Ricordando Thomas Mann, mediatore tra Vita e Spirito

Thomas Mann (6 giugno 1875 – 12 agosto 1955) ha inscritto la propria complessa letteratura nel territorio della vita, in cui tutti noi ci riconosciamo, perché è un territorio ermetico, tra non-essere-ancora e non-essere-più. Di questo regno intermedio, demonico, mutevole, l’arte si fa espressione, a volte anche contro le taglienti pretese dello spirito.

L’ermetismo di questo straordinario mediatore lunare tra vita e spirito, autore del romanzo-saggio, si rifrange nei molteplici volti dei protagonisti delle sue opere maggiori: da Thomas Buddenbrook a Tonio Kröger, da Giuseppe a Felix Krull, da Gustav von Aschenbach a Adrian Leverkühn, i quali rappresentano una fantasmagoria delle sue controfigure più o meno parziali, fantasiose o ideali.

Thomas Mann e la Germania

Andando oltre i dibattiti sul romanzo ‘ottocentesco’ di Mann, o sulla sua idea perenne di borghesia, oppure sui suoi rapporti con lo spirito tedesco, si potrebbe partire, in occasione dell’anniversario della sua nascita, da una constatazione riguardo lo scrittore tedesco e nello specifico la sua produzione letteraria da parte del filologo ungherese Kerényi nel carteggio con Thomas Mann: “una grande entelechia con inclinazione mitologica, anzi con indole mitologica, con i tratti maliziosi di un essere ermetico”

La cifra spirituale e letteraria più originale di Mann, che è il suo lascito, può essere colta nel suo carattere ermetico.

Ma come viene visto oggi Thomas Mann? Quale potrebbe essere la più giusta definizione?

L’ermetismo di Thomas Mann

Seguendo le considerazioni di Kerenyi, Thomas Mann è visto come colui che, «in questo settore del mondo umano, nel regno intermedio tra vita e morte, si muoveva come i Greci reputavano che si muovesse il loro dio Hermes. La realtà psichica del dio Hermes […] consisteva nella possibilità (che però corrisponde anche adun’altissima facoltà spirituale) di trovarsi a casa propria persino in quel regno».

Se esiste un testo letterario in cui è rappresentata la “superiore realtà” di Hermes, questo è senza dubbio La montagna incantata dove il ludus viene scoperto, e il mistero rivelato proprio dall’autore nell’ultima pagina del romanzo, quando afferma che la storia di Hans Castorp forse non fu esemplare, ma nemmeno inutile: fu “una storia ermetica”

La politica

Il primo Mann, quello che arriva fino alle geniali e deliranti Considerazioni di un impolitico dove si chiede: Cos’è lo spirito tedesco? Come può esprimersi sotto la forma del borghese? E che rapporti ha con l’umanesimo? è quello che ritorna nel Doktor Faustus nel quale emerge come lo spirito tedesco sia pessimista.

Il “pessimismo” ha un’origine e una valenza ben precisa, in quest’ambito culturale; ne sono figli Nietzsche, Wagner e lo stesso Thomas Mann.

Questa origine si trova in Schopenhauer. Mann, in quanto romanziere “ottocentesco”, delinea consapevolmente la sua discendenza: «per quanto è essenziale al mio spirito, io sono un vero figlio del secolo nel quale cadono i primi venticinque anni della mia vita, il diciannovesimo […]. Romanticismo, nazionalismo, borghesia, musica, pessimismo, umorismo, questi elementi che erano sospesi nell’atmosfera del secolo passato sono anche le componenti principali e impersonali della mia esistenza»

Il pessimismo borghese

Un altro aspetto importante della letteratura di Mann è il “fattore morale” borghese che riguarda non solo l’uomo d’affari, ma anche l’artista, lo scrittore, come Mann chiarisce a proposito di se stesso: «in contrasto con quello meramente estetico, con la contemplazione edonistica della bellezza, anche col nichilismo e col vagabondaggio all’insegna della morte, è propriamente un sentirsi borghesi, ossia cittadini della vita, è la sensibilità per determinati doveri vitali […], a recare un apporto produttivo alla vita e al suo sviluppo; è ciò che impone all’artista di non concepire l’arte come una dispensa assoluta dalle responsabilità umane, di fondare una casa, una famiglia, di dare una base solida, decorosa, non trovo altra parola, borghese, alla sua vita spirituale, per avventurosa che essa sia»

La ‘borghesia’ nasce dunque in reazione a questo presentimento pessimistico del vuoto e dell’infondatezza.

La teologia

E la teologia? Per disquisire di quest’altro importante aspetto nell’opera di Thomas Mann, bisogna fare riferimento al Doktor Faust, e allo studio di Maar il quale in un articolo del 1989, ha annesso alla “costellazione” del romanzo un altro nome significativo, quello di Gustav Mahler, di cui ha studiato la posizione in tutta l’opera di Thomas Mann.

Il fatto che la posizione di Mahler nel Doktor Faustus sia sfuggita a numerosi critici prima di Maar come Adorno, è dipeso in parte da due fattori: le modalità della sua “apparizione” e la falsa constatazione che ne ha impedito il riconoscimento. Maar ha dimostrato con prove incontestabili (una fotografia posseduta da Thomas Mann e la descrizione che il romanziere aveva dato di Gustav von Aschenbach in Morte a Venezia) che il diavolo con cui Leverkühn discute lungamente nel capitolo XXV del romanzo e che, dopo una prima trasformazione, assume certi pensieri adorniani sulla crisi della musica e sulla sua “impossibilità” nella situazione storico-sociale “moderna”, non assume affatto i tratti fisici di Adorno, come generazioni di critici avevano sostenuto, bensì quelli di Gustav Mahler.

L’attualità di Thomas Mann

Di cosa ci parla oggi Thomas Mann, l’uomo che era spaventato dal caos del mondo e che seguiva gli eventi del suo tempo con la stessa puntigliosità utilizzata per comporre i suoi romanzi, era un testimone sempre vicino agli eventi e sempre dentro i dibattiti culturali e politici che li accompagnavano?

Soprattutto che la sua Montagna non è incantata come molti pensano, ma magica, in quanto essa può suscitare incanto, “ma anche sortilegio e maleficio” e del resto “nel corso della narrazione si assiste ad una vera e propria iniziazione”, quella che Mann fa sperimentare a Hans Castorp e della sua progressiva “salita” agli inferi e la cui conclusione è segnata da quell’“orribile danza” e da quella “voluttà smaniosa e maligna” che è la prima guerra mondiale, sui cui campi intrisi di sangue si compirà il sacrificio del protagonista.

Ascendenze freudiane

Mann ci parla di tendenze civili e demoniache presenti nell’uomo: ascendenze freudiane dunque e della potere che ha un grande evento storico di scuoterci. Di teologia, di passione, do sagacia, di filosofia contemporanea, della necessità di dare credito al temo, alla sofferenza, alla gioia; nel caos della vita.

Nonché le seguenti parole contenute in Considerazioni di un impolitico, lui che era antinazista ma anche radicato nella contraddizione:

“Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”; “Amore! Umanità! Li conosco, quel teorico amore e quella dottrina umanitaria, professati a denti stretti per provocare un senso di ribrezzo nel popolo…. Tremenda, certo, è la guerra. Se però nel vivo della guerra il letterato politico si mette in posa e proclama di sentire nel petto il respiro d’amore dell’universo, questo è il più spaventoso degli spaventi e insopportabile”.

La personalità dunque nasce da un conflitto e la si ha quando si è qualcuno, non quando si hanno opinioni. Pensiero tagliente ed estremo, inconcepibile per chi accoglie solo l’ovvio e per chi non è uno spirito libero; questo sembra essere uno dei lasciti più importanti e al contempo urticanti del mago Thomas Mann.

 

Remembering Thomas Mann, mediator between Life and Spirit

 

Quando Bukowski in una sua poesia diceva: ‘l’uomo di oggi è merce deperibile’

Bukowski dissacra il sogno americano. La sua è una critica feroce all’America benestante, puritana, conservatrice; una presa di posizione destabilizzante nei confronti dell’America del consumismo e del conformismo. Ce lo dice senza giri di parole in una sua poesia: l’uomo di oggi è merce deperibile.

Lo scrittore americano è un ribelle solitario, che svela il grottesco della società a stelle e strisce; è per questa ragione che in America è rimasto sempre underground ed invece in Francia ed in Germania ha avuto grande successo. Bukowski svela gli scheletri dell’armadio della rispettabilità borghese. I personaggi dei suoi libri sono assurdi e la loro grama esistenza può apparire talvolta al lettore insensata e vuota.

Troviamo, quando va bene, mariti ubriachi e mogli brontolone affacciate alla ringhiera, affittacamere spilorce e maleodoranti. E tutti indistintamente che cercano di ammazzare il tempo, mentre aspettano di morire. Bukowski è troppo vecchio per appartenere alla beat generation e troppo originale per classificarlo in qualsiasi altra scuola poetica.

Per alcuni versi potremmo definire lo scrittore erede di Fante o almeno potremmo dire che ha un debito nei suoi confronti. Infatti lui stesso ha dichiarato a riguardo di Fante: Ecco, finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità”.

Bukowski dice no all’impegno politico, no all’establishment letterario: è un uomo a mani vuote, senza alcuna certezza né ideologia. Per quanto riguarda ogni presa di posizione politica, Bukowski ci ricorda che gli uomini non sono mai forti come le loro idee. L’unica rivoluzione che forse potrebbe fare è quella dei barboni, che lui immagina nel suo racconto “La vendetta dei dannati” in “Niente canzoni d’amore”.

Inoltre in un suo libro di poesie “Si prega di allegare 10 dollari per ogni poesia inviata” scrive a proposito dell’elite culturale: “Dire che sono un poeta mi mette in compagnia di grafomani matti e rincoglioniti che si mascherano da grandi saggi”.

L’originalità delle sue poesie sta nel fatto che non c’è distanza tra l’espressione poetica e la lingua ordinaria americana. Lo stile colloquiale d’intonazione bassa con cui si rivolge al lettore è rassicurante, però quando meno te lo aspetti ecco che Bukowski colpisce con la sua sicura fulmineità. E’ singolare il suo modo di evocare la condizione umana: quello di Bukowski evoca una storia d’uomo disilluso che, assunta liricamente, desta risonanze in tutti ed esprime efficacemente il malessere di un’epoca. Un altro aspetto interessante è che troviamo uomini in carne ed ossa, non cifre e segni.

La sua non è una poesia intellettualistica. Kerouac aveva scritto su un rotolo di carta telescrivente “On the road”. Vi narrava con un ritmo febbrile le peripezie di due giovani che percorrevano gli Stati Uniti da costa a costa. Ma in Kerouac c’era il desiderio di avventura, la voglia di esplorare il mondo e di effettuare un viaggio interiore tra Jazz, droghe, alcol. In Bukowski prevale invece una mistura sapiente di disincanto, cinismo, autoironia.

In W. Burroughs ci imbattiamo in scenari onirici e psichedelici, che mettono a dura prova l’immagine prefabbricata dell’America. Troviamo le sue esperienze da tossicomane, gli allucinogeni, gli spacciatori, gli alcolizzati ed una moltitudine di trasgressori e trasgressioni. Ma in Burroughs è rintracciabile anche la paranoia, il tema ricorrente della cospirazione, la presenza più o meno discreta del “Demoralizzatore totale”.

In Bukowski invece no. Egli non perde mai il contatto con la realtà. Ci sorprende per il suo sguardo diretto alle cose quotidiane, per la sua immediatezza nel coglierne i tratti essenziali. Nei suoi testi non ci sono né allusioni, né allegorie. Ogni suo libro nel suo insieme è così chiaro, che si può abbracciarlo tutto con un solo pensiero.

Nei suoi libri troviamo innanzitutto le sue più grandi passioni: la musica classica e la letteratura. Gli ambienti descritti nei suoi racconti e nelle sue poesie sono il bar, la strada, l’ospedale, l’ippodromo, la squallida stanza d’albergo, il manicomio, la bettola in cui è costretto a vivere. L’aspetto che più impressiona di Bukowski è l’occhio mirifico, la non comune capacità di cogliere il dettaglio di ogni ambiente e di ogni personaggio. Le sue storie poi spiazzano, perché sono vere eppure all’apparenza inverosimili.

Un’altra qualità è la battuta sferzante, l’aforisma tagliente, che spesso al momento giusto riesce a riassumere ed allo stesso tempo a sdrammatizzare la situazione paradossale in cui si trovano i personaggi. Ma questo non è ancora tutto. Il personaggio Bukowski entra prepotentemente in ogni suo racconto con le sue contraddizioni ed i suoi vizi. Un personaggio dedito agli eccessi: all’alcool, all’erotismo sfrenato e sfacciato, talvolta alle risse.

Insomma individualismo e boheme, o per dirla in termini italiani genio e sregolatezza. Lo scrittore usa spesso a questo proposito il suo alter ego Henry Chinaski, che come lui ha lavorato alle poste, il quale a tratti si comporta come un ragazzino a tratti rivela una saggezza illuminante. E’ un uomo conflittuale, mai pienamente risolto, le cui storie senza uscita alimentano continuamente il suo disagio esistenziale.

Bukowski dimostra il talento di fare della propria esperienza personale motivo e pretesto di condizioni più universali. Un tema che più volte Bukowski mette a fuoco è il rapporto difficile con le donne: sembra misogino e maschilista, eppure ha bisogno di relazioni a lungo termine con le donne: relazioni che non riesce a far durare a lungo per i suoi scatti d’ira e per i suoi umori altalenanti.

Nelle sue vicissitudini sentimentali regnano incontrastate incomunicabilità ed estraneità reciproca. La donna non è mai idealizzata, contemplata. Non è mai fatta simbolo di niente. Eppure nella sua vita sarà proprio una sua donna, Linda Lee a mettere freno agli impulsi distruttivi dello scrittore. Gli farà ridurre l’assunzione di alcol, lo metterà a dieta, lo incoraggerà ad andare tutti i giorni alle corse dei cavalli per distrarsi e a non alzarsi mai prima di mezzogiorno. Bukowski mette a nudo i difetti delle donne con un certo sarcasmo. Però allo stesso tempo mette a nudo anche i suoi difetti ed i suoi limiti di uomo. E questa sincerità disarmante da sola è rara e preziosa tra tutti gli scrittori esistiti ed esistenti.

 

Di Davide Morelli

Tondelli, il rifiuto di ogni ideologia

Pier Vittorio Tondelli muore di AIDS nel 1991 a soli 36 anni ed è stato scrittore prolifico e famoso, viaggiatore instancabile ed acuto osservatore delle mode e dei costumi degli anni ottanta. E’ ancora difficile fare un bilancio obiettivo sulla sua opera. Tondelli esordisce nel 1980 con “Altri libertini”, sequestrato per oscenità e poi assolto con formula ampia.

Il processo giudiziario e la straordinaria novità del libro lo portano al successo, vende 200000 copie. Tondelli diventa così, senza volerlo, lo scrittore di una generazione, quella del settantasette. Con il suo primo libro riesce a dare voce a gay, travestiti, drogati e studenti fuori sede.

Nel suo secondo libro “Pao Pao” invece tratta di una caserma di soldati, delle loro peripezie sotto la naia. Mette in luce sia il cameratismo tra commilitoni che il nonnismo. Infatti Tondelli stesso dichiarò che sotto naia vige “una giustizia tribale e assoluta, tollerata dalle gerarchie che fingono di non vedere, finché non scappa il morto”. In tutta l’opera si nota il contrasto tra l’istituzione (con le sue pratiche burocratiche e le sue norme rigide) e la spontaneità dei ragazzi.

Anche in un altro suo romanzo “Rimini” il punto di vista è collettivo, come nei precedenti. Tondelli vuole mettere in mostra “la carnevalata estiva” della riviera romagnola. Le storie dei ragazzi si intrecciano nella notte. Nonostante il continuo ribaltamento del giorno con la notte, le trasgressioni, il sesso nessuno di loro troverà quel qualcosa di cui è alla ricerca. Nel suo ultimo romanzo “Camere separate” non abbiamo il dinamismo dei precedenti. Si tratta infatti di un libro intimista, in cui prevalgono lo scoramento e la solitudine del trentenne Leo. Il protagonista cerca di rielaborare il lutto del suo compagno Thomas.

Un aspetto che contraddistingue Tondelli rispetto a molti altri della sua generazione è il rifiuto di ogni ideologia. Forse è per questo motivo che nonostante il successo editoriale e le opinioni benevole della critica più avanzata non gli è mai stato conferito un premio letterario. “Linea d’ombra” e il Gruppo 63 sottovalutarono sempre il suo talento. Diversi critici hanno esaminato l’opera omnia di Tondelli. Tra questi spicca il gesuita Antonio Spadaro, fondatore di Bomba Carta, che ha notato l’apertura alla trascendenza ed una spiccata sensibilità religiosa nella seconda produzione di Tondelli.

Già Bonura aveva intuito questo lato religioso dello scrittore di Correggio. Un dato di fatto incontestabile della religiosità di Tondelli è ad esempio l’intervista a Carlo Coccioli. Si può essere d’accordo o meno, ma il lavoro di Antonio Spadaro merita rispetto: ha passato sette anni della sua vita a leggere tutto quello che Tondelli aveva scritto. Ha letto anche tutti i suoi appunti, tutte le sue annotazioni diaristiche, tutti i libri che aveva letto Tondelli. Ha sentito tutti i suoi amici e conoscenti.

Un altro aspetto innovativo di Tondelli è la mancanza di ogni accademismo. Nella maggior parte dei suoi libri adotta il gergo giovanile. Tondelli non è libresco, il suo stile è antiletterario. Ma d’altronde- viene da chiedersi- in base a quali valori si giudica la letterarietà di un testo? In base forse ai canoni estetici, ormai antiquati, che furono ad esempio di Pascoli? Uno dei punti fermi di Tondelli è la narrativa di Silvio D’Arzo, che nella sua breve esistenza scrisse “Casa d’altri” e “L’aria della sera”. Silvio D’Arzo, anch’egli emiliano, negli anni’20 ha uno stile originale, antinaturalista e minimalista, agli antipodi rispetto al verismo piccolo-borghese tanto in voga all’epoca. Ma ritorniamo a Tondelli.

A questo aspetto si aggiunga lo stile postmoderno di Tondelli, per cui nelle sue pagine si trovano brani di canzoni rock, citazioni letterarie, esclamazioni dialettali, musica pop, cinema americano, beat generation. Ma non è tutto. Tondelli cerca il ritmo della frase, che deve possedere una sua musicalità. Tondelli è maestro di quella che lui chiama “la letteratura emotiva”. Tramite questo ritmo del linguaggio parlato riesce a catturare il lettore, a fargli leggere tutto d’un fiato la pagina scritta.

La tematica centrale dei libri di Tondelli è la fuga, l’emancipazione dalla provincia asfittica. Lo scrittore scrive che l’unico modo di uscire dalla Peyton Place della provincia è Kerouac. Infatti i protagonisti giovanili dei suoi racconti girano tutta l’Europa: Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona. Ma sono fughe a breve termine, una sorta di “mordi e fuggi” per poi ritornare alla tanto maledetta provincia. D’altronde a queste piccole evasioni c’è solo un’altra alternativa: quella del weekend postmoderno, che in fondo è una pseudo libertà.

Oltre alle opere letterarie abbiamo anche l’attività editoriale di Tondelli. Con il progetto “Under 25” seleziona i racconti della nuova generazione. Sceglie quelli che lui definisce gli scarti che si discostano dalla norma. Li riunisce in quattro categorie: testi intimisti, generazionali, di genere, sperimentali. Tra gli autori di questi racconti prescelti, Silvia Balestra. Un’ultima. brevissima, nota infine sul suo  “Weekend postmoderno”, un libro imprescindibile per chi voglia capire gli anni ottanta italiani.

 

Di Davide Morelli

‘Il silenzio’, l’ultimo capolavoro apocalittico pop di Don DeLillo ambientato durante la pandemia

La fine di un mondo passa sempre per i suoi contrari, perciò non bisogna meravigliarsi se per lo scrittore statunitense Don DeLillo a spegnere la civiltà umana così come la conosciamo sia il silenzio, che poi forse non sarebbe una cosa malvagia. Sembra essere proprio questa la chiave di lettura principale dell’ultimo romanzo di Don De Lillo, Il silenzio, 2020.

Manhattan, 2022. Una coppia è in volo verso New York, di ritorno dalla loro prima vacanza dopo la pandemia. In città, in un appartamento nell’East Side, li aspettano tre loro amici per guardare tutti insieme il Super Bowl: una professoressa di fisica in pensione, suo marito e un suo ex studente geniale e visionario. Una scena come tante, un quadro di ritrovata normalità. Poi, all’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio.

Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?) L’aereo è costretto a un atterraggio di fortuna. E addio Super Bowl. Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente? O è il collasso della tecnologia su se stessa, sotto il proprio tirannico peso? È l’apparizione di un buco nero, l’aprirsi di una piega dello spazio e del tempo in cui le nostre vite scivolano inesorabilmente? Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.

Vera protagonista del romanzo è la teoria dell’apocalisse che De Lillo ha affidato al suo editore poco prima che la pandemia prendesse il largo: a marzo le ultime bozze, qualche giorno dopo i lockdown in tutto il mondo. In America Il silenzio è uscito a ottobre per Picador; resta inedito in Italia dove arriverà per Einaudi a febbraio 2021, un romanzo brevissimo in cui assistiamo al blackout della nostra tecnologia digitale in un ipotetico 2022, nel giorno del Super Bowl, giornata evento per gli americani. Ma non è un libro dagli intenti profetici come ha spiegato lo stesso autore al Guardian: “È solo una storia ambientata nel futuro”.

De Lillo si sforza poco di spiegare cosa sia veramente successo al mondo dei suoi personaggi. La catastrofe è al cuore della trama ma non lo sono le sue cause. Quel che DeLillo vuole mostrarci è la reazione umana allo spegnimento delle cose: quel rumore digitale che permea le nostre vite e a cui inconsapevolmente non solo siamo dipendenti, ma anche, in una certa misura, legati ormai culturalmente e persino a livello intellettivo.

Protagonisti del Silenzio sono alcuni intellettuali di classe medio alta che gradualmente si radunano a casa di due amici, dove avrebbero dovuto seguire la partita e dove invece lo schermo del televisore è morto dopo aver trasmesso un ultimo misterioso segnale. Una volta caduto il silenzio digitale (muta la radio, inerti gli smartphone) i presenti, sebbene in compagnia, si isolano in lunghi monologhi, solo in parte filosofici e più spesso sconnessi. Si parlano addosso ignorando gli altri nella stanza, come se d’improvviso non fossero più capaci di comunicare tra loro senza la mediazione di un dispositivo elettronico.

Il silenzio è un capolavoro della non scrittura, delle pause e delle cesure tra le parole, il subconscio implicito che, quando viene meno la base, il terreno comune che ci rende animali sociali che condividono le stesse passioni, non riesce ad innalzarsi come coscienza di massa, in quanto inadatto e superato per gestire i pezzi di un mosaico che compongono il vivere comune.

Quali sono i potere e allo stesso tempo i pericoli della modernità? Senza qualcosa da guardare, da ascoltare, se non digitiamo, chattiamo, creiamo una storia su Instagram, noi non siamo più niente. Sono solo parole nel vuoto, pensieri vagabondi. Silenzio, appunto.

Il nuovo romanzo minimale di DeLillo ha uno stile scarno, mostrando ancora una volta come la scrittura di dell’autore di Underworld sia cambiata, non servono più paragrafi, frasi elaborate e articolate. Solo delle parole, leggere che ci indicano la strada, la nostra strada.
Il modo di scrivere di DeLillo è diventato olografico, per consentirci di scandagliare le ombre della nostra coscienza e di vivere anche noi il vissuto dei suoi personaggi.

Come ha acutamente rilevato Paolo Latini  (tenutario del Blog Americanorum), qui ancora più che in altre sue opere abbiamo personaggi che parlano una lingua peculiare, il DeLilliano, e questo concorre a creare un insieme di dialogo e sequenze probabilmente inconfondibili, quasi al limite della auto-parodia: cultura pop, frasi spezzate, frasi fatte e riflessione sulle stesse, filosofeggiare, calchi e mixaggi di alto e basso.

Proprio in questa estremizzazione di un linguaggio volutamente artefatto, il libro clamorosamente funziona e funzionano spunto e ambientazioni, che impropriamente hanno fatto pensare a un romanzo sulla pandemia e sul lockdown. Più suggestivamente e apocalitticamente si immagina invece una New York dove tutta la tecnologia (tutta!) smette improvvisamente di funzionare, e un insieme di cinque personaggi principali intrappolati (o forse compiutamente liberi) in questo nuovo (provvisorio?) paradigma.

 

Fonte: L’apocalisse di Don DeLillo

‘L’Affaire Casati Stampa’, il nuovo libro di successo di Davide Amante sulla vita di coppia di Anna Fallarino e il marchese Casati Stampa

Uno dei primi romanzi usciti nel 2021, edito da DMA Books, L’Affaire Casati Stampa dello scrittore Davide Amante, sta avendo un grande successo, come indicano i dati delle vendite. Certamente le ragioni di questi ragguardevoli risultati sono nel tema del romanzo, la vita della coppia Anna Fallarino e marchese Camillo Casati Stampa, intensa, passionale e per certi aspetti al limite della moralità. Ma più ancora che la vicenda stessa, L’Affaire Casati Stampa, è capace di ricreare intorno ai personaggi, con intensità e profondità, quell’atmosfera anni Settanta così carica di vitalità, follia e anticonformismo.
La parola chiave di questo romanzo di Davide Amante è proprio ‘anticonformismo’.
L’autore da un lato affronta una vicenda molto difficile – un omicidio passionale, cruento, cui è seguito il suicidio. La storia d’amore fra Anna Fallarino e il marchese Casati Stampa fu alla ribalta della cronaca per buona parte degli anni Sessanta, spesso assumendo toni scandalistici, e rimase per tutti gli anni ’70, dopo l’omicidio, uno dei casi più in vista e più discussi da moltissimi giornali.
Le indagini sull’omicidio porteranno alla luce ogni dettaglio di una relazione che appare da subito più intensa e complicata delle apparenze. L’approccio anticonformista e dal ritmo veloce dell’autore permetterà di svelare a poco a poco una storia d’amore intensissima e fuori dagli schemi, in tutta la sua grandiosità e passionalità.
D’altro canto l’autore, nel ricostruire attraverso le indagini la vicenda Casati Stampa, riesce con raffinatezza e grande controllo stilistico a immergere il lettore in quel mondo anticonformista degli anni Settanta. Questo è un punto importante perché è proprio partendo dal contesto di questo mondo anni Settanta che è possibile capire e vedere sotto tutt’altro sguardo la vicenda stessa, in tutta la sua passionalità.
Davide Amante ci guida attraverso quella trasgressione e voglia di libertà, nelle relazioni così come nella vita quotidiana, che ha poi portato alla formidabile creatività ma anche a quel disordine sociale, che si è poi cristallizzato negli anni di Piombo, che chiamiamo Anni ’70.
Lo scrittore ci porta nella normalità dell’anticonformismo, nella voglia di rottura con gli schemi e le rigidità dell’epoca precedente, in un amore più libero e più sincero, mostrandoci non soltanto il valore di quell’epoca ma anche il forte contrasto con l’epoca contemporanea, nuovamente regolata da un conformismo e da una rigidità morale di massa, imposta in parte anche dal predominio dei Social Media.
Insomma un libro, L’Affaire Casati Stampa, in cui sono presenti tutti gli ingredienti per catturare l’attenzione del lettore: la vita di provincia che sta stretta, il desiderio di ascesa sociale, la complessità del rapporto di coppia, i vizi e i capricci dell’alta società, ma anche le debolezze e i dolori che accomunano tutti gli esseri umani, Amante, giunto al suo quarto romanzo si rivolge a quei formidabili anni ’70 che hanno lasciato un segno indelebile in tutti noi e nella storia moderna.

Dalla quarta di copertina

30 agosto 1970, il più grande scandalo italiano.
30 agosto 1970, il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino uccide la moglie Anna Fallarino e l’amante Massimo Minorenti per poi suicidarsi. La vicenda scatena ampia risonanza pubblica al punto da essere considerata dalla stampa uno dei più grandi scandali italiani sia perché è coinvolta una delle più antiche famiglie aristocratiche milanesi sia per i retroscena sessuali e morbosi, basati sulla passione voyeuristica e candaulistica di una coppia al limite della moralità.
Le indagini sull’omicidio porteranno alla luce ogni dettaglio di una relazione che appare da subito più intensa e complicata delle apparenze.
Si rivelerà a poco a poco una storia che è difficile definire d’amore, ma certamente di interesse e passione, intensissima e fuori dagli schemi, in tutta la sua grandiosità tragicità. Si scoprirà così un “amore” tutt’altro che scandalistico e la intima bellezza dei personaggi coinvolti.
Un romanzo raffinato e dalla grande potenza narrativa che rivela, attraverso il percorso delle indagini, una delle più grandi verità dell’amore o che crediamo essere amore, della passione, della sofferenze e della vita.

L’autore Davide Amante

Davide Amante è scrittore di narrativa. Ha studiato in scuole di lingua inglese e italiana. Ha collaborato con varie case editrici (fra cui McGraw-Hill, Bertelsmann, Vallardi, Mondadori). Ha insegnato letteratura moderna e contemporanea. Ha scritto sceneggiature in lingua inglese per il cinema.
Ha collaborato con il Politecnico di Milano, su invito del Dipartimento di Architettura, insegnando agli studenti l’interpretazione e la trasposizione dell’opera letteraria negli allestimenti scenici teatrali e cinematografici.
Parla correntemente tre lingue ed è appassionato dello sport della vela e snowboard. Ha attraversato il Ténéré ed altri deserti del nord-Africa, ha navigato in solitario in barca a vela ed ha intrapreso numerosi altri viaggi.
Tra le sue opere: Punto di fuga Wallenberg (Leopard, 2014), Il guardiano delle stelle. Il viaggio di Anais insieme al vento (DMA International, 2018).

Il miglior scrittore del 2020? Guido Morselli, autore di ‘Dissipatio H.G.’, che ha descritto il nostro futuro prossimo

Guido Morselli è un miracolo e una condanna. Trascina con sé, sempre, una ossessione alla gloria estrema e all’estremo sacrificio. Il primo servizio dell’anno il “New Yorker” – rivista che più autorevole, autoritaria e aristocratica non si può – lo dedica a “The Italian Novelist who Envisioned a World Without Humanity”. 

Il testo è di Alejandro Chacoff; di fatto, Morselli è consacrato dal magazine americano come lo scrittore dell’anno, lo scrittore totalmente postumo che ha descritto il nostro futuro prossimo. “Solo un sommo esperto in solitudine – artistica, fisica, emotiva – avrebbe potuto scrivere un libro così spietatamente realistico su una catastrofe desolante, nella sua strana miscela di ansia e di noia.

Un’esperienza così radicale, infine, ha un prezzo”, scrive l’estasiato recensore. “Dissipatio H.G.” è stato pubblicato in dicembre da New York Review Books; ne hanno parlato tutti negli Usa, eleggendo quel romanzo a una specie di remoto culto. Il caso è serpentino: negli Usa ha vissuto pressoché tutta la vita il fratello di Guido Morselli, Mario, che oggi, fosse vivo, gioirebbe di questa inattesa fama. Si diceva, appunto, del sacrificio estremo e di una sorta di condanna.

La traduttrice americana di Morselli, Frederika Randall – che ha firmato anche l’introduzione al libro – è morta, in maggio, senza assistere al successo della sua fatica. Per inquadrare la ‘vicenda Morselli’, la storia di un genio conturbante, abbiamo chiesto un pensiero a Linda Terziroli, massima studiosa di Morselli in Italia, sua biografa(“Un pacchetto di Gauloises. Una biografia di Guido Morselli” è edito da Castelvecchi nel 2019).

Morselli per tutta la vita fu rifiutato dagli editori. Dissipatio è un testo estremamente lirico, molto vicino al filone filosofico del ‘700; si tratta di un delirio solipsistico e sicuramente Shiel ha contribuito alla costruzione di questo testo, in cui aleggiano sia Leopardi che Beckett. 

Per Morselli tutto è creazione o iificazione. La teoria soggettivista del sentimento come iificazione dell’oggetto (in amore, come in arte) è forse uno degli aspetti piú significativi della filosofia di Sereno, e costituisce il cuore del volume nel Dialogo VI del saggio Realismo e fantasia. Alla base della libera attività creativa e immaginativa ci sarebbe sempre un moto dell’animo, un’impressione incisa sul sentimento, la quale collega strettamente la funzione sensibile con quella affettiva. L’arte sarebbe in intimo rapporto con tale fenomeno; tradotto nella genesi dell’esperienza estetica, esso conferma la natura sentimentale dell’intuizione poetica, della ispirazione, che altro non sarebbe se non
un sentire le cose e gli esseri animati del nostro stesso sentimento: «Sentimento che ci avvince all’oggetto con un legame affine a quello amoroso». Non è difficile avvertirvi echi proustiani; del resto si muove tra Proust e Amiel il primo nucleo compositivo di Uomini e amori, romanzo d’esordio, non pienamente riuscito (anzi quasi sconfessato), e iniziato – come il presente saggio – in Calabria.

Dicono che, un pomeriggio, la fondina della sua pistola sia caduta, con un tonfo sordo, sul pavimento. Stavano spostando la scrivania quando, improvvisamente, la pistola di Guido Morselli è scivolata giù, dal retro di un cassetto. L’impressione, tra i presenti, è stata fortissima. Ma la fondina che, come un abito aveva fasciato la sua pistola per una vita, era vuota, deserta. Nessuno sa che fine abbia fatto la sua Browning 7,65. La ragazza dall’occhio nero, protagonista dei suoi romanzi. Non ho mai trovato il coraggio di fare questa domanda a Mario Morselli, il fratello di Guido, che viveva immerso nel freddo Vermont, vicino al Canada.

Quando la fondina è caduta sul pavimento, un silenzio tragico e pieno di parole ha colpito, in piena faccia, i familiari. Guido Morselli si era tolto la vita quella notte tra il 31 e il primo agosto del 1973, nella casettina dei custodi della villa Morselli di via Limido, a Varese. E ora, improvvisamente, la custodia della rivoltella era capace di un tale fragore nel cuore dei cari. Che, ormai, si sono abituati alle sue sorprese. Alle sue stranezze. Guido Morselli era, del resto, un originale, anzi un originalone. Poteva dare un appuntamento e non presentarsi. Arrivava puntualmente in ritardo a pranzo, a Milano, sottraendo il piatto da sotto il naso di suo padre Giovanni, che non doveva mangiare così tanto. Aveva imparato a guidare l’automobile a quindici anni. Il giorno che si è messo a guidarla di nascosto, suo padre è andato su tutte le furie. Ma le sorprese di Guido Morselli sono continuate anche dopo la sua morte.

La dissipazione del genere umano. Negli States, nel 2017, è uscito The Communist (Il comunista, appunto) nella sua traduzione (e l’Introduzione di Elisabeth McKenzie) per la collana di classici della New York Review Books. Frederika Randall aveva concluso, ormai da un pezzo, la traduzione di Dissipatio H.G. in inglese e ne aveva scritto l’Introduzione. Sarebbe uscito, in teoria, il primo dicembre di quest’anno. Entrambe scorgevamo un’altra profezia. Lei scriveva (era il 23 aprile): “Sono impaziente anch’io ma non c’è niente da fare, non c’è modo di anticipare la pubblicazione”. Con la pandemia si sarebbe accumulato ulteriore ritardo.

Guido Morselli era “un uomo difficile, ma non privo di qualità umane”. La traduttrice lo conosceva attraverso i suoi libri, in virtù di quella difficile conoscenza che è l’arte della traduzione letteraria. La traduttrice è mancata il 12 maggio di quest’anno. Ha salutato dal cielo la pubblicazione di Dissipatio H.G. in terra americana. Il libro è uscito lo scorso dicembre. Orfano due volte, dell’autore come della sua traduttrice. Il pacchetto di Gauloises è finito. Frederika Randall teneva sulla scrivania una foto di Guido Morselli.

«Sono orgoglioso di sentirmi un riepilogo di uomini», annotò Morselli nel suo Diario: ecco, nella capacità di vivere, sperimentare e raccontare una molteplicità di esperienze e di individui, nella possibilità di viaggiare nel passato e nel futuro, è il marchio di fabbrica della scrittura morselliana: pulita, trasparente, dalla parola pertinente, ma lieve. Scrittura che non valse a salvargli la vita; in una nota del Diario datata 6 novembre 1959, il bilancio era già ampiamente negativo:

«Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugualmente inutile».

 

Fonte; Linda Terziroli

‘The Stonemason’, capolavoro di McCarthy non ancora tradotto: tra Bibbia, Faulkner e la tragedia greca di Eschilo

Cormac McCarthy è tra i grandi narratori viventi; nella sonorità linguistica che fa falò della fascina delle ossa, Meridiano di sangue sta tra i libri titanici di sempre. In ogni caso, da qualsiasi lato pigliate McCarthy, cascate bene. I suoi libri trascinano nell’al di là della narrativa, nel luogo degli interrogativi micidiali. Non si leggono: obbligano a una scelta – persino a una responsabilità che riguarda il nostro stare al mondo.

 

L’anno scorso, in un vasto articolo che battezza l’irritante sbadataggine – diciamo così – della grande editoria italiana – prona a ciò che potrebbe piacere al lettore, preso per cretino, alimentando le classiste classifiche, più che alla grandezza in sé – Alessandro Gnocchi ha ribadito che di Cormac McCarthy, che crea nel vortice della rovina, c’è tutto. Tranne un testo. Il testo s’intitola The Stonemason, è stato pubblicato nel 1994, gli esperti lo dicono “un notevole fallimento”.

The Stonemason è centrato sulla figura di Ben Telfair, nero, poco più che trentenne, al contempo narratore e attore del dramma. Siamo negli anni Settanta, a Louisville, Kentucky; Ben abbandona gli studi universitari in psicologia per perpetuare la tradizione di famiglia. Di mestiere, i suoi sono scalpellini, tagliatori di pietre. Il totem della famiglia Telfair è nonno Papaw, che incarna i valori dell’onestà, della rettitudine, della fede. Ben è lì che vorrebbe radicarsi, ma il mondo lo morde e lacera la famiglia. La sorella più grande di Ben, Carlotta, vive un matrimonio devastato: il figlio di lei, quindicenne, è un perduto, richiamato dalla dissipazione, dalla droga. La moglie di Ben, Maven, sogna il riscatto sociale, è bella, vuole diventare avvocato. Il padre di Ben, travolto da un tracollo finanziario, si uccide.

The Stonemason non è un play canonico. L’andamento è biblico, da libro dei re (e dei dannati). I monologhi di Ben – ad alta elettricità linguistica – interrompono spesso il dramma. Ben fa le funzioni del coro nella tragedia greca: qui sembra che Eschilo abbia i jeans, che sia passato dalla luce greca all’arcaica desolazione americana. Dietro Cormac McCarthy c’è l’esempio faulkneriano di Requiem for a Nun – straordinaria fusione di prosa e brandelli teatrali – e dei lati sinistri del teatro elisabettiano, John Webster.

 

Davide Brullo

‘Le correzioni’ di Jonathan Franzen: quando cambiamento non necessariamente significa miglioramento

Le correzioni, The Corrections, è il  romanzo più celebre, insieme a Purity, di Jonathan Franzen. Scrittore e stagista statunitense con radici tedesche, Franzen nasce nell’Illinois; compie Studi Umanistici tra gli Stati Uniti e Berlino, esordendo come scrittore nel 1998. Nel 2002 arriva la consacrazione dalla critica letteraria aggiudicandosi, proprio grazie a Le Correzioni, l’ambito premio National Books Awards. Il Time gli dedica una copertina per l’uscita del suo libro nel 2009. Collabora al New York Times dal 2010, uscendo con diversi scritti e saggi . Questi ultimi sono famosi per  aver attirato malumori dei tanti colleghi scrittori nazionali e internazionali.

Pubblicato nel 2001, The Corrections ,è uno dei racconti di narrativa in stile post-modernista che descrive minuziosamente e in modo satireggiante, i cambiamenti in chiave ottimistica delle famiglie americane prima della crisi di inizio anni duemila. La narrazione verte sulle relazioni umane e sul loro modo di condizionare le vite dei singoli. Si addentra ed analizza l’intimità di una qualunque famiglia contemporanea, dove i valori di una generazione passata si contrappongono e si mescolano con la generazione successiva, senza mai fondersi del tutto.

Trama e contenuti nel romanzo di Franzen

Il romanzo di Franzen sembrerebbe raccontare le vicende di una normale famiglia del Midwest, simile a tante altre: la tipica famiglia bianca della borghesia statunitense, impregnata di quel perbenismo ipocrita e moralista. Tuttavia il voler accentuare queste caratteristiche rende i personaggi sorprendentemente contraddittori. La maggior perseguitrice dei valori puritani e borghesi è sicuramente Enid Lambert, moglie di Alfred e madre di Gary, Chip e Denise. Ella si confronta in modo ossessivo con i suoi vicini e le sue amicizie, considerati modello di uno stile di vita “giusto e rispettabile, riscontrabile solo tra i cittadini di Saint Jude.

Enid per una vita intera cerca di raggiungere il modello di perfetta moglie e madre, volendo in tutti i modi eccellere e diventare lei stessa e la sua famiglia modello ambito e invidiato dal vicinato. Questo la porta a criticare ogni minimo sbaglio della vita dei suoi conoscenti, contemporaneamente dissimula i comportamenti errati suoi o dei suoi familiari. Enid sarà esasperata delle sue ossessive correzioni e solo alla fine del libro capirà che ha dedicato a questa attività tempo inutile. A differenza di sua moglie, Alfred è forse il personaggio che Franzen farà ricorrere meno alla revisione dei suoi comportamenti: lo farà solo in relazione al suo lavoro, fulcro della sua vita.

Ben presto il padre di famiglia si arrenderà ai suoi sbagli ma involontariamente: la depressione e poi la malattia di Parkinson ridurranno in lui la soggiogazione a quella smania di perfezione etica e morale che sfociava della corrosiva dedizione al lavoro. Al rifiuta la vita familiare, gli svaghi, i piaceri. Per lui la vita è fatta di affanni, di lotta, di sofferenze. Ecco perché forse lo scrittore gli attribuisce una malattia tanto grave che lo porterà alla morte. La malattia gli permetterà di correggersi senza il suo volere, perché la sua troppa rigidità non gli avrebbe permesso passi in dietro. La stessa famiglia è concepita da lui come una squadra che lavora per adempiere ad un compito: sostentarsi a vicenda.

La moglie è il familiare che subisce maggiormente la sua concezione schopenhaueriana: questa è a tutti gli effetti un suo subordinato alla quale impartire ordini sulla gestione della casa e dei figli e alla quale non consentire neanche un briciolo di compassione, supporto o di gesti affettuosi. Nel rapporto coniugale sono riversate, quindi, le rispettive frustrazioni per quell’idea dell’altro irreale. Enid aspetta per tutta la vita che suo marito possa diventare in qualche modo più affettuoso, possa ricambiare i suoi gesti d’amore ed anche se sa che il cambiamento non avverrà mai, lei sarà innamorata di un Alfred esistente solo nella sua mente. Alfred, che sguazza nella propria autocommiserazione, ad ogni modo imporrà alla moglie i suoi voleri, la sua privacy, ammonendola ogni qualvolta non rispetti le sue indicazioni.

Questo nodo cruciale sarà sbrogliato solo con l’aggravarsi della malattia di Alfred, quando non vi sarà più bisogno di correggere l’altro. I tre figli della coppia, hanno vissuto la loro infanzia i questo clima di eccessiva rigidità. Forgiati su quella rincorsa alla perfezione ostinata, finiscono per distaccarsi quasi per ripicca da quel perbenismo maniacale. Per quanto possano odiare quegli atteggiamenti e pensieri così repressivi, non potranno ignorarli, ci dice Franzen.

Gary il maggiore, è colui che più di tutti ha subito l’influenza di sua madre cercando di imitarla sotto tutti i punti: in primis vuole far in modo da entrare nelle grazie di suo padre e, di conseguenza di sua madre, fin da quando è piccolo. E’ l’unico dei tre che ha costruito un nucleo borghese a Philadelphia ,con una moglie rispettabile e benestante, tre figli e un lavoro dirigenziale. Pur allontanandosi dalla sua famiglia non riesce a far a meno di comportarsi come loro, lavorando sodo come il padre, certe volte estraniandosi, commentando e giudicando con disprezzo chi non rientra nei canoni, bramando prestigio e affari.

Egli è però terrorizzato dal porte assomigliare in qualche modo a suo padre, Alfred : le sue correzioni sono principalmente volte a rimodulare i malsani atteggiamenti paterni cercando di non commettere le stesse azioni che un tempo hanno recato dolore alla sua famiglia. Chip, il secondo fratello, è considerato il sovvertitore degli equilibri familiari: viene descritto come la “Pecora Nera”, anche se i suoi genitori non hanno fatto altro che lodarlo e vantarlo per tutta la vita, a detta sua, sopravvalutando le sue capacità. Sente la forte pressione dei suoi genitori, che confidano in alte aspettative per la sua vita e la sua carriera. Ha la capacità di opposti in qualunque modo a queste volontà idealizzate dalla sua famiglia. Si tratta forse del personaggio più eclettico nella vicenda, capace di immischiarsi in diversi guai e riprendersi, cadendo sempre in piedi.

Per quanto egli voglia in qualche modo sfuggire alle speranze genitoriali, non potrà fare a meno di deluderle: vorrebbe dare loro quelle agogniate soddisfazioni ma la sua natura glielo impedisce. Quando non opporrà più resistenze al suo spirito libero, ritroverà il suo baricentro e la serenità.

L’ultima dei tre, Denise, sembrerebbe essere la più affine al comportamento di Alfred, anche se il suo lato umano è molto più spiccato. Come lui è ambiziosa e testarda. Riesce a far emergere il lato sentimentale e umano di suo padre, che probabilmente riconosce molto di lui in lei. Descritta come una chef in carriera, dedica tanto tempo al lavoro ma finisce per farsi licenziare. I piaceri che tanto Al aveva ripudiato, la persuadono e allontanandola per sempre da quella vita fatta di solo lavoro. Spesso è la “vittima” preferita delle ammonizioni di sua madre. Con quest’ultima, è in continuo scontro ma contemporaneamente riesce ad immedesimarsi nel suo punto di vista anche non condividendolo. Il contrasto con l’ aspirazioni materne, la porterà a compiere scelte, nella sua vita sentimentale, molto distanti dai voleri di Enid.

Cercherà, come suo fratello, ma con la dedizione che la differenzia, di allontanarsi e poi di avvicinarsi ai valori paterni, fallendo miseramente, scegliendo in fine la propria felicità condivisi in fine anche dai suoi familiari, infischiandosene dei loro giudizi.

Il cambiamento inevitabile

Le vicende di questa famiglia riportano il lettore a confrontarsi con se stesso, ad aiutarlo a comprendere il modo corretto di correggere il proprio io. L’accattivante uso di regressioni offre un’ampia panoramica sulla vita di questi cinque personaggi: un’analisi così ben presentata da poter far diventare i cinque, persone comuni intercambiabili, alle prese con i loro dissidi interiori suscitati dalla smania di voler essere conforme a un qualche modello prestabilito. Paiono tutti non sfuggire a quell’anedonia radicata, come suggerisce Franzen: l’Anedonia era il segnale d’allarme che stava contagiando un piacere dopo l’altro, frutto di quella comodità infelice che prima o poi si finisce per accettare.

Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia

La conquista di Franzen sta nell’essere riuscito a trovare per questi personaggi di una saga familiare che fotografa il cambiamento di una società (non solo quella americana) che smarrisce ogni riferimento morale, seppur ipocrita e autoritario, una svolta plausibile che riporta loro verso una via d’uscita, offrendo un finale ricco di sorprese e non scontato. Le citazioni di cui si serve lo scrittore, dalla Bibbia a Schopenhauer a S.C. Lewis, risultano opporune e calzanti e mai del tutto scontate. Ritornano come lampi all’interno della narrazione e permettono di collegare episodi apparentemente sconnessi.

Il linguaggio di Franzen è fluido e mai troppo ricercato, ironico e a tratti caustico anche nell’affrontare argomenti scientifici o di economia. Se pur la traduzione italiana non riporta il significato corretto di alcuni gerghi e giochi di parole tipicamente yankees, c’è da apprezzare la volontà di riportarne almeno in parte la funzionalità nella narrazione conferendo allo scritto una freschezza moderna che fa venire in mente American Beauty, Tempesta di ghiaccio e Pastorale Americana. Ma per Franzen non sempre il cambiamento è verso qualcosa di meglio e i rapporti umani, familiari ne rappresentano il nodo irrisolto.

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