‘Diverso’, l’inettitudine di un uomo di oggi raccontata da Roberto del Balzo

“Diverso” di Roberto del Balzo (La Gru Edizioni) è il titolo di un racconto di un giorno di lavoro, quello in cui il personaggio principale, Osvaldo Giustozzi, sceglie di dare le dimissioni. Queste otto ore sono il pretesto non solo per descrivere l’alienazione e i desideri di fuga dal posto di lavoro ma per riflettere sul senso ultimo dell’uomo, le sue passioni e rinunce. È una storia sulla frattura tra una vita imposta dalle convenzioni (lavoro, famiglia e amicizia) e la presa di coscienza della mancanza di libertà e di tempo e, in ultima analisi,
dell’impossibilità di essere veramente se stessi in questa vita.

Le dimissioni saranno per lui il primo passo per dare uno strappo tra sé e una vita sempre uguale che sembra non appartenergli più.
Osvaldo Giustozzi arrivato al giro di boa dei cinquant’anni sente l’impellenza di ritornare alla vita e liberarsi dalle catene che lo tengono legato a una scrivania tutto il giorno, obbligato a convivere con colleghi miseri e tristi, un coacervo soffocante di personaggi soggiogati dalla vanità e dalla voglia di emergere scavalcando tutto e tutti.

Il suo come quello di tanti altri è il primo passo, uno dei moventi che spingono le persone ad abbandonare un presente che stritola per tentare di ricostruire qualcosa dopo il nulla che li ha attraversati. Diverso è il percorso di questo sforzo di liberazione che alla fine mancherà, perché il passato e gli eventi prenderanno il sopravvento sulla voglia di futuro, che alla fine sarà “Diverso”.

“In quale punto della vita ci si perde? Quando si smarrisce il senso di quello che abbiamo fatto e di quello che ci rimane da fare? Ci facciamo trasportare dall’inutilità di mille cose senza curare più la nostra anima. Il lavoro e quella inutile voglia di mostrarsi, mostrarsi migliori di quello che siamo, sfoca tutto e non si riesce più a intravedere l’inizio e la fine nella nebbia dei momenti persi e mai più ritrovati.”

Osvaldo Giustozzi è un uomo all’apparenza decisamente mediocre. Ha condotto una vita modesta facendo un lavoro eternamente uguale a se stesso come redattore in una famosa rivista. Ogni sua giornata è scandita da una routine che non lascia scampo: dormire, lavorare e cercare nel tempo rimanente di dare un senso alla pochezza che lo circonda. Arrivato alla soglia dei cinquant’anni decide di dare le dimissioni senza pensare al futuro o alle conseguenze. Quello che doveva essere l’ultimo giorno di lavoro, le ultime otto ore passate in attesa di consegnare la lettera di dimissioni e andarsene, prenderà una forma inattesa, a tratti drammatica.

L’inettitudine di cui parla Roberto Del Balzo avvalendosi di un tocco di ironia, è quella incapacità di vivere, la paura della vecchiaia e della morte, della malattia che richiama alla memoria grandi classici, da Pirandello a Kafka, passando per Svevo. Osvaldo rappresenta la figura dell’inetto, del disadattato sempre in fuga da situazione i contesti mediocri, in primis attraverso le dimissioni e somiglia soprattutto al personaggio di Zeno Cosini, in quanto uomo moderno, figlio del decadentismo che vive in contrasto con la realtà e in una dimensione di irrazionalità ed esprime lo smarrimento della coscienza di fronte a una civiltà considerata in declino.

L’uomo decadente avverte l’impossibilità di entrare in reale contatto con gli altri, denuncia la disperazione, l’inettitudine e l’impotenza dell’ individuo di fronte alle scelte imposte dalla realtà. L’inconcretezza e la precarietà vengono allora riconosciute come basi della vita e la “malattia” è accettata come condizione normale, alla quale è possibile contrappore solo una lucida rassegnazione ad un destino di sconfitta. Tale coscienza della crisi viene affronta da Del Balzo che analizza la vita del suo protagonista e dei suoi rapporti sociali e lavorativi.

Gli atti di ribellione che mette in atto il protagonista sono davvero atti coraggiosi di chi non vuole omologarsi agli altri o prove dell’incapacità di adattarsi alla società che forse, in fin dei conti, non è tanto malvagia come si può pensare? Sembra essere anche questa la domanda che pone Roberto del Balzo tramite il suo antieroe, e in un momento in cui la letteratura italiana è parca, purtroppo, di storie scevre da ideologie e politicizzazioni, storie personali che analizzano la psiche nel mondo e nella società di oggi tutta lavoro e dipendenza tecnologica.

Un’opera prima di buona fattura quella di Roberto del Balzo, che non si perde in sterili retoriche, ma che cerca di affrontare il problema del “non sentirsi in sintonia con gli altri e con il mondo” a partire dal malessere che si cela nell’individuo.

L’autore

Roberto Del Balzo (Milano, 1965) è di origini napoletane. La scrittura è sempre stata il sottofondo della sua infanzia con il battito sui tasti della Olivetti Lettera 32 del padre giornalista ed è rimasta per sempre una passione, una passione da accogliere per farne vita, racconti, romanzi e altri progetti. Oltre alla scrittura c’è il suo quotidiano lavoro come direttore creativo in un’azienda di Milano.

‘Decimo Dan’, la silloge poetica esoterica di Marco Plebani

Decimo Dan, edito da Edizione la Gru è la silloge di Marco Plebani. Classe 1978, Plebani è un insegnante di Lettere presso la scuola media “E. Fermi” di Macerata. Ha vissuto la sua vita tra Montefano (MC), Macerata e Corridonia, dove attualmente vive con la compagna e con il figlio. La raccolta Un giorno qualunque (Ed OTMA, Milano 2011) è la sua opera prima, con la quale si è classificato secondo al premio A.U.P.I. (Albo ufficiale Poeti Italiani). Sono un rockettaro sfegatato, amo ballare fino allo sfinimento e “canto” (ovvero strillo) in un complesso chiamato “Tetrics”.

 

<<Adoro fare fotografie e strimpellare la mia chitarra>> dice di se stesso Plebani, nella sua biografia. Si diletta nella poesia dal 1999. Decimo Dan, raccoglie liriche composte in un arco temporale di oltre due decenni, proprio dal 1999 al 2021. Il libro si apre con la prefazione a cura di Pier Marino Simonetti e si chiude con la postfazione di Ricardo Pérez Márquez.

Il titolo dell’opera è un rimando metaforico al massimo grado delle arti marziali inteso come quel più alto livello di consapevolezza che la poesia fa raggiungere. Plebani scandisce il fluire della narrazione in un’unica giornata, cadenzata in tre momenti, antimeridiano, pomeriggio e sera e infine notte. La sezione più corposa è proprio quella di pomeriggio sera con 71 componimenti, poi a seguire notte con 68 e infine antimeridiano con 52. Lo scrittore apre la prima parte della sua silloge con Prima del Big bang:

Che cosa

è

la

vita

sulla

Terra?

È il tormentato sogno di Dio.

Già dai primi versi si intuisce il senso di malinconia e di afflizione che l’autore vive nel tempo della narrazione. La realtà di un mondo forse troppo distante, troppo diverso da lui, talvolta si percepisce quasi la sua angoscia e il suo straniamento. E’ forse per questo che In istruzioni per l’uso rivolge un invito a chi legge:

Leggimi, lettore, se questo vuoi:

fallo con voce

bassa,

lenta,

modulata,

medianica,

affrettata ove è necessario.

Che tu possa, lettore, aderire

a codesti dettagli inconoscibili;

impara, però, predisposto silenzio

Lo scenario che si apre per chi legge è un mondo fatto di magiche suggestioni ma anche riflessioni profonde e talvolta taglienti. Plebani non parla di cose distanti da lui ma di esperienze vissute, fatti personali che si consacrano di eterno una volta sulla carta. Perché colleziono ricordi per il futuro scrive nel brevissimo componimento Crono.

L’autore trasforma in versi tutto ciò che ha vissuto, e visto, descrivendo anche molto attentamente i sentimenti provati in quelle determinate situazioni: gli incontri con alcuni suoi alunni che ha conosciuto nel suo peregrinare da docente, così come le serate trascorse con qualche suo amico di uscite, determinati luoghi in cui è passato come Recanati oppure  come la poesia Parco Cormor  ispirata, invece, ad un fatto di cronaca successo a Udine nel 2012.

Plebani invita il lettore ad entrare nell’ intimo mondo di chi scrive senza paura di farsi leggere dentro, perché il Poeta è colui che sensibile pelle espone ai rovi. Da musicista l’autore ha imbastito un pentagramma poetico fatto di diverse melodie. In Decimo Dan c’è molto ritmo e musica. I componimenti che si susseguono sono di lunghezza diverse: alcune estremamente brevi altri, invece, decisamente più lunghi.  Le metriche usate sono varie: dal più comune sonetto e verso libero a qualcosa di più ricercato come il madrigale e la còbbola provenzale.

Un efficace supporto in questo senso è l’apparato delle note al testo che in maniera precisa erudisce anche i meno esperti di metrica. I versi sono per lo più endecassillabi e/o in versi sillabicamente dispari. Ogni componimento va minuziosamente decifrato. In Decimo Dan massiccio è il ricorso al mito, da Prometeo ad Orfeo, a Penelope, fino ai luoghi come Itaca.

Figure o rimandi mitologici incastonate sapientemente tra i versi, una chiave di lettura ancor più immediata per i lettori, che attraverso rimandi metaforici riescono a svelare i significati più nascosti. Ogni parola nelle sue poesie non è messa lì a caso ma tutte sono armoniosamente vicine per una costruzione. Non mancano all’interno delle poesie aspre critiche come si nota nella sezione pomeriggio sera e nello specifico nella poesia intitolata In città:

All’ascolto di urbane disarmonie

conosco un prezzo: sensibilità deviate.

Uomini chini,

colpiti ad intermittenza

da miriadi di messaggi

pubblicitari accesi e spenti.

Oppure Panta Rei:

Il naturale tramutar del tutto

porterà via volendo

un’umanità disumanizzata

da pornografia e videopoker.

Intrattenimento dei persuasori

occulti.

Uno scandalo al giorno non sia norma.

Con parole graffianti Plebani si scaglia contro un’umanità disumanizzata fatta di uomini persi con la testa negli smartphone, ormai assuefatti dal suono dei messaggi e intrappolati da pornografia e videopoker. Uomini condannati ad una dimensione inequivocabilmente orizzontale, curvi su loro stessi. Ma forse l’aspetto più sorprendente di questa silloge è proprio la parte finale: l’ultima sezione Notte si chiude con la stessa riflessione iniziale ma con una consapevolezza diversa:

Padre-Nonno che sono in Terra diventato,

lento, lento e lentamente

ancor

mi chiedo:

«Che cos‟è la vita sulla Terra?»

«Che cos‟è la vita sulla Terra?»

«Che cos‟è la vita sulla Terra?»

È il tormentato sogno di Dio

Una penna molto creativa e mistica quella di Plebani che si avvale di uno stile certamente anticonvenzionale, pungente, e ricorda la tradizione delle invettive tra Medioevo e Umanesimo, e che induce il lettore a non avere paura di andare oltre il visibile, a scoprire qualcosa, perché finché ci sono domande, ci saranno sempre risposte da trovare.

“Naufragi di paesaggi interni. Frammenti”. La raccolta poetica intimista di Andrea Ravazzini

“Naufragi di paesaggi interni. Frammenti” (Sigem, 2023) è la silloge poetica di Andrea Ravazzini che raccoglie in ordine cronologico una selezione di componimenti poetici, in versi liberi, composti ed elaborati dall’autore nel corso di un lungo periodo di tempo compreso tra il 1997 e il 2022.

Le influenze più significative che hanno improntato in modo preponderante l’evoluzione dello stile di composizione dei frammenti e dei componimenti derivano dalla lettura di classici italiani, come Ungaretti e Pavese, di poetesse della corrente confessional (Sexton, Plath), di Pessoa, ma in particolare dalla lettura dell’opera poetica di Antonia Pozzi e di Cristina Campo.

Le poesie raccolte hanno un carattere intimista-ermetico, senza enfasi su prolissità, retorica e tecnicismi eccessivi. Risultano invece tese a valorizzare la singolarità della minima parola nella sua densità di senso e di significato più profondo. Affrontano variate tematiche legate ai sentimenti che costellano il mondo dell’interiorità e ai moti dell’animo umano, tra cui la condizione di gettatezza e di angoscia esistenziale, la tristezza esistenziale, la fiamma della speranza e della vita, il potere della poesia e della parola.

La speranza, la parola, la poesia -che sono doni, quindi che richiedono di stare in attesa affinché possano essere ricevuti e germogliare in frammenti-, vengono lette in termini pozziani come ancore di vita a cui aggrapparsi, poiché donano senso e salvezza.

 Il poeta si misura con l’estremo, con ciò che trascende l’artista, ma il sacrificio sancisce il compito del
nominare, e con esso la salvezza delle cose trasfigurate nell’immagine poetica. Il lavoro poetico viene assunto da Andrea Ravazzini alla maniera di Antonia Pozzi, come compito imprescindibile, cifra della sua stessa moralità. Eppure, la contraddizione tra la vita che la circonda e lo status di poeta al quale si è votata è causa di un irreparabile disagio.
Crepatura
Rivoli polverosi,
sbiaditi,
linee disattese,
maltrattate;
nell’immutabilità del tempo sovrano
s’impone
la marcia lunga e silente;
in frantumi,
si stramazza
nel segno di carne e cuore.
In questa poesia Andrea Ravazzini propone la coincidenza figurativa tra stato d’animo ed elementi terreni, misurandosi con la consapevolezza della propria impotenza di fronte all’illusione di una coesione con il tempo che passa inesorabile.

Indelebilmente posata nel corso di lunghi anni dalle forme mutevoli, la parola viva e lucente ha sorvolato densi paesaggi interiori, maree polifoniche, radure adombrate, in un farsi e disfarsi ininterrotto a cavallo della trama frastagliata in cui si dipana lento, lento, il silente cammino in cui naufraga -di attimo in attimo- il destino fugace del canto del tempo. I frammenti raccolti nel corso di quest’opera ne sono una voce singolare, insatura, che narra una semplice storia contornata da un inizio e da una fine irripetibilmente mai tali, ma adornata di sguardi velati che si librano su ali d’altrove.

Ravazzini invita a riflettere anche sul concetto di attenzione: la poesia infatti è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura.

Emerge una dolorosa quanto antica domanda: fino a che punto l’arte esaspera il disagio esistenziale sofferto da chi non riesce ad accontentarsi della banalità della vita? La poesia di Andrea Ravazzini è una spina del fianco ma necessaria, un dono prezioso di questi tempi in cui la produzione libraria li asseconda, facendo markette piuttosto che lasciare immergere il lettore nella cupa ebbrezza del tempo.

L’autore

Andrea Ravazzini vive tra Modena e Corlo, una frazione del Comune di Formigine (MO). Da sempre appassionato di letteratura, avido lettore e instancabile viandante nel mondo dei libri, lavora per il Centro di Solidarietà di Reggio Emilia Onlus, sul territorio reggiano, nell’area Dipendenze Patologiche, in una struttura residenziale. Ha pubblicato nel 2022 un saggio di tipo psicologico sulle dipendenze patologiche (“Addiction. Attaccamento, disconnessioni e fattori evolutivo-relazionali”, casa editrice Kimerik, Patti) ed è in fase di lavorazione presso la stessa casa editrice in vista di una prossima pubblicazione un saggio sui disturbi alimentari maschili. A livello locale ha collaborato con contributi personali ad alcune opere autoedite dell’artista modenese Gianni Martini.

‘Pensieri. Di terra, di vita, d’amore’, l’esordio poetico del marchigiano Domenico Cornacchia

Dopo il successo della sua opera prima Resto quiDomenico Cornacchia, torna in libreria con Pensieri. Di terra, di vita, d’amore, pubblicato da Edizioni Efesto. Lo scrittore marchigiano per la seconda volta affida nelle mani del lettore, le sue poesie, Pensieri, come lui stesso definisce i suoi scritti. Pensieri. Di terra, di vita, d’amore è una silloge di componimenti breve, in cui vengono toccati diversi temi.

Già dalle prime battute si ha la sensazione di essere catapultati in uno scenario bucolico, immersi nella natura incontaminata e nella fauna selvatica, dove si respira la libertà e si ode la soave melodia del fischio del vento e del cinguettio degli uccelli. È forte la necessità di allontanarsi per prendersi cura di noi stessi. È tempo che la nostra anima si risvegli ritornando ad assaporare le primordiali sensazioni. Attraverso una penna dalla forte potenza immaginifica lo scrittore conduce il lettore in uno spazio atemporale, lontano dalla frenesia della città, che roboante scandisce i passi dei viandanti.

Siediti Sirena
Ulisse è lontano.
Non incanti più
questo mare di niente
con il tuo suono di miele.
Alle tante dipendenze
sì abbocca come
pesci nelle reti.
Legami all’albero maestro.

Il mare di niente, delle cose futili che sempre più spesso ammalia, i passanti, irretendo la loro vita. I versi di Cornacchia sono depositari di un messaggio importante per chi legge, un invito ad essere meno miope ma più attendo a tutto ciò che la natura ci regala: le stelle, la luna, il mare, la montagna, gli animali e i fiori. Una dimensione in cui permeano miliardi di sfumature e luoghi: partendo dal cielo per arrivare alla terra, passando attraverso l’amore fino all’incitamento di spogliarsi dalle catene dei condizionamenti esterni e interni della nostra vita. In un gioco di rimandi e metafore, un appello a concedersi la possibilità di fermarsi per osservare le meraviglie che ci circondano e di rallentare dai ritmi convulsi che quotidianamente ci governano. Guardare profondamente e non semplicemente vedere, che invece è un esercizio molto più superficiale.

L’autore trasmette questa intenzione proprio a partire dalla copertina del libro: il grande occhio di un cavallo, in primo piano, è la metafora di vivere in maniera selvaggia la vita, saperla cavalcare, con coraggio con uno sguardo famelico e curioso, sempre pronto a cogliere le bellezze più nascoste della nostra esistenza. Domenico Cornacchia non smette mai di meravigliarsi e di innamorarsi dell’essenziale. E con la penna, intensa e passionale, di un vero innamorato, accompagna il lettore a contemplare, accarezzare ed entrare nella luce intensa delle cose. Il fortunato viaggiatore che incontrerà i pensieri di Domenico Cornacchia non potrà far altro che dispiegare le ali dei propri sensi e fluttuare in un inedito e sorprendete panorama da esplorare.

La silloge è un incitamento, neanche troppo velato, a spazzare via dai propri occhi la fuliggine del hic et nunc, riappropriandosi, invece, della possibilità di concedersi una pausa di riposo e tranquillità. In un momento in cui il tempo scorre inesorabilmente si fa forte il desiderio di scrutare ogni piccolo dettaglio, e carpire ogni angolo nascosto. Questo spiega la scelta dell’occhio di un cavallo sulla copertina. Con uno sguardo attendo dobbiamo saper cogliere tutte le sfumature che il mondo ci offre: non solo le cose tangibili come un bel fiore, o il frutto maturo, ma anche quelle intangibili.

Regalarsi del tempo, osservare una piccola imperfezione e meravigliarsi. Godersi la dolcezza di un bacio o il suono della voce di chi amiamo. Coltivare la gentilezza senza frenesia; è questa la cifra contenutistica della poesia del quotidiano, di Cornacchia.

“Né il fiore né il baratro”: in libreria l’opera prima del poeta Giovanni Rossi

Né il fiore né il baratro, pubblicata da Chipiùneart edizioni, è la silloge con cui Giovanni Rossi esordisce sul panorama editoriale italiano.

Giovanni Rossi nasce a Catania il 20 aprile del 1995. A Milano si laurea in Economia presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi e frequenta la Scuola di Scrittura di Raul Montanari. In seguito, consegue un Master Biennale in Scrittura Creativa presso la Scuola Holden di Torino. Oggi vive tra Milano, Catania e Roma, dove studia Sceneggiatura presso l’Accademia di Cinema e Televisione Griffith.

Né il fiore né il baratro: Sinossi

Copertina del Libro

Né il fiore né il baratro è inserita nella collana Pervinca diretta da Fiorella Cappelli.

Ho un ricordo felice
una spiaggia bruna
noi siamo arrivati dal bosco attraverso
un sentiero di case
silenziose possedute dal sole.
Soltanto i cani avviliti
latravano dai giardini
di tarassaco ma noi
eravamo sordi al rantolo della natura.
Non c’era vita nelle sabbie
a parte l’anima bavosa d’un crotalo
smarrito tra le nostre caviglie.
Su un letto di granato
abbiamo piegato i panni
a fabbricare altari che ci testimoniassero
poi nudi ci siamo consegnati
alle acque.

Libellule umane sulle spiagge del siracusano

Un titolo che suona perentorio, come una dichiarazione di stasi in un limbo – si legge nella prefazione di Angela Argentino. Non il fiore che sarebbe potuto sbocciare da un seme gettato nella terra, ma neanche il baratro, sul cui ciglio il giovane poeta si è fermato, e da cui, ora, misura la distanza e la memoria (…) Giovanni viaggia con la sua anima, da un punto all’altro del mondo, e dentro geografie interiori che non concedono coordinate a chi volesse seguirlo. Un cammino criptato, intorno a un desiderio cocente che il poeta riesce ad annientare”.

Le poesie che compongono la silloge testimoniano un percorso di scrittura durato cinque anni. Il primo nucleo era immaginato come un’ultima conversazione tra due partner in punto di rottura. Oggi, nell’ora della pubblicazione e del confronto con i lettori, i testi sono quarantadue.

“Il tema amoroso e le sue scorie erano l’impianto intorno al quale avevo deciso di costruire l’intera raccolta – spiega l’autore. Poi gli anni sono trascorsi, i testi sono maturati e molti sono cambiati, a volte spariti per fare posto ad altri. Il tema amoroso è diventato uno dei tanti, insieme a quello familiare, all’adolescenza come età della sopravvivenza e quindi, spesso, del cinismo, alla dipendenza”.

“Si tratta – aggiunge la casa editrice – di un’opera importante non solo come testimonianza e primo frutto di una scelta esistenziale – dopo la laurea alla Bocconi il poeta, adesso ventottenne, decide di intraprendere un percorso di formazione artistica frequentando scuole di scrittura e sceneggiatura – ma anche per il risultato estremamente felice e promettente.

Arricchita da un mai convenzionale né didattico corredo fotografico – le splendide immagini in bianco e nero del giovane fotoreporter Sergio Attanasio – la silloge scaturisce da una ricerca interiore seria e profonda come vuole la migliore tradizione lirica e, al contempo, da una altrettanto seria ricerca stilistica, che si avvale di strumenti espressivi maturi e consapevoli. Ci troviamo, quindi, al cospetto di un’opera che si fa apprezzare per la felice sintesi di contenuti e stile, entrambi caratterizzati da equilibrio e sobrietà: se le tematiche, senza rinunciare a scandagliare nel profondo, non si lasciano sedurre dalle facili lusinghe di un giovanile (e ormai manierato) maledettismo, l’apparato retorico, che si avvale di ossimori, metafore, anafore, non scade mai a puro esercizio poetico, ma si fa strumento duttile di incarnazione della materia.

 

https://www.chipiuneartedizioni.eu/?s=n%C3%A8+fiore+n%C3%A8+baratro

 

 

 

 

 

 

 

 

’Giorni di un presente corrosivo’’, la lirica urbana di Andrea Scaricamazza

’Giorni di un presente corrosivo’’ è il nuovo libro di Andrea Scaricamazza edito dalla casa editrice Montag. Il protagonista della storia è Flavio, quarantenne dal carattere schivo e riservato che in una Roma rovente cerca di realizzare i suoi desideri e la sua passione più grande: la scrittura. Flavio, infatti, è un disoccupato che nei meandri di una città chiassosa, monumentale e che sprizza storia e cultura da ogni sanpietrino tenta di ricercarsi, trovarsi e comprendersi.

La calda estate che avvolge Roma spinge Flavio a vagare per la città; come un novello flâneur francese il protagonista abbraccia la sua inquietudine che, tuttavia, non lo distoglie da una granitica lucidità: l’umanità attuale non sa più cogliere i dettagli, né guardare alla vera essenza delle cose. Flavio è come uno spettatore di uno spettacolo in scena a cui non sente di appartenere: si aggira per strade popolate da passanti frettolosi. Nessuno di loro bada all’unicità e alla bellezza; travolti dai clacson, dai rumori, ormai assuefatti dalla vita frenetica che illude chiunque non si ponga domande circa le cose del mondo, gli essere umani rimangono incastonati in porzioni di vissuti dai quali, in realtà, fuggono inconsciamente senza ammetterlo a loro stessi:

‘’Fuggono da loro stessi, ma loro non lo sanno. Fuggono da una vita che li soffoca, da lavori che li fanno a pezzi, da mogli e mariti che non amano più, da amanti reali e da amanti sognati. Sono esseri spezzati. Loro corrono e io cammino’’.

Il continuo e piacevole monologo interiore messo in atto dal protagonista, accompagnerà il lettore in un viaggio delicato e ricco di emozioni all’interno della psiche di Flavio. La scrittura fluida e lo stile scorrevole ma d’impatto imprigiona nella pagina, con un lessico coinvolgente, ogni riflessione del protagonista: gli aspetti caratteriali, i pensieri, ogni sfumatura in cui chi si accosta alla lettura può facilmente immedesimarsi. Flavio è realista, di una lucidità adamantina, quasi sconfinante nel cinismo nonostante la sua condizione: un aspetto trattato, dall’autore, con estrema delicatezza senza sconfinare nella retorica.

 

Giorni di un presente corrosivo: la perdita del lavoro, attualità di una condizione

Nonostante il romanzo si presenti come una lettura estremamente urbana e attuale, il libro possiede una vena lirica interessante e per nulla artificiosa. Flavio perde il lavoro: condizione sempre più imperante, oggi, e che interessa molte persone. La perdita del lavoro, per via di una retorica improntata sul sacrificio, è sempre intesa come una svalutazione della persona  che subisce tale trattamento; una fallacia logica che si base sulla correlazione per il quale un soggetto diventa il riflesso della sua mansione. La perdita del lavoro che pure il protagonista subisce, con i suoi dolori e le sue dinamiche di sofferenza, diventa spunto di riflessione: Flavio appura che la sua identità come persona, il suo valore come essere umano, non è definito minimamente dal mestiere che svolge.

Tale schema mentale è solo un modello interiorizzato errato: così, si ritrova a svolgere dei piccoli lavoretti per arrotondare interfacciandosi con una nuova realtà. Ed è in quella stessa realtà che si improvvisa poeta, a Trastevere, sulle scale della fontana di Santa Maria. Tuttavia, l’intelletto profondo e le congetture di Flavio lasciano anche il posto a sentimenti ed emozioni come, per esempio, l’amicizia e il legame con Nico e don Carlo: un parroco non convenzionale che diventerà una vera e propria guida, in alcuni momenti del romanzo, per Flavio.

 

Il lirismo dei luoghi descritti dall’autore

La poesia di Giorni di un presente corrosivo passa anche attraverso la descrizione dei luoghi di Roma: veri protagonisti che, vivificati, che si stagliano lungo tutta la trama risultando  parte integrante e attiva della storia. In un primo momento, il romanzo potrebbe apparire come eccessivamente radicato nelle problematicità moderne eppure l’autore regala momenti letterari di estremo lirismo quando si tratta della descrizione dei luoghi in cui si snoda la trama; non solo luoghi fisici e passivi, ma una vera e propria geografia delle umane emozioni: da una Capitale invasa di turisti gioiosi e curiosi, alla lieta allegria dei giovani per le vie e le strade.

Le magiche fontane che stillano in gran parte degli angoli della città, così come gli splendidi giardini: radure di pace in mezzo al tumulto di una città sempre colma e pulsante come Roma. La gloria degli antichi palazzi, le rovine maestose che rimembrano le gesta degli antichi romani ricordando la loro grandezza a ogni passante e, ancora, la Roma della Resistenza a cui nessuno sembra più dar peso. Momenti diversi racchiusi, soprattutto, in unico luogo: Trastevere. Qui l’autore, con l’abilità di un fotografo della parola, cattura diversi momenti attraverso la maestria della scrittura.

Il viaggio di Flavio è un’allegoria della vita stessa: il protagonista si scontra con la realtà, con la poesia, con la solitudine, con le incombenze del mondo di oggi, con i sogni: in una parola vive, come mai avrebbe creduto di fare. Flavio esiste nella sua anima di poeta, nel suo carattere solitario ma in particolar modo si riconosce e si percepisce nei suoi sogni e nei suoi desideri, giorno dopo giorno. Attraverso il protagonista l’autore sembra voler lanciare un messaggio universale: vivere giorno per giorno, senza forzature, semplicemente assecondando le proprie attitudini. In una parola, sognando.

 

 

“Chiaro di Venere” il romanzo di Claudio Demurtas di nuovo in libreria in seconda edizione

Chiaro di Venere, il romanzo dello scrittore sardo Claudio Demurtas, è tornato in libreria in seconda edizione con LFA Publisher Edizioni. Il libro, già uscito nella prima edizione nel 2017 a cura di Edizioni Eventualmente, ha partecipato alla 55esima edizione del premio Campiello ed è risultato vincitore al premio dell’ Istituto Italiano di Cultura di Napoli XXXV edizione.

Claudio Demurtas è nato a Mores in provincia di Sassari, ma vive a Cagliari fin dall’infanzia. È Laureato in giurisprudenza, ha insegnato per molti anni Diritto ed Economia Politica negli Istituti Tecnici commerciali. Si è avvicinato alla scrittura e al romanzo assolutamente per caso, spinto da una intuizione vivificante della sua compagna di vita che gli ha fatto scoprire un modo fuori dall’ordinario di esprimere la sua creatività comunicando in grande con gli “altri”.

A maggio 2020 è stato pubblicato il suo secondo romanzo Il cammino dell’anima, LFA Publisher Edizioni.

Da maggio 2019 gestisce, con discreto successo di pubblico, la propria Facebook dove parla dei suoi libri e di letteratura in genere, https://www.facebook.com/claudiodemurtasscrittore.

Chiaro di Venere: Sinossi

Chiaro di Venere

Dall’atroce massacro nella piana delle Giare in Vietnam nel 1963, alla drammatica fine di Salvador Allende dieci anni più tardi in Cile ad opera di Pinochet, si dipana il filo della storia di Federico, una matricola universitaria di nome e di fatto che, sullo sfondo del suo amore tormentato per Roberta, confessa tutte le sue défaillances sentimentali, politiche, sociali e perfino religiose, ambientate in una Sardegna onirica ben celata sotto nomi di fantasia. E questo eterno studente che non riesce a schiodarsi dalla banalità di luoghi comuni asfittici a causa di una pertinace pigrizia di informazioni e di letture – all’inizio dell’anabasi la sua visione del mondo e delle cose della vita era quasi tutta contenuta nelle cronache di calcio del “Corriere dello Sport” ; capace però a un certo punto di una serrata autocritica, riuscirà, spandendo sudore e sofferenza a trovare se stesso, il mondo e quel mitico amore tanto idealizzato, attraverso vicende velate da ironia, sberleffi amari camuffati perfino da umorismo, cui sottintende però vera e propria angoscia esistenziale e male di vivere.

“È stato qualcosa di indefinibile che mi è scaturito da dentro, nel solco di quei pittogrammi di scene di caccia nelle pareti delle caverne, primi romanzi al mondo” – ha dichiarato l’autore circa la genesi del romanzo.

“La LFA ha scelto di ripubblicare in una nuova veste grafica e con gran lavoro di editing Chiaro di Venere, reputando il libro di Claudio Demurtas di una bellezza unica, un connubio di grande scrittura e di un racconto serrato e, soprattutto, coinvolgente…insomma abbiamo fatto una bellissima scelta editoriale” – ha commentato la casa editrice. 

Queste pagine non si propongono di raccontare gli sconvolgimenti in campo politico, artistico, letterario e del costume provocati, nel secolo scorso, dal movimento del Sessantotto, ma sono strettamente legate a quel periodo storico perché esso avvolge il protagonista, Federico, in un alone mistico di luci, suoni, colori, schemi mentali tipici del tempo, che gli permettono di intravedere orizzonti nuovi, ben lontani dal mondo asfittico in cui aveva galleggiato fino ad allora. 

L’assorbimento per osmosi della cosiddetta rivoluzione del ’68 avrà, quindi, come conseguenza una altrettanto pervasiva rivoluzione del sé, frutto di ricerca faticosa andata a buon fine

 

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‘Nemmeno una virgola’, il fortunato romanzo d’esordio di Guido Domingo

Guido Domingo esordisce felicemente con la giovane casa editrice Pathos, intitolando la sua prima fatica Nemmeno una virgola (2021).

Protagonista della vicenda è la Vecchia, una signora anziana, da anni rimasta vedova, sola, che non si aspetta più nulla dalla vita se non morire. Con quella che è chiamata la Figlia non hanno da anni un gran rapporto. Le giornate dell’anziana sono tutte uguali, senza sorprese e slanci.

La donna ha buoni rapporti con il Vicino, che a volte le fa compagnia e l’aiuta con dei piccoli lavoretti. Un giorno l’uomo sta aggiustando la maniglia del frigorifero, quando, sistemando un pannello, trova 300.000 delle vecchie lire e, nei meandri delle interiora dello sportello rotto, scova infatti una busta postale ingiallita con su scritto un numero di telefono e al cui interno sono riposte trecentomila lire del vecchio conio.

Un espediente, questo, che mette in gioco il presente della Vecchia e inevitabilmente tutto il suo essere una Vecchia imprigionata nella propria routine.

Voleva davvero turbare quella monotonia in cui tutto sommato si sentiva protetta e al sicuro?

In breve: la Vecchia riconosce la scrittura del marito, è confusa, agitata, vorrebbe sapere, ma indugia. Eppure la Vecchia è una donna curiosa, ha letto molti libri, da ragazza ha abbandonato il paese per l’euforia cittadina –non senza rimpianti presenti– ha un cuore che una volta sapeva essere impaziente. Si decide, telefona. Dall’altra parte della linea le risponde una giovane donna, è un’insegnante che vive in affitto presso quell’abitazione cui fa voce quel numero fisso. Si interessa alla Vecchia e le fa sapere che la linea fu riattivata in tempi in cui le lire non esistevano già più.

La Vecchia non lo sa, ma l’autore ha tirato una bella mano ai dadi e, mentre lei trascorre notti insonni temendo questa sorta di scintilla che le acceca i pensieri tra le mani, uno sconosciuto richiama quel numero cercando tal Martinoli. L’insegnante informa la Vecchia, la Vecchia informa la Figlia.

La Vecchia adesso sa, adesso ricorda, adesso è connessa e la scintilla può diventare energia.

In quello che è forse il capitolo che meglio raccoglie l’agilità dell’autore nel cambiare registro e colori durante la costruzione della storia e dei personaggi – restando comunque fedele ad uno stile delicato, quasi dipingesse a colori pastello – si scopre che il rifugio Martinoli, ai piedi del Monte Rosa, è il luogo dove la Vecchia, appena maggiorenne, incontrò il suo futuro Marito e se ne innamorò. Ricorda, la Vecchia, che il Marito voleva tornarci per festeggiare il loro ventesimo anniversario di nozze, ma non fecero mai in tempo, morendo lui prematuramente, lasciandola vedova ad invecchiare da sola.

Ricorda e, come sembra suggerire l’autore, la memoria è vita.

Di fatti, la Vecchia si ostina, si fa coraggio e va. Ci prova, almeno. Fallisce il primo tentativo, troppo difficoltoso da sostenere da sola, per lei che non era più uscita nemmeno a gettare la spazzatura. Per lei che aveva dimenticato di ricordare.

Qui l’autore dà un ulteriore prova di sensibilità e indiscusso talento perché in realtà dà voce ad un corpo più che a un personaggio e non scade mai nel patetico raccontando i pochi, dolenti passi che questo corpo compie coraggiosamente pesando a se stesso e nel terrore di pesare agli altri. La Vecchia infatti torna a casa e si deprime. La Figlia non capisce, si allontana, è arrabbiata e la si immagina come un fascio di nervi dal cuore indurito e dolorante.

Passano diversi giorni e saranno il Vicino e l’insegnante ad accompagnarla al rifugio. Gli ultimi capitoli sono dedicati a questo viaggio verso la natura, verso l’immutabile bellezza senza età che desta meraviglia e la scatena, che ci rende tutti uguali nelle nostre differenze. La Figlia andrà a cercare sua madre in montagna, la ritroverà come forse non l’aveva trovata mai. E la morte arriverà come alleata della vita, quando la Vecchia, la Figlia, il Vicino e l’insegnante avranno saputo cosa vuol dire un ri-torno.

Il romanzo di Domingo può annoverarsi tra i migliori libri sulla vecchiaia della contemporaneità insieme a La tentazione di essere felici e Resto qui di Marco Balzani. La Vecchia risulta essere un personaggio molto riuscito, affascinante, che alla fine della sua “avventura” sembra fare sue le parole di T.S. Eliot: <<Noi non cesseremo l’esplorazione e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere laddove siamo partiti e conoscere quel posto per la prima volta>>.

 

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