arte: anche qui, all’insegna di queste due coordinate si muove l’ultimo personaggio che Luchino Visconti volle mostrare nel suo film Ludwig (1973): vale a dire Ludovico II, il sovrano bavarese reso celebre per via dei fantasmagorici castelli che fece realizzare nella sua terra. Le fortezze di Neuschwanstein, Linderhof e Herrenchiemsee costituiscono non solo un portato significativo del suo reame, ma soprattutto rivelano lo spirito e la sensibilità di un personaggio storico nel quale il mistero che ha agitato la sua vita, sino ai momenti finali, costituisce il limite oltre cui, ancor oggi, gli stessi storici faticano a sporgersi. La pazzia, in tal modo, diviene la risposta più semplice, sbrigativa con il quale apostrofare un sovrano a cui non piaceva muover guerra, a cui non interessava prendere parte a manovre politiche, ma che aveva come unico interesse quello di far rivivere e riassaporare lo spirito degli eroi narrati nelle saghe nibelungiche e nei poemi cavallereschi e a cui il suo maestro e modello assoluto, Richard Wagner, si era ispirato dando ad esse nuova linfa nelle sue memorabili opere. Visconti, dal canto suo, ha un opinione molto chiara del sovrano bavarese:

Ludwig non era pazzo, non lo era più di quanto lo siamo noi, mentre lo ricordiamo.
(L. Visconti, Ludwig II secondo L.V.)

Non è errato considerare Ludwig come un sovrano che avesse in cuor suo nient’altra ambizione che quella di educare un popolo, il proprio, al gusto della bellezza. Non conto io, sembra dirci, conta ciò che vi ho trasmesso con i miei castelli, con il patrocinio da me destinato ad opere, a teatri, all’arte somma così come essa fu realizzata e trasmessa da Richard Wagner.

Sembrano attagliarsi alla perfezione, e persino suonare profetiche, le parole del filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila, le quali riflettono il senso più profondo dell’insegnamento che Luchino Visconti, attraverso la figura di Ludwig, vuole dare:

Nei Paesi borghesi come in terra comunista l’evasione dalla realtà è deplorata in quanto vizio solitario, perversione debilitante e abietta. La società moderna scredita l’evaso per evitare che qualcuno ascolti il resoconto dei suoi viaggi. L’arte o la storia, l’immaginazione dell’uomo o il suo tragico e nobile destino non sono criteri che la mediocrità moderna tolleri. Tale “evasione” è la fugace visione di splendori perduti e la probabilità di un verdetto implacabile sulla società attuale.

Considerare, interrogarsi, lasciarsi cullare dai messaggi che Luchino Visconti dà con i suoi film non costituisce opera vana; al contrario, essi educano alla bellezza riflettendo, non di rado, la sua ancella più stretta: l’etica.

 

Diego Panetta

L’epoca aurea ‘Edo’ nipponica e Kōrin Ogata, tra sensibilità vitale e negazione di essa

Un autore capace di far emergere la forza e la bellezza dell’arte giapponese d’epoca Edo. Quella di Kōrin è un’arte che può avere solo imitatori e che ci permette di interagire da vicino con i concetti di kire e di kata, termini fondamentali e suggestivi dell’estetica nipponica.

Quella che chiamiamo epoca Edo – 江戸時代, per riferirci a quel denso periodo della storia giapponese che comprende all’incirca i nostri Seicento e buona parte dell’Ottocento, fino al battezzamento della capitale Edo in Tokyo e al termine dell’ultimo shogunato, è considerata l’età aurea dell’artigianato nipponico. I secoli del nostro Barocco prima, dell’età dei Lumi e del Romanticismo dopo, corrispondono a una fase della cultura giapponese in cui le attività artigianali – di artigiani abilissimi organizzati in vere e proprie corporazioni (un po’ come accadde nel nostro Basso Medioevo) – crescono tanto in qualità e raffinatezza da produrre opere non considerabili più come esiti semplici o complessi di arti tradizionali, ma qualcosa di più. Opere d’arte. Per capirci: se pensiamo a pittori molto celebri in Europa, come il Katsushika Hokusai – 葛飾 北斎 della Grande onda o Ōkyo, ebbene questi artisti operano in epoca Edo.

Epoca Edo: alle origini dei termini kata e kire

La parola tradizione è una parola-chiave, perché le arti appena menzionate sono squisitamente tradizionali. Si basano sugli insegnamenti tramandati da maestro ad allievo, stili che vengono appresi con estremo sforzo e dedizione per essere ripetuti. Il termine giapponese per riferirci al nostro concetto di stile, è kata – 型. Il kata è la formalizzazione di un gesto o di un insieme di gesti. È, appunto, una stilizzazione. Maneggiare la spada, utilizzare un pennello, compiere i gesti dell’arte della Via del tè… questi sono tutti atti formali validi che vengono appresi e replicati.

Tuttavia la configurazione che deriva da questo – chiamiamolo così – sistema, non è affatto rigida e categoriale come ci si potrebbe aspettare. Non si tratta solo di stabilire una regolamentazione o un canone, trasmetterlo autorevolmente affinché esso venga scolasticamente mantenuto e reiterato. Paradossalmente, nella cultura dei kata, proprio la regolamentazione che pensiamo inflessibile, ha come scopo non la chiusura dello schema fisso, ma la libertà. Solo tramite la ripetizione e la pratica del kata si diventa liberi e, contro-intuitivamente, ci si affranca dalla pratica. Ripetere il kata richiede un atto sì di ripetizione, ma di ripetizione creativa, di sforzo creativo, che supera la mera ripetitività e ci rende spiriti liberi. Dice lo Heihō kadensho – 兵法家伝書, un testo sulla pratica della scherma e della strategia:

distanti dalla pratica, e tuttavia corrispondenti alla pratica,
così si diventa liberi in ogni azione

Un dialogo che può essere intrattenuto in questo senso dall’arte-artigianato giapponese d’epoca Edo, sulla scia di un concetto come quello di ripetizione e riproducibilità, è con certa filosofia contemporanea europea, in parte ben nota ai filosofi giapponesi. L’arte-artigianato giapponese già in epoca Edo è fin da subito aperta alla produzione di massa, laddove ciò, seguendo ad esempio ciò che ci dice un autore tanto essenziale in questo ambito come Walter Benjamin, nel contesto dell’ arte occidentale si verifica solo nell’epoca della tecnica e del mercato (la contemporaneità), con conseguenze spesso drammatiche per la perdita dell’aura e della sacralità dell’opera d’arte stessa.

Il concetto di bello in Giappone

Vivo esempio dell’arte dei kata è, come ben sottolinea il filosofo contemporaneo Ryōsuke Ōhashi – 大橋 良介 in Kire: il bello in Giappone, recentemente tradotto da Alberto Giacomelli, un’opera magistrale del pittore di primissima epoca Edo Tawaraya Sōtatsu – 俵屋 宗達, Dio del vento e Dio del tuono. Si tratta di un paravento da tempio diviso in due parti, ciascuna destinata a una delle due divinità, “incarnazioni della forza della natura”. L’opera è, altrimenti, un modo di rappresentare il fenomeno naturale. Mostruose e, tuttavia, umane, le due figure, che un occhio occidentale non tarderebbe a definire demoniache, sono caratterizzate da una “gioiosità marcata e vivace”. Esse compiono un gesto stilizzato, vistoso, dinamico, definito (kata). Il marcato colore oro che fa da sfondo, caratteristico anche in altre opere d’arte di Kyoto, come quelle di Kyūzō e Tōhaku (Fiori di ciliegio e Acero), è un colore poco comune.

Esso splende prepotentemente, raccoglie la luce, è fulgore divino e glorioso, tuttavia nelle opere appena menzionate esso favorisce, per contrasto con la sagoma scura e ombrosa degli alberi e delle foglie, a dare una sensazione di morte. È un gioco tra l’al-di-là e l’al-di-qua che segue una dicotomia complessa che nella cultura giapponese viene denominata kire-tsuzuki – 切れ続き («taglio-continuo») e secondo la quale due elementi, solitamente opposti e contrari, entrano in gioco tra di loro tanto mantenendo tanto l’opposizione quanto sviluppando una compenetrazione reciproca. La forza dell’oro e l’oscurità robusta del tronco: nessuna di esse esisterebbe se non nell’interdipendenza (e insieme nell’indipendenza) dell’una con l’altra. L’oro in questo caso fa da kire-tsuzuki tra la vita e la morte, permettendo quella dimensione di complicità tra i due elementi conosciuta come asobi, gioco. Il gioco di vita e di morte.

Ebbene, kire e kata sono apparentati. Nell’opera di Sōtatsu, il gesto-kata delle due divinità è un taglio-kire della naturalezza. L’esito è proprio rappresentato dalla gioiosità dipinta sui loro volti. Qui c’è ripetizione di una forma, certo, ma essa lascia sorgere qualcosa di nuovo nell’origine stessa che viene ripetuta. Allora il kata non è semplicemente quello che uno studioso d’estetica occidentale chiamerebbe stile, quello stile a cui, durante la prima epoca Edo, ci si riferisce ad esempio in Europa per identificare come barocche opere di Bernini e Marino. Realizzare il kata significa anche realizzare liberamente il kire. Certo, esiste la possibilità di comparare tanto i due concetti quanto le opere che sono la loro manifestazione (Ōhashi fa questo quando mette a confronto la cattedrale gotica occidentale, simbolo di una “metafisica della luce”, e le stanze da tè giapponesi). Tuttavia uno scarto tra le due nozioni rimarrà necessariamente, ed esso esiste proprio sulla scorta di quel kire che tanto caratterizza l’arte di autori come Sōtatsu.

Kōrin Ogata: per un nuovo kata

Vicino al nome di Sōtatsu ci sono quelli di altri importanti artisti, le cui opere sono vivo esempio del rivelarsi di quella complessa struttura che chiamiamo kire-tsuzuki. Arriviamo così a Kōrin Ogata – 尾形 光琳 (1658-1716), esponente della scuola Rinpa (di cui faceva parte anche Sōtatsu) e imparentato con un collaboratore di questi, Kōetsu, con il quale Sōtatsu aveva realizzato importantissime opere pittoriche in cui il gioco tra immagine e calligrafia (arti profondamente apparentate nella cultura sino-giapponese) realizzava un kire tutto particolare. Ebbene Kōrin deve moltissimo al suo maestro Sōtatsu. Ne conosce intimamente l’opera, lo ammira moltissimo. Grazie a questo rapporto intrattenuto con Sōtatsu, l’arte di Kōrin segna un decisivo sviluppo nella storia dell’arte giapponese. Ormai uomo di mezz’età, assai benestante, Kōrin abbandona l’ormai non più remunerativa attività commerciale dei genitori per dedicarsi alla pittura. Conoscere l’opera di Sōtatsu significa per Kōrin nientedimeno che ripetere con estrema dedizione un kata, perché non esiste, secondo la cultura del kata, invenzione senza imitazione.

La novità della ripetizione dell’opera Dio del vento e Dio del tuono 

Così Kōrin copia, letteralmente, i dipinti del maestro, rifacendosi anche all’opera Dio del vento e Dio del tuono già menzionata. Ma come ogni grande ripetizione di kata, questo gesto è una forma di ripetizione non volta alla riproduzione, ma alla creazione, a infondere cioè all’opera ripetuta una novità che segna un oltrepassamento, una metamorfosi. Il gesto di Kōrin, svolto ad esempio nei confronti di Dio del vento e Dio del tuono, è tuttavia quanto di più lontano c’è – se il dubbio è stato instillato – da quella che un occidentale chiamerebbe variatio o “variazione sul tema”. Una variazione prevede che l’oggetto dell’imitazione permanga come “primo” rispetto alla sua variazione. Una variazione su un tema di Brahms ha come autore un compositore diverso da Brahms, magari molto lontano stilisticamente dal pianista amburghese, tuttavia prevede che il referente, ovvero il tema di Brahms, mantenga un qualche “privilegio ontologico” sulla sua variazione. Con il gesto compiuto da Kōrin ciò non accade. Lo sguardo delle due divinità allora muta, fino a che non giungiamo a qualcosa di totalmente nuovo, Fiori di pruno rossi e bianchi.

Se abbiamo già ammirato l’opera di Sōtatsu, osservando Fiori di pruno dovremmo avere come la percezione di avere di fronte, assieme a una vaga sensazione di stranezza sul perché ciò accada, la stessa opera. Eppure i due lavori sono molto diversi. Di sfondo rimane l’oro di cui abbiamo già parlato, l’opera resta divisa in due, destinando ogni parte a due “protagonisti” uguali e distinti (non più divini, in questo caso, ma naturali, i pruni). Ciò che in qualche modo sconquassa il parallelismo è proprio la divisione dei due luoghi operata dall’immenso fiume nero che scorre nel mezzo dell’opera. Come sottolinea Ōhashi, un grande studioso di Kōrin, Yamane, affermò suggestivamente come il pittore avesse

trasfigurato il luminoso cielo di Sōtatsi [in cui si muovevano le due divinità] in un oscuro abisso.

Fiori di pruno: tra tripudio della vita e abisso

L’idea dell’abisso è estremamente acuta, si percepisce chiaramente osservando Fiori di pruno. L’aggraziato motivo floreale è dominato dalla presenza del fiume corvino e abissale, tanto originale e particolare da essere stato denominato nientedimeno che onda Kōrin. L’andamento dell’onda non è armonico. Il corso d’acqua non segue un flusso retto e chiaro, bensì sinuoso, flessuoso, serpentino, come se la sua origine e il suo termine fossero due vortici, due abissi appunto. Ciò che è vita appare allora come ciò che nasce e perisce (l’abisso vorticoso e insieme la vitalità dello scorrere). Solo allora emergono chiaramente i temi che, visivamente meno prevalenti, sono le dominanti dell’opera, ovvero i pruni che il fiume divide.

Da una parte il lato maculato di bianco, dall’altra quello punteggiato di rosso. I rami rossi salgono folti verso l’alto, traboccando fuori dalla cornice, quelli bianchi scendono, più radi, verso il basso. Appare, di contrasto rispetto al fluire potente del fiume nero e centrale, una simmetria, un senso architettonico e categoriale di divisione, per cui sembra che l’opera respiri della presenza di tutto ciò che è vivente e incasellato secondo una divisione aristotelica di generi e di specie, graduati da elementi singoli (i fiori, i singoli vortici) e dal loro complesso (le piante, il fiume). Ai lati del fiume ci sono proprio i due generi, maschile e femminile, rosso e bianco, la grazia e la robustezza, la vecchiaia e la crescita, rappresentati dai pruni.

Infine, dietro, il tripudio della vita e del suo organizzarsi, lo sfondo d’oro, il taglio, luogo umano e oltreumano. Ma allora, ripetendo creativamente il kata, superando il presagio di morte di Fiori di ciliegio e di Acero e allo stesso tempo Sōtatsu, qui non v’è più il presagio di morte e la sua presenza indiscussa, il senso di inevitabilità di essa, bensì una consapevolezza che ha i tratti di ciò che i giapponesi chiamano hijō, «indifferenza», e che consiste in un vero “rituale della morte”. È piuttosto lo sguardo che riconosce l’inumana indifferenza della morte nel bel mezzo del fiorire della vita che caratterizza l’opera di Kōrin, dice Ōhashi. La sensibilità vitale (jo) e la sua negazione (hijō) divengono così due elementi accessibili solo grazie al taglio e all’apparire della loro complicità. Per mezzo della negazione della vita si accede alla vita, la negazione taglia (kire) il suo opposto, perché come esito emerga “la natura immediata del mondo umano”. Un nuovo kata, quello di Kōrin, che i posteri imiteranno.

 

Alessandro Montefameglio

Chi ha ucciso Genova e perché il ponte Morandi era in mano ai Benetton

Mentre la Società Autostrade pensa ai suoi azionisti, ai piccoli investitori, senza nemmeno degnarsi di non far pagare il pedaggio alle autoambulanze, mentre parte della politica nostrana parla come al solito di sciacallaggio da parte di forse politiche avverse, e giornalisti gigioni, per questo caso, invocano lo stato di diritto, magari agognando la prescrizione per i responsabili, visto che per accertare le responsabilità in Italia ci vogliono una decina di anni, sarebbe opportuno e giusto mettere al centro dell’attenzione e di ogni discussione le vittime, i loro familiari, i dispersi, i sopravvissuti e tutti i cittadini di Genova, rimasti coinvolti in questa tragedia che certamente non è stata una fatalità, chiedendoci perché il ponte Morandi era finito in mano ai Benetton.

“Il 7 febbraio 1992, veniva firmato il Trattato di Maastricht, che entrerà in vigore l’anno successivo, nel 1993. Il ’93 è l’anno in cui il governo Ciampi istituisce il Comitato Permanente di Consulenza Globale e di Garanzia per le Privatizzazioni; sempre in quell’anno gli accordi del ministro dell’industria Paolo Savona* con il Commissario europeo alla concorrenza Karel Van Miert e quelli del ministro degli Esteri Beniamino Andreatta con Van Miert, impegnano l’Italia a fare la messa in piega alle aziende di Stato perché divengano appetibili per gli investitori privati”.

“A partire dal governo Ciampi del ‘93, come si è detto, le tappe furono serrate: 1) i già citati accordi Italia-Van Miert, che stipulavano la ricapitalizzazione della siderurgia italiana a patto che la si privatizzasse, e l’azzeramento del debito delle aziende di Stato per lo stesso fine, cioè la svendita ai privati. 2) 1997-2000, il grande salto nella svendita dei beni pubblici col centrosinistra, che stabilisce il record europeo delle privatizzazioni (ENI, S. Paolo Torino, Banco di Napoli, SEAT, Telecom, INA, IMI, IRI con SME, Alitalia, ENEL, Comit, Autostrade ecc.)”.

“L’Italia doveva farsi la messa in piega, svendersi cioè ai capitali privati, pena l’esclusione dall’euro, come stipulato nero su bianco dagli accordi del Comitato Permanente di Consulenza Globale e di Garanzia per le Privatizzazioni di Ciampi e celebrato poi dal Libro Bianco delle privatizzazioni di Vincenzo Visco”. E’ così che il ponte Morandi finì poi nelle mani di uno scherano speculatore privato e con termini di concessione scandalosi ma pienamente approvati da Bruxelles nel suo furore d’imporre le privatizzazione all’Italia che ambiva ad entrare nell’Eurozona.  Da allora:

Lo Stato italiano perse ogni possibilità di tutelare l’Interesse Pubblico nella maggioranza degli snodi di sopravvivenza vitali dei suoi cittadini. E qui trovate i veri colpevoli di questa strage, perché è compito dello Stato vigilare in prima istanza, e con spesa sovrana sui propri figli e se esso abdica a queste prerogative, la prima colpa di catastrofi come questa è sua, e in particolare della forza sovranazionale che gli impose quella ignobile abdicazione. Infatti:

i Benetton sono entità speculative private, e quando gli speculatori sono lasciati liberi di agire da uno Stato evirato, non puoi né devi aspettarti alcun riguardo per le vite umane. Gli speculatori privati sono bestie da millenni, e tali rimarranno in eterno. Gli Stati moderni nacquero proprio per controllarli, ma per farlo devono rimanere sovrani. Noi fummo evirati quel 7 febbraio 1992.

Se lo Stato mette nelle mani di speculatori privati gli snodi di sopravvivenza vitali dei suoi cittadini – come la Sanità o le Infrastrutture essenziali – ma sa di non aver più i mezzi sovrani per costringerli all’interesse pubblico esso è scientemente complice della loro immoralità da profitto, e quindi è il primo colpevole dei conseguenti drammi. Ma lo è ancor più lo strapotere a Bruxelles che ve lo costrinse. E allora chi ha uno straccio di morale non si nasconda dietro ai cavilli di certa stampa: la responsabilità materiale e morale per i (tantissimi) morti che sono seguiti a quella criminale esautorazione di uno Stato sovrano sono solo di chi la volle in Europa, e dei ‘padri’ italiani dell’euro.

 

* Paolo Savona a quei tempi fervido architetto del “privato è meglio, lo Stato non spenda”, nonché membro dell’Aspen Institute assieme a John Elkann, Mario Monti, Emma Marcegaglia, Giulio Tremonti, Enrico Letta, Romano Prodi, Giuliano Amato, Corrado Passera, et al.
(I virgolettati sono tratti dal volume Il Più Grande Crimine, Paolo Barnard, 65 note bibliografiche, MABED Ed. 28 agosto 2013, Amazon Media EU S.à r.l.)

http://paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=2100

‘Franco Dellerba. Percorsi’ in mostra a Bari fino al 30 settembre

Inaugurata il 19 maggio scorso, presso la Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto” di Bari, la mostra Franco Dellerba. Percorsi offre un illuminante spaccato dell’opera di Franco Dellerba, uno dei più significativi artisti contemporanei pugliesi, la cui notorietà, grazie al vasto apprezzamento conquistato attraverso numerose esposizioni collettive e monografiche, ha valicato ampiamente i confini italiani ed europei.

L’originalità dell’esposizione consiste nel confronto diretto tra una selezione delle opere di Dellerba, legate da tematiche o percorsi artistici comuni, e le collezioni medievali e rinascimentali della Pinacoteca barese: una formula che il museo ha sperimentato con grande successo negli ultimi anni, accogliendo mostre site specific dedicate a Mimmo Paladino, Carlo Guarienti, Sandro Chia, ma che si rinnova nel caso di Franco Dellerba assumendo un significato particolare e arricchendosi del forte legame antropologico che lega l’artista alla sua terra d’origine.

Fulcro dell’esposizione è una grande installazione realizzata con centinaia di cartamodelli di tomaie di scarpe, recuperati dall’artista nel laboratorio di un noto calzolaio barese del primo Novecento, e tra lui trasformati in un’originalissima, sorprendente opera personale.
Il titolo della mostra, Percorsi, copre un ampio raggio di significati, da quello di “cammino”, “avanzamento” vero e proprio, cui si collega la descritta installazione e altre opere ad essa collegate, a quello del “procedere” metaforico nell’arte dello stesso Dellerba, che attinge spesso agli elementi che sin da bambino più l’hanno affascinato, come le giostre e le luminarie delle feste patronali, gli spiritelli, il caldo sole di Puglia. Ma tutti questi soggetti vengono reinterpretati in modo da renderli astratti e traslati, oggetti privi di ogni funzionalità e destinati a creare un mondo giocoso e divertente.

Una mostra eccentrica e giocosa, dunque, che sottolinea come ludus, estro, linguaggio assolutamente personale costituiscono la cifra espressiva di un artista fra i più originali della sua generazione, in non pochi casi pioniere inconsapevole rispetto ad artisti più noti e celebrati.

La mostra è accompagnata da un catalogo, a cura di Clara Gelao, con un’intervista a Dellerba e contributi di Achille Bonito Oliva, Lorenzo Madaro, la stessa Gelao e testimonianze di galleristi come Franco Toselli e Valentina Bonomo, dell’ambasciatore italiano a Manila Giorgio Guglielmino, di amici ed estimatori dell’artista. Interamente a colori, il catalogo conterrà le foto di tutte le opere in mostra e dell’allestimento di alcune di esse in Pinacoteca nonché una vasta documentazione fotografica dello straordinario studio dell’artista.

Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto”
Via Spalato, 19/Lungomare Nazario Sauro, 27 (IV piano) 70121 Bari
Telef. 080/ 5412420-2-4-6-7
www.pinacotecabari.it
infotel: 080/5412420-2-4-6-7
Ufficio Stampa Pinacoteca: Tel. 080/5412427
pincorradogiaquinto@gmail.com
pinacoteca@cittametropolitana.ba.it

Giorni e orari di apertura:
dal martedì al sabato 09,00 – 19.00
(ultimo ingresso consentito ore 18:30)
domenica 09.00 – 13.00 (ultimo ingresso consentito ore 12:30)
lunedì e festività infrasettimanali chiuso

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