‘Purgatorio’, l’esistenza deragliata di Ilaria Palomba

Il canto XV del Purgatorio di Dante è un’eccezione. Si tratta di un canto di passaggio, dove la consueta narrazione si ferma per far posto a una parentesi meditativa. Il primo elemento incontrato è la luce, messa in rilievo, come spesso avviene nell’opera, da una precisazione astronomica. La luce attraversa l’intero canto, tiene assieme gli altri temi solo all’apparenza irrelati; e in questo frangente è sia quella del sole sia quella dell’angelo che indica l’uscita dal girone. Il lettore si confronterà con tre vicende: quella di Maria, che anziché rimproverare il figlio smarritosi nel tempio si rivolge dolcemente a lui mettendo a nudo il suo patimento; quella di Pisistrato che, malgrado l’avversione della moglie, perdona il ragazzo reo di aver baciato sua figlia; la sequenza culmina infine con Stefano – il martire che, lapidato, perdonerà i suoi carnefici.[1]

Anche la vita di Ilaria Palomba raccontata in Purgatorio è un passaggio: dalla morte alla vita. Dal buio alla luce. Ma non si tratta di una vera e propria resurrezione. Di sicuro non è stato un percorso facile. Iniziato con lunghi mesi di degenza ospedaliera durante i quali a farla da padrone è stato il dolore, provato fin dal primo risveglio in ospedale, nel «ventre del Leviatano», uno «spazio liscio tra terra e cielo, un Purgatorio».

La vicenda narrata da Alighieri dello smarrimento di Gesù ragazzo a Gerusalemme e della reazione dolce di Maria, propria della poetica e del linguaggio del Purgatorio dantesco, ricorda molto la relazione che Ilaria ha con sua madre, l’atteggiamento di quest’ultima la quale, in netta contrapposizione al comportamento del marito, è molto accondiscendente con la figlia, nonostante la sua riottosità e scontrosità. Anche se è con il padre che Ilaria ha lo scontro maggiore perché questi proprio non riesce a comprendere le ragioni delle sue azioni.

Nella società contemporanea stiamo assistendo, tra l’altro, a un ritorno in grande stile di un atteggiamento di stampo neo-romantico, caratterizzato principalmente da una sempre più diffusa rivalutazione degli aspetti affettivo-emotivi come valore fondamentale per l’essere umano.[2]

L’individuo delle “tribù” contemporanee è un enfant eternel, un bambino completamente assorbito in un suo universo affettivo-emotivo. Usciti definitivamente dalla cultura “eroica” giudaico-cristiana che ha caratterizzato la modernità, basata sulla concezione di un individuo attivo e padrone di sé e dell’ambiente circostante, si sarebbe entrati nell’universo del “vitalismo” delle tribù postmoderne, fondato non più sulla pianificazione e sulla realizzazione di determinati progetti ma prevalentemente orientato a lasciar godere del piacere di stare insieme, di condividere l’intensità del momento, di prendere il mondo per quello che è.[3]

Quello che stiamo vivendo oggi sembra dunque un processo di slittamento da un individuo dotato di un’identità stabile che esercita le sue funzioni sulla base di rapporti contrattuali ben definiti, a una persona fornita di molteplici possibili identificazioni, in grado di ricoprire indifferentemente svariati ruoli all’interno di “tribù affettivo-emotive”.[4]

Sulle spalle dell’individuo occidentale incombeva, circa un secolo fa, una patologia psichica definita clinicamente nevrosi. Oggi incombe la depressione. Se la nevrosi va considerata un “dramma della colpa”, la depressione è una “tragedia dell’insufficienza”. La conquista della definitiva emancipazione dell’individuo finalmente sovrano, il diritto di scegliere, il dovere di diventare se stessi, senza poter fare appello ad alcun ordine esterno, avrebbe imposto un pesante tributo, rappresentato appunto in una forma alternativa di dipendenza: la dipendenza da se stessi.[5]

Le peculiarità socio-psicologiche che caratterizzano l’attuale fase del processo di individualizzazione, sarebbero legate fondamentalmente alla paralisi dettata da una sorta di terrore: quello che l’uomo contemporaneo ha di scoprire in se stesso i motivi della sua dipendenza, la sua fragilità, la sua inevitabile mortalità, in breve tutto ciò che gli ricorda la sgradevole verità dei suoi limiti. Egli soffre della “malattia di non saper soffrire”.[6]

Per Ilaria il reincanto è l’amore, lo cerca senza neanche rendersi conto di farlo, lo rifiuta con la stessa intensità, inconsciamente, perché le forze lesioniste e distruttive hanno sempre o quasi la meglio. Anche l’amore per lei è dolore. Un dolore che spesso si trasforma in rabbia o in ossessione.

«Essere ossessionati è vivere il pensiero come un doppio mostruoso, farselo scivolare dentro senza nessuna forma di erotismo. È uno stupro. Io non volevo sognare, ogni volta sognavo qualcuno che mi assediava, erano le persone che avrei ucciso se non avessi deciso di uccidere me. Il suicidio è un omicidio mancato».

In tutto il mondo, quasi 800.000 persone si suicidano ogni anno. Le evidenze suggeriscono che per ogni persona che muore suicida, vi sono molte più persone che tentano il suicidio. Circa l’85-95% delle morti per suicidio si verificano in persone con una malattia mentale diagnosticabile al momento del decesso. Il disturbo più comune che contribuisce al comportamento suicidario è la depressione. Le esperienze infantili traumatiche, tra cui soprattutto l’abuso fisico e sessuale, aumentano il rischio di tentato suicidio. L’isolamento, quasi tutte le malattie mentali e alcune malattie croniche pongono i soggetti a rischio di suicidio.[7]

Ilaria non ha malattie mentali eppure, secondo lo psichiatra che la segue, una volta fuori dall’unità spinale potrebbe essere a rischio suicidio. Ancora. Per lei «vivere è un Purgatorio senza uscita, neanche la morte è vera, non si può fuggire da nessuna parte. Ogni porta è sbarrata. Vivere è un obbligo cui non posso sottrarmi, devo solo scegliere se farlo da cadavere o da persona».

Si è tentati di pensare che un incidente possa restituire senso a una vita dilaniata, come quella di Ilaria che non voleva vivere ma neanche morire: sospesa nel mezzo di tutti i mondi, sospesa tra le dimensioni. Sospesa in quel pensiero dissociato che diventa realtà, verità. Ella considera il deragliamento una feritoia attraverso cui il reale si mostra. E invece l’incidente può rappresentare solo la luce che illumina il buio, il nascosto, l’incompreso.

Una scelta difficile da comprendere quella di Pisistrato nel già citato canto del Purgatorio. Dante lo scelse come esempio di mitezza d’animo, riprendendo un episodio raccontato da Valerio Massimo: un giovane, innamorato della figlia del tiranno, l’abbraccia e la bacia in pubblico suscitando l’ira della madre della ragazza che chiede vendetta per l’offesa subita. Ma Pisistrato risponde con atteggiamento pacato e contenuto, dimostrando grande temperanza e dominio di sé.

L’episodio rimanda a quanto narrato nel libro da Palomba anche se nel lettore rimane il dubbio se riferirlo al comportamento di Ilaria, la quale non riesce a contenere se stessa oppure a suo padre il quale sembra non vedere e non capire le reali e profonde ragioni alla base degli atteggiamenti di sua figlia. Oppure ancora nell’atteggiamento remissivo di sua madre, laddove diventa ella stessa una contemporanea Pisistrato e, nonostante gli incitamenti del marito, non riesce a dare addosso alla figlia perché in fin dei conti sembra proprio questo ciò che Ilaria vuole. Prendersi la colpa. Di tutto. Farsi del male. Sentirsi vicina al suo faro oscuro: «Sono una suicida, la diagnosi più consona è suicida, perché è sin dalla nascita che faccio l’amore con la morte». E che la ricerca. Nello scontro con i genitori come nelle storie d’amore: «Gli uomini che ho amato erano tutte le manifestazioni della morte».

Esattamente come il canto XV del Purgatorio dantesco, anche il libro di Ilaria Palomba è un’eccezione. Una narrazione di passaggio che racconta il percorso di un’esistenza deragliata la cui protagonista comunica con il e al lettore la sua esigenza meditativa e riflessiva senza uno scopo prefissato se non quello di capire e dare risposta ai tanti interrogativi che attanagliano la mente e il corpo di Ilaria. È questa la luce che ella rincorre per l’intero libro.

 

Il libro

 

Ilaria Palomba, Purgatorio, Alter Ego Edizioni, Viterbo, 2025

[1]M. Renzi, Dal tenue allo straziante: Purgatorio XV, L’Indiscreto, 11 marzo 2021.

[2]G. Pecchinenda, Il coinvolgimento tecnologico: il Sé incerto e i nuovi media, in Quaderni di Sociologia, 44/2007 – la società contemporanea / Giovani e nuovi media.

[3]M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano, 2004.

[4]G. Pecchinenda, op.cit.

[5]A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 2010.

[6]H.E. Richter, Il complesso di Dio, Ipermedium Libri, S.Maria C.V (CE), 2001.

[7]C. Moutier, Comportamento suicidario, in Manuale MSD.

‘Come la neve nessun rumore’, il thriller ad alta quota di Marco Lugli

Trecentosessantacinque pagine intrise di sentimenti con un’unica costante, la vita. E’: ‘Come la neve nessun rumore’, un’indagine ad alta quota per il commissario Gelsomino, il nuovo libro di Marco Lugli.

Reduce dai precedenti successi, tornano le indagini del commissario Gelsomino, alla sua sesta avventura. Il romanzo, scritto da Marco Lugli, è preceduto infatti da diversi episodi: Nel Tuo Sangue, Ego Me Absolvo, La Madre (romanzo finalista Amazon Storyteller), Le Sepolture, È solo il mio nome.

Il romanzo, ambientato in Val di Fassa, presenta fin dalle prime pagine le prodezze naturalistiche delle Dolomiti. Il commissario Gelsomino, trovatosi in vacanza, si trova coinvolto in un’indagine surreale, dove il malcapitato protagonista è il giovanissimo Ivan, figlio di Tiziano Detomas. Il testo di Lugli fotografa con precisione la realtà cui chi vive in montagna si trova a districare: da un lato vi è la voglia di non deteriorare le bellezze naturali, dall’altra vi è l’esigenza di far soldi e poter sopravvivere con la stessa. Una contraddizione che ben viene raccontata nel romanzo di Lugli, la stessa che vede contrapposti in due visioni differenti Ivan e suo padre. Il testo racconta storie veraci e personaggi ben costruiti. Nuovi e vecchi volti si mescolano insieme, creando con Gelsomino un dream team capace di andare a capo della verità assoluta. Sullo sfondo una storia avvenuta vent’anni prima, che vede protagonisti Livio Pederiva e Piero Bernard, la cui amicizia si interruppe “per il taglio di una corda”. Stesso taglio che Lugli utilizza per raccontare la storia di Ivan, le cui vicende regalano al lettore un thriller avvincente e sensazionale. Marco Lugli è uno scrittore indipendente che vive e lavora tra l’Emilia e il Salento. Ai noti romanzi gialli dedicati alle indagini del commissario Luigi Gelsomino affianca titoli di narrativa contemporanea. Il suo ultimo romanzo è adatto agli amanti del thriller e ancora una volta, attraverso il personaggio di Gelsomino, regala al suo pubblico un’indagine senza pari. Una tragedia in alta quota.

Lugli riflette sui pericoli dell’alpinismo, unendo le sue osservazioni a riferimenti cinematografici che arricchiscono ulteriormente il contesto.
“Come la neve nessun rumore” è un romanzo imperdibile per gli appassionati di thriller, che riesce al contempo a celebrare la sublime bellezza della natura. Con uno stile narrativo chiaro e avvincente, l’autore costruisce un’intensa storia di comunità divisa tra la conservazione del suo patrimonio naturale e le pressioni economiche.

“Haiku- Centomila stagioni di cuore”, la nuova raccolta poetica di Lisa di Giovanni

“Haiku- Centomila stagioni di cuore” di Lisa Di Giovanni (Edizioni Jolly Roger) è una raccolta poetica che ci trasporta in un viaggio attraverso le stagioni e l’amore, utilizzando l’antica forma poetica dell’haiku. Con una struttura divisa in cinque sezioni — una per ciascuna delle quattro stagioni e una dedicata all’amore — il libro esplora i cambiamenti ciclici della natura e i momenti fugaci, ma profondamente intensi, dell’esperienza umana.

La scrittura di Lisa Di Giovanni è delicata e contemplativa, evidenziando una raffinata capacità di osservazione affinata dalla sua carriera nel giornalismo. Attraverso i suoi haiku, in soli diciassette sillabe, riesce a catturare l’essenza di paesaggi naturali e sentimenti, offrendo una finestra aperta su mondi ricchi di dettagli. La semplicità dello stile si unisce a un tocco personale e moderno, trasformando ogni componimento in un piccolo capolavoro di chiarezza ed emozione. Le stagioni vengono dipinte con immagini vivide e dettagliate: l’autunno è caratterizzato da foglie dorate, nebbie avvolgenti e crepitii del camino; l’inverno è il silenzio della neve, il gelo e la magia dei cristalli di ghiaccio; la primavera risveglia i sensi con boccioli, piogge tiepide e voli di rondini; l’estate brucia con il sole, il mare e le melodie dei grilli. Queste descrizioni non solo mostrano il cambiamento della natura, ma anche i riflessi emotivi che tali cambiamenti suscitano nel cuore umano.

La sezione dedicata all’amore approfondisce le sfumature delle emozioni amorose: dalla gioia alla nostalgia, dalla passione al conforto. Attraverso le immagini poetiche, l’amore emerge come un’esperienza multiforme e universale, intessuta con le stagioni della natura e della vita. Di Giovanni dipinge momenti di intimità con grande delicatezza: baci sotto la pioggia, mani intrecciate, vecchie lettere cariche di ricordi che riemergono, testimonianza di un sentimento che, nonostante il tempo, continua. La struttura del libro mira a creare un’esperienza di lettura condivisa: mentre una persona legge i versi, l’altra può concentrarsi sull’immagine correlata, immergendosi nel profondo legame tra parola e arte visiva. La stessa poesia si sviluppa in un ambiente rilassante e multisensoriale, potenziata dall’uso di incenso e tisane, come suggerito nella quarta di copertina.

 

 Sinossi

L’Haiku è un tipo di espressione poetica breve fiorita in Giappone intorno al 1600 e si compone, nella sua forma canonica, di tre versi suddivisi in diciassette sillabe (che poi sarebbero “more”, ma per semplicità chiamiamole pure sillabe). Beneficiò del suo massimo splendore durante il periodo Edo con i versi del celebre Matsuo Bashō, ed è giunto ai nostri giorni attraverso una serie di contaminazioni che ne hanno fatto una forma di espressione poetica tra le più ricercate. Dallo schema sillabico 7-5-7 siamo approdati a configurazioni più duttili, dettate dalle esigenza comunicative che prevedono la reciprocità di flusso tra parola scritta e lettore, così che la moderna arte dell’Haiku – pur rispettando la filosofia che ne guida da sempre il componimento – si gratifica di un respiro più ampio svincolandosi dai rigidi schemi metrici ai quali la poesia dei Maestri giapponesi era assoggettata. L’interazione che si viene a creare, inoltre, tra parola e immagine, plasma un nuovo approccio interpretativo al componimento, permettendone la godibilità anche come lettura di coppia. Gli Haiku presenti in questo volume, infatti, sono composti da tre versi e un’immagine ciascuno, proprio affinché ci si possa alternare tra la lettura del testo e la contemplazione dell’illustrazione, affinché chi si concentra sulle immagini possa assorbirne il profondo legame con i versi senza dover distogliere occhi, attenzione e anima dalla figura che completa l’Haiku. L’alternanza tra narratore e spettatore, magari vissuta in un ambiente rilassante e impreziosito dall’aroma leggero di un incenso non troppo aggressivo, crea così un rapporto profondo che fonde poetica e immagine generando un vincolo super sensoriale tra i protagonisti di questa esperienza condivisa.

L’autrice

Lisa Di Giovanni, originaria di Teramo e residente a Roma da oltre vent’anni, è una figura poliedrica nel panorama professionale e culturale italiano. Laureata in psicologia con un master in HR Executive Manager presso la RBS, lavora per una società di telecomunicazioni. Dirige inoltre un ufficio stampa che si occupa di editoria, pubbliche relazioni e organizzazione eventi: PR & Editoria. È consigliere nel direttivo dei Lions Valle Siciliana-Isola del Gran Sasso e portavoce dell’ANAS, dove si occupa di pubbliche relazioni e progetti di inclusione sociale. Come giornalista, dirige il semestrale “La finestra sul Gran Sasso” e la rubrica “Echi di Psiche” per Fix on Magazine. Ha pubblicato diverse opere con Edizioni Jolly Roger e ha co-creato la serie di fumetti “Human’s End” con Marco Sciame. Dal 2021, fa parte di un team di eccellenze italiane supportato dalla Confederazione AEPI ed è cofondatrice del marchio ‘Sinapsi 180’. Per Edizioni Jolly Roger è anche responsabile della collana “Poesia”.

 

‘Olocausta’ di Giuseppe Mastrangelo. Le parole prima dell’azione

Il 12 settembre del 1919 D’Annunzio guidò un gruppo di militari da Ronchi fino a Fiume. Tra l’inverno e l’estate del 1920 le trattative internazionali portarono ad un compromesso: la città contesa divenne uno stato indipendente. L’8 settembre del 1920 gli uomini di D’Annunzio che occupavano la città la chiamarono “Reggenza italiana del Carnaro”. Con questa istituzione D’Annunzio ottenne il controllo della città. La Reggenza ebbe una costituzione, la Carta del Carnaro, scritta da Alceste de Ambris e rielaborata dal Vate. Questo statuto prevedeva un modello di società utopistico.

L’atmosfera dei ruggenti anni venti rivive nel libro Olocausta di Giuseppe Mastrangelo che si prefigura come un raro esempio di romanzo storico breve italiano contemporaneo.

Il romanzo è ambientato nel periodo storico della conquista e permanenza a Fiume di Gabriele D’Annunzio e della proclamazione della Reggenza del Carnaro. Insieme a figure frutto di immaginazione, quale quella della protagonista, vengono quindi tratteggiati personaggi ed eventi storici reali anche se, ai fini della narrazione, non sempre la biografia delle persone e la cronologia degli eventi corrispondono a come si sono effettivamente svolti.

Il resto è tutto vero. Dal 12 settembre 2019 al 18 gennaio 1921, per la prima e finora unica volta nella storia, un poeta ha guidato una rivoluzione. Una straordinaria avventura che ha visto un popolo e il suo Vate anticipare i costumi di cinquant’anni. In questa città-Stato fu vissuta la prima rivoluzione sessuale della modernità. Un sessantotto sperimentato nei fatti con mezzo secolo di anticipo e dove per la prima volta si imposero realmente i principi della parità dei generi, dell’uguaglianza e del diritto alla felicità, per come codificati nella Carta del Carnaro.

Mastrangelo nel raccontare la sua storia individuale, fa conoscere al lettore un importante pezzo di storia sconosciuto ai più, un significativo esempio di come le idee e i valori democratici possano essere applicati in una comunità. Questo documento è stato un esempio innovativo di come le istituzioni possano essere modellate in modo tale da garantire la massima partecipazione dei cittadini alla vita politica. La Carta del Carnaro è infatti un documento di grande valore storico e culturale, che rimane ancora oggi a testimonianza dei valori della società fiumana, nonché una delle carte costituzionali più interessanti della storia italiana.

Olocausta offre l’occasione all’autore di far comprendere a fondo cosa spinse degli italiani ad aderire alle idee di D’Annunzio tra i promotori di  una legge fondamentale aperta e dinamica, poiché, oltre a servire da strumento ordinatore e stabilizzatore della vita sociale, indicava i processi che dovevano ancora essere realizzati.

L’autore mostra come la Costituzione di Fiume può essere intesa come un ordine politico-sociale carente di concretezza sul piano della prassi reale. Lo statuto non solo rispose all’esigenza del suo momento storico, quella di stabilire la struttura dello Stato, la forma di governo, il modo di acquisizione e di esercizio del potere, l’organizzazione dei suoi organi, i limiti di attuazione, i diritti e le garanzie individuali, i fondamenti dei diritti economici, sociali, politici e culturali, ma servì anche come strumento principale della società del futuro.

Mastrangelo epura la vicenda storica da ogni possibile ideologizzazione concentrandosi sull’aspetto sentimentale e sul potere rivoluzionario che la Carta di d’Annunzio a Fiume quando decise di darsi nel 1920, al momento in cui parve necessario a lui e agli altri membri del suo Comando strutturare quel potere nella forma di un nuovo Stato:

«Stamani» proseguì D’Annunzio. «Stamani dopo una notte di veglia stellata, mi rifluivano nel cuore quella freschezza e quella potenza, mentre guardavo entrare nel porto prezioso come una conca di perla la nave carica di frumento condotta dai miei Uscocchi.» E indicò il bastimento su cui tutti si erano fermati nei loro affaccendamenti per ascoltarlo. «Non aveva campane Fiume, da suonare a stormo? Non aveva bande di rondini, da riempire il cielo di strida? Fiume non ha campane e non ha rondini. Ma ha i suoi grandi Alalà. Compagni, abbiamo il nuovo pane. Sembra pane fatto con il frumento di quel solstizio.

L’entusiasmo degli uomini e dell’unica protagonista donna di Olocausta è contagioso, e ci riporta ad un epoca storica dove emerge in tutta la sua chiarezza l’insofferenza per le categorie politiche ottocentesche di destra e sinistra, giudicate superate dai tempi e incapaci di dare effettiva espressione ai bisogni della nuova società di massa. Alla fine dell’Ottocento infatti , dopo che d’Annunzio fu eletto deputato ed entrò in Parlamento sui banchi della destra, già l’anno successivo, dopo l’assassinio del re Umberto I, annunciò la sua conversione politica: d’ora in avanti, disse, sarebbe stato un uomo di sinistra, perché essendo “uomo d’intelletto vado verso la vita”. 

Va verso la vita Vittoria, soprannominata Olocausta, che subirà un mutamento radicale, insieme a Guido Keller che crede nel potere delle parole:

«Le parole sono azione, Giovanni» rispose senza alcuna esitazione e sempre sorridendo Keller. «Io ho portato qui a Fiume il più grande parolaio del mondo e solo grazie alle sue parole l’avventura è potuta iniziare e andare avanti. Parole di miele innervate nel ferro dei fucili e nella polvere da sparo delle bombarde. Ma senza le parole né i fucili né le bombarde possono attivarsi.»

Non è un caso che Mastrangelo rappresenti il Vate come un grande affabulatore, capace di incantare le masse grazie alla sua ars oratoria, in modo teatrale, come se stesse seducendo una donna. Se il contesto storico ricostruito è ineccepibile, l’azione viene sovrastata dalle parole proprio in virtù dell’importanza che queste rivestono per D’Annunzio, parole che fondevano insieme Bergson e Nietzsche, vitalismo e nichilismo, e facevano da appoggio ad avanguardie più diverse, ma unite dall’odio per la democrazia.

Una riproposizione in chiave romanzesca della Carta del Carnaro forse trova il suo senso proprio con Mastrangelo: nel suo far emergere in controluce le alternative possibili che sussistevano all’indomani della Grande Guerra, giacché essa è in fondo il lascito più ambizioso di un’impresa, quella di d’Annunzio, che contiene ed esprime un dualismo attualissimo: tra gestione autoritaria e gestione liberale e democratica del potere, tra disconoscimento sostanziale e rispetto puntuale dell’alterità, tra cittadinanza esclusiva e cittadinanza inclusiva. 

“Segreto a più voci” di Fernando Bermúdez tradotto per la prima volta in Italia da Edizioni Spartaco

Fernando Bermúdez, Premio Cortázar 1994 e Premio Juan Rulfo 1997, è per la prima volta in Italia, ospite di “Un borgo di Libri 2024. Intelligenza naturale…” a Casertavecchia (borgo antico di Caserta), festival diretto da Luigi Ferraiuolo, per la presentazione del suo nuovo atteso romanzo “Segreto a più voci”.

Domenica 15 settembre nella cattedrale di Casertavecchia, Bermúdez è stato presentato il romanzo “Segreto a più voci”, tradotto dallo spagnolo da Giovanni Barone e pubblicato in prima edizione assoluta in Italia dalla casa editrice indipendente Edizioni Spartaco, libro atteso da lettori e critica da trent’anni, dopo la fortunata raccolta di racconti “La metà del doppio”, che è valsa allo scrittore prestigiosi riconoscimenti.

Nato a Buenos Aires nel 1962, Bermúdez vive a Stoccolma dove ha riunito un circolo di autori latinoamericani lì residenti, il Grupo Estocolmo, e vi coordina laboratori di scrittura. È docente di Linguistica moderna all’Università di Uppsala e membro della Writers Society Sweden.

In segreto a più voci, protagonista è un ragazzino la cui voce si alterna con quella di María Carmen, una donna stravagante che ogni giorno depone fiori sulla tomba di Perón e che finisce per essere testimone di un fatto di cronaca che colpì molto la società argentina del tempo: la profanazione della cappella funebre e il furto delle mani del corpo imbalsamato del presidente.

Le due storie si alternano ed entrano in contatto, costruendo un contrappunto che acquista sempre maggiore intensità fino a sovrapporsi in un finale sorprendente.

Bermúdez utilizza e decostruisce diversi generi letterari, dal poliziesco al romanzo di formazione, dai racconti del terrore al romanzo storico, giocando sulla tensione tra realtà e finzione.

Segreto a più voci : trama

Un ragazzino ascolta le ultime parole del padre ormai in fin di vita. Durante l’agonia, l’uomo svela all’adolescente “una teoria cospirativa secondo la quale l’allora presidente argentino Juan Domingo Perón è già deceduto e che un gruppo di congiurati sta cercando di occultare la sua morte per mantenere il potere”. Da qui prendono vita le storie di Paulino, il Paraguaiano, Maria Carmen.

Addirittura, questa donna stravagante, mentre va a portare i fiori sulla tomba del presidente defunto, assiste alla “profanazione della cappella funebre e al furto delle mani del corpo imbalsamato del presidente”. Un fatto che la fa apparire come la Maria Maddalena che sarà testimone della Resurrezione di Gesù; e proprio tale similitudine, lascia pensare che ogni lettore possa dare vita al proprio romanzo.

Segreto a più voci. Contenuti e stile

Segreto a più voci è una pregevole opera di letteratura che richiama Finzioni di Borges, come il grande scrittore argentino, anche il suo connazionale Bermudez Borges, in realtà, non si preoccupa tanto della scrittura ma piuttosto della lettura, e soprattutto del lettore, in quanto l’atto dello scrivere nasce proprio da un fine didattico: è il narratore a spiegarci come va il mondo in cui viviamo e che arreca in noi tanta confusione. Ma colui al quale si rivolge chi scrive, il destinatario comprende davvero il linguaggio di quel testo?

L’universo variegato proposto da Bermudez, in cui le vite degli uomini comuni sono mischiate a quelle dei grandi nomi della storia, e in particolare a quello di Peron che aleggia su l’intero romanzo, può essere una finzione che diventerà ipotesi e poi realtà? Bermudez mostra come la letteratura possa penetrare la vita, modificarla, elevarla, sublimarla, attraverso l’immobilizzazione del tempo, richiamando alla mente una frase del racconto I Teologi di Borges: “Il tempo che fuggì resta nella memoria; sarò di certo capace di ricostruire quel che allora accadde”.

Bermudez imbastisce una storia complessa e affascinante il cui fine è quello di risultare credibile per il lettore: ogni personaggio, ogni scenario, ogni interpretazione sembrano suggerire il pensiero: ma io cosa c’entra con questa storia? Mi può riguardare?

L’autore si avvale di uno stile asciutto e diretto, primo di retorica, ma ricco di ricordi che fluiscono in un flusso narrativo che a volte sembra un fiume in piena, altre volte si arresta, quasi in stallo, pervaso da un senso di morte. Peron è un archetipo; una sorte di Ade che tira i fili dei personaggi terrestri anche dall’oltretomba, rappresenta il trauma storico con cui l’Argentina ancora oggi deve convivere, la storia che l’Occidente ancora non conosce a fondo.

Alcuni personaggi nel romanzo si percepiscono anche se non vengono citati, come il dittatore Jorge Rafael Videla, perché ogni romanzo è figlio della Storia collettiva e personale, agitata dalle nevrosi, dalle paure e dai conti non fatti con essa, di ognuno di noi.

 

La casa editrice

Edizioni Spartaco è nata nel 1995 a Santa Maria Capua Vetere: l’avventura è cominciata con quella che per decenni è stata l’unica guida della città, nonostante il formato sia diventato tascabile e il prezzo più economico. Dal 2003 ha solcato il mare della distribuzione nazionale, un oceano irto di insidie, infestato dai mostri sacri dell’editoria, bastimenti più forti economicamente e più potenti per tradizione e autorevolezza presso i media, capaci di pubblicare opere immortali oppure di scivolare sull’acqua con leggeri bestseller dalla vita intensa ma breve.

Una piccola casa editrice, una casa editrice del Sud, una casa editrice di Terra di Lavoro (e nemmeno di Caserta centro) deve avere più coraggio: come il capitano MacWhirr di Conrad, deve affrontare il tifone che le fa sfiorare il baratro ogni volta, deve tenere duro e andare avanti. Anzi, non deve, il bello sta nella sfida, nello scegliere di ritagliarsi uno spazio di libertà, complici gli autori che meglio e con più efficacia riescono a raccontare, a dire, a comunicare. E non ti va di fallire un progetto così bello, perché “incominciando col gustare un po’ di libertà, si finisce per volerla tutta”. Lo ha detto Errico Malatesta, anche lui nato a Santa Maria Capua Vetere. Edizioni Spartaco, di Malatesta, ha pubblicato l’Autobiografia mai scritta. Ricordi (1853-1932), a cura di Piero Brunello e Pietro Di Paola, edito anche in Germania dalla casa editrice Nautilus Frug Schrift, alla quale sono stati venduti i diritti.

 

 

 

‘Le braci’, il senso della vita secondo Sándor Márai

Le braci, romanzo dell’ungherese Sándor Márai edito per la prima volta nel 1942, racconta la storia dell’amicizia tra due uomini, Henrik detto “il Generale” e Konrad, e di come essa abbia avuto fine in seguito al tradimento del secondo. Il punto di partenza è l’incontro tra i due, che, a distanza di quarantun anni, ha lo scopo di far finalmente luce sugli avvenimenti che li hanno separati.

La prima parte, che coincide con l’attesa di Konrad da parte di Henrik, è occupata dal racconto degli anni della loro amicizia; la seconda, invece, quella dell’incontro, da un lungo dialogo (a dire il vero, più un monologo del Generale) sulle circostanze in cui si è interrotta.

Le braci è uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre. Un romanzo che è teatro, un dialogo lungo per i canoni del realismo, un alternarsi di due voci tese mentre i sigari dei colonnelli ungheresi scorrono davanti alle immagini di tradimenti impossibili, di tradimenti scampati.

Prosa delicata, linguaggio ricco ed elegante senza mai sembrare nel ridondante. Un lungo monologo del generale Henrik che rivanga le sue memorie e torna indietro di quarant’anni per avere una risposta definitiva a quello che lo tormenta da allora. In mezzo sono infilate lì tante perle sul significato di amicizia, amore, passione, destino che rendono questo libro di sole 180 pagine ricco di riflessioni profonde:

“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che ogni giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, e non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione?”

Marai fa rivivere in ogni attimo gli eventi descritti, creando atmosfere e descrivendo perfettamente i sentimenti di ognuno dei tre protagonisti (Henrik, Konrad e La moglie di Henrik). Ognuno ama e continuerà ad amare gli altri fino al giorno della sua morte, con sfumature e trasporto differenti.

L’autore nomina ripetutamente tutti i personaggi presenti in “Le braci”: Konrad, Kristina, Nini; tutti, a parte il suo protagonista Henrik, che nomina giusto un paio di volte, ma chiamandolo “generale” in tutte le altre occasioni.

Come se Marài volesse mettere in risalto la differenza tra quest’ultimo e gli altri: uomo a cui è stata affibbiata un’etichetta, una posizione sociale fin dalla nascita; status che pare anche gratificarlo abbastanza. Tuttavia, pare che questo lo ponga a un livello inferiore rispetto agli altri, indegno anche di essere chiamato per nome; incarnazione di una figura incolore che quasi non possa essere considerato un essere umano, in cui non arde il fuoco dell’anima come arde nella figura dell’artista, di quel suo amico che, tuttavia, coi suoi modi di fare mostra alcuni dei lati peggiori dell’essere umano.

Chi è più umano, dunque?

A questa e ad altre domande attende la risposta il lettore, così come i protagonisti  attendono la risposta a quella che reputano la domanda essenziale della propria esistenza. Ma una volta che arriva il momento decisivo, nessuna di queste pare essere esaustiva; perché l’esistenza appare davvero come un caso irrisolto.

“Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.”

Le braci si configura come un thriller filosofico che però ad un certo punto vira in un’altra direzione: dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, rievocando i fatti principali, Heinrich si accinge finalmente, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, si congeda dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, senza svelare il segreto.

Il lettore ne resta sconcertato: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, di chi ha visto un’Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale, tutto  svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca.

L’enigmatico finale de “Le braci” è di natura scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la sola risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo.

L’autore

Sándor Károly Henrik Grosschmid, questo è il vero nome di Sàndor Màrai. Nato nell’Aprile del 1900 nella città di Kassa (odierna Kosiche) nell’Ungheria settentrionale, il suo è un tipico caso di scrittore del post decadentismo che vive l’afflizione del distacco dalla sua terra unitamente alla delusione politica dei  totalitarismi del XX secolo.

A soli vent’anni, in piena rivoluzione (erano gli anni delle rivolte organizzate da Béla Kun e della fondazione della Repubblica Sovietica Ungherese), Màrai collaborava come giornalista ed opinionista per una  rivista studentesca ma già qualche anno prima, 1917, aveva dato prova di talento con la raccolta di poesie “Il libro dei ricordi”. Su decisione dei genitori fu mandato ad approfondire i suoi studi di giornalismo in Germania spostandosi tra Lipsia, Monaco e Berlino e diventando una delle firme delle pagine culturali del Frankfurter Zeitung su cui pubblicò tra una recensione teatrale o un articolo di cronaca, approfondimenti critici di opere di Kafka.

 

Le braci – Sandor Marai – Recensioni di QLibri

‘Chi dice e chi tace’ di Chiara Valerio o della non qualità dei libri del Premio Strega

Chiara Valerio ha sempre avuto tutte le carte in regola per poter arrivare nella sestina del Premio Strega: è nota per essere fra le intellettuali più amate dalla sinistra, storica amica di Michela Murgia, così come del segretario del PD Elly Schlein, editor di Marsilio, in prima linea per i diritti della comunità LGBTQ+, sceneggiatrice del film Mia madre (2015) di Nanni Moretti, autrice di 14 libri, così come di un divertentissimo articoletto (tanto per tenere alta la fama di scrittrice impegnata antifascista) su Repubblica dello scorso anno dal titolo Il fascismo nel sangue” dove fra le altre cose scriveva: “Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni. Il sangue che consente di mantenere i privilegi…” Che delirio.

A leggere Chi dice e chi tace sembra davvero inspiegabile, dal punto di vista strettamente stilistico e contenutistico, che sia stato anche solo preso in considerazione nella dozzina del premio letterario più importante d’Italia. Ma tant’è, Chi dice e chi tace è arrivato addirittura terzo.

Chi dice e chi tace, è un tripudio di strafalcioni, frasi fatte e sperimentazioni linguistiche del tutti velleitari. Una prosa ed espressioni dimenticabili (“Mi salivano domande che non mi sono mai fatta”, “la madre non è certissima nel cattolicesimo”, “Di Gesù per esempio è più certo il padre”), per una trama confusa che ruota intorno alla figura di Valeria, una donna carismatica che arriva all’improvviso nella località marina di Scauri, con una giovane amica al seguito. Valeria lavora in una farmacia, ma sa di medicina più di parecchi medici, ama la natura, i fiori del suo giardino, ama le partite a carte al dopolavoro ferroviario e le lunghe nuotate solitarie. Dovrà misurarsi con un mistero che riguarda la morte di una donna in una vasca da bagno.

Il romanzo vorrebbe essere un noir esistenziale che racconta di una comunità del sud Italia a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, fatta di silenzi ma a in realtà sembra un memoriale ambizioso che non ce la fa a spiccare il volo verso il genere giallo o thriller e a fissare modelli e visioni universali. La confusione è data soprattutto dall’impossibilità di distinguere il tempo della narrazione da quello della scrittura che rende insofferente il lettore, complice una paratassi troppo insistita che non crea tensioni narrative, anzi le dilegua in un malessere esistenziale al femminile ripetitivo e fastidioso:

<<Ma mò che è questa ossessione? C’è qualcosa che non capisco, Lea, amore mio, Vittoria è morta.

E se invece fosse piaciuta lei a me?

Ti piaceva Vittoria? Non lo so.

E non puoi più saperlo, Lea, amore mio, Vittoria è morta. Ma io devo saperlo, Luigi, sono viva>>

 

Con Chi dice e chi tace, ci si trova ancora una volta di fronte a prevedibili meta-narrazioni, viaggi nell’io più profondo che escludono il gusto dell’invenzione letteraria.

Chiara Valerio veste i panni di una nipotina smarrita di Italo Svevo, passando dal narrato al dialogo per addentrarsi “dentro le cose” con morbosità, risparmiando al lettore colpi di scena, arrivando, come aveva auspicato il Direttore della Fondazione Bellonci, all’inclusività! La quale si manifesta tra Lea e Vittoria in una relazione ideale e platonica. Infatti Lea indaga per sapere semplicemente se è stata davvero attratta da Vittoria, lesbica dichiarata. Dal noir che si pensava inizialmente di dover leggere si passa al romanzo sentimentale più puerile che si potesse immaginare.

Nel trionfo del politicamente corretto il marito di Vittoria, un ricco avvocato, risulta, in quanto uomo, un pervertito (una bella bordata al patriarcato non la diamo?), e un’amica insospettabile di nome Filomena, appare anche lei prossima all’omosessualità., salvo poi dichiarare che le piace “il pesce”.

Insomma anche quest’anno il Premio Strega conferma la sua vocazione al gioco remunerativo e al familismo e non lo si può considerare un metro con cui misurare la reale qualità letteraria italiana.

 

‘Cavoli e re’, opera prima di O. Henry, rimasta famosa per l’invenzione del termine e del concetto di «repubblica delle banane».

Cavoli e re, opera prima di O. Henry, rimasta famosa per l’invenzione del termine e del concetto di «repubblica delle banane», si presenta come una specie di vaudeville, nel quale ogni capitolo è un numero che può stare a sé, anche se non manca un sottile filo conduttore. Viene riprodotta fedelmente la situazione dell’America Centrale tra Ottocento e Novecento, dominata dalla United Fruit (chiamata Vesuvius nel libro), che faceva e disfaceva i governi e si accaparrava le terre migliori, curando i propri interessi a scapito delle popolazioni locali.

Il libro ha origine dal soggiorno di O. Henry in Honduras (l’Anchuria del libro), per sfuggire alla giustizia americana. Per la piccola colonia straniera questo paese è una specie di «terra dei Lotofagi», dove si vive in un’atmosfera di sogno e d’oblio. È anche un palcoscenico dell’assurdo, dove nulla è quello che sembra: non a caso il racconto è presentato dal personaggio di un geniale nonsense di Lewis Carroll, The Walrus and the Carpenter («Il tricheco e il carpentiere»), dal quale è ripreso il titolo stesso del libro. Come dice il carpentiere, può essere compreso solo dall’orecchio del tricheco, che non si cura di distinzioni logiche. E così deve fare anche il lettore.

Dall’introduzione di Aldo Setaioli si legge: «Questo libro di O. Henry, l’inventore del termine e del concetto di “repubblica delle banane” (qui esemplificata con l’immaginaria repubblica di Anchuria), va letto tenendo presente la poesia The Walrus and the Carpenter (“Il tricheco e il carpentiere”) in Through the Looking-Glass, il seguito di Alice in Wonderland, di Lewis Carroll. Da essa deriva il titolo, come appare dai versi posti in epigrafe da O. Henry, dal Proemio e da vari accenni sparsi nel libro. Dalla stessa poesia deriverà anche il titolo di un libro italiano molto posteriore (1976) Porci con le ali, di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera (due versi dopo, il tricheco propone infatti di discutere “whether pigs have wings”). In questi versi il tricheco propone di parlare dei più vari argomenti (scarpe, navi, ceralacca, cavoli e re), prima che lui e il carpentiere divorino tutte le ostriche che li hanno seguiti. Questa disparata varietà d’argomenti si riflette nel libro di O. Henry, che, come afferma l’autore stesso, è una specie di vaudeville, in cui ogni numero può stare a sé; e tuttavia esiste fra loro un filo conduttore, forse, dice O’ Henry, colto solo dall’indiscriminata ricettività dell’orecchio del tricheco. In ogni caso, tutti gli argomenti menzionati dal tricheco compaiono nel libro, anche se i cavoli sono sostituiti dalle palme-cavolfiore (palme la cui gemma apicale può essere mangiata come verdura o in insalata) e i re dai presidenti della repubblica di Anchuria. 

La descrizione di Anchuria risente del soggiorno di O. Henry in Honduras (l’archetipo dell’Anchuria del libro), per sfuggire alla giustizia americana. La situazione di quella repubblica illustra piuttosto fedelmente la situazione politica del paese, vera “repubblica delle banane”, dominata dalla United Fruit (oggi Chiquita; nel libro la compagnia ha il nome di “Vesuvius”), che faceva e disfaceva i governi e si accaparrava le migliori terre distruggendo risorse e biodiversità in nome dei propri interessi. L’atmosfera da “paese dei lotofagi” in cui vive la piccola colonia straniera s’inquadra bene in questo contesto. Questo paese dell’oblio viene evocato non tanto attraverso l’Odissea quanto attraverso la poesia The Lotos-eaters di Tennyson. Siamo all’inizio dell’epoca industriale moderna. La fotografia usa ancora la tecnica del tintype, l’impressione in positivo su lastre di stagno, ma esistono già foto stampate su carta, ed ha già fatto la sua comparsa la prima forma di cinema – il libro si chiude con tre scene di film muto

L’autore

O. Henry (1862-1910), pseudonimo di William Sydney Porter, ebbe una vita molto avventurosa. Impiegato di banca a Austin, Texas, fu accusato di appropriazione indebita. Poco prima della data fissata per il processo fuggì in Honduras, paese col quale non esisteva un trattato di estradizione. Cavoli e re venne scritto proprio in questo periodo (luglio 1896 – gennaio 1887), e pubblicato nel 1904. Tornato in America, O. Henry fu arrestato nel 1898, ma rilasciato per buona condotta nel 1901. Fu autore di numerosissimi racconti, successivamente raccolti in diversi volumi. Molti sono veri capolavori, che mettono in scena rappresentanti delle classi inferiori. Dalla critica O. Henry è stato accostato alla corrente del naturalismo e a Guy de Maupassant.

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