Jobs Act francese: la lotta per i ‘diritti’ è un dovere

Qualcuno parlerebbe di rivoluzione, al massimo di guerra civile; ma tali definizioni non sono adatte, non del tutto, a spiegare che cosa sta accadendo in Francia. Di sicuro una mobilitazione sociale si percepisce, ed è netta. I cittadini dicono no alla legge del lavoro, lo chiamano Jobs Act francese. Il Loi Travail, sulla scia renziana, propone un aumento delle ore lavorative, un predominio del contratto aziendale su quello collettivo nazionale, e agevola i licenziamenti, come l’interruzione economica del contratto di lavoro.

Si tratta di una legge che soffoca i lavoratori e che, come ha spiegato la docente dell’Università di Parigi Nanterre, Tatiana Sachs, durante il Convegno AGI 2016, non ha nulla di positivo se non la parte relativa alle tutele sul mercato del lavoro. Il ministro Manuel Valls che si è appellato all’articolo 49,3 del Titolo V della Costituzione, per far passare la legge senza il voto del Parlamento, inoltre secondo la Sachs, invidia Renzi che è riuscito a portare avanti il provvedimento senza strappi, mentre in Francia ha inaugurato la stagione degli scioperi ripetuti e con una sollevazione popolare evidente iniziata con Nuit Debout.

Jobs Act francese: la democrazia batte i piedi

Il Jobs Act francese sta portando alla formazione di un nuovo corso democratico e chissà, forse il 31 marzo sarà un giorno da segnare sul calendario, magari per ricordare un’evoluzione, o perlomeno evocare una reazione sociale e politica anche in Italia. E poi a Parigi è arrivato maggio, con i suoi fiori, i colori di arancio, giallo e viola come le magliette delle adolescenti a dire che sì è primavera, e bisogna rinascere in fretta, riesumare i diritti sepolti sotto le macerie. A maggio sempre nella patria della satira e delle brioches, scioperi illimitati dei trasporti, netturbini, vede ancora protagonisti ferrovieri metro e trasporto aviario. Tutti insieme, fieri ma soprattutto compatti e arrabbiati. Dopo i timori per la partita inaugurale degli europei di calcio, arriva quello che viene definito il giorno delle “galere”: oggi 14 giugno per i cittadini sui trasporti francesi si riparte con lo sciopero che coincide con quello indetto dai piloti Air France. Torneranno così in piazza i sindacati, per quella che è descritta come una mobilitazione senza precedenti. I francesi si stanno muovendo, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Viene in mente il 1789 non per retorica o demagogia, viene in mente e basta perché la grinta, la disperazione e la compattezza si fortificano nella loro gloriosa indipendenza. I francesi sono nati, fioriti ribelli, ma quando si parla di repubblica sono autorevoli e impositivi come nessun altra nazione in Europa. Guai a chi tocchi il trittico Liberté, Fraternité, Egalité. A guardare un paese compatto, arrabbiato al limite dello sdegno furente di chi non ha pane sotto i denti. Viene in mente perché i francesi non hanno dimenticato il loro passato ma portano in alto lo stendardo della lotta, e non si arrestano davanti ai propri baldanzosi rappresentanti che tutelano le istituzioni, è perché loro sanno che se questi sono – ancora – lì  è per grazia del popolo che li ha eletti e voluti. Ma in Italia invece questo discorso non ha senso. Sembra ancora intrappolata in una specie di oligarchia (o monarchia) repubblicana di chi decide (bene?) per il popolo e si fa pure ringraziare, magari su twitter. Ex novo, dal basso. Grazie al popolo addormentato. Mentre in Francia, notti in piedi e disordini leciti.

E poi non bisogna dimenticare che dietro lo scontro fra Stati e mercati si cela un attacco del capitale al lavoro, che necessariamente passa attraverso un indebolimento delle democrazie nazionali; non a caso le principali riforme richieste dai mercati, hanno riguardato proprio i diritti dei lavoratori, svilendo il lavoro e puntando solo alla produttività. “Fabbricare fabbricare fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare….” diceva Dino Campana e in effetti oggi più che mai la retorica borghese del Lavoro come imperativo categorico dell’uomo, risulta innaturale ed ipocrita: laddove si parla dell’occupazione come di un diritto, si nasconde un sistema disumano, una moderna schiavitù. Le manifestazioni francesi contro il Jobs Act rappresentano un importante ed esemplare fronte alternativo alle becere e perverse politiche neoliberiste che ormai si sono strutturate nella forma di una rifeudalizzazione del rapporto sociale capitalistico.

Augias e i boccoli di Fortuna

Fortuna era una bambina di sei anni. E’ morta il 24 giugno di due anni fa, caduta o spinta dall’8° piano del palazzo in cui viveva, a Caivano (NA). Una bambina in un ambiente degradato, abbandonato a sé di cui ci si ricorda mestamente in circostanze come questa. Ancora prima del tragico vagito, ha subìto delle violenze ripetute e che sarebbero premeditate con indicibile macchinazione. Secondo gli inquirenti, il presunto pedofilo, Raimondo Caputo, avrebbe pure avuto l’appoggio della madre e della compagna, anche lei arrestata. Bastava questo.

Tuttavia, durante la trasmissione “Di Martedì” (La7) dello scorso 3 maggio, il giornalista Corrado Augias intervistato dal conduttore Giovanni Floris sul tragico fatto, ha detto la sua, elargendo la sindrome di una sorta di ateismo delle parole, lanciate senza molta assennatezza (con elucubrazioni da intellettualoide), senza risparmiarsi dal fornire una propria personale parentesi, di cui avremmo volentieri fatto a meno, sull’atteggiamento, il trucco e l’acconciatura boccolosa della vittima ritratta in una fotografia. Secondo Augias nello scatto Fortuna “con quei boccoli”, quei vestiti e una postura da 16enne, sollecita “uno stridore” che il giornalista riconducerebbe alla mancanza della madre di un punto di riferimento culturale, di conseguenza di una mancanza di stabilità spirituale per la bambina. Lo stridore andrebbe collegato con la fede cristiana incarnata dalla statuetta di Padre Pio apparso in un intervento della mamma di Fortuna. Augias nelle dichiarazioni ad Huffpost delle ultime ore ha chiarito anche la sua avvisaglia di una perdita del senso del sacro radicata nel contesto famiglia-condominio. In poche parole, una madre che veste e tratta la figlia come una adolescente (oggettivamente non deducibile dalla foto), ha perso l’orientamento, non avrebbe educato la figlia a preservare la purezza dell’infanzia. Ma Augias, in che mondo vive? Non ha mai visto una bambina adornata perché imita la mamma, le amiche o la zia? E che colpa avrebbe, quella di avere indossato un leggero lucidalabbra o un pantaloncino troppo corto? E’ pur vero che oggi il consumismo coglie le sue prede nei minori. Allora, in quel caso si dovrebbe attribuire la colpa della sessualizzazione delle bambine nella martellante campagna pubblicitaria delle grandi case di moda che propongono piccole indossatrici a 6/7 anni. L’età di Fortuna. Ma un adulto non dovrebbe avere capacità di discernimento, maturità e capire che anche acconciata da ragazza adolescente, è sempre una bambina? E’ un po’ come dire che le donne vengono violentate perché provocano con i loro abiti succinti. E i bambini poi? Ci sono anche dei bambini maschi vittime degli adulti, e dalle foto mostrate in TV non sembra affatto che si atteggiassero a machi. Probabilmente Augias non è bene informato.

Fortuna Loffredo: una bambina non una ragazzina

Non si può giustificare nessun abuso sulle bambine e sui bambini, che nasca in un ambiente degradato o meno. La violenza contro i minori è un crimine contro l’umanità, ricamarci sopra riflessioni su riflessioni estenuante e inconcludente.
Ora, di certo Augias non intendeva immolare la foto al presunto pedofilo come prova di una civetteria colpevole della bimba, o santificare l’orco, al contrario. Solo che a volte non serve sviscerare, analizzare, su questioni che sono un’ignominia di per sé. A volte sarebbe preferibile mettere un punto, almeno di sospensione, tra la presunzione di decenza e l’accettabilità di una congettura “sociologica”, antropologica , eccetera eccetera. E anche se fosse, anche Fortuna si atteggiava a ragazza di 16 anni (come tutte le coetanee), cosa vuol dire? Avremmo dovuto presagire perché era troppo bella e “agghindata”? Sarebbe come dire che un colpevole si riconosce dall’esteriorità dei suoi comportamenti. Allora i bambini, e non solo le bambine, dovrebbero essere protette ogni giorno: nei parchi, nei quartieri in e out, e nelle case. I pedofili non portano tunica o blasone di riconoscimento, per echeggiare “l’abito non fa il monaco” così come le vittime. Agghindate o meno, sono vittime innocenti. Anche di una società che non si ricorda che all’adulto per proteggere i bambini non occorrono filosofeggiamenti astratti sulla loro natura di essere fragile, ma riconoscere i propri errori. La società degli adulti si sta dimenticando di nuovo, (non a caso sono stati proprio i bambini a buttare giù il muro di omertà e del silenzio degli adulti, raccontando la verità), che un bimbo non va usato (e l’elenco di questi abusi anche morali è lungo, la pedofilia è la punta triste dell’iceberg), ma rispettato nel suo evolversi creatura autonoma e libera. E non basta la famiglia. E’ la società che deve crescere, recuperando valori sacri come l’infanzia; per citare Dietrich Bonhoeffer: <<Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini>>. Ma questa società di senso morale e di protezione verso i bambini ne ha perso le tracce, si è disintegrata. E ci si mettono anche gli pseudo intellettuali con i loro modi e tempi sbagliati.

 

‘Rain Man’: riflessioni sull’autismo

Rain man è un film del 1988 con Tom Cruise e Dustin Hoffman, diretto da Barry Levison che ci fornisce l’occasione per affrontare una tematica delicata e sempre attuale verso la quale è importante intraprendere sempre una campagna di sensibilizzazione: quella relativa all’autismo, patologia che rende difficilissima la possibilità di comunicare e che impedisce l’autosufficienza di chi ne è affetto, condannandoli all’emarginazione. Nel film Tom Cruise interpreta Charlie, il fratello minore, mentre Raymond, il fratello maggiore è interpretato da uno strepitoso e commovente Dustin Hoffman. La pellicola si è aggiudicata quattro premi Oscar nel 1989 e un grande successo al botteghino.

Rain Man: riflessioni sull’autismo

Tom Cruise interpreta un personaggio molto superficiale, è un giovane uomo egoista e materialista fino a che la sua vita non cambierà grazie al ritrovamento del fratello maggiore Raymond il quale ha vent’anni più di lui e vive in una clinica, affetto da autismo.
Con la sua interpretazione Hoffman ha saputo trasmettere diverse emozioni, facendo capire e conoscere al pubblico sia la sofferenza di chi ha chi soffre di questa patologia, sia riuscendo a trasmettere le emozioni del proprio mondo nel vedere e vivere cose nuove, mostrando come non sia facile da parte di un familiare l’interazione con una persona autistica; tuttavia nonostante le varie difficoltà trionfano l’amore, l’accettazione e la condivisione.
Charlie porta via Raymond per diventarne il tutore, ma in realtà vuole spendere i suoi soldi: va con lui a Las Vegas, da dove poi verrà cacciato. Durante il viaggio il loro legame si rafforzerà, ed entrambi avranno le possibilità di conoscersi a fondo.

Rain man racconta senza retorica e trovate stucchevoli, come come si possa vivere un nuovo legame con una persona non “normale” come può essere un autistico, ma dotato di grande sensibilità e intelligenza. Anzi il film sembra innalzare questa patologia a un modo speciale di essere, di esistere, si sentire, di percepire, di comunicare. Fino ad un certo punto, il principale pensiero che domina Charlie è il guadagno, ma durante il periodo che i due fratelli trascorrono insieme, Charlie oltre a conoscere Raymond e la sua malattia, inizia a conoscere meglio anche sé stesso e le sue emozioni.
L’autismo è una patologia molto delicata, complessa e le diverse necessità che la caratterizzano cambiano da persona a persona. Non è una malattia facile da diagnosticare dato che può manifestarsi in vari modi e in diversi periodi. Non è affatto facile interagire con persone autistiche perché sono immerse in un mondo tutto loro, che spesso esternano ed esprimono sia in modo verbale che non verbale, attraverso disegni.
Le persone affette da autismo sono molto sensibili, intuitive e riescono a sentire e capire l’altro anche solo dai loro gesti. Interagire con loro non è semplice, ma una volta trovato il canale giusto si instaura un rapporto molto speciale, basato sulla quotidianità, condividendo stesse abitudini senza però stravolgere il loro equilibrio. In questo senso la quotidianità di Raymond è basata sempre sugli stessi ritmi e sulle sue abitudini.

Fondamentale è saper accettare la persona affetta da questa patologia e aiutarla a farle conoscere e scoprire cose nuove, in modo molto semplice, con allegria e pazienza.
Il disturbo noto come autismo fu identificato dallo psichiatra Leo Kanner nel 1943 descrivendo i casi di una decina di bambini che secondo lui presentavano caratteristiche comuni. Kanner è stato il primo a parlare di una sindrome specifica prendendo in prestito il termine “autismo” da un altro psichiatra, Eugene Bleuler, che l’aveva utilizzato per descrivere il ripiegamento su se stessi degli adulti affetti da schizofrenia. I sintomi dell’autismo compaiono di solito prima dei tre anni di età e riguardano inizialmente difficoltà di linguaggio e di comunicazione, nonché un’apparente difficoltà di contatto emotivo, sia con i genitori che con i coetanei, ma bisogna sempre tenere in considerazione le diverse sfumature che rendono questa malattia di non facile diagnosi. Per quanto riguarda le cause del disturbo regna ancora molta incertezza; tuttavia si ritiene che ci sia una componente genetica, e i dati più recenti ci informano della possibilità di un danno organico che si verifica nelle fasi di sviluppo del sistema nervoso. Uno studio recente ha osservato alcune anomalie nel cervello di alcuni bambini affetti da autismo, che farebbero presumere sempre di più verso l’idea che si verifichino dei problemi durante lo sviluppo fetale. E’ bene ricordare che una diagnosi precoce costituisca una migliore possibilità di successo.

 

In allegato un articolo per sensibilizzare i nostri lettori, del portale di informazione e ricerca Emergenzaautismo.org:

Autismo – Emergenzautismo.org – L’autismo è curabile – Autismo sintomi e primi segni

 

Omicidio Varani, quando si sceglie il male

Roma è scossa per l’omicidio Varani. Brutali e vacui, gli usurpatori, assassini di un ragazzo fragile, di nome Luca Varani. La parola assassini non basta, ed è difficile trovarne un’altra che renda l’idea di quanto sangue, quanto dolore trasuda e si cosparge sugli osservatori immobili di un becero teatro degli orrori. Quello architettato anche con cura da giovani che, in una notte da sbadigli troppo grossi per ricchi, hanno deciso che si può uccidere tanto perché la coca ce l’ha detto, o chissà quale voce ci dice che si può fare. Luca Varani, 23 anni, già non c’è più. Restano solo poche fotografie, qualche video, e il messaggio perlato di lacrime della fidanzata distrutta dal dolore. Il ragazzo è stato ucciso dai coetanei Marco Prato, l’amico infame, e il conoscente trascinatore: Manuel Foffo. L’omicidio, di impronunciabile crudeltà, è innanzitutto senza movente. E resta un esempio di abominio di cui, inarrestabile, è capace la natura dell’individuo, sollecitato a stare in bilico tra umano e inumano. Se si volge lo sguardo al passato, si potrà constatare che casi come questi, di omicidi sanguinosi, vili in cui si impone la regola del dominio del killer sul più debole, di grado inferiore per età, genere, condizioni economiche o gusti sessuali, sono frequenti, anche se in numero ridotto. Diverso paese, situazione analoga.

Omicidio Varani: uccidere per vedere cosa si prova

Nel 2009 Alyssa Bustamante, 15 anni, strangola Elisabeth Olten una ragazzina più giovane (9 anni) per poi dichiarare, a distanza di due anni dal tragico fatto, che all’epoca la piena consapevolezza nel commettere un gesto irreparabile nato con intenzionalità. L’unica motivazione che l’aveva spinta a strangolare la piccola vittima era il desiderio incontrollabile di mettere alla prova le proprie emozioni. In parola povere, per “vedere cosa si prova ad uccidere”, come fosse un giro sulle montagne russe. Perché non provare? Lo stesso afferma oggi Marco, uno dei due colpevoli dell’omicidio di Luca. Il giovane ignaro delle intenzioni dei compagni, sale dai due che lo aspettano, avidi, bramosi, con gli occhi grandi e vitrei, automi, tossicodipendenti. Venerano il nulla, l’infimo, l’accecata spinta di braccia deficienti. Cosa è rimasto nel petto di questi colpevoli? C’è ancora qualche residuo di sentimento? Non per gli altri, quello l’ha preso la droga, o la vanità del posso tutto a vent’anni. Dov’è andato a finire l’amor proprio? La pietà per un coetaneo non è uguale alla tenerezza per la propria stessa, preziosa esistenza? Si è persa anche quella, tra un festino e una caccia alla preda, non interessa se tra uomini, etero o gay, non ha importanza. Luca varani 23 anni, preso di mira, forse era debole e pieno di sbagli, il più fragile tra i suoi coetanei, una vita che pulsava. E’ stato attirato con inganno nella casa di Foffo, poi torturato, seviziato con martellate e colpito al cuore con un coltello da cucina. Stando alle ultime indiscrezioni e dichiarazioni, Luca non assumeva stupefacenti. Non importa, che fosse etero o meno, che si prostituisse per racimolare due soldi in più, che avesse scelto una strada sbagliata, ma la dignità, chi potrà restituirgliela? Quanto male c’era nelle mani assuefatte dei due assassini? Si può essere incapaci di intendere e volere, intendere che un male atroce come questo non conosce neppure un pizzico di innocenza, né sgravi o giustificazioni? Bisogna sempre passare il limite, per riconoscerlo? Se non si rinviene una ragione, una logica all’omicidio alla trasgressione della vita contro la vita, si può parlare di Male puro, scelto deliberatamente, dato che i due assassini cercavano da giorni un bersaglio umano da seviziare sotto l’effetto disinibitorio della cocaina e dell’alcol, che non possono e non devono costituire delle attenuanti. Purtroppo anche l’opinione pubblica tende ad usare la pschiatria come un tappabuchi, dimenticandosi che esiste la malvagità e che il mondo non si divide in buoni, timorati di Dio e in folli, incapaci di intendere e di volere. Ma dove nasce questo male?

Omicidio Varani, esiste davvero il gene del male?

La scienza, anche se non all’unanimità, dice che sì, il male è presente nei geni. O meglio, si parlerebbe dell’esistenza di un cromosoma del male che provoca reazioni o azioni esasperate, violente, ingestibili? Questo dato allarmante è figlio di un’indagine condotta sui soggetti responsabili d numerose e reiterate azioni criminali a danno di cose o persone. Molti autori di delitti di straordinaria violenta detengono il cromosoma soprannumerario (tra i più celebri ci sarebbe Adolf Hitler) ovvero il risultato cromosomico di XYY. Questi soggetti sono di solito di un’intelligenza limitata, al di sotto della media, fisicamente longilinei ma robusti e con una marcata tendenza a compiere atti aggressivi quando non mortali. Spesso però questo dato non è stato confortante, nel senso che ha spinto ad avvalorare la non imputabilità dei soggetti in questione, non condannati a pene severe perché affetti da psicosi e disturbi mentali. Per fare un esempio, essi avendo una bassa soglia di resistenza a stress o situazioni di dolore o malattia, manifesteranno l’insofferenza scagliandosi su oggetti e cose intorno a loro, ma non sulle persone. Per questo motivo non si può parlare con certezza del legame ereditario con le azioni di un criminale seriale o recidivo, ma non si può escludere questa equivalenza tra genetica e comportamento. Nel 1931 si analizzava già il cervello del Vampiro di Dusseldorf, i risultati poi non resi noti. Invece nel New Messico Kent Kiehl, neuroscienziato, ha effettuato analisi dei cervelli di quei detenuti ritenuti psicopatici in ben otto prigioni. La ricerca condotta da Kiehl avrebbe dimostrato che i killer più violenti hanno un grado piuttosto basso di densità nel paralimbico, ovvero la “zona” che regola e sviluppa le nostre emozioni. In tali soggetti quindi non ci sarebbe un vuoto, una mancanza di sensi di colpa o emozionalità negative legate ad una correlata precedente azione criminale. Sarebbero in parole povere, privi di senso di colpa o remore, e agirebbero guidati solo dal loro istinto. Gli studi del neuroscienziato sono stati criticati da chi sostiene invece che non esiste una comune causa cerebrale che motiverebbe comportamenti di assassini o aggressori. Ma anche se fosse, si può giustificare uno psicopatico e “perdonare” una becera esecuzione, lenta e dolorosa, come quella toccata a Luca Varani? No, non è mai possibile arrivare a tanto, chiamandola follia. Può darsi che ci sia una deficienza di morale, mentale e spirituale che sfugge alla comprensione dei più. La mancanza dei due ragazzi, è probabile che stia in una condotta assunta come valida e unica, materialistica e asociale che schiavizza. Questa fustiga  l’uomo e lo riduce a servo della sostanza, dell’oggetto dei desideri – si può morire per la coca, ma non si muore per un amico, al contrario – che diventa così, il padrone di ogni arbitrio, responsabile di ogni mancanza di ideale, obiettivo, scopo che non sia quello dello sballo.

Si può arrivare a tanto? Spingersi fino al punto di dimenticare che la vita non è una privilegio, ma la possibilità di partecipare ad un capolavoro esclusivo, con un potere dell’uomo di essere altrettanto determinante per l’umanità? Il poter di costruire si è mestamente capovolto nel suo male estremo: se ho un potere di fare del bene, perché non si può agire in modo che il male sia opera mia, e godere di questo?  Le parole non servono, e sono troppo poche per esprimere lo choc dei media e dei lettori dinnanzi ad una nuova forma di violata innocenza, di mancanza assoluta e indiscriminata di raziocinio, oltre che di moralità. Cosa  può spingere un ventenne, sì sotto effetto di stupefacenti, a togliere brutalmente la vita ad un coetaneo? Per cercare una risposta ci richiamiamo a tre occhi: filosofia, teologia e letteratura. Albert Camus parla dell’omicidio nei suoi scritti saggistici: in particolare dell’omicidio nichilista. Il nichilismo assoluto infatti, come di deduce dall’etimologia del primo termine, legittima che un uomo tolga la vita ad un altro uomo perché in esso si va a confondere l’azione creatrice con quella delle creature viventi. Per farla breve, il pensiero nichilista non profonde nessuna speranza nel prossimo, e perciò se non esiste speranza viene a mancare ogni limite da essa. L’umano è accecato, o non vede o scorge troppo, straborda la propria percepibile indignazione, non riesce a cogliere al contrario la ragione. Ne consegue, perciò, che uccidere un altro simile, il quale dalla nascita è di per sé creatura mortale, destinata a morire,  sia un fatto inconsistente, indifferente. La mancanza totale di coinvolgimento all’atto di togliere, tagliare in due, spezzare la vita di un altro essere umano e attribuire al proprio io quell’iniziativa di dare la morte, chiarisce come l’uomo contemporaneo sia cambiato. Gli antichi, difatti, riconoscevano almeno che “il sangue dell’omicidio provocava almeno un orrore sacro: santificava così il prezzo della vita”, (Rivolta e Omicidio, Opere, Albert Camus). Se un uomo, valoroso o meno, si arrischiava a uccidere un altro, quell’azione assumeva un valore riferito alla causa, al motivo scatenante, che fosse un amore, un torto subito o una vendetta, non importa. Ma l’omicidio aveva un germe, e per questo sacrilego. Sempre in Camus, si riflette sull’idea dell’omicidio in Sade: secondo questi poiché Dio è una divinità criminale che sopprime l’uomo , questo è riscontrabile proprio nelle religioni, foriere di spargimenti di sangue e persecuzioni. Allora, in un scontato sillogismo, se Dio uccide l’uomo e può farlo, perché non può l’uomo uccidere se stesso e i suoi simili? Questi spunti sono fondamentali per avviare una riflessione, ardua ma doverosa, sul caso di Luca. L’assassino contemporaneo, che sgozza, strangola, infierisce sulla vittima e stupra, flagella, dispensa prodigali colpi sul corpo inerme e non si fa schifo di se stessa, la mano di questo assassino rinvia al Satana di Vigny (bello a guardarsi), a quelle parole caustiche, precise, come lame: lì scompare la distinzione tra bene e male, non la si riconosce proprio: “non può sentire male né beneficio. E’ persino senza gioia davanti alle sventure che ha create”. Chiamarla sventura sarebbe un generoso eufemismo, ma è chiaro che nell’azione dei due colpevoli c’è il male, che non è oscuro, si faccia attenzione ma ha una luce che acceca, luciferina forse, si capisce. Dietro al fatto che l’avvocato sottolinea che i due “erano incapaci di intendere e di volere” sta la nuova mercanzia della cattiveria.

Una vita, per centoventi euro. Ma qui il prezzo dello scambio è molto più alto: una morte (quella di Luca, fisica) per una morte ( quella dei colpevoli, interiore). Chi agisce per vacuità, perché l’orrendo, l’infimo, il male non ha strade dritte ma provoca piacere, fa sentire vivi uccidere , recidere quel filo, avvampa il petto si gonfia ma la droga non può essere l’unica scusante. Anche nel Medioevo, nell’iconografia, all’immagine di Lucifero bestia cornuta si sovrappone in definitiva quella di Vigny, il diavolo con il viso giovane ma triste e colmo di avvenenza, cita Camus sempre nell’Uomo in rivolta.  Si potrebbe ipotizzare che il dandy si stia riproducendo nella nuova generazione: autoreferenziale quando non atona, meschina ed egotista, accerchiata dal materialismo, non vede più l’essenza, così tra bene e male non sa perché dovrebbe scegliere il primo. Manca perciò la coscienza di cosa fare e cosa non fare, tutto è relativo, nulla inviolabile. Anche la vita è la libertà di una vita al respiro è discutibile, attaccabile e la si può incrinare.  Gli assassini di Luca sono come dei dandy, ma senza fascino. Il dandy si specchia nell’altro, e nell’altro trasferisce la sua euforia disforia. Così, uccidere e seviziare un coetaneo, potrebbe voler dire che non si ha a cuore nemmeno il proprio io, l’integrità, la volontà di opporsi all’oscuro. A vent’anni si può essere belli, forti e tutta la vita davanti. Per questo ha un senso atroce ma potentissimo: sciuparla, stritolarla e affondare con quella dell’altro, la propria; come scriveva Baudelaire: “ Vivere e morire davanti ad uno specchio”. Ma come mai un giovane vuol uccidere e vuol morire, assieme all’altro? Istigarsi alla morte, vivendo per ultimi lo stesso dramma. Ed è quello che poi è successo ad uno dei due colpevoli, che ha tentato il suicidio con i barbiturici, tratto in salvo per il rotto della cuffia. Perché oggi quel esasperato senso di possesso non fa che dare a chi è nel pieno della sua forza psicofisica una gamma di opzioni quasi infinita. La gabbia è sparita, il pettirosso non si sente imprigionato e né vola.

Il male, come il bene, è insito nella natura umana, qualcuno probabilmente darà la colpa ad Adamo ed Eva, al peccato originale; ma troppa libertà ci ha resi meno liberi, poco autodeterminati e di certo maliziosi. Se se puoi pretendere dall’esterno qualsiasi cosa tu voglia. Voglio bere-bevo, voglio farmi-mi faccio, voglio infrangere le regole della decenza, del buon senso, lo farò solo per il gusto di averlo fatto. Aboliti i tabù, inabissate la rara compiutezza della classica trasgressione da fuga d’amore, nulla eccita una mente isolata e asservita ai beni (che bene non procurano) senza i quali la sua individualità non trova posto, o senso nelle sue azioni. che non sa riconoscersi più, non sa cos’è la virtù. Nulla eccita più del fuoco fatuo della malizia. E’un falò che distrugge, senza fertilità la terra dove abiteranno le nuove generazioni è arida. Solitudine e vuoto, questa è la più profonda condanna di due colpevoli privi di rimorso. L’anima non l’avranno indietro, e forse è meglio così La letteratura, anche quando insignita del suggello filosofico, non può darci una certezza. E Raymond Carver direbbe: “dannato”, senza altri appellativi. E adesso, davanti agli inquirenti, i colpevoli si rimpiccioliscono pure davanti al mea culpa, gettandosi fango a vicenda, appallottolandoselo addosso, bevilo tutto sto fango. Chi dice che è stato l’altro a colpire mortalmente Luca e in questa corsa al io sono innocente, non resta che l’oscuro presagio di morte. La coppia prima ha premeditato il fattaccio, poi lo ha organizzato e infine si sta pulendo le mani nella latrina. Puzza di oscuro, e fa male dirsi umani se si può arrivare a produrre tanta melma immonda. Ma loro a cosa pensano: a coprire l’inganno, con l’inganno. E non c’è peggio del male coperto.

Teoria gender: tra propaganda e poteri forti

Che cos’è la teoria gender? Esiste davvero o è, come alcuni anticattolici pensano, un’allucinazione della Chiesa per combattere un nemico che non c’è? La teoria del genere esiste eccome e sostiene la convinzione, priva di scientificità, che ogni uomo è libero di scegliere cosa può diventare nel mondo. Più nello specifico, la sua libertà è legata alla distinzione tra cosa siamo alla nascita e cosa diventiamo poi, e si batte contro un processo tassonomico di educazione alla differenza in atto da secoli.

Alle origini della teoria gender

La teoria gender è nata negli anni Cinquanta e da pensiero filosofico attualmente è passata ad essere proposta politica, i cui fondatori sono individuabili in Alfred Kinsey, autore della Relazione sul comportamento sessuale degli americani, e il sessuologo John Money, discepolo di Kinsey, entrambi accaniti sostenitori della pedofilia. Il dottor Money elaborò una teoria secondo cui il sesso biologico di nascita non conta, ma ogni bambino può essere cresciuto indifferentemente come maschio o femmina, ma i suoi studi vennero smentiti dal tragico caso di Bruce, bambino da lui fatto crescere come una bambina, che si tolse la vita. Negli anni del 1960 la femminista Judith Butler teorizzò il sesso fluido o queer: l’uomo può essere davvero libero se ha la capacità di autodeterminarsi, di riservarsi una continua ridefinizione dell’identità sessuale. Altre tappe fondamentali per la teoria gender sono quelle dei Gay and Lesbian Studies, sino ad arrivare ai 58 generi diversi o ai 23 generi ufficialmente riconosciuti dall’Australian human rights commission. Esistono poi centri come il Nordic Gender Institute, per sostenere l’ideologia di genere, acutamente criticato dal documentario girato dal comico norvegese Harald Meldal Eia. La teoria gender dunque non è affatto frutto di un’allucinazione della Chiesa come purtroppo pensano i cattofobi.

Il genere è una sovrastruttura culturale?

La teoria gender sostiene perciò che ogni individuo è libero dalle convenzioni, per cui qualcuno potrebbe dirgli sei uomo mentre lui si sentirà sempre e solo una donna al di là dei suoi connotati. Ma perché si parla proprio ora di questa teoria e cosa ne verrà fuori? Nel passato l’impostazione patriarcale della famiglia e delle società ha fatto sì che ogni uomo rispettasse anche con vigore la sua collocazione, il posto a lui “assegnato”. Così si potevano distinguere bene uomini e donne, e in un angolino in disparte e negletti stavano gli omosessuali, i transessuali. Oggi questa teoria è arrivata a sostenere che non si può decidere cosa sia un uomo prima della sua nascita, o comunque, l’essere uomini è una scelta, una sovrastruttura culturale, come l’esser donna. Questo perché non sussiste una categorizzazione che vincoli gli individui ad identificarsi in un’ imposizione. Il fattore biologico che ha condannato la donna per secoli ad essere sottomessa è stato sconfitto, ma non del tutto ancora. Tuttavia oggi con assoluta fermezza possiamo dire che tra uomo e donna non c’è alcuna discrepanza, né rapporto di sussistenza o subordinazione. La donna è come e volte più dell’uomo. La donna è, l’uomo è. Punto. Per tale motivo la scelta del proprio genere alla domanda: chi sei? diviene un diritto naturale intoccabile. Alt. C’è la chiesa cattolica, la non fautrice della teoria che ovviamente la combatte, e l’Italia più di altri paesi e baluardo di una tradizione secolare che pone i diritti confessionali al disopra di ogni altra rivendicazione. In sintesi, da una parte sono schierati i cattolici convinti che la vita sia prima della vita; ovvero si nasce e dal quel momento l’uomo esiste già come essere pensante e vivente quindi non può decidere cosa sarà, ma è già al momento in cui la madre lo mette al mondo, presa di posizione che si rifà alla corrente filosofica dell’essenzialismo. Dall’altra parte invece si trovano i difensori dell’esistenzialismo: cioè ogni singolo nasce soltanto dopo la sua venuta al mondo. Ovviamente l’universo cattolico si è subito accanito contro i sostenitori della teoria gender e oggi esiste molta confusione anche nella comunità LGBT. Perché un conto è dire che ogni singolo ha il “diritto” di non sentirsi a proprio agio con il proprio sesso biologico, con la propria anatomia, che non coincide con la sua psicologia, un altro è farne un caso politico, propaganda a partire dalle scuole, cercando di indottrinare dei bambini (pochi anni fa in Germania due coniugi sono stati addirittura incarcerati per quaranta giorni perché la figlia, iscritta alle scuole elementari, si era rifiutata di partecipare ai corsi di educazione sessuale previsti dall’istituto, e sei bambini si sono sentiti male dopo che in classe erano state mostrate loro immagini esplicite a sfondo sessuale, nell’ambito di un progetto di educazione alla “diversità di genere”), esaltazione, cercando come al solito nemici nella Chiesa o nei cosiddetti moralisti e denigrando chi la pensa diversamente in nome della formula vuota “i tempi cambiano”. A ciò però si aggiunge un’analisi puramente “clinica” del transgenderismo e del transessualismo e vi sono pareri discordanti con il pensiero politicamente corretto che vuole questi fenomeni frutto di una scelta; alcuni psichiatri come il dottor McHugh hanno affermato che il transessualismo è un “disturbo mentale”, di “presupposizione” che merita trattamento e che il cambiamento di sesso è “biologicamente impossibile”. McHugh ha anche citato un nuovo studio in cui si mostra che il tasso di suicidi tra le persone transgender che si sono sottoposte ad intervento chirurgico di riassegnazione è 20 volte superiore al tasso di suicidi tra le persone non transgender, in paesi, come quelli del nord Europa, gay e transfriendly. Inoltre gli psichiatri che hanno osato mettere in discussione la “normalità” del transgenderismo sono stati messi alla gogna mediatica; della serie c’è posto solo per il pensiero unico.

Tra propaganda e poteri forti

Tuttavia le teoria sulla creazione dell’uomo senza identità suscita reazioni anche nel mondo laico o comunque conservatore, fedele ad una visione tradizionale dell’individuo, inteso come entità in cui caratteri biologici e identità di genere non sono divisi ma sono causa e conseguenza l’uno dell’altro. Alla base del confronto tra queste due differenti visioni dell’individuo vi sono due diverse concezioni dell’esistenza, due diverse filosofie. L’ideologia, in fondo, non è che una personale o collettiva interpretazione di una filosofia. Ma a chi giova questa propaganda? Cosa si nasconde dietro questa pericolosa teoria? Proviamo a fare i “conti in tasca” ad una delle più potenti ed influenti lobby del mondo: dalla Goldman Sachs a George Soros, da JPMorgan alla Rockefeller Foudation, questi i nomi di alcuni poteri finanziari ai quali certamente non dispiace la genderizzazione del mondo. Di recente, ha fatto ha fatto molto discutere negli USA l’atteggiamento tenuto da alcune grandi fondazioni bancarie come Goldman Sachs e JP Morgan che hanno pubblicamente festeggiato alla decisione della Corte Suprema USA favorevole alla legalizzazione dei matrimoni omosessuali. Il miliardario filantropo ebreo George Soros, a capo di “Human Right Watch” e “Amnesty International”, con altri  miliardari come Jeff Bezos di Amazon e Bill Gates, ha donato milioni di dollari ai comitati pro-matrimoni gay negli Stati Uniti, toccando anche molti deputati del Partito Repubblicano (il cui elettorato è per il  90% contrario ai matrimoni gay).

Bisogna però chiarire che molti omosessuali sono a loro volta contro la teoria gender, ritenendola portatrice di discriminazioni. Insomma l’ideologia di genere sembra essere un valido “strumento”,  che alcuni poteri forti sono pronti ad utilizzare per scopi che vanno oltre le rivendicazioni delle persone dello stesso sesso, ma che mirano, con buona pace di chi pensa che si tratti di ridicolo complottismo, a manipolare la natura stessa dell’uomo, allo scopo di generare un “uomo nuovo”, liberandolo della sua “vecchia” identità, rendendolo più debole, e di conseguenza una società sempre più nevrotica, narcisista, infantile, incapace di riconoscere ciò che è bene e ciò che è male, consumistica che scambia le proprie ossessioni, i propri desideri, le proprie confusioni per diritti. Non meraviglierebbe in questo senso se si arriveranno a considerare anche da noi la pedofilia e l’incesto orientamenti sessuali “normali”, da promuovere, in virtù dell’assenza di differenze, in virtù di un’egualitarismo becero il cui vessillo sventola su ogni individualismo meschino che ne rivendica il trionfo.

L’uomo del futuro sarà davvero un “modello unico”, manifesto del Capitale, del liberismo selvaggio e del relativismo radicale? Relativismo già sostenuto qui in Italia, da Antonio Gramsci nella sua Egemonia Culturale, le cui idee stanno alla base della teoria gender, modificate poi dalla Scuola di Francoforte. E questo sarebbe progressismo? Progressismo non vuol dire sviluppo, come sosteneva il non certamente ultracattolico Pierpaolo Pasolini. Ma poi, se i due sessi non hanno nulla di specifico da rivendicare ma sono intercambiabili, allora possiamo mandare a benedire anni e anni di contestazioni femministe per rivendicare un ruolo proprio per le donne.

La società liquida di Zygmunt Bauman

La nostra società è stata più volte definita come ‘società liquida’. Tale concetto è stato sviluppato dal sociologo Zygmunt Bauman e ben si inscrive nell’orizzonte epistemologico del Postmoderno, nomenclatura che indica la nostra epoca. Senza dubbio è un’espressione efficace anche se si è prestata ad applicazioni di ogni genere.

Infatti il concetto di società liquida condivide il medesimo destino del fratello ‘villaggio globale’, coniato da Marshall McLuhan. In entrambi i casi il passaparola generalizzato ha dato adito ad eccessive esemplificazioni che hanno depotenziato lo spessore del problema sollevato dai due sociologi. Secondo Bauman l’epiteto si riferisce alle forme di esperienza che caratterizzano la cultura consumista e che hanno comportato una trasformazione radicale delle relazioni sociali e delle pratiche di vita quotidiana. L’approccio eclettico adottato dai teorici postmodernisti costruisce la lente che consente di cogliere i tratti distintivi di questo nostro tempo, estremamente articolato. Bauman accetta la sfida senza rinunciare ad una dimensione etica.

La società liquida sembra legittimarsi attraverso l’ambivalenza delle esperienze e degli stili di vita, ben lontana da quell’uomo a una dimensione teorizzato da Marcuse. Tuttavia non si può negare che la pluralità apre il varco alla complessità. Il richiamo di Bauman all’etica è senza dubbio un elemento che riporta la questione su un livello tutt’altro che effimero e disimpegnato. L’espressione “La postmodernità è la modernità che ha riconosciuto la non realizzabilità del proprio progetto”, suona come un’abdicazione della quale si dovrebbe prendere atto.

Marx e la ‘fusione dei corpi solidi’

Alla base della sdoganata etichetta coniata da Bauman, c’è una metafora dalle ascendenze illustri. E’ già Marx ad utilizzare l’espressione ‘fusione dei corpi solidi’, per indicare il tentativo di minare alle fondamenta ogni tradizione, di dissolvere nell’aria le spoglie del passato. La società liquida è dunque conseguenza di una serie di concause passate che spalancano un orizzonte di incertezza e d’altro canto trovano nel consumo una strategia difensiva da parte dell’individuo, un effetto placebo altamente seduttivo che fa della merce non più il feticcio – sempre per citare Marx – ma la promessa di una felicità, un sogno ad occhi aperti alimentato dai mezzi di comunicazione sempre più pervasivi.

Già McLuhan ha descritto gli strumenti della comunicazione di massa come estensioni dei nostri sensi; siamo dunque parte di un sistema comunicativo immanente e il nuovo linguaggio è ciò che detta le coordinate della nostra esistenza. L’uomo estende se stesso diffondendo i propri sensi percettivi nei linguaggi, nei media e nelle nuove tecnologie, secondo un principio di fabulazione.

Secondo i teorici della postmodernità, la ‘società liquida‘ risulta più complessa proprio perché la moltiplicazioni di visioni del mondo risultano tutte legittime. La società postmoderna è quindi una società della comunicazione generalizzata e dominata da immagini plurime del mondo. Si evince quanto la comunicazione non sia più solo un fattore tecnico ma la categoria interpretativa adottata dalla società stessa: la trasparenza è il suo valore positivo.

Il Postmodernismo

Sul versante prettamente culturale, il Postmodernismo pratica il ritorno al pre-moderno e non dovrebbe stupire la rivalutazione degli aspetti più irrazionali del pensiero, come l’immaginazione, il desiderio e la propensione per la spettacolarizzazione del reale.

Infatti, la condizione postmoderna (titolo del saggio illustre di Jean François Lyotard) ha segnato nell’ambito della letteratura, e non solo, la fine delle ‘grandi narrazioni’, quelle capaci di ricostruire un’immagine unitaria del mondo. Il Postmoderno sfugge a qualsiasi definizione univoca ma anche i suoi effetti culturali sono maturati in momenti diversi, con esiti eterogenei. Per quanto riguarda l’Italia, si è datata la comparsa di una tendenza letteraria postmoderna tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Resta implicita l’idea che è finita un’epoca, quella della modernità appunto: fase storica caratterizzata dalla dinamicità, dal progresso e dalla trasformazione. La tendenza del Postmoderno ha naturalmente suscitato vivaci discussioni: c’è chi la ritiene frutto di una netta frattura rispetto alla modernità e che dà origine ad un’epoca nuova; chi la ritiene una fase interna al moderno e preferisce parlare di ‘tarda modernità’ o chi ritiene che ormai il Postmoderno si sia concluso dopo gli eventi dell’11 settembre.

La realtà postmoderna è caratterizzata dalla frantumazione, dalla complessità incoerente, un caos che però non è stato vissuto tragicamente dal soggetto (almeno ai suoi albori) bensì con un’accettazione ludica. Se appare impossibile la produzione del nuovo allora è lecita nel campo della letteratura, delle arti, del teatro e del cinema, la ripetizione del già noto. Salta dunque il tabù dell’originalità a tutti i costi per riprendere semplicemente gli stili del passato combinandoli e contaminandoli tra loro, mediante assemblaggi di citazioni. Basti pensare al cinema di Quentin Tarantino, ai romanzi di Andrea De Carlo, Pier Vittorio Tondelli o ancor prima di Italo Calvino e alle sperimentazioni dei primi anni ’80 nel campo della videoarte. Il romanzo postmoderno, quindi, non è più un ‘genere’, ma rappresenta la ripresa di tutti i generi già sperimentati.

In America il maestro della nuova corrente è Thomas Pynchon, che utilizza una straordinaria molteplicità di linguaggi derivati dal mondo dell’informazione, dello spettacolo e della tecnologia. A questi si aggiunge la coscienza che la comunicazione non serve a mettere in rapporto gli uomini, ma solo a distribuire merci. La lingua che serve a esprimere questi motivi, presenta una continua mescolanza di culture e voci diverse.

La cultura postmoderna inoltre, non si rivolge a un pubblico ristretto, ma cerca di raggiungere un vasto pubblico di lettori e audience utilizzando il linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa e riprendendo i generi ‘forti’ della tradizione, senza distinguere tra produzione ‘alta’ e letteratura di consumo.

Per questo, tratti caratteristici del postmodernismo sono il citazionismo, la frammentazione e l’ibridazione. I metodi narrativi riprendono le modalità espressive della televisione, degli audiovisivi e della pubblicità. L’imperativo è quello di decostruire, sovvertire, decontestualizzare e spaesare, il senso del sé è dunque mancante. I confini diventano fluidi, l’unità si converte in una pluralità di sfaccettature. Non ci sono noccioli duri né caratteri duraturi né aspetti in profondità, la sostanza cede il posto alla superficialità, il contenuto alla forma. La forma è tutto, è tutto lì, in superficie. In conseguenza di ciò non vi sono nemmeno interpretazioni, ma solo il gioco del linguaggio che dissemina il senso nello stesso modo in cui disperde l’io.

Resta un quesito: se l’uomo è mancanza ad essere, quali esperienze possono offrirci la possibilità di squarciare la breccia esistenziale delle nostre vite così tecnologicamente avanzate? La bellezza salverà il mondo o è solo questione di pixel?

“La bambina che non esisteva”: il dramma di nascere donna

La bambina che non esisteva è la fortunata traduzione di Samira e Samir, il secondo romanzo della polivalente ed acuta scrittrice Siba Shakib, una donna forte e fiera, che onora il nostro paese con la sua presenza. Siba Shakib si può considerare come rappresentante della famosa massima”uno su mille ce la fa“: è nata in un paese che risulta lontano e inaccogliente, difficile e dilaniato, arretrato e povero agli occhi europei. Siba Shakib è iraniana, e soprattutto, è una donna, e nascere donna in un paese come l’Iran è non è cosa semplice.

Ora, per chi vive nell’agio dell’era mediatica, il fatto di nascere, crescere e vivere sono fatti naturali quanto il sorgere del sole ogni mattina, sono dei diritti. Diritto, una parola di cui queste persone “normali” forse non captano il significato completo, non ne vivono la forza e la pienezza in prima persona: è qualcosa di dato e statico, da tenere in bocca nei discorsi importanti per reclamare qualcosa, o nascosto nelle penne che preparano i temi di maturità. Non è qualcosa di faticato e guadagnato. Ma, chi invece ha come dato il significato della parola Guerra, della parola Fame e Povertà, quelle persone, sebbene lontane e difficilmente riscontrabili nelle menti occidentali, quelle persone sono ancor più vere e conoscono una normalità ed una quotidianità ben diversa da quella descritta nei programmi televisivi di intrattenimento pomeridiani, il cui massimo interrogativo si focalizza sui dettagli, più o meno veri, della vita di persone forse mediocri, ma note ai più.

Siba Shakib viene definita, sul sito Pilosio – building peace (Associazione Non Profit di cui è ambasciatrice ndr), come “Iranian filmmaker, writer and political activist“, una regista, scrittrice e attivista politica. Siba Shakib è quello che in letteratura scolastica si definisce un personaggio a tutto tondo, una personalità completa, che ha avuto la grande opportunità di poter ricevere un’istruzione e sfruttarla al meglio, sperimentando tutti i linguaggi a lei conosciuti e raggiungibili, per raccontare, poi, una realtà diversa da quella che l’Europa vuole vedere e che non è permesso accantonare in un angolo della memoria.

La scrittrice iraniana, che ha raggiunto la notorietà in campo letterario, con il romanzo Afghanistan, Where God Only Comes to Weep tradotto in Italia come Afghanistan, dove Dio viene solo per piangere, con la sua seconda produzione scritta La bambina che non esisteva, parte dal delicato tema della forte divisione tra i sessi suggerita dalla religione Islamica per intrecciare con essa ed in essa il problema religioso, il dramma della guerra, la piaga dell’analfabetismo, il terrore della violenza e degli stupri, la tragedia della povertà e della fame.

Protagonista della narrazione, il simbolo estremo della debolezza e del bisogno, una bambina, Samira, che diviene la vittima sacrificale di una grande colpa, di una immane maledizione, del desiderio di soddisfare la tradizione, che piega un uomo ed una donna a celare l’identità della propria creatura, rendendola al contempo corpo abitato di impronunciabili insicurezze interiori ed ostentazione di forza ed onore nelle sue apparenze. Solo la pubertà, l’età del cambiamento, nella quale le perdite aumentano e le trasformazioni devono essere celate, la decisione deve essere presa e Samira dovrà capire se vuole, e se può, vincere la sua lotta contro Samir, scegliendo in questo modo quale vita vuole vivere, a quale categoria appartenere, nella forte distinzione che caratterizza il suo mondo, tanto diverso e lontano, da non sembrare reale.

La bambina che non esisteva è un libro che inevitabilmente subisce il paragone con Il cacciatore di aquiloni di  Khaled Hosseini: realistico ma che si fatica ad accettare come moderna descrizione dell’Afghanistan, complici forse le descrizioni sfumate e con pochi riferimenti geografici, o gli accenni quasi inesistenti al periodo storico in cui scorre la storia, o ancora lo stile fluido e scorrevole (inizialmente ridondante e ripetitivo), che avvolge la narrazione con un velo, chiedendo al lettore di aprire gli occhi e liberare questa realtà dall’incubo della finzione e lontananza in cui è stato celato.

‘Padre Padrone Padreterno’, il saggio sulle culture di Joyce Lussu

Padre Padrone Padreterno di Joyce Lussu si palesa come tentativo di avviare una riflessione critica sulla possibilità di «spiegare e comprendere, integrare e giustificare, senza conquistare e colonizzare, ma fiorendo in un destino babelico e non monoteista, non biblico, non universale, non imperialista, a favore del colloquio tra i mondi, stando insieme alla pari nelle differenze delle culture». Il dibattito odierno intorno alla “Cultura di Genere” rappresenta un tentativo per vivificare i mondi e per incentivare le intelligenze. Cogliere il “vissuto”, implica il non avvalersi esclusivamente delle discipline istituzionali, andare ben oltre le storie letterarie o gli studi critici. Oggi più che in passato, occorre vivificare il sapere per tradurre quei valori che rispettino le pluralità e che non si riducano al semplice confronto. A tal fine Padre Padrone Padreterno è uno strumento privilegiato e ancora attuale per il metodo in fieri che propone. Una prassi aperta ad ogni tipologia di dialogo, interdisciplinare, mossa da un interesse grande e plurimo, che superi l’approccio accademico, a favore della diversità. Il dibattito sui “Gender Studies” dimostra quanto sia necessario che la ricerca sia adeguata all’epoca in cui viviamo e che abbandoni ogni forma di pregiudizio etnico e sessuale.

Nonostante nomi illustri si siano occupati della questione di genere, ho preferito scegliere una voce dimenticata (o volutamente ignorata dagli imbonitori del sapere), e che al contrario io reputo una delle pensatrici più autorevoli e fuori dal coro. Joyce Lussu è ritenuta una donna di confine che ha adoperato un metodo d’azione. Infatti, il suo partire dal basso, le ha consentito di svolgere uno studio pioneristico sul “pensiero della differenza”. Quest’ultimo è pieno di risonanze ancora attuali, scevro da cerebralismo ma aperto all’incontro, tanto da risultare distante dal populismo arcaico. La pensatrice al concetto di genere, che sembra andarle stretto, predilige lo sconfinamento dei paradigmi. Vi si scorge una permanente tendenza a non farsi escludere perché donna, senza però l’aspirazione a mascolinizzarsi. L’agire come donna, il sentirsi sempre più donna è l’apprezzamento autentico e onesto della diversità e della complementarietà:

«Essere donna l’ho sempre considerato un fatto positivo, una sfida gioiosa e aggressiva. Qualcuno dice che le donne sono inferiori agli uomini, che non possono fare questo e quello? Vi faccio vedere io! Che cosa c’è da invidiare agli uomini? Tutto quello che fanno, lo posso fare anche io. E in più, so fare anche un figlio».

La tesi che la Lussu sviluppa nel suo scritto, è che in una società dove la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli individui a difendere il proprio posto di lavoro per disperata necessità, emerge sempre la diseguaglianza; al contrario, in un sistema capitalistico arretrato, l’economia si reggeva sui risparmi domestici, mansioni assistenziali gratuite e creava le strutture culturali adeguate a giustificare questo stato di cose, dalla morale piccolo borghese alla religione. All’interno di tale sistema, donne ma anche uomini sono schiacciati dalla Restaurazione Capitalistica, e a maggiore ragione è necessario legare una volta per tutte la teoria alla prassi, al di fuori delle tavole rotonde istituzionali (espressione di forme stantie e ipocrite di indottrinamento), per procedere fuori dal gioco e per acquisire un linguaggio inedito.

Quel che secondo la lungimiranza dell’autrice mancava allora, e aggiungo anche oggi, è la consapevolezza rigorosa dei fenomeni che condizionano l’esistenza attuale. Manca, dunque, una conoscenza delle cause e ci si affretta a trovare soluzioni per falsi teoremi e per mere fallacie logiche. Pertanto occorrerebbe, secondo l’autrice, operare una ricerca storica per una riflessione critica. In momenti come quello odierno si recuperano o si inventano miti per preservare il potere delle classi dominanti. Ed ecco “gli anatemi sessuofobici, fallocratici, misogini”. È proprio nell’ambito di quella che Pareto definisce “eterogeneità sociale”, che la donna resta un ottimo capro espiatorio. Infatti questa strategia è una componente costante del potere di una minoranza sfruttatrice, per deviare l’attenzione delle masse dai responsabili delle sue sciagure e indirizzarla su falsi scopi. Ad esempio, per trasformare i contadini della metropoli in proletariato industriale è bastato sradicare le tradizioni, la cultura autoctona, per fornire manodopera a buon mercato.

Per comprendere a pieno anche il presente occorre fare un bel passo indietro, là dove il sistema capitalistico affonda le proprie radici. In Italia la politica di massa della Chiesa si sviluppa dopo il Concilio di Trento. Il potere teocratico con l’affermarsi della scienza che indaga sulle leggi della materia e dell’energia, si trova di fronte un nemico più pericoloso delle eresie. L’eresia infatti, rimaneva sempre all’interno del sistema teocratico, accettava i principi della trascendenza e della rivelazione, e cercava tutt’al più di tirare dalla parte dei poveri un dio inventato per i ricchi. La scienza invece è antitetica ai principi stessi della teocrazia, ne corrode i fondamenti; tanto più che si sviluppa all’interno della classe dominante, dividendola in due tronconi antagonistici e rischiando di indebolire il potere. Ciò assicura una riserva di forze conservatrici negli strati sociali emergenti e tenuti a bada con la repressione per ottenere il consenso. L’azione persuasiva consente l’integrazione nella cultura del potere e si consolida recuperando antichi culti animistici che, potenziando forme più primitive di superstizione, hanno dato luogo alla Democrazia Cristiana. Privilegiare una minoranza del popolo oppresso, assicura il consenso per poter meglio opprimere la maggioranza. Si assicurano alcuni benefici per impedire qualsiasi mutamento essenziale del loro status. Tale processo si cristallizza mediante una sedimentazione interiorizzata di quei modi di agire, di pensare e di sentire che appaiono come naturali e ovvi e non come rappresentazioni sociali. Passiamo ora in rassegna il famigerato ’68. Dunque, secondo l’autrice esso è servito a sgombrare il terreno da sclerosi sovrastrutturali mantenendo ben salde quelle strutturali, le cui radici a mio avviso sono ancora oggi profonde e robuste. Il gap a cosa può essere attribuito? Ancora una volta è mancata una collocazione storica, la quale doveva fungere da bussola e da criterio di omogeneità.

Quel che però emerge dall’analisi dell’autrice è che il ’68 ha privilegiato le componenti sociologiche, psicologiche, esistenziali e culturali in senso tradizionale e umanistico. Come se i problemi dell’umanità non fossero quelli della sopravvivenza. È mancata la concretezza delle problematiche inerenti le coltivazioni di cereali, o una industrializzazione che non renda invisibile il pianeta, la creazione di energia o una regolamentazione delle acque, il rapporto industria-agricoltura, città-campagna, essere umano-ambiente, il superamento della frattura antidemocratica tra lavoro manuale e intellettuale. Il disappunto dell’autrice non risparmia neanche i due capisaldi istituzionali per eccellenza, ovvero: la politica e la famiglia. La Nuova Sinistra colpevole di aver visto nella lotta armata una forma di contestazione romantica, di aver dato origine ad una ideologia tutta borghese e frutto di una interpretazione sommaria della Rivoluzione Cinese. Quest’ultima intesa come una mitologia semplificata e agiografica con un eurocentrismo ereditato dai partiti tradizionali. La famiglia, invece, rea di un patriarcato fatiscente per mancanza di aspiranti patriarchi, ossia di uomini in grado di assumersi l’onere di mantenere una casalinga natural durante. Porre le questioni in termini statistici e di ragioneria serve soltanto a consolidare e ammodernare la società capitalistico-borghese, mentre la parità reale richiede un mutamento profondo e generale di tutti i rapporti all’interno della società. Ogni indagine necessita di un approccio storico.

Infatti, se si adoperasse una lente meno ideologica, ci si accorgerebbe che la questione sessuale nella civiltà occidentale assume ancora oggi aspetti ossessivi. Secondo la Lussu, la sessuofobia e la misoginia del Cristianesimo ( che in realtà appartiene alla Chiesa) hanno fatto di questa naturale attività umana, una fonte perenne di terribili drammi e nevrosi distruttive, che non si risolvono certo con la psicoanalisi o le tavole rotonde di qualsiasi natura e luogo, anche se infiocchettate con i migliori propositi che danno vita ad una vuota e inefficace retorica. Freud e Reich sono sessuofobi e misogini quanto i Padri della Chiesa. Ernest Bornemann è l’unico che abbia fatto un’indagine approfondita sul patriarcato, non è certo uno psicanalista ma uno storico. Se si considerano i miti della verginità o i miti della monogamia della donna, emerge che l’uomo esprime la propria sessualità sempre in ogni epoca, in modo egoistico, autoritario, accumulando le frustrazioni. Anche l’uso della sessualità è un fatto politico, risultato del Contratto Civile e Culturale della società. Le determinazioni sono ricavabili dalle strutture e dalle sovrastrutture della nostra vita. Pertanto liberarsi dalle abitudini mentali indotte dal Cristianesimo, vuol dire anche liberarsi dalle strutture economiche e produttive che il terrorismo psichico ha puntellato non meno di quello giuridico-poliziesco.

Le nevrosi sono aggravate da:

Insicurezza economica;

Instabilità sociale;

Degradazione dell’ambiente;

Sono vere intossicazioni consumistiche, ragion per cui occorre conoscere non solo gli effetti che ci hanno imposto e che dobbiamo eliminare dalla nostra coscienza ma occorre conoscere soprattutto:

Le Cause ;

Le Responsabilità;

I Condizionamenti;

La visione pessimistica della sessualità, tipica della psicoanalisi, è di chiara derivazione cristiana e fa comodo solo alla classe dominante. Presentati come fenomeni “naturali” e non storici, persuadono uomini e donne alla rassegnazione, all’adattamento e a squilibri che mutilano la propria autonomia generale e deprimono la gioia di vivere, generando sfiducia. L’Autonomia dalle interiorizzazioni, in modo non astratto, è possibile mediante una consapevole appropriazione storica. Non possiamo astenerci dal pensare alla metodologia weberiana. E cosa dire della famiglia, oggi nuovamente di moda e soluzione a tutti i mali? L’aggregato familiare non esiste più come nucleo stabile, è stato disintegrato dall’industrializzazione, dalla mercificazione consumistica, dai mass-media che bombardano con le più infinite contraddizioni e disinformazione permanente. Oscena simulazione nell’ordine delle strategie fatali di baudrillardiana memoria. Il risultato di tale strategia è:

Difficile coesione su progetti razionali;

Guazzabuglio;

Sedimentazione di antiche consuetudini mentali e psicologiche.

Alla classica divisione tra lavoratori manuali e padroni, si aggiunge una divisione tra integrati e non integrati ai livelli più vari. Nella società altamente industrializzata dalla impresa capitalistica, è sempre più vasta la schiera degli emarginati. Dal disoccupato con laurea al disoccupato manovale, passando per milioni di donne che si aggirano tra gli elettrodomestici e bambini nella solitudine di appartamenti unifamiliari. La figura del Padrone e del Patriarca si è dilatata in enormi, anonimi e misteriosi centri di potere che dominano la produzione e la distribuzione dei beni con decisioni occulte. Figura che si cela dietro sigle inafferrabili delle multinazionali, dell’alta finanza, e che dietro il paravento del “segretissimo” militare, organizzano le industrie per la guerra atomica, chimica e batteriologica. Il capitalismo per tenere in piedi i suoi fondamenti ricorre all’autoritarismo violento o paternalistico, al colonialismo, alla guerra e al fascismo. L’industria capitalistica non è pensabile senza il settore bellico, il colonialismo e la distruzione del territorio. Tuttora in atto nella matrice costante ma in una veste che non è certo quella tradizionale e alle quali si è soliti pensare. Occorre non confondere la forma con la sostanza, i fini con le cause, i mezzi con gli effetti. Lo stesso dicasi per il femminismo borghese, che è un aspetto del riformismo, usato dal capitalismo avanzato per integrare la donna nei suoi meccanismi. Mantenendo salda la distinzione e la differenza tra “femminismo” e “la questione femminile” è quanto mai vitale che il dialogo, le piattaforme e i modi debbano avere luogo in un altrove autonomo, sottratto al formalismo e al linguaggio istituzionale, se si desidera investire concretamente in una svolta che non sia apparenza, tautologia o becero sofismo.

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