La sconfitta del pensiero: quando l’uomo rinuncia a comprendere il mondo e crede di poterlo plasmare a propria immagine

L’uomo ha rinunciato alla comprensione del mondo, crede di poterlo plasmare a propria immagine con potere demiurgico, di doverlo trasformare in direzione dell’utile immediato, di qualcosa di produttivo, tutt’al più di informativo, mai di formativo: bombardarci di informazioni, pressanti, continue, veloci, per non informarci di (e su) niente, nel quadro finale disegnato dall’homo videns. Dall’homo digitans. Varianti dell’homo communicans. Varianti di un pensiero atrofizzato ormai incapace di leggere e studiare, assopito, adagiato sulla comodità del blog, del link, dell’immagine, del social, del tweet: pochi caratteri per dire, commentare, partecipare a un dibattito. Pochi caratteri per dire ciò che avrebbe bisogno di approfondimento, competenza, letture. Ecco allora un mondo nel quale il mito della velocità ci dà l’impressione della conoscenza in tempo reale, quando, diversamente, assorbiamo il mero fluire limaccioso di immagini che non riusciamo a interrogare, comprendere. Non ne siamo capaci per difetto di passione, curiosità, per ignoranza della grammatica e della sintassi di quello stesso mondo che pretenderemmo di trasformare: meglio le sue immagini riflesse, più comodo per la pigrizia mentale che ci attanaglia tutti. Così i fantasmi di una realtà a noi ignota nel suo dipanarsi, assurgono a totem di quella realtà medesima che vorrebbero comunicarci come vera, giusta, autentica, solidale, laddove sono allineati – feticci dell’Assoluto più dispotico e prepotente mai visto in millenni di storia – i valori liturgici che sorreggono la nuova Teologia della socialità obbligata.

Philippe Muray ha definito in maniera esemplare tale concezione come Impero del Bene, laddove non vi è più spazio e diritto di cittadinanza per l’enigma, il totalmente altro, il differente punto di vista, l’opposizione, la seduzione del negativo (povero Nietzsche), destrezza, ebbrezza del brivido, vertigine dell’ignoto, per cedere il passo all’imperativo paranoico di una democrazia fondata su simulacri e finzioni. Allineamenti appiccicosi, nello stesso tempo persecutori di ogni individualità, di ogni pensiero autonomo. Quindi un sistema di cose nuovo e cremoso ha sconfitto su tutti i fronti il Male, grazie alla Banca Mondiale dei diritti dell’uomo che attraverso il linciaggio (dell’altro, del differente, del non omologato, del dissonante), ha creato la nuova socialità 2.0 (o 3.0, 4.0…). Un più moderno Illuminismo – avamposto della nuova bontà – che ci conduce contro sessismo, razzismo, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti di animali, traffico d’avorio e di pellicce, responsabili delle piogge acide, xenofobia, inquinamento, devastazione del paesaggio, tabagismo, pericoli del colesterolo, aids, cancro eccetera eccetera.
Così dobbiamo quasi vergognarci di essere carnivori, di amare il circo con gli animali (nel ricordo dei nostri anni giovanili), di essere eterosessuali, bianchi; di avere un lavoro, un’istruzione, di credere al conflitto e alla lotta intesi come terreno della dialettica civile, di volere una famiglia nel rispetto della tradizione dei padri, come essi avevano e ci insegnavano; di aver avuto una madre e un padre (e non genitore 1 e genitore 2), di pensare che la competizione onesta e leale sia un valore nella vita, di reputare l’odierno sistema scolastico come una fabbrica di potenziali ignoranti (tutti promossi, tutti somari), di credere a ragione veduta che un professore vecchio stampo valga più di un’intera fabbrica di computer e di tutte le connessioni in fibra del mondo. Dobbiamo vergognarci, siamo colpevoli di aver accettato l’antica socialità, quando in ogni cosa si celava ancora il Male nelle sue infinite sfaccettature. Siamo liberi e benefici oggi: viva la libertà, viva l’amore (che vince sempre, eh!), viva l’Open day nelle scuole-aziende! viva il Nulla socializzato!

La nuova Teologia della socialità obbligata e la tirannia della verità comunicata (esse coincidono più di quanto immaginiate) ci danno la possibilità di reperire velocemente informazioni disparate con l’uso integrato di media, immagini e testi contenenti l’idolatria di questa realtà manipolata alla radice; ci inducono a pensare che viviamo il passaggio da una sottomessa cultura passiva a una emancipata cultura partecipativa; ad una più complessa e, aggiungo io, sofisticabile, intelligenza collettiva cui guardare da nuovi illuminati. Ma questa mistificazione (concettuale e pratica) ha il fine di organizzare la mente e la conoscenza in una sola direzione: quella impressa dai custodi, dai guardiani, dai legionari dell’inganno libertario. Dai cantori del nichilismo che ci vendono a poco prezzo. Anzi, ci regalano come il più utile e gradito dono, la conquista più grande. La hybris più completa e degenerativa della cultura occidentale ormai ha assimilato in sé, come valori assoluti, la schizofrenia identitaria, il nichilismo totalizzante, la svalutazione della memoria dei popoli (dove ogni cosa viene fatta confluire in un calderone di qualunquismo sociologico e antropologico), il terzomondismo ideologico. E badate, vi scongiuro, non fatemi apparire come un becero intollerante.
Il mondo non è più il mio mondo, come me lo hanno consegnato gli avi, bensì una controfigura in senso globalistico che vorrebbero farmi assumere – inondandomi di immagini e prescrizioni sempre più veloci e inintelligibili – come l’unico mondo possibile in una società civile, caritatevole, morale, armoniosa, umana (“Restiamo umani” è uno degli slogan), della fratellanza universale sotto la spinta del Papa ‘rivoluzionario’ e gli esempi dei governi ‘liberi’ a Sud del mondo, al passo coi nostri tempi. Al passo col Bene, col Sorriso, con l’Empatia universale, con la libertà di essere liberi sotto il vessillo della velocità, della fibra ottica, del tempo reale e, più giga, tera hai, più mondo avrai; più sarai ipocrita e solidale, più sarai alle porte del Regno dell’Infinita Umanità. Maleodorante carosello di luoghi comuni e banalità un tot al chilo. Nessun Sud del mondo, quindi, siamo tutti Nord. Siamo tutti liberi, umani, carnefici del Male (che fortunatamente è solo un ricordo).

Il nostro, purtroppo, è un mondo perversamente cibernetico, che ricade appieno negli ambiti di quella scienza del controllo e della comunicazione, secondo la definizione di cibernetica proposta da Norbert Wiener, ritenuto il “padre fondatore” di tale scienza, oggi, più patologia oncologica, che conoscenza ontologica, sapere, disciplina, scienza, nella loro accezione originaria. La Bellezza poi, non è altro che la musealizzazione della stessa. E ciò vale anche per la Bellezza della natura. Nessuno che si sforzi di capire i primordiali dettati etici, oltre che estetici della Bellezza, della Natura. Ormai semplici cose da esibire, delle quali e in nome delle quali ci si sente autorizzati a disquisire cazzata su cazzata, senza penetrarne l’intima essenza (Ah Novalis! Dove sei?). E quale filosofia potrebbe mai consolare questa filosofia dell’omologazione?
Anzi, quale filosofia dovrebbe consolare l’uomo di questo secolo, già fiduciario e segnacolo – per usare un modo di esprimersi indù – del kali-yuga, l’età oscura che copre il mondo col velo della nera dea Kali?

«Quei greci, tutti omosessuali…
A: Socrate è un uomo
B: Ogni uomo è mortale
C: Ogni uomo è Socrate
Quindi ogni uomo è omosessuale»
Woody Allen – Sillogismo di “Amore e Guerra”
«FILOSOFO: [Altro sillogismo] I gatti sono mortali.
Ma anche Socrate è mortale. Dunque, Socrate è un gatto.
VECCHIO SIGNORE: Socrate dunque era un gatto.
FILOSOFO: La Logica ce l’ha appena dimostrato.
VECCHIO SIGNORE: Però, è bella la Logica.
FILOSOFO: Sì, ma a condizione di non abusarne»
Eugène Ionesco – Sillogismo e dialogo de “Il Rinoceronte”
«A: Tutti i tedeschi sono uomini
B: Angela Merkel non è un uomo
C: Quindi Angela Merkel non è tedesca»
Esempio di Sillogismo Barocco

Perché questi sillogismi? Non è per sfoggiare qualcosa, non ho nulla di cui fare sfoggio, tranne la mia malinconia sofferente. Tra l’altro questi sono sillogismi “birichini” che trasgrediscono la regola del sistema architettonico altamente organizzato da Aristotele col suo procedimento logico, quantunque esprimibili nella loro veste formale, sia pur con risultati paradossali, esilaranti. Ricorderete che per il filosofo greco il sillogismo – inferenza fra due premesse e una conclusione – era il modello perfetto di ragionamento deduttivo, il fondamento tecnico di ogni scienza dimostrativa (così, detta alla spicciola, è evidente, no?). Quindi, chiedo ancora, più a me stesso che a voi: perché questi sillogismi? Per dire, con l’ironia di quegli esempi stravaganti, che il pensiero dei nostri tempi, un pensiero massacrato dal più inverecondo utilitarismo di dozzina, mercificato, fondato su “assoluti mercantilistici e finanziari”, è un pensiero che ha perduto capacità di interrogazione, di penetrazione, di stupore, di interpretazione e spiegazione del mondo, anche attraverso il paradosso e l’assurdo dell’argomentazione. Una concezione culturale che ha messo in un cantuccio Omero e Dante, per la quale contano i salotti televisivi, le “belle voci”, i “bei colori”, le “belle opinioni”, dove il saper fare si è capovolto nella coazione a dover fare. Un dover fare alieno di qualsivoglia idea in sé, maturata, compresa. Un pensiero assillante, maniacale, illogico, quantunque segua una sua logica mostruosamente opportunista, che ha declassato il nostro cervello a un ammasso meccanico formato da ingranaggi, mentre i nostri neuroni si comportano come supporti informatici di un calcolatore elettronico. Processori cerebrali che elaborano le informazioni registrate dal programmatore in quel software. Certo, lo so, l’ottimista di turno obietterà che il pensiero non ha mai smesso di pensare, che anche oggi numerosi filosofi, romanzieri e fisici sopraffini si interrogano su scienza e conoscenza. Ma è la prospettiva a essere cambiata.

L’uomo si è modificato purtroppo in un semplice consumatore di prodotti creati dal delirio di onnipotenza del mercato, dei mercati economici, azionari, commerciali, culturali, religiosi, eccetera. Una società succube del progressivo, imperante, colonialismo finanziario, di un industrialismo che pesa sulle nostre teste più di una sentenza dell’Inquisizione. Un uomo lasciato solo con i simulacri tribali di questa modernità votata alla perversione di una pruderia mielosa, appiccicosa come la colla per catturare i topi; fatta di immagini che ci rendono abulici e incapaci di guardare oltre quelle fotografie manipolate sapientemente alla base. Un uomo disumanizzato nel nome di un’idea sociale posticcia, educato alla scuola del conformismo, schiacciato dal bisogno di approvazione e di successo, abitante di un mondo governato dalle apparenze, spogliato della propria individualità, solo e disarmato nella moltitudine che gli si affolla intorno. Quel soggetto definito pensante (forse mendicante del pensiero), oggi logorato, sfibrato dallo spettacolo, dalla comunicazione spettacolare degli eventi, dall’ipnosi volontaria, privato della sua capacità di logica e di pensiero, intrappolato all’interno di miti universali, che non sono in nessun modo manifestazioni del sacro, dis-velamenti ontologici, parole che raccontano il mondo nella sua “temporalità segreta”, che si riappropriano del mondo medesimo e della temporalità non lineare. Solo immagini proiettate sul muro della nostra mente ormai inaridita, come i prigionieri della caverna platonica. E quando filosofi, romanzieri e fisici sopraffini credono di mostrarci il mondo, non si rendono conto che il mondo imposto alla nostra fruizione, è un mondo di forme che utilizziamo passivamente, complici più o meno consapevoli di quel delirio di onnipotenza del mercato delle immagini e dell’idolatria consumistica.

Nessun sapere, privo di sapienza, potrà mai, più, paragonarsi alla bellezza di un sillogismo aristotelico o all’intreccio di virtù e conoscenza di un dialogo platonico, per non tacere della profondità di un aforisma di Nietzsche e della magnificenza di un verso dantesco. E non vado oltre, registrando però, a mio malincuore, che gli stessi rapporti fra gli uomini sono regrediti a relazioni formali fra gli stessi, con l’aggravante di essere (noi tutti) “brutalizzati” da aggressive ideologie umanitarie, astratte (anch’esse formali), alle quali non puoi opporti in adesione al “politicamente corretto”, che in quanto astratte, formali, sono una forma di totalitarismo al servizio del mercato, dei mercati, delle ideologie dell’oblio. Dei mercanti della cultura e della politica. Dei telepredicatori. Dei moralisti. Dei servi acquiescenti. Dei monopoli religiosi. Delle chiese laiche. Di quella “cultura del piagnisteo” (concetto espresso da Robert Hughes in un libro dall’omonimo titolo), “cadavere del liberalismo degli anni Sessanta” e “frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze”. Di una barbarie che ci appartiene e ci domina. Lo stesso Hughes non esitava a scrivere:
I barbari tuttofare che oggi vanno per la maggiore si chiamano multiculturalisti.
A tutto ciò che rinnego hanno dato l’odiosissimo nome di politically correct, forma di lebbra sociale che ci devasta con le sue pustole. Quanto di più ipocrita e oppressivo possa aver inventato l’etica così poco libertaria dell’attuale società fondata sui mercati finanziari e il profitto, sul potere delle tecnocrazie bancarie e burocratiche, laddove non esistono più identità culturali e tradizioni. Laddove globalismo e globalizzazione (concetti aberranti, massificanti, liberticidi, che ci imprigionano in una cella invisibile) vengono spacciati per valori universali, universalismo. Col ‘piagnisteo’ a corredo.

Già, la triste “comunità umana” dei viaggi low cost e delle offerte last minute, del business plan e della Whatsapp generation. Un’impalpabile “comunità umana” senza volto, che ritiene valori universali ciò che invece reputo dis-valori, tenuta insieme dal mito della comunicazione globale (un’ottusità di fini e della comprensione delle cose); che ha bisogno di un continuo “trattato di pace” per poter vivere le illusioni quotidiane che ci insinuano nell’animo, lentamente, i Signori della guerra: «Ecco, vi ho dato il potere della conoscenza in tempo reale», ci dicono le sentinelle del nulla globalizzato, i custodi dell’intelligenza collettiva divenuta valore supremo. E mentre fanno questi proclami e ufficialmente studiano la politica per la pace (dopo averci donato il “fuoco” della comunicazione, della velocità e, a sostegno di tali “doni”, gli anglicismi più vuoti e inutili), nella penombra dei loro antri sulfurei decidono quale guerra combattere dopo averla “santificata” (tuttavia la più conveniente). Stabiliscono cosa farci immagazzinare in termini di valori e informazioni e quale trattato di pace stipulare per farci coltivare la certezza che viviamo al sicuro, nel migliore dei mondi possibili, nella democrazia più vera, moderna. Quella stessa democrazia che come Occidente decaduto, tramontato rispetto alle radici che lo avevano fondato, dobbiamo poco democraticamente esportare ad ogni costo in tutto il mondo.

Nei fatti, una colonizzazione di popoli, tradizioni, culture antropologiche e religiose nel nome di un’idea astratta, come è astratta la democrazia imposta con le armi, anch’esse santificate dai promotori di autenticità democratica, che sono poi gli stessi fabbricanti di armi e di morte: anche se si sta parlando di “morte democratica” e nel nome del valore supremo. Siamo tutti propaggini di questo guardare avanti senza scopi e identità, tutti così simili, fragili, ipnotizzati dentro le illusioni di un social network. In modo che il nostro tweet, da noi creduto un importante cinguettio, una “parola detta” in pochi caratteri, è appena, tirandola per le orecchie, una parola afona, fiacca, soffocata dalla sua stessa parvenza di espressione. Una parola tradita in partenza dal suo volersi legittimare come parola, non perché breve, ma perché non racconta, non “dice”; perché rispecchia l’omogeneizzazione culturale verso il basso, la prigionia dell’uomo dentro un pensiero acefalo. Però moderno, santificato.

Non ci stiamo ad essere folla, anonimo fra gli anonimi, soggetto incapaci di esprimere un pensiero proprio, ostaggio di best seller e premi Nobel assegnati per meriti spesso inesistenti. Rileggiamo Gioberti, uno che non piacerebbe a molti, uno che non sposerebbe nessuno dei pensieri cardine di questa società fondata su assoluti ingannevoli, ipocriti, multiculturali. Pugnalate pure a tradimento, conficcate le vostre lame dentro le nostre carni, tanto siamo degli sconfitti. La gente ama assistere alla sconfitta altrui, ama vedere l’altro in ginocchio. Lo chiama amore per il prossimo. Ovvero, il prossimo che sarà messo in ginocchio.

 

Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/societa/conformismo-politically-correct/

Skira Editore e la Triennale di Milano ricordano il critico d’arte Gillo Dorfles

Martedì 10 aprile alle 18.30 nel Salone d’Onore della Triennale di Milano (Viale Alemagna 6), Skira Editore e la Triennale ricordano ufficialmente il grande critico d’arte Gillo Dorfles. Il 12 aprile il grande critico d’arte avrebbe compiuto 108 anni. Milano lo ricorda con un grande evento pubblico, dove interverranno Stefano Boeri, Aldo Colonetti, Nicoletta Ossanna Cavadini, Luigi Sansone ed altri amici e intellettuali che hanno condiviso il suo lungo percorso artistico ed umano.

In occasione di questo incontro sarà presentato il suo ultimo libro La mia America (Skira editore).  A partire dal secondo dopoguerra, Gillo Dorfles viaggia negli States dove incontra personalità di primo piano: conosce i più noti studiosi di problemi estetici e critici d’arte (Thomas Munro, Clement Greenberg, James Sweeney, Alfred Barr, Rudolf Arnheim, György Kepes) e dialoga con alcuni tra i maggiori architetti della East e West Coast (Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe, Louis Kahn, Frederick Kiesler). Dai suoi soggiorni Dorfles trae spunto per numerosi articoli sulla società, la pittura, l’architettura, il design e l’estetica americana, all’epoca pubblicati su “Domus”, “Casabella”, “Aut Aut”, “La Lettura”, “Metro” e in numerosi cataloghi, articoli che, raccolti ora assieme ad altri scritti inediti in questo volume, ci permettono di approfondire uno dei periodi più significativi e stimolanti della cultura USA, attraverso i racconti e le memorie del grande critico d’arte.

Gillo Dorfles (1910-2018), critico d’arte, pittore, docente universitario di Estetica, a partire dall’immediato dopoguerra si è impegnato in un’appassionata difesa dell’arte d’avanguardia. Si è imposto come una delle personalità più attente agli sviluppi dell’arte e dell’estetica contemporanee. Tra le sue opere più note, tradotte in molte lingue, ricordiamo Nuovi riti, nuovi miti (1965), Artificio e natura (1968), Le oscillazioni del gusto (1970), Il Kitsch (1972), Mode e modi (1979), Elogio della disarmonia (1986), Il feticcio quotidiano (1988), L’intervallo perduto (1989), Preferenze critiche (1993), Fatti e fattoidi (1997), Irritazioni (1998).
Con Skira ha recentemente pubblicato Gli artisti che ho incontrato, a cura di Luigi Sansone (2015).

L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.

Dorfles è stato tra i primi critici d’arte a recarsi negli Stati Uniti negli anni immediatamente successivi al conflitto mondiale per approfondire la sua conoscenza sull’arte, l’architettura e la vita negli USA. L’Italia dopo un lungo periodo di oscuramento culturale dovuto alla guerra e alle note vicende politiche che la precedettero, aveva la necessità di aprirsi al resto del mondo per spezzare quell’isolamento che per oltre un ventennio ne aveva condizionato lo sviluppo in molti settori, non ultimo quello socio-culturale. Gli anni Cinquanta vedono un infittirsi di scambi artistici tra l’Italia e gli Stati Uniti, scambi che avevano iniziato a intensificarsi dopo la presentazione nel 1948 alla Biennale di Venezia della Collezione di Peggy Guggenheim che includeva, tra le altre, opere dei maggiori esponenti dell’Espressionismo Astratto americano.

 

Il vero significato della Pasqua nei quattro Vangeli

La parola “Pasqua” (pascha in greco e latino) è una traslitterazione dell’aramaico pasha che corrisponde all’ebraico pesah. L’etimologia di questa parola ebraica è incerta, ma pare che il suo antico significato sia quello di descrivere un cambiamento, un “passare oltre”. Il termine trova un’etimologia più esatta nel termine “passaggio” (diabasis, transitus). Soggetto di questo ‘transito’ nel nostro caso diventa il popolo d’Israele che “passa” dalla schiavitù dell’Egitto alla Terra promessa, attraverso il Mar Rosso. Anche la Pasqua del Cristianesimo, similmente a quella ebraica, idealizza ugualmente il valore del “passaggio”, del transito: poiché l’uomo, attraverso il Cristo morto per noi sulla Croce, e mediante i sacramenti da Lui istituiti a partire dal Battesimo, diventato cristiano, passa ” dalla schiavitù del peccato”, alla “gioia della salvezza”, entrando a far parte a pieno titolo della Chiesa di Cristo.

Pasqua, quindi, festa di ringraziamento e festa di salvezza, in continuità, quella cristiana con quella ebraica, attraverso un processo di incorporazione, di rielaborazione della sua antica matrice giudaica. Celebrazione, potremmo sostenere, come “prosecuzione nella continuità” dell’antico rito di ringraziamento per la liberazione dalla schiavitù dell’ Egitto sofferta dal popolo ebraico, trasformato, attraverso il sacrificio di Gesù Cristo, in nuova liberazione del popolo dal peccato, mediante la redenzione. La Pasqua cristiana è detta Pasqua di risurrezione, mentre quella ebraica è Pasqua di liberazione dalla schiavitù. Quella ebraica può essere intesa anche come “attesa” per il Messia, La Pasqua cristiana, invece, celebra la fine di quell’attesa e ricorda la morte e risurrezione di Gesù Cristo, nostro salvatore, ovvero l’instaurazione della “Nuova Alleanza”, tra Dio e l’uomo, per l’avvento del Regno di Dio.

Il Cristianesimo ha voluto “trasferire” i significati della Pasqua ebraica nella nuova Pasqua cristiana, dandole un volto nuovo, senza rinnegare il passato ma aggiornandolo. Le antiche Scritture hanno infatti un ruolo centrale negli eventi pasquali: Gesù, secondo quanto ci è stato tramandato nei Vangeli, è morto in croce nei giorni in cui ricorreva la festa ebraica della pasqua; inoltre, questo evento, venne visto dai primi cristiani come la realizzazione di quanto era stato profetizzato sul Messia. Questo concetto viene ribadito più volte sia nella narrazione della Passione, nella quale i quattro evangelisti fanno continui riferimenti all‘Antico Testamento. L’evangelista Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, cosi scrive: «Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture ». L’accento si pone dunque sull’adempimento delle Scritture, per cui i giudeo-cristiani, seppur continuando, a festeggiare la Pasqua ebraica, dovettero immediatamente spogliarla del significato di attesa messianica, superando anche il ricordo dell’Esodo, per rivestirla di nuovo significato: l’arrivo del Messia, la venuta sulla terra di Gesù Cristo, e la successiva Sua morte, passione e risurrezione. Questo “passaggio di testimone” tra liturgia ebraica e cristiana è chiaramente avvertito da Paolo, quando, nella prima lettera ai Corinzi, scrive: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, ma con azzimi di sincerità e verità» (1 Corinzi, 5,7-8).

La festa della Pasqua cristiana non ha una data fissa. Essa è mobile, viene fissata di anno in anno nella domenica successiva alla prima luna piena (il plenilunio) successiva all’equinozio di primavera (il 21 marzo). Questo sistema venne fissato definitivamente già nel IV secolo. Nei secoli precedenti potevano esistere diversi usi locali sulla data da seguire, tutti comunque legati al calcolo della Pasqua ebraica, anch’essa “mobile”. In particolare alcune chiese dell’Asia seguivano la tradizione di celebrare la pasqua nello stesso giorno degli ebrei, senza tenere conto della domenica, e furono pertanto detti quartodecimani. Ciò diede luogo ad una disputa, detta Pasqua quartodecimana, fra la chiesa di Roma e le chiese asiatiche.

Per la Chiesa cattolica, dunque, la data della Pasqua è compresa tra il 22 marzo ed il 25 aprile. Infatti, se proprio il 21 marzo è di luna piena, e questo giorno è sabato, sarà Pasqua il giorno dopo (22 marzo); se invece è domenica, il giorno di Pasqua sarà la domenica successiva (28 marzo). D’altro canto, se il plenilunio succede il 20 marzo, quello successivo si verificherà il 18 aprile, e se questo giorno fosse per caso una domenica occorrerebbe aspettare la domenica successiva, cioè il 25 aprile. Per questo si dice che la Pasqua è “alta” se cade molto in avanti in aprile, “bassa” se cade intorno alla ventina di marzo. La tradizione della Chiesa Cattolica vuole che la data della Pasqua venga annunciata ai fedeli dal Sacerdote durante i riti della festività dell‘Epifania.
La preparazione liturgica della Pasqua è preceduta da un “periodo preparatorio” di astinenza e digiuno della durata all’incirca di quaranta giorni, chiamato generalmente Quaresima, che nel rito romano ha inizio il Mercoledì delle Ceneri. Nella forma ordinaria del rito romano, l’ultima settimana del tempo di quaresima è detta Settimana santa, periodo ricco di celebrazioni e dedicato al silenzio ed alla contemplazione. Comincia con la Domenica delle Palme, che ricorda l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, dove fu accolto trionfalmente dalla folla che agitava in segno di saluto delle foglie di palma. Per questo motivo nelle chiese cattoliche, durante questa domenica, vengono portate processionalmente, in ricordo dell’antico rito, rami di palma e ulivi, benedetti dal celebrante, e distribuiti ai fedeli che li conservano come segni di protezione.

Ed il Vangelo cosa dice a proposito della Resurrezione? Tutti i Vangeli sono d’accordo che le donne trovarono un sepolcro vuoto, senza cadavere. Forse Matteo dice che videro l’apertura della tomba. Ma è probabile invece che Matteo racconti quello che succedette mentre venivano al sepolcro (un terremoto e un angelo rotolò la pietra), e che le donne trovarono la pietra già rotolata come negli altri Vangeli. Matteo inoltre dice che le donne videro Gesù risorto dopo che andarono dagli apostoli. In Marco, Maria Maddalena lo vide, ma questo è nella sezione del testo che probabilmente non è originale. Giovanni invece racconta questa conversazione fra Maria Maddalena e Gesù dopo che lei ebbe parlato con gli apostoli, quando Pietro e Giovanni vennero al sepolcro. Mi sembra che l’incontro in Matteo sia dopo quello in Giovanni, ma Matteo non racconta il viaggio a Gerusalemme e il ritorno al sepolcro con Pietro e Giovanni. Così Gv 20:14-18 è la prima volta che Gesù apparve a qualcuno (perché in Gv 20:15 Maria non sapeva ancora della risurrezione), e poi apparve anche a tutte le donne come in Mt 28:9-10.

Tuttavia nessuno dei quattro Vangeli canonici parla di come è avvenuta la Resurrezione di Gesù, solo un Vangelo apocrifo ne parla in maniera trionfante, come quella che è rappresentata da Piero della Francesca nella sua Resurrezione di Cristo. Secondo il cardinale Mons. Gianfranco Ravasi, in Gesù Cristo coesistono tre realtà, quella storica, quella trascendentale e quella teologica, è lecito pensare che secondo lui, la Resurrezione abbia valenza come fatto storico, ma, nello stesso tempo, la giudichi poco significativo, poco rilevante, in qualche modo non decisivo per la fede, per la quale, Risurrezione o no, occorre piuttosto credere all’ascensione-esaltazione-innalzamento del Signore; ascensione-esaltazione-innalzamento che, pur radicandosi – come egli dice – nel tempo e nello spazio, è cioè nella morte e in una tomba, e ammettendo, quindi una verificabilità storica, ciononostante non derivano il loro valore e il loro significato religioso dall’essere un fatto storico, creduto come tale. Presentare la Risurrezione in questi termini – cioè sullo sfondo di una fede che sembra in grado di sopravvivere anche se, per assurdo, si riuscisse a negare la storicità del fatto – sembra destinato ad attrarre anche chi non è disposto a credere alla Risurrezione, quasi dicendogli che si può essere ugualmente cristiani pur senza credere alla verità storica di quell’evento, ma semplicemente accettandone il significato metafisico e teologico. Dunque, il punto sostanziale non è se Mons. Ravasi creda nella storicità della Risurrezione, e i suoi scritti lo lasciano intendere. ma è sia accettabile il suo modo di presentare la fede con riguardo alla Risurrezione e, più in generale, alla storicità di Gesù e dei Vangeli.

Certamente per vedere, per percepire la Risurrezione di Gesù non basta la vista fisica, ma occorre un’esperienza interiore. Allora, scrive l’evangelista Giovanni, ecco che “entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo”.  Il discepolo che ha esperienza dell’amore di Gesù è quello che corre più veloce, è il discepolo che gli è stato intimo nella cena, cioè disposto a farsi dono e servizio con Gesù e come Gesù, è il discepolo che è stato in grado di seguirlo fin presso la croce, pronto a morire per lui e sarà il discepolo che per primo lo sperimenta. Chi vive nell’amore sperimenta una vita capace di superare la morte.

 

 

‘Tonya’, la commedia cinica ed insolente di Gillespie che ricostruisce l’identikit di una campionessa di pattinaggio sul ghiaccio votata alla lotta continua

Buoni sentimenti assenti. Nessun messaggio edificante. Di eroi neppure l’ombra. Carezze al pubblico inibite. La pasta di cui è fatto Tonya, uno dei migliori film dell’anno, è quella di un’incontenibile energia che fa saltare gli argini tra finzione e realismo infiltrandosi in tutte le pieghe di una commedia divertente e a tratti farsesca ma sempre cinica e insolente. La tendenza agiografica del genere biopic viene, infatti, fatta a pezzi dal film dell’australiano Gillespie che ricostruisce a colpi di virtuosismi tecnici e stilistici il sorprendente identikit di una campionessa di pattinaggio artistico sul ghiaccio votata alla lotta continua contro l’indigenza, la madre, il marito, il proprio sport, l’America e soprattutto se stessa. Iniziando a mixare i toni sin dal primo fotogramma, il regista e lo sceneggiatore Rogers adoperano la tecnica dello pseudo documentario o mockumentary per dettagliare le tappe del calvario che Tonya Harding, nata e malcresciuta in una delle squallide periferie abitate dal proletariato bianco, è costretta ad affrontare sin da bambina nel segno della propria e altrui ossessione per la vittoria, i primati, la fama e i soldi. Tocca, appunto, alle finte interviste inserite nell’impianto drammaturgico riannodare i fili dell’episodio di cronaca nera che nel gennaio del ‘94 fece scalpore in tutto il mondo, ma soprattutto scosse ed esacerbò l’opinione pubblica statunitense.

Seppure penalizzata dal suo rustico glamour, l’atleta plasmata dalla perfida genitrice (interpretata da Allison Janney giustamente insignita dell’Oscar per la migliore non protagonista) riesce con strenua determinazione a entrare nell’élite olimpica, ma poi diventa complice (forse) inconsapevole del delirante progetto del manesco marito allenatore mirato a liberarla dalla concorrenza dell’emergente connazionale Nancy Kerrigan. Costeggiando il gusto per il “verosimile assurdo” copyright fratelli Coen e pompando ritmo nelle immagini grazie a una fantastica playlist rockettara, il regista non pretende di ristabilire l’ininfluente verità dei fatti, bensì di scolpire senza ricorrere a palliativi o moralismi il ritratto di un’atleta incapace di sottrarsi ai propri drammatici handicap sociali e familiari. Passata alla storia per essere stata la prima americana a eseguire in gara la mirabolante figura denominata triplo Axel, ma poi gettata per sempre nella pattumiera mediatica, la protagonista svetta grazie alla performance di Margot Robbie ottimamente doppiata in Italia da Domitilla D’Amico: una volta involgarita col trucco la propria bellezza nonché usufruito degli effetti digitali per farsi sostituire il corpo nelle evoluzioni in pista, l’attrice lanciata da Scorsese in The Wolf of Wall Street s’afferma come una delle più indecifrabili icone di bad girl tramandate dallo schermo.

 

Fonte:

Tonya

David di Donatello 2018: cinescudetto a(l) Napoli, dai Manetti Bros all’attore Carpentieri

Prima che qualcuno sgraffigni il bottino per ridare fiato alla retorica delle rivoluzioni immaginarie, bisogna ribadire che il predominio dei film di, su e per Napoli ai David appartiene innanzitutto a coloro che ne sono stati gli artefici. Nessuna sregolatezza nel talento dei Manetti Bros, niente anarchia nel lavoro degli animatori della Mad zero improvvisazione nel curriculum del migliore attore Carpentieri, solo alta tecnica nella fotografia e scenografia di “Napoli velata. I titoli vincitori hanno saputo, com’è accaduto tante volte in passato, usufruire dell’originaria vocazione della città per poi svilupparla nella varietà e vitalità dei nuovi linguaggi oppure negli spunti suggeriti dai mutamenti vorticosi del costume o quelli incessantemente proposti da una cronaca di volta in volta esaltante o nefasta. Registriamo, così, la conferma di una visione positiva e fattiva, che si ripete da anni erigendo strenue barricate contro i dibattiti autolesionisti, le tirate patriottiche, le risse tra poveri e la fabbrica di luoghi comuni e piccoli cabotaggi folkloristici: un discorso, per di più, che comprende il riconoscimento -tutt’altro che scontato- dell’autonomia dello specifico cinematografico tenuto in vita non solo di exploit ineffabili, magniloquenti ambizioni autoriali o disegni politico-propagandistici tesi ad ammaestrare le platee, ma soprattutto da libertà d’ispirazione, aperture ai migliori gusti del pubblico (il successo delle serie tv riesce a valorizzare proprio le perdute prerogative del cinema popolare) e (ri)nascita dei generi che, dal musical al giallo, dal thriller al fantasy, sembrano tornati a essere le fondamenta più profonde di un medium in crisi epocale.

Se l’exploit del made in Naples si configura, dunque, come una sorta di fiume carsico che scompare e riappare ciclicamente, a prescindere da scuole e “sistemi” (termini imbarazzanti perché vagamente allusivi di consorterie ideologiche o criminali), non sarebbe giusto dimenticare il forte rilancio impresso al comparto dal governo regionale che, individuando nell’industria del cinema una direzione strategica fondamentale, ha varato la nuova legge attesa da anni, predisposto il potenziamento della Film Commission e già promulgato due bandi per l’erogazione di significative risorse alle produzioni che continuano a scegliere la Campania come scenario privilegiato. Tutto bene, allora? Si prospetta una vie en rose del filone che ci è, per le credibili ragioni di cui sopra, particolarmente caro? Purtroppo non è proprio così, perché dietro lo tsunami azzurro che ha inebriato i cinéfili indigeni convenuti a Roma in missione speciale, dietro le quinte persiste uno scenario a dir poco contraddittorio. In questo campo purtroppo in linea con le statistiche nazionali, gli incassi napoletani scemano, le sale sono ridotte a un pugno di eroici Fort Apache e molti titoli cosiddetti di nicchia non vi arriveranno mai… Uno scenario sano deve avere, certo, la forza di sostenere anche film che sperimentano, rischiano, si disinteressano dei biglietti staccati. Ma che ce ne faremmo di un meccanismo premiale che, come quello festivaliero, promuove solo film autoreferenziali e neppure tenta di ricordare che il cinema è anche fantasia, sogno, piacere, suspense? In questo senso i trofei conquistati dai film di genere capeggiati da “Ammore e malavita” valgono doppio perché ci regalano una polizza contro la minaccia di sparizione che incombe sull’ex arte chiave del Novecento.

 

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Cinescudetto a(l) Napoli

‘Annihilation’ di Alex Garland uscito in Italia su Netflix: il primo musical meta-fantascientifico della storia del cinema

«Uno, poi due, poi quattro, poi otto e ancora avanti, fino a plasmare tutta la vita del pianeta, forse dell’Universo. Tutta la vita terrestre è riconducibile a pochi prevedibili numeri?» La progressione geometrica della mitosi cellulare è scandita in apertura di questo Annihilation dalla protagonista, la biologa Lena interpretata da Natalie Portman. La vita per lei si è appena fatta molto complessa: il marito, militare disperso in azione e dato per morto, è tornato a casa insperatamente vivo, ma non parla ed è malatissimo. L’esercito preleva la coppia e la porta al limitare della misteriosa Area X, un’anomalia spazio/temporale (ma non solo) che sta lentamente ingoiando la costa meridionale degli Stati Uniti e nella quale l’uomo era stato impiegato per un’operazione segreta della quale è l’unico sopravvissuto. Assieme ad un team di volontarie, Lena parte all’esplorazione.

Sono queste le premesse narrative per la seconda regia di Alex Garland, il quale dopo il bellissimo Ex Machina (2014) dirige Annihilation, ispirato dal romanzo omonimo di Jeff VanderMeer e uscito in Italia direttamente su Netflix. C’è chi parla di capolavoro, chi invece di un film insulso – e a questi ultimi, soprattutto a chi lo condanna come “troppo lento”, consigliamo di dedicarsi alla visione di un Transformers a scelta: ne trarranno sicuro giovamento e si parla comunque di mutazioni. Per tutti gli altri, dobbiamo dire che no, probabilmente questo non è un capolavoro (ma il tempo lo deciderà, non noi), bensì di un film comunque estremamente interessante sul piano estetico. Tre le direttrici principali per analizzarlo e comprenderne i riferimenti principali.

La cornice di Annihilation è senza dubbio debitrice di Cuore di Tenebra: il viaggio verso l’ignoto, l’immersione in un progressivo straniamento, l’alienazione crescente rispetto al mondo esterno e normale. Il debito tuttavia è indiretto e passa per Foresta di cristallo, che di Cuore di tenebra è la versione fantascientifica firmata da quel genio di J.G. Ballard. L’opera viene omaggiata nel libro di VanderMeer con i nomi delle protagoniste e nel film di Garland con degli alberi appunto di cristallo che vedremo verso la fine del viaggio delle donne.
Non un viaggio iniziatico, ma di morte/rinascita, come Apocalypse Now!, che termina in un utero di terra, nel ventre della spiaggia in cui l’anomalia ha avuto inizio e dove la Portman, come un gamete giunge a fecondare l’ovulo deposto dalle stelle.

Il secondo enorme debito è al genio di David Cronenberg, filosofo estetico più che autore cinematografico. Garland non ha nulla della sensualità registica del canadese e anzi le scene più viscerali vengono rese con un distacco e una freddezza più deludenti che eleganti; ma i temi sono quelli sul quale il Maestro della Nuova Carne ha costruito la propria meravigliosa carriera artistica. La materia muta a livello cellulare dentro l’area X, animali si mescolano ad altri animali e ai vegetali, le rocce alle piante, il tempo si piega. Tutto contamina tutto.
L’area X è quindi un immenso tumore: non è dato sapere se benigno o maligno, ma senza dubbio Garland coglie l’aspetto creativo, innovativo e rinnovativo di questa mutazione. D’altronde l’evoluzione, fisica come ideale, non è un opera di innesto e modifica di quanto già esistente in precedenza? Gli strappi nella storia del pensiero non sono sempre nati da anomalie? Questo è forse l’aspetto sul quale Garland avrebbe potuto spingere ancora di più. Cronenberg, nel suo delirante Crimes of the future (1970), proponeva tra i suoi personaggi un uomo che cresceva volontariamente nuovi organi, che continuamente gli venivano espiantati. “I miei organi sono pianeti e il mio corpo è una galassia”, sosteneva delirante: c’è più carnalità in questa frase che in tutto il film di Garland, che invece (purtroppo) imbocca una via più minerale e vegetale per la mutazione, cercando di buttarla sulla metafisica. Ci riesce, ma ci saremmo divertiti di più con David (quando tornerà a fare un nuovo film? Forse mai…)

Morire come singolo per rinascere come multiplo: questo è il destino del gamete sessuale in procinto di farsi nuova vita, come pure della cellula sul limitare della scissione moltiplicatrice. L’uno che si fa due, nuovamente in uno spazio chiuso come già è successo in altre pellicole firmate (regia o sceneggiatura) da Garland: l’ultimo debito del regista è con sé stesso e con alcune riflessioni già proposte in Ex Machina. Gli uomini e le donne che percorrono il fiume di tenebra interiore attraverso la mutazione fino al faro dove tutto ha avuto origine si infilano in un ventre dal quale è impossibile fuggire e dove il regista mette in scena l’elegante allegoria di un’inseminazione. Nella progressione geometrica uno-due-quattro-otto-eccetera della mitosi cellulare, l’atto rivoluzionario è quello che conduce dall’uno al due. Il resto è conseguenza.
Cos’è la copia della cellula rispetto alla cellula madre? È lo stesso o è altro? La danza che la Portman inscena con se stessa, esito di una sequenza finale che da sola vale il prezzo dell’abbonamento di Netflix, è la rappresentazione coreografica del perturbante rapporto con il doppio: le nostre copie, i nostri figli, sono nostre mutazioni. Ma noi stessi siamo la mutazione quadridimensionale di noi stessi; lo capiamo esaminando la relazione tra Lena e il marito attraverso brevi flashback. Io sono io o sono la mia copia? L’enigma dell’identità, proposto in termini di pensiero e memoria in Ex machina (ma anche in Blade Runner 2049) è qui suggerito in termini fisici. Il nostro corpo muta continuamente, le nostre cellule muoiono e si riproducono, noi restiamo sempre noi stessi. Perché? Cosa ci rende noi? E se fossimo una galassia di noi differenti e mutanti?

Annihilation non è un capolavoro, ma forse diverrà di riferimento sotto molti aspetti nei prossimi anni. Le domande che pone sono molte e interessanti, anche se nessuna particolarmente originale; ma l’impatto estetico è meraviglioso, soprattutto nei minuti finali dove il combinato di immagini, musica e coreografia genera il primo musical meta-fantascientifico della storia del cinema: presa a sé questa sequenza è senza dubbio un gioiello artistico, una meravigliosa mutazione nel film e nel genere.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Apocalisse e pittura: L’insediamento del Maligno delle Fiandre

Fine del quindicesimo secolo: mentre in Italia, sotto il segno di Leonardo da Vinci, la pittura è tutt’una profusione di rappresentazioni di annunciazioni, apoteosi e scene sacre idealizzate secondo un’umanistica fiducia nell’uomo e nella forma, nelle Fiandre, invece, s’insinua il Maligno. Hieronymous Bosch e il suo erede artistico Brueghel il Vecchio prendono di certo le mosse da un contesto spazio-culturale e forse anche storico ben diverso, poiché nelle terre della Controriforma si è spiritualmente ancora nel Medioevo, in un tardo Medioevo che negli animi viene vissuto come l’ultimo tempo della storia. Niente prelude ad un Rinascimento, inteso nel senso di un rinnovamento dell’uomo e della fede; tutt’al più si prefigura nelle città anseatiche lo sviluppo di un nuovo modello economico, quello capitalista, che viene avvertito dall’artista come l’ultimo spasmo di un mondo che ormai ha intrapreso la strada della distruzione.
Nella Salita al Calvario, le figure intente a beffarsi del dolore di Cristo e a complottare sadicamente fra di loro portano gli abiti dei ceti più potenti dell’epoca di Bosch: oltre a un cavaliere e ad un frate, guardiani dell’ordine tradizionale ormai sprofondati in una completa abiettezza da sottouomini, si possono identificare anche dei mercanti e dei borghesi. Tempo di transizione quindi, ma di transizione verso il peggio, e, probabilmente, dopo che il Nazareno sarà stato definitivamente liquidato, verso il nulla. Diverso il periodo, diversa la crisi, ma identico è il sentimento della fine che si ravvisa nel dipinto I pilastri della società di George Grosz. La prima guerra mondiale si è conclusa e in una Germania sanguinante e indebitata fanno il loro gioco gli untori della revanche nazionale, supportati dalla grande industria. Questa volta le élite che prosperano come un cancro sulla decadenza di tutta la società vengono simboleggiate dal borghese militarista imbevuto di una prussiana smania di conquista, dal giornalista ipocrita che sparge odio, dal politicante nazionalista, dall’ecclesiasta. Dietro di loro, un ufficiale con la spada insanguinata passa tra i palazzi in fiamme. La caricatura portata all’estremo è ciò che in entrambi i quadri contribuisce alla sintesi di realtà e allucinazione, è ciò che crea quel malessere d’un immagine statica dentro la quale circola e alita un vortice nero che sembra indurirla e spaccarla oppure scioglierla.

Il paragone tra millenarismi pitturali non finisce qui. Nel Trittico del Giudizio di Bruges, e nell’anta destra del Trittico del Carro del Fieno, dei gruppi di demoni e di contorte chimere che si dilettano nello squartare i corpi dei peccatori pullulano in tutto il quadro come a volerlo invadere, mentre nel Trittico della guerra di Otto Dix (1929-1932) un sopravvissuto con una maschera antigas si aggira tra i fumi e tra masse di carne sciolta e radiottiva. Tutto ciò in una cornice infernale, fatta di case, torri e città in fiamme. Non deve sorprendere che tali visioni apocalittiche siano sorte in dei contesti “in cui tutte le cornici della vita normale” sembrano “saltare definitivamente” (Al culmine della disperazione, Cioran).

Tutte le norme e gli ideali correnti vanno in malora, e con essi la struttura del mondo stesso sembra prossima al crollo: difficile separare i tre piani di disperazione individuale, collettiva, e cosmica, che si fondono nei quadri. Un solo evento potrebbe stravolgere l’esistenza marcescente ridotta alla cinica frenesia onanistica, aspirante alla dissoluzione nella consumazione dell’istante. Tale evento è l’intervento supremo, più terribile della vita stessa, che l’annienti o la rimodelli. Per un uomo del tardo medioevo o per un contemporaneo disilluso, niente come il pensiero dell’Apocalisse può canalizzare le energie mistiche e gli slanci antisociali. Solamente un’apocalisse può mettere fine al tempo vissuto come tortura e lasciar sognare d’una vita al di fuori di esso (per gli amanti del regno dei cieli), o dentro un chaos assurdo dove esso non si raffreddi mai.

 

L’intellettuale dissidente

Aldo Moro e la rappresentazione della storia, dai film che rimandano ad una iconografia stereotipata al romanzo di Vasta che racconta la storia come materia

Aldo Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto-

La rappresentazione della storia da parte del cinema è spesso fondata su un immaginario autoreferenziale, i film si citano a vicenda, o rimandano a fonti audiovisive di tipo documentario, a fotografie, a dipinti, elementi visibili. Questo succede per ogni periodo storico ma nessun decennio come gli anni Settanta risente di un’iconografia standardizzata che spesso diventa stereotipo, luogo comune, banalità.
C’è un evento però, negli anni Settanta, il cui percorso iconografico è stato completamente diverso: questo evento è il caso Moro. E il racconto cinematografico dei 55 giorni, più che alle fonti visive, deve il suo canone narrativo alla letteratura, una letteratura che fino alla pubblicazione del romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale, non ha mai osato discostarsi dal solco tracciato da due giganti tanti anni fa. Dal 1978, per essere precisi.

Le cose stanno così: 16 marzo 1978. Aldo Moro, presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, viene “prelevato” – uccisi i cinque uomini che lo scortavano – da una banda che si presume delle Brigate rosse. Un’ora dopo, le confederazioni sindacali proclamano lo sciopero generale. Prima di sera, il governo presieduto dall’onorevole Andreotti, su cui fino al giorno prima si manifestavano perplessità e riserve da parte delle sinistre e di alcuni gruppi della Democrazia Cristiana, viene approvato, da una maggioranza che comprende anche i comunisti, alla Camera dei deputati e al Senato. In via Licinio Calvo, a un centinaio di metri da via Fani dove il “prelevamento” è avvenuto, la polizia trova un delle automobili di cui si sono serviti i terroristi.
Le parole all’origine di tutto: «Uno dei racconti più straordinari che Borges abbia scritto è quello che, nelle Ficciones, s’intitola Pierre Menard, autore del Chisciotte. Come tutte le cose che sembrano assolutamente fantastiche, di pura astrazione e misteriose, questo racconto parte da un dato reale, da un fatto, da un preciso avvenimento che quello che si usa denominare il mondo occidentale ha, se non conosciuto, respirato. Quest’avvenimento è la pubblicazione, nel 1905, della Vida de Don Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno… Da quel momento non è stato più possibile leggere il Don Chisciotte come Cervantes l’aveva scritto: l’interpretazione unamuniana che sembrava trasparente come un cristallo rispetto all’opera di Cervantes, era in effetti uno specchio: di Unamuno, del tempo di Unamuno, del sentimento di Unamuno».

Così inizia L’affaire Moro, di Leonardo Sciascia. Sono passati pochi mesi dal 17 marzo del 1978 e il ragionamento dello scrittore di Racalmuto è trasparente come un cristallo se messo in relazione all’oscuro dispiegarsi degli eventi che ha portato Aldo Moro alla morte. Sciascia disegna, da quel momento, un canone, e ogni lettura dell’evento e il Moro che per anni abbiamo visto raccontare è il Moro di Sciascia, del tempo di Sciascia, del sentimento di Sciascia.
Ma neppure quella di Sciascia è un’interpretazione originale. La sua lettura di Moro si rifà, in modo esplicito, a quella di Pier Paolo Pasolini che, il 1 febbario 1975, aveva scritto su Il Corriere della Sera: «Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. (…) Nella fase di transizione – ossia durante la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere».

È Pasolini che crea l’icona, inventa il personaggio che poi le Brigate Rosse rendono protagonista della loro mise en scene e che Sciascia racconta. Il Moro che rapiscono le BR, infatti, non è uno dei tanti politici della Democrazia Cristiana, ma proprio quello descritto su Il Corriere della Sera: il «meno implicato di tutti nelle cose orribili» che, da Piazza Fontana portano a Piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta; il «più responsabile di tutti» perché, malgrado l’orrore, è rimasto lì dove è a conservare il potere inteso non come pratica ma come sistema. Moro, fin dall’articolo di Pasolini è un’idea, e avendo orecchiato Hegel i brigatisti sanno che l’unico modo per superare l’idea è renderla concreta, mangiarla, come aveva cantato Giorgio Gaber nel 1973. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. Moro idea, Moro icona, Moro astratta ma concretissima incarnazione del SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali.

Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto.
Sciascia è il primo a svelare il corto circuito ermeneutico che ha trasformato un uomo in un simbolo, in una vittima sacrificale, e così facendo ci invita a mettere in discussione la lettura di Pasolini senza mai dirlo esplicitamente. Dirà Sciascia altrove «Sono sempre d’accordo con Pasolini anche quando sbaglia». Ecco L’affaire Moro, pur partendo dalla riflessione di Pasolini, portandone all’estremo il ragionamento, quello sulla simbologia del potere incarnata da Moro e la sua lingua, ne svela il meccanismo retorico e invita a guardare all’uomo, in carne e ossa, così fragile, vulnerabile, minuto, da finire acciambellato in un portabagagli, come ha scritto Mario Luzi:

Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui

Dopo L’Affaire Moro, quindi a partire dal 1978, ogni racconto per immagini della figura del politico democristiano ha oscillato fra Pasolini e Sciascia. Lo ha fatto Il caso Moro del 1986 nel quale il problema della lingua è stato messo a nudo in frammenti come quello dell’interrogatorio. Lo ha fatto Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, il più didascalico, fra tutti i film, che con l’interpretazione di Gifuni ha reso omaggio, senza alcuna originalità, al Moro icona, prima che uomo. Lo ha fatto, anche Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, l’unico che ha cercato di andare l’oltre l’evento, proiettando sull’affaire lo sguardo di una generazione, la sua, che dall’uccisione di Moro si è sentita, per prima, e in prima persona plurale, tradita.

Se il cinema è stato debitore in modo così esplicito della lettura di Sciascia tanto più lo è stata la letteratura, il cui immaginario, come ha scritto Raffaele Donnarumma ha «patito in modo particolare la storia», questa storia. Rari, però, i casi nei quali, riuscendo ad alzare lo sguardo, il narratore ha riletto secondo il suo tempo il caso Moro: Bellocchio, appunto, e poi Giorgio Vasta che con Il tempo materiale ha dato un nuovo senso pubblico alla storia di Aldo Moro. Quello che uno storico dovrebbe aspettarsi dall’uso pubblico della “sua” disciplina non è tanto la riproposizione dei fatti, dei punti di vista, della tradizione, storiografica o letteraria che sia, ma una chiave di lettura che traduca un evento del passato in qualcosa che risuoni nelle coscienze dei contemporanei.

A prescindere dall’esattezza, dalla filologia, dalla logica interna dei fatti, che non competete alla finzione. Come ha fatto in modo esemplare Jonathan Safran Foer con Ogni cosa è illuminata rispetto al racconto della Shoah che ha completamente reinventato.
Vasta, a distanza di 30 anni, ha messo in luce il sintomo, la lingua, per parlare della patologia, la storia. Scrive Vasta: «In questo momento l’Italia è percorsa dal contagio. Vuole essere percorsa dal contagio. Prova piacere ma non può ammetterlo. Perché non si può provare piacere davanti alla violenza e alla crisi. Non è decente. (…) L’Italia finge di desiderare il calore mentre non può rinunciare al tiepido. È dal 16 marzo che pretende di vivere con quaranta di febbre, solo che con quaranta di febbre non si vive. L’incandescenza è un gioco. L’eccitazione civile, lo scuotimento etico, sono funzioni. L’indignazione si è subito istituzionalizzata; si è istituzionalizzata la paura».

L’ha fatto attraverso le vite di tre ragazzini, l’ha fatto in una Palermo onirica ma allo stesso tempo realissima, dove i nomi delle vie, viale delle Magnolie, via Sciuti, villa Sperlinga, la connotazione borghese degli ambienti sono elementi vividi come se illuminati da una lampada al neon, o dal riflettore di una ripresa cinematografica.
L’ha fatto ribadendo, a suo modo, la questione del linguaggio, la stessa indicata da Pasolini, ripresa da Sciascia, che Vasta rielabora e non declina ai tempi di oggi.

«Mi torna in mente la maestra che quasi un anno fa, durante gli esami, ironica e realistica mi avevo detto che sono mitopoietico, quanto ero stato contento di scoprire che cosa voleva dire, quale piacere può dare muoversi dentro le parole, passare il tempo nel linguaggio. Andarsene via costruendo frasi, isolarsi. Perché la conseguenza del nostro modo di esprimerci- il tono sommesso, il volume basso, ogni parola piatta, ritagliata, calma eppure sediziosa – è che i nostri compagni di classe non ci riconoscono».

Marco Belpoliti ha scritto, in relazione all’uso della Polaroid nel rapimento Moro «I terroristi italiani vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di “realismo traumatico”, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico. Vogliono sottomettere il reale».
Vasta non scatta una polaroid sul 1978. Non vuole sottomettere il reale, ma rivelarne l’assoluta attualità, rendendo utile il racconto, militante, quanto lo è ogni racconto della storia nel quale il punto di vista è dichiarato, e non nascosto. Scrive Walter Siti: «C’è evidentemente un’esigenza metastorica in chi si dedica al folle compito di dare senso al mondo con le parole: l’esigenza è quella di giocare col fuoco, o se si vuole a nascondino con la realtà – stuzzicandola per trarne scintille che la realtà non sa nemmeno di avere, copiandola per negarla, cercando di sfuggire alla sua insensatezza ma nella convinzione che non ci sia senso senza mondo, come la colomba si illude se pensa di volare più veloce senza la resistenza dell’aria».
Vasta ha giocato col fuoco indicando una chiave di racconto possibile, riportando al cuore della narrativa la storia, non come sequenza di fatti e di date, ma materia (possibile) di cui son fatti i racconti. Riportandoci un luogo della memoria della storia del 900. Raccontando l’Aldo Moro di Vasta, del tempo di Vasta, del sentimento di Vasta.

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