A Napoli 150 tesori nascosti in mostra nella Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta fino al 28 maggio

Nel cuore più antico della città di Napoli, vicino alla piazzetta Pietrasanta, dove ancestrali riti pagani hanno lasciato flebili ed indelebili tracce, un nuovo scrigno d’arte si apre con oltre centocinquanta capolavori della cultura italiana e napoletana, nell’ambito della mostra I Tesori nascosti. Tino di Camaino, Caravaggio, Gemito curata dal critico d’arte onnipresente in TV Vittorio Sgarbi e inaugurata il 6 dicembre nella restaurata Basilica di Santa Maria Maggiore, detta alla Pietrasanta, in via dei Tribunali, dove rimarrà fino a maggio 2017.

La mostra Tesori nascosti

L’esposizione Tesori nascosti comprende opere appartenenti a fondazioni bancarie, istituzioni e privati e per questo nascoste al grande pubblico, selezionate per svelarsi come tesori, appunto, da qui nasce l’intento della nuova grande mostra che in questi giorni, in attesa del Santo Natale, sta attirando l’attenzione di un folto numero di visitatori assieme alle tantissime altre ricchezze storico-artistiche e archeologiche di una città, Napoli, dove l’arte è sempre presente.

Occasione speciale, quindi, per poter apprezzare dei tesori nascosti, appunti, dipinti e sculture che coprono un arco temporale che va dal XIII secolo fino al `900, una mostra che ha l’obiettivo di offrire un excursus artistico dei capolavori provenienti da diverse scuole e regioni.

Il percorso espositivo si apre con due teste muliebri marmoree attribuite a un maestro federiciano della metà del Duecento, seguite dal noto scultore senese Tino di Camaino con il San Giovanni Evangelista (1328-1335), mostrando la larghissima influenza che l’artista ebbe sulla scultura trecentesca, soprattutto nell’Italia meridionale, quando il maestro senese, al culmine della fama, si trasferì da Firenze a Napoli, chiamato presso la corte angioina per eseguire il monumento sepolcrale di Caterina d’Austria nella Basilica di San Lorenzo Maggiore con cui inaugurò la sua attività napoletana, creando una grande, assai originale, stagione della scultura. Non mancheranno nemmeno i più grandi maestri del secolo d’oro della pittura napoletana: Battistello Caracciolo, Mattia Preti, Luca Giordano, Solimena.

La mostra è anche l’occasione per vedere esposta la Maddalena Addolorata di recente attribuita a Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, colui che dell’arte del suo secolo, il Seicento, sconvolse l’ambiente culturale col “dipingere di maniera, e con l’esempi avanti del naturale”, prediligendo il naturalismo, la concretezza degli stati d’animo, la fissità della tensione umana.

Proveniente da una collezione privata francese, la tela è dunque una delle riscoperte recenti più significative del corpus dell’artista lombardo (le opere permanenti in città sono “La Flagellazione” custodita a Capodimonte, “Le sette opere della Misericordia” custodita al Pio Monte e “Il Martirio di Sant’Orsola” a Palazzo Zevallos) ed essa è importante perché rappresenta a tutt’oggi uno dei modelli di riferimento del pittore, e Caravaggio, come è noto, non produceva dei modelli, o perlomeno, essi non sono ancora noti. Tuttavia questa struggente Maddalena, dipinta da Merisi tra il 1605-1606, poco prima di rifugiarsi a Napoli, è rappresentata in una posa teatrale, ma composta, abbandonata in una raccolta malinconia un personaggio che poi Caravaggio riproporrà nel celebre capolavoro del Louvre, “La morte della Vergine”.

Il progetto è stato realizzato con il patrocinio dell’Arcidiocesi della città di Napoli, della Regione Campania e del Comune della città Metropolitana di Napoli.

Arte nell’arte: il complesso della Pietrasanta

I Tesori nascosti è uno splendido viaggio nell’arte che trova luogo in un vero e proprio capolavoro dove storia e leggenda si mescolano di continuo. Chiuso al pubblico da anni il complesso della Pietrasanta appena restaurato – grazie a 1 milione e 300mila euro del Grande progetto Unesco e a 800mila euro raccolti dalla Associazione Pietrasanta a cui il cardinale Sepe ha dato la Chiesa in comodato d’uso – è uno dei più antichi della città.

Alle origini della fondazione della chiesa, infatti, con il suo campanile tra i più antichi d’Italia ed il più antico di Napoli, tra le autorevoli fonti prodotte dalla letteratura storico-artistica Cinque-Seicentesca, Carlo Celano (1617-1693), l’innamorato di Napoli, autore della più dettagliata guida sulla città, dal titolo “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli” (1692), ricostruisce gli aneddoti circa la più antica costruzione sacra dedicata alla Madonna nella città di Napoli, servendosi da un lato di un vasto bagaglio erudito accumulato tramite ricerche d’archivio e biblioteca, dall’altro cimentandosi egli stesso nell’attività pratica di archeologo, facendo di lui un vero e proprio storico dell’arte di Napoli.

Celano scrisse che nel luogo della regione di Montagna, ossia, proprio nel luogo dell’attuale piazzetta della Pietrasanta, fu eretto un grande e famoso tempio per la dea Diana per cui si diffuse un radicato culto pagano riservato alle sole donne (perché a queste prometteva parti non dolorosi) nell’antica offerta del cosiddetto giuoco della procella, nel sacrificare una scrofa alla dea, per cui le sue sacerdotesse furono chiamate “dianaree” o “ianare” da cui trae origine, nel dialetto napoletano, la parola streghe, capaci di invocare il demonio. Da qui nacque forse la famosa leggenda del maiale indemoniato che, tutte le notti, si aggirava minaccioso per la piazza e le strade limitrofe per spaventare col suo diabolico grugnito i passanti.

La leggenda del maiale-demonio fu efficace per poter permettere al vescovo Pomponio, nel 525, la costruzione dell’edificio originario della Chiesa di Santa Maria Maggiore di epoca paleocristiana che sorse già nel VI secolo: sempre il Celano racconta che, durante il sonno la Vergine si presentò al vescovo e gli ordinò di scavare una buca proprio al di sotto del tempio della dea Diana fino a trovare una pietra di marmo avvolta in un leggero fazzoletto e di costruire proprio lì una basilica paleocristiana e di dedicargliela. Solo in questo modo avrebbe sconfitto il maiale.

La chiesa di Santa Maria Maggiore è dunque tra le più importanti della città, nacque sulla mai trovata Pietra Santa, la roccia che, secondo la tradizione, una volta baciata, era capace di dare l’indulgenza, il perdono, da cui deriva il suo appellativo. Le indagini archeologiche condotte negli ultimi anni hanno messo in luce i resti dell’antico tempio romano, le cui tracce sono ancora visibili dentro, fuori e nella cripta della chiesa, come ad esempio i frammenti di un antico mosaico romano.

La struttura attuale, invece, segnata dal campanile altomedievale e da due famose cappelle rinascimentali, una fatta edificare per la sua famiglia da Giovanni Pontano, massimo esponente del Rinascimento meridionale, e l’altra preesistente,  quella del Capuccio, venne ricostruita tra il 1653 e il 1678 grazie al progetto di Cosimo Fanzago che la realizzò in stile barocco. Altri restauri vennero effettuati tra il XVIII e il XIX secolo, a cui si aggiunsero quelli terminati nel 1976 per rimediare ai danni subiti dalla struttura durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tesori nascosti è una inedita, sorprendente carrellata dentro la storia dell’arte popolata da artisti qualitativamente straordinari all’interno di un luogo altrettanto sorprendente attraverso le indelebili tracce lasciate sulle pietre di una città che non smette mai di emozionarci tra storia, passato mitico, culti pagani.

Antonio Ligabue in mostra al Vittoriano di Roma fino a marzo 2017

Dall’11 novembre la potenza espressiva di Antonio Ligabue, uno degli artisti più interessanti e imprevedibili del ‘900, si esibisce negli spazi dell’Ala Bransini del Complesso del Vittoriano di Roma. Oltre 100 opere dell’artista svizzero raccontano la sua vita difficile e la sua produzione artistica: gli animali selvaggi, i paesaggi rurali e gli autoritratti, nei quali Ligabue rivela senza pietà la sua storia particolarmente affascinante, inquietante e stravagante, affermando così la sua identità di uomo e di artista, dove i due confini si incontrano tra l’elemento fantastico e l’elemento folle.

 

La mostra

L’esposizione, promossa e curata da Sandro Parmiggiani, direttore della Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri, e da Sergio Negri, presidente del comitato scientifico, ha l’obiettivo di far conoscere l’incredibile vicenda umana di questo singolare artista nato a Zurigo nel 1899 e che visse a Gualtieri, in Reggio Emilia, sulle rive del Po’. Pittore malato, solo, non amato, un pittore che reagiva alla sofferenza del suo isolamento con l’aggressione nella quale cercava di risolvere la propria timidezza, la propria incapacità di comunicare e di reagire ai problemi, Ligabue visse sempre in una condizione di disagio nei confronti della realtà, rifugiandosi in una condizione fantastica e irreale la quale influenzò profondamene la visione artistica senza però riuscire a garantirgli una serenità esistenziale alla quale non arrivò mai.

Fino a marzo 2017 il Vittoriano di Roma offre l’opportunità di ammirare le sue opere intense, coloratissime, espressionistiche e un po’ naif al tempo stesso in una grande mostra organizzata in tre sezioni: la prima contempla gli elementi della sua ispirazione dalle prime opere (1928 – 1939) semplici e formali, a quelle dove i soggetti, quelli che riassumono forse tutto il mondo di Ligabue, quello degli animali che vedeva nella valle padana e dei conflitti tra le fiere oppure quello più idillico- bucolico della natura dei campi dai colori accesi, spesso casuali perché Ligabue usava i colori che disponeva in quel momento (1939 – 1952), sino all’ultimo decennio (1952 – 1965), quando l’artista è colpito da una paresi che lo lascerà invalido sino alla morte avvenuta nel 1965, periodo a cui appartengono i celebri autoritratti che per potenza, devastazione fisiognomica e ossessione possono esser avvicinati a quelli di Van Gogh.

In mostra, ancora, accanto ai capolavori dipinti, come Carrozza con cavalli e paesaggio svizzero (1956-1957), Tavolo con vaso di fiori (1956) e Gorilla con donna (1957-1958) – l’orango che ricorre così frequentemente nei suoi quadri, un tema che nasconde una delle ossessioni del pittore, proprio quella del rapporto con la donna –  si aggiunge una seconda sezione in cui non mancano le sculture come Leonessa (1952-1962) e Lupo siberiano (1936), ed infine una sezione dedicata alla produzione grafica con disegni e incisioni quali Mammuth (1952-1962), Sulki (1952-1962) e Autoritratto con berretto da fantino (1962).

Ligabue: l’uomo-animale che aggredisce

Se come artista ha prodotto centinaia di opere, come uomo, Antonio Laccabue (1899-1965), questo era il cognome del patrigno odiato per il quale mutò il cognome in Ligabue adottando quello materno, ha rivelato le alterazioni della sua psiche malata: selvatico, timido, solitario, insolente, sporco, soggetto a crisi depressive che lo portarono ad entrare ed uscire dal manicomio di Gualtieri, a Reggio Emilia, dove Ligabue decise di stabilirsi nel 1919 al seguito dell’invio in Italia per il servizio militare.

La sua vita fu segnata da una infanzia difficile, non conobbe il vero padre e la madre friulana emigrata in Svizzera, sposò un emigrato di Gualtieri, dal quale ebbe tre figli, riconoscendo anche il piccolo Antonio che rimase solo col patrigno dopo che la morte della madre insieme ai tre fratellini per intossicazione alimentare. Questa grave perdita gli procurò una perdita di identità, vivendo privo di una sua dimensione sociale e di una dimensione presente, ma in quella realtà di ricordi di immagini dei luoghi dove il pittore nacque e visse i primi anni della sua infanzia, il cantone tedesco della Svizzera, dove frequentava l’unico museo di San Gallo, dove visse a lungo guardando gli animali del giardino zoologico, dove frequentava l’orto botanico di San Gallo. Memoria e fantasia, appunto, è il significato della sua opera artistica che, all’inizio, gli fu  riconosciuta da Marino Mazzacurati, l’artista che lo ha scoperto e lo ha spinto a dipingere e gli ha organizzato le prime mostre negli anni ‘50. Antonio Ligabue portava i suoi deliri sulle tele, dipingendo in maniera primitiva, mostrandoci nella fissità e nella violenza degli animali feroci (egli stesso sognava di tramutarsi in un animale), spesso in lotte cruenti la rappresentazione di se stesso.

La rappresentazione della nevrosi e insieme della memoria, il paesaggio della memoria sono gli elementi che compongono un’intera sintesi di tutte le contraddizioni, l’infelicità, il destino doloroso di quest’uomo e di questo pittore di nome Antonio Ligabue, il pittore creativo che si identifica con l’animale che aggredisce.

 

Frida Kahlo e l’arte messicana del XX secolo in mostra a Bologna

Dal 19 Novembre a Palazzo Albergati di Via Saragozza saranno esposti ritratti, autoritratti e opere della straordinaria artista Frida Kahlo che con la sua arte è riuscita ad affermarsi nel panorama artistico del Novecento. In mostra non solo le intense, travolgenti nelle loro tinte in forte contrasto e di forte impatto opere pittoriche, ma anche le bellissime fotografie che fanno parte della Collezione Gelman nonché gli abiti, i gioielli, le pagine dei diari e molto altro dell’artista messicana sapranno far rivivere a Bologna l’arte accompagnata dalla vita di Frida e la storia del suo paese, il Messico, del quale la grande donna esprime l’interiorità, grazie ad una mostra che rimarrà fino a Marzo 2017.

Organizzata da Arthemisia Group e patrocinata dall’INBA (Instituto Nacional de Bellas Artes), la mostra bolognese è la terza mostra italiana dedicata all’amatissima Frida Kahlo e Diego Rivera, anch’egli pittore, attraverso i dipinti e soprattutto gli scatti di Leo Matiz che immortalano le due personalità artistiche, protagonisti della mostra. Inoltre, al grande pubblico, è riservata una bellissima scoperta con le opere di Maria Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Angel Zarraga e Rufino Tamayo, nomi meno noti dell’arte messicana del Novecento.

Frida Kahlo: una grande artista tormentata nell’anima e nel corpo

Frida Kahlo è stata una donna all’avanguardia per il suo tempo, soprattutto in quegli anni di cambiamento, di tumulti politico-sociali contro la dittatura. La sua travagliata vita  è fortemente legata alla storia del Messico, della quale si sentiva figlia sprattutto durante la rivoluzione messicana scoppiata nel 1910. Il suo quartiere natale Coyoacán, una delegazione di Città del Messico, è il ritratto intimo della realtà di Frida che prende forma nelle opere fotografiche in mostra: il ritratto di una donna anticonvenzionale, indipendente che affrontò quegli anni con passione e forza d’animo, anche se le sue condizioni di salute minarono per sempre la sua vita alla sofferenza e al dolore. Frida, affetta già dalla nascita da spina bifida, fu costretta anni a letto per via di un incidente stradale ad appena 18 anni, subendo più di 30 operazioni. Nel dramma che le cambiò la vita,  in quel periodo di malattia e reclusione  Frida si dedicò con passione all’arte e alla pittura che, assieme al comunismo, furono le attività che l’hanno tenuta in vita.

Sono 150 le opere della sua attività artistica recentemente rivalutata in tutta Europa, ma soprattutto sulla sua vita privata, intrecciata come un romanzo, hanno indagato le mostre a lei dedicate. Il rapporto ossessivo con il suo corpo martoriato caratterizza uno degli aspetti fondamentali della sua attività artistica, ma il segno che Frida Kahlo vuole lasciare sulla tela è quello della sua realtà, dei suoi stati d’animo, non quella dei suoi sogni. Dopo l’incidente che la vide investita dal tram, il secondo incontro-scontro che ha segnato per sempre la vita della grande pittrice è stato con Diego Rivera, il pittore cui Frida decise di sottoporre i suoi lavori, riconoscendo subito il loro valore. Tra i due ci fu una storia d’amore tempestosa.

Il valore del lavoro di Frida Kahlo deriva dal rapporto del suo corpo con la realtà esterna senza subirne l’influenza della pittura surrealista fondata sulla creazione di visioni immaginarie per uscire dalla logica e penetrare nel subconscio. Una donna dal forte temperamento, dunque, segnata dall’arte, dalla politica e da un amore travolgente, il grande amore della sua vita, Diego Rivera.

La mostra è un vero e proprio viaggio tra scatti, dipinti e oggetti che raccontano un’epoca, un paese e un’artista. A partire dal 19 novembre in mostra al Palazzo Albergati di Via Saragozza di Bologna per conoscere Frida Kahlo, Diego Rivera, RufinoTamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Ángel Zárraga.

Artemisia Gentileschi al Palazzo Braschi di Roma dal 30 novembre

In questa stagione espositiva, assolutamente da non perdere è l’appuntamento tutto al femminile con l’attesa e importante retrospettiva interamente dedicata a una delle più grandi artiste donne del Seicento: Artemisia Gentileschi, che dal 30 novembre 2016 all’8 maggio 2017, sarà in mostra nelle sale del magnifico Palazzo Braschi, sede del museo di Roma, nel cuore barocco della città.

 

La mostra

In uno dei luoghi più belli e storici della Capitale, tra i vicoli rinascimentali che portano a Piazza Navona, Palazzo Braschi propone la seconda personale in assoluto dedicata a questa importante figura artistica che, per l’eccezionalità del suo talento, ha saputo gettare nuova luce nel panorama artistico italiano del Seicento, anche se spesso costrittivo e caratterizzato da guerre e pestilenze, e nel momento prima che il Barocco esplodesse con la sua ricchezza decorativa.

Nata da un’idea di Nicola Spinosa, l’esposizione, promossa e prodotta da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e Arthemisia Group e organizzata con Zètema Progetto Cultura, contempla un percorso di 90 opere provenienti da tutto il mondo.

 

L’arte di Artemisia Gentileschi sulla scena della sua tormentata vita

Artemisia Gentileschi nacque a Roma nel 1593. Ai suoi tempi la chiamavano pittora o pittoresca, perché il termine “pittrice” ancora non esisteva, a testimoniare che la pittura era un mestiere da uomini, adatto al padre Orazio, dal quale Artemisia iniziò ad esercitare la sua abilità artistica che di lì a poco si sarebbe sviluppata in perfetta autonomia e soprattutto indipendenza da quel mondo di maschi di cui essa era circondata, subendo addirittura violenza carnale da parte di un uomo, tale Agostino Tassi, allievo del padre al quale aveva affidato la figlia per insegnarle come costruire la prospettiva in pittura. La sua personalità artistica passerà alla storia facendosi conoscere fuori dai confini romani per la tragica vicenda giudiziaria che segnò la sua gioventù attraverso romanzi e film che hanno contribuito a fare della Artemisia Gentileschi una figura di grande attualità, quasi un’eroina femminista ante litteram.

La mostra romana celebrerà questa grande artista che ha realizzato dei capolavori unici ed inimitabili. Le sue opere diventano le testimonianze di un animo tormentato segnato dal ricordo di una giovinezza troppo dolorosa per essere dimenticata, così gli atti di violenza che riporta sulla tela si traducono nelle scene che vede protagoniste donne-eroine, per cui, tutte le sue donne, persino le figure sacre, sono caratterizzate da robusta virilità e prosperosa femminilità.

L’esposizione mette in scena le opere più importanti della produzione di Artemisia Gentileschi attraverso la parabola artistica che ha inizio a Roma con l’esordio nella bottega del padre Orazio, quando la giovane artista osservava da vicino molte opere che vari pittori producevano in quel periodo: Carracci, Caravaggio, Guido Reni, il Domenichino e proseguendo con gli anni a Firenze, in cui lo stile di Artemisia si sviluppò autonomamente, il ritorno a Roma all’inizio degli anni Venti e i successivi venticinque anni a Napoli fino alla morte giunta nel 1653. Artemisia Gentileschi come Caravaggio soggiornò a Napoli, nei primi anni Trenta, invitata dal viceré, il conte di Monterrey, suo estimatore e dipingendo pale d’altare, contribuendo con il suo stile a diffondere notevolmente il linguaggio espressivo intenso nell’ambiente pittorico locale di questo periodo artistico.

L’arte di Artemisia è un trionfo femminile, dove su tutte Giuditta che decapita Oloferne, una delle sue opere più famose proveniente dalla Pinacoteca Nazionale di Capodimonte, è stata interpretata come il documento pittorico della tormentata e affascinante vita della pittrice. Eseguita a Roma tra il 1612 e 1613 “Giuditta e Oloferne” di Artemisia Gentileschi resta, assieme a quella compiuta da Caravaggio vent’anni prima e dal quale deriva ma che ne rappresenta l’evoluzione, una delle interpretazioni più suggestive compiute nell’ambito della pittura italiana del Seicento. In uno stile del tutto personale, Artemisia sceglie il momento della vicenda più cruento, quando l’eroina ebrea partecipe e co-protagonista, e non simbolo di virtù e di devozione a Dio, uccide il re assiro Oloferne tagliandogli la testa con due colpi di scimitarra assistita dalla schiava Abra, riuscendo così a salvare la propria gente.

La mostra di Artemisia Gentileschi al Palazzo Braschi di Roma svela gli aspetti più autentici dell’artista, attraversando un arco temporale che va dal 1610 al 1652, illustrando i motivi per i quali «Artemisia – come scrisse il critico Roberto Longhi nel 1916 – è l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità».

‘Van Gogh Alive, The Experience’: a Roma fino al 27 marzo 2017

Dopo il successo ottenuto a Torino e a Firenze, Van Gogh Alive – The Experience  arriva a Roma, segnando una nuova tappa nell’ambito del progetto itinerante creato da ‘Grande Exhibitions’ che, dal 25 ottobre fino al prossimo 27 marzo, ha scelto lo storico Palazzo degli Esami a Trastevere, come luogo in cui ospitare la mostra interattiva dedicata all’affascinante opera del celebre pittore olandese.

Lo straordinario evento regala al pubblico un percorso di visita fuori dai canoni, per così dire, ‘tradizionali’, in cui lo spettatore è posto di fronte all’opera dell’artista. Qui, invece,  la visita si trasforma in una vera e propria esperienza multisensiorale che fa da ponte fra l’arte di oggi e di ieri. Una esibizione artistica-emozionale di 40 minuti si snoda tra grandi spazi delle sale del Palazzo in via Gerolamo Induno, che, dopo 20 anni di chiusura, ritorna a rinascere proprio grazie a Van Gogh.

Attraverso i più avanzati strumenti tecnologici e multimediali, il visitatore potrà così completamente immergersi nei vibranti colori usati dall’artista prendere letteralmente vita nella proiezione di 3.000 immagini fotografiche delle sue opere lungo pareti e colonne, soffitto e  pavimento delle sale del Palazzo in una realtà virtuale davvero immersiva grazie a SENSORY4™ : “un sistema multimediale unico – ha spiegato Rob Kirk, curatore per ‘Grade Exhibitions’- che armonizza motion graphic multicanale, suono surround di qualità cinematografica, con oltre 40 proiettori ad alta definizione per fornire immagini dettagliate e particolari in primo piano”.

Vang Gogh Alive è una mostra che incontra la tecnologia, un viaggio poetico dove immergersi a 360 gradi nei capolavori dell’opera pittorica del grande Maestro dai capelli rossi e gli occhi chiari, dove le linee e i colori vivaci riflettono la capacità espressiva del tragico mondo di Van Gogh. Un’esperienza multisensoriale, dunque, non solo per gli occhi ma che dà allo spettatore la sensazione di toccare con mano il blu intenso della Notte stellata al punto da diventare un tutt’uno con l’opera proiettata ad alta definizione oppure immergersi nelle immagini animate dei famosi mulini a vento, arricchito da musiche estremamente evocative come quelle di Schubert, Vivaldi, Bach e tante altre.

Van Gogh e la sua pittura “inquieta”

La pittura permise a Vincent Van Gogh (Groot-Zundert, Brabante, 1853 – Auvers-sur-Oise 1890) di trovare se stesso nel suo eterno conflitto interiore, il cui talento artistico gli fu riconosciuto soltanto dopo la fine di quella sua vita confusa e inquieta vissuta tra il mal di vivere e la follia, all’ombra del fratello minore Theo. Numerose immagini di citazioni tratte dalle sue lettere al fratello, importantissime, tra l’altro al fine di comprendere la difficile personalità del pittore originario dei Paesi Bassi, sono incluse nella mostra in un ‘excursus’ sulla sua vita privata assieme alle 800 opere che il Maestro ha composto in 10 anni di intenso lavoro, operando una profonda rivoluzione nella storia dell’arte. A partire dal 1880, quando tardi decise di dedicarsi alla pittura nella Parigi degli Impressionisti, fino al 1890, negli ultimi anni della sua vita vissuta tra Arles, Saint Rémy fino a Auver-sur Oise, luogo in cui si spense in una modesta camera d’albergo.

C’è tempo fino a marzo 2017 per immergersi nei colori e nello stile unico di Van Gogh all’interno degli 11 mila metri quadrati di Palazzo degli Esami di Roma.

 

 

Dalì. Il sogno del classico in mostra a Pisa fino al 5 febbraio 2017

Tra gli eventi culturali in programma per questo autunno-inverno, da non perdere è la mostra dedicata a Salvador Dalì (Figueres, 1904- Ivi, 1989), appositamente allestita nelle sale dell’antico Palazzo Blu di Pisa, dimora nei secoli di diverse casate nobiliari. Dal 1° ottobre, in mostra oltre 150 capolavori del grande maestro catalano che testimoniano al pubblico la grande influenza che la tradizione classica italiana e i grandi Maestri del Rinascimento hanno esercitato sull’arte di Dalì, uno degli aspetti meno noti della sua particolare parabola surrealista.

Le opere sono state eccezionalmente prestate dal Museo Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres e dal Dalí Museum di St. Petersburg in Florida, le due più importanti istituzioni mondiali che custodiscono le opere dell’artista catalano, ma anche dai Musei Vaticani. La mostra, curata dalla direttrice Musei Dalí Montse Aguer in collaborazione con MondoMostre, presenta una selezione mirata di diverse opere tra cui dipinti, acquerelli e xilografie appartenenti all’ultima fase della carriera del celebre artista surrealista. Conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di superare i confini della realtà oltrepassandola con la forza creativa dell’inconscio, Dalì non è stato solo pittore, ma anche scultore, incisore, disegnatore, filmaker, designer e intellettuale appassionato di letteratura. Il percorso espositivo, infatti, evidenzia non solo le diverse tecniche e materiali esplorati da Dalí, ma permette al visitatore di entrare in contatto con la dimensione artistica più peculiare della sua espressività surrealista in relazione ai principali protagonisti della tradizione rinascimentale come MichelangeloDante e Benvenuto Cellini.

Per la prima volta l’esposizione si concentra proprio sull’importanza che per Dalí ha avuto l’Italia e  l’interesse per la pittura del Rinascimento maturo e del Seicento. È proprio su questa linea che prende forma la mostra pisana Dalí. Il sogno del classico  che durerà fino al 5 febbraio 2017.  In particolare, il percorso è suddiviso in cinque sezioni  Soggetti religiosi, Inferno, Purgatorio, Paradiso, Autobiografia di Benvenuto Cellini.

I quattro dipinti che aprono la mostra, La Trinità, studio per il Concilio ecumenico del 1960, Paesaggio di Port Lligat, 1950, Sant’Elena a ′Port Lligat, 1956 circa e Angelo di Port Lligat, 1952 dimostrano una svolta mistica e religiosa in pittura, successivamente al suo soggiorno in Europa a causa della guerra civile spagnola, quando nel luglio del 1948 Dalí e la sua amata Gala tornano a Port Lligat e poi di nuovo in Italia.

Dipinti importanti e poco conosciuti permettono al pubblico di avvicinarsi agli aspetti meno noti del lavoro del grande artista, quando Dalì ammira e ripete temi religiosi ispirati agli artisti rinascimentali, costituendo così un’immagine eco. I toni verdastri della tela, un po’ deprimente, corrispondono al periodo in cui il declino della sua musa-amore ossessivo per Gala diventa chiaro, quando l’opera di Dalì è il risultato di una profonda tristezza malinconia e ricordano il passato. Sono le ultime creazioni degli anni ’80 che appartengono al momento in cui Dalì ha anche spesso utilizzato l’iconografia michelangiolesca, così come: Senza titolo. Mosè da quello della tomba di Giulio II di Michelangelo, Senza titolo. Cristo dalla Pietà di Palestrina attribuita a Michelangelo, Senza titolo. Giuliano de’ Medici da quello del sepolcro di Giuliano de’ Medici di Michelangelo e Senza titolo. dal Ragazzo accovacciato di Michelangelo.

Oltre i dipinti, l’intera serie di xilografie ad acquerello, gouache e sanguigna (dipinte tra il 1950 e il 1952) della Divina Commedia, che gli fu commissionata nel 1950 dal ministero della Pubblica Istruzione italiano, e le 42 illustrazioni in china su carta e acquerello che raccontano la leggendaria vita di Benvenuto Cellini, realizzate su commissione dell’editore Doubleday&Company′ nel 1945 – per una nuova edizione inglese di The Autobiography of Benvenuto Cellini.
Una mostra unica che esplora l’universo dell’ultimo Dalí, ancora poco conosciuto, e che mette in luce la relazione del suo grande genio con la tradizione dei grandi maestri e della letteratura italiana.

 

 

Edward Hopper al Vittoriano: la grande mostra dedicata al ‘pittore della solitudine’

Con l’arrivo della stagione autunnale, per gli appassionati d’arte non mancano gli eventi dedicati ai grandi nomi e retrospettive interessanti. Dopo il successo della mostra in Palazzo Fava a Bologna, dal 1° ottobre Edward Hopper (Nyack,1882- New York, 1967) torna nella capitale in una straordinaria retrospettiva. Oltre 60 opere realizzati tra il 1902 e il 1960 e una sezione inedita saranno esposti negli spazi dell’Ala Bransini del Complesso del Vittoriano fino al 10 febbraio 2017.

La mostra

Le opere di Hopper sono state eccezionalmente prestate dal Whitney Museum di New York, che di Hopper custodisce l’intera eredità. La rassegna, curata da Barbara Haskell (del museo newyorkese) in collaborazione con Luca Beatrice, ripercorre la straordinaria produzione dell’artista tra cui celebri capolavori come: South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960), New York Interior (1921), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), interessantissimi studi (come lo studio per Girlie Show del 1941). A questo si aggiunge anche il prestito eccezionale dell’olio su tela Soir Bleu, dipinto da Hopper a Parigi nel 1914. Oltre ai capolavori di Hopper, inoltre, il percorso offre una sezione della mostra tutta inedita, che testimonia dell’influenza della tecnica del pittore sul grande cinema a lui contemporaneo: film di Philip Marlowe, lavori di Hichcock, primi fra tutti Psycho e La finestra sul cortile e di Antonioni. Così come in Profondo Rosso Dario Argento si ispira a Nighthawks per ricostruire la sequenza del bar.

 

Edward Hopper: pittore della solitudine

Conosciuto in tutto il mondo per la sua capacità di ritrarre il senso della solitudine nelle classi medie della società americana a lui contemporanea, Hopper è stato un artista lontano dalle tendenze astratte o surreali che contraddistinsero i nuovi linguaggi artistici della prima metà del Novecento scaturiti dagli sconvolgimenti sociali e politici. Per Hopper nacque l’esigenza di andare oltre la realtà apparente, in modo da indagare e riprodurre la realtà interiore: l’inconscio dell’animo umano. Lui stesso infatti sosteneva che dipingeva quello che provava, non quello che vedeva.

Ogni suo dipinto “fissa” una scena sempre silenziosa i quali personaggi dipinti appaiono fermi come se ripresi nell’attimo di un pensiero, di un momento di solitaria riflessione. Il senso di vuoto, di alienazione, di grave incomunicabilità sono nelle opere di Hopper la rappresentazione di un mondo sempre più moderno, sempre più avanzato, sempre più veloce e che, proprio per questo, gli appare (ed è) moltiplicatore di solitudine ed incomunicabilità, e che, a ben vedere, è uguale ancora oggi con il boom dei social network.

“Summer Interior” (1909)

 

Hopper si dedicò soprattutto al disegno, spaziando nelle varie tecniche pittoriche. In esposizione gli acquarelli parigini, i paesaggi e gli scorci cittadini degli anni ’50 e ’60 e, infine, le immancabili immagini solitarie di donne rivelano come la mano di Hopper è riuscita a rappresentare in modo reale la solitudine dell’attesa del vivere, tra pausa degli eventi e meditazione solitaria attraverso la nitidezza di uno scatto fotografico. E per il suo stile così inconfondibile e sui generis, fatto di sofisticati giochi di luci fredde, di colori non vivaci che conferiscono alle sue opere un’atmosfera metafisica, che Hopper, pittore del “silenzio”, oggi risulta essere tra gli artisti più noti e amati dal grande pubblico.

“Nighthawks” (1952.)

‘Boldini e Van Dyck’: la mostra alla Galleria Sabauda di Torino

Con la mostra Boldini guarda Van Dyck. Bambini nel tempo, inaugurata lo scorso giovedì 29 settembre, lo Spazio Confronti della Galleria Sabauda di Torino ospita il secondo suggestivo «dialogo» tra opere. Dopo il primo appuntamento dedicato ai due dipinti di Botticelli, infatti, questa volta il nuovo confronto è tra due ritratti che, al di là del soggetto, sono davvero «distanti» e non solo nel tempo.

Il primo dipinto rappresenta uno dei capolavori appartenenti alla collezione fiamminga della famiglia Sabauda, I figli di Carlo I d’Inghilterra, olio su tela del 1635, del grande maestro Antoon Van Dyck (Anversa, 1599- Londra, 1641) a confronto con Ritratto del piccolo Subercaseaux, dipinto nel 1891 da Giovanni Boldini (Ferrara, 1842- Parigi, 1931), opera giunta per la prima volta a Torino dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, città natale del pittore.

La ricerca della resa minuziosa della realtà, l’uso dei colori ad olio, il ritratto del viso con la posa di tre quarti sono i caratteri propri di quella pittura definita fiamminga, in quanto originatasi e sviluppatasi nelle Fiandre (attuale Paesi Bassi) nel corso del Quattrocento, e che nel Seicento conobbe uno straordinario sviluppo nel genere del ritratto soprattutto con l’attività del pittore di Anversa Antoon Van Dyck.  È proprio in quella Inghilterra del Seicento che vedeva sul trono Carlo I Stuart che Van Dyck – allievo e amico del pittore Pieter Paul Rubens, altro importante rappresentante della ritrattistica fiamminga – divenne il primo pittore di corte; occupandosi esclusivamente di ritratti di vario formato dei membri della famiglia reale e del suo mecenate raffigurato in pose differenti.

Van Dyck e Boldini: l’infanzia d’élite a confronto

Ritornando alle due opere a confronto in mostra a Torino, è dunque l’infanzia, nelle vere fisionomie dei bambini, come in una moderna fotografia, ad essere fissata sulla tela dai due massimi maestri del ritratto. Il dipinto di Van Dyck, con i principini del re d’Inghilterra: Carlo, Maria e Giacomo, duca di York, rende evidente l’immagine del ritratto ufficiale che il grande maestro fiammingo realizzò nel 1635 su commissione della moglie del re, la regina Enrichetta Maria, come dono da inviare alla sorella Cristina di Francia, moglie di Vittorio Amedeo I di Savoia. Il dipinto di Boldini, invece, ritrae uno dei due figli del diplomatico cileno Ramón Subercaseaux Vicuña e fu realizzato da Boldini intorno al 1880 a Parigi, dove, dopo la frequentazione della cerchia dei Macchiaioli a Firenze, conobbe John Singer Sargent e forse su suggerimento dell’amico commissionò alcuni ritratti, dedicandosi a quella serie fortunata di dipinti di signore e personaggi che egli non abbandonerà mai e che lo renderanno celebre come il pittore alla moda della borghesia parigina.

Accanto alla capacità di ritrarre le fisionomie naturali altro elemento indispensabile in tal genere pittorico che mette in rilievo l’altezza dei due maestri del ritratto è la capacità di indagare l’intimità psicologica dei soggetti la quale emerge, nel caso dei tre principini, dagli sguardi curiosi e vivaci. L’espressività dei bambini, infatti, non sembra rispondere alle esigenze di rappresentazione dinastica richieste dal committente, eccetto lo sguardo penetrante del futuro Carlo II, al pari del piccolo Subercaseaux, nel caso del dipinto di Boldini, dove, però, l’undicenne appare sul divano in una posa non proprio composta, facendo supporre l’insofferenza del fanciullo per le prolungate sedute di posa. Il «dialogo» tra le due opere, infine, si fonde nella resa pittorica di Boldini il quale dimostra qui l’ispirazione per la ritrattistica fiamminga, nell’uso dei colori ad olio nei toni del grigio, del bianco e del nero, dopo un viaggio in Olanda e in Inghilterra.

L’allestimento è visitabile sino all’8 gennaio del 2017.

 

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