A un passo dalla vita, di Thomas Melis

A un passo dalla vita (Lettere Animate Editore, 2014) è il romanzo d’esordio di Thomas Melis; si tratta di un noir ambientato nel ‘sottobosco’ della vita notturna di Firenze e incentrato sul disagio generazionale dei giovani di oggi. La frase che sembra di leggere fra le righe di questo romanzo è: ‘Che ne sarà di noi?’ Calisto, il protagonista di A un passo dalla vita, non riesce a rispondere a questa domanda, ma sa di per certo che non vuole finire come i suoi genitori, a vivere una vita di sacrifici per ritrovarsi con niente in tasca. Preferisce vivere “a un passo dalla vita”, scegliendo strade brevi e apprezzando l’attimo più che il futuro. Calisto vuole di più, anche a costo di sporcarsi le mani, è un anima confusa e inquieta, perennemente in bilico fra le sue due esistenze: quella diurna, fra l’Università, i libri di Economia e Holli, una ragazza perbene e sognatrice; e la sua vita notturna, quella del narcotraffico.

Calisto è un giovane meridionale, intelligente ma con un’anima oscura, come si evince anche dal prologo in cui viene presentato da bambino già in perenne punizione a scuola, che si trasferisce a Firenze dopo il diploma per cominciare una nuova vita. Ufficialmente è uno studente modello, che guadagna qualche soldo con piccoli lavori, ma al di là della versione raccontata ai genitori c’è la verità. Calisto frequenta locali ‘In’ come il “Nabucco” e il “Platinum”, fra gente ricca con ‘il vizio per la bamba’, veste capi firmati e si atteggia a gran signore, ma è tutta una finzione. Passato l’effetto della droga, torna sempre al suo piccolo appartamento dove, rimasto solo con se stesso, ha modo di vedere dentro di sé come davanti a uno specchio e ciò che vede è solo l’immagine di un perdente. A dargli una piccola speranza di redenzione sembra essere la malinconia per la vita che avrebbe potuto avere con Beatrice, la ragazza che ha lasciato per inseguire la vita della criminalità, e Holli, giovane conosciuta all’Università che potrebbe avere il potere di cambiarlo, con il suo altruismo e la sua purezza. Ma il più delle volte è l’anima nera di Calisto che prende il sopravvento, insieme alla sua amicizia con il Secco, Tamagotchi e il Tedesco, dettata più da logiche di denaro che da altro, e il rapportoesclusivamente di sesso che lo lega a Tati, donna cinica e spregiudicata, che viene presentata dall’autore come un’anima ormai persa ma in fondo con un cuore d’oro. Infatti sarà lei a mettere in guardia Calisto dal fidarsi di Liggio, proprietario del “Platinum”, che gli proporrà l’affare di tutta una vita, pericoloso quanto remunerativo: spacciare 12 Kg di cocaina con il Secco e il Principe.

Thomas Melis, forte della sua laurea in Lettere, traccia un caleidoscopico scenario multietnico, la popolazione della notte è composta da un misto di culture e lingue diverse ben rappresentate dall’autore nella loro diversitàtramite scelte linguistiche eterogenee. Nella narrazione viene spesso sottolineata la variazione diatopica, diastratica e diafasica nelle conversazioni che Calisto intraprende con gli altri personaggi. La variazione diatopica dipende dallo spazio geografico in cui viene parlata una lingua, ad esempio l’uso di inflessioni meridionali quando Calisto parla con il Secco: <<Compa’… Chissi su picciuni seri, o toscano mentre parla con Holli: ‘un l’è pe’ nulla… ha visto che gente che sta intorno a i>>. La variazione diastratica si registra a seconda della fascia sociale alla quale ci si riferisce, infatti Calisto parla più formalmente quando entra nel negozio di una grande griffe o quando si rivolge al Principe e ai ‘figli di papà’ con i quali si relaziona per lavoro. La variazione diafasica invece dipende dalla relazione che intercorre con l’interlocutore, ad esempio si sente una nota di rispetto e di distacco nel tono di Calisto quando discute di affari con il signor Liggio, mentre una maggiore colloquialità quando scherza con il Secco sulle sue ultime conquiste amorose.

L’autore sardo passa con disinvoltura dall’italiano al francese (rendez-vouz), dall’albanese (quifsharopt) allo spagnolo (¿ Que pasa con ustedes ?), senza disdegnare l’uso di neologismi come sblanka, termine usato per i figli di papà politicamente schierati dalla parte della sinistra radicale, trasandati nel vestire e con la barba incolta (il nome deriva da un personaggio del videogioco “Street Fighter”). La trama di A un passo dalla vita si districa dal genere noir al romanzo di formazione, mostrando la crescita del protagonista da piccolo criminale a ragazzo per bene. Dopo essersi immischiato in un affare più grande di lui riesce, un po’ troppo paradossalmente a mio giudizio, a uscirne vivo e, avendo perso tutto ciò che aveva, ricomincia da capo, sulla strada dell’onestà. Grazie anche al contributo fondamentale di Holli, che gli darà la giusta motivazione per laurearsi e per diventare ciò che ha sempre detestato e sminuito: un uomo comune. Ciò che lascia perplessi e con un po’ di amaro in bocca è l’epilogo. Calisto è davvero cambiato? La risposta a questa domanda non è semplice. Forse per incominciare senza rimpianti una nuova vita aveva davvero bisogno di chiudere del tutto e ‘a suo modo’ con la sua vecchia esistenza. Anche se questa scelta dell’autore lascia qualche interrogativo in sospeso e non pochi dubbi sul percorso intrapreso da Calisto. Forse è davvero condannato a vivere per sempre “a un passo dalla vita”.

Tremiti di paura: il giallo sentimentale di Cesario Picca

Cesario Picca

 

Tremiti di paura (2015) dello scrittore salentino classe 1972 Cesario Picca è un piacevole e avvincente giallo “estivo” che ha per protagonista il giornalista Rosario Santacroce, detto Saru legatissimo alle sue Isole Tremiti ma da tempo vive a Bologna. Un delitto d’estate, alle isole Tremiti, con probabili moventi sentimentali, un cronista sempre all’attacco della notizia e anche delle donne: gli ingredienti per una storia sorprendente e accattivante sono conditi dal sognante scenario delle isole Tremiti e di una estate che volge al termine.

Rosario Santacroce si trova ad essere il protagonista della notizia, “nella notizia”: stavolta non è davanti ad al solito caso di cronaca nera ai quali era abituato, nella notizia ci entra direttamente: suo malgrado o sua fortuna, si trova nel momento giusto al posto giusto al momento dell’omicidio della notaia Lucia Benni. Probabilmente in un momento fin troppo giusto per gli inquirenti, che infatti lo iscrivono nel registro degli indagati. Nella notizia, quindi “ci inciampa” letteralmente: durante una tranquilla cena con la sua fidanzata Elisa, sente un urlo e si precipita in strada, cadendo dopo pochi metri, complice l’oscurità, proprio nel cadavere della sventurata notaia. Da lì inizia quella una intensa avventura. Il suo acume e la sua spigliatezza lo portano a stringere sincere amicizie con il maresciallo De Rocco, suo compaesano, a battagliare con il duro carattere della pm De Paolis, a confrontarsi intelligentemente con i suoi colleghi cronisti. Movente passionale o di eredità? Due personaggi sono soprattutto al centro delle indagini, il ricco costruttore Giovanni Ferretti e il designer bolognese Roberto Morgagni, rispettivamente marito e amante della vittima: ma le sorprese e le svolte sono sempre dietro l’angolo e la ricerca dell’esclusiva giornalistica va di pari passo con le indagini della magistratura,  spesso intrecciandosi.

A Saru capita di pensare che il suo lavoro sia per lui proprio “come una amante gelosa e possessiva che lo vorrebbe tutto per sé”: è proprio questo l’altro “caso” che Saru si trova ad affrontare: iniziano le prime incomprensioni con Elisa, che si trasformano poi in definitiva rottura. Tra un piatto a base di pesce e uno scambio di confidenze con De Rocco, Saru deve gestire ed affrontare anche il confronto con i suoi colleghi: si trova senza dubbio in una posizione privilegiata, essendo parte integrante della notizia e del caso. È ancora più difficile gestire questa strana situazione con Irene, sua collega con la quale si ritrova presto a gestire intimi e carnali interessi: la tensione, la sospensione che vive nella sua triplice veste di cronista, indagato e amante gli renderà particolarmente difficile la vita, ma il carattere del caparbio cronista è un valido alleato per gestire, in un modo o in un altro, tutte le pressioni che i tribolati giorni salentini gli offrono.

Lavoro e amori e amore per il lavoro sono quindi gli estremi entro cui l’avventura di Saru si sviluppa: il tratto distintivo del racconto di Cesario Picca è proprio quello di far emergere come il protagonista riesca ad infondere passionalità e carnalità nei suoi amori estivi e allo stesso modo nel suo lavoro di cronista. I due tipi di amore si confondono, si mescolano nell’unicum del carattere del protagonista: la cronaca e la notizia, la suspence e la buona tavola, le donne e l’amore nello stesso vortice di passione in questo giallo sentimentale arricchito da divertenti citazioni del dialetto salentino che offre all’autore l’occasione di presentarci un’Italia “colorata”e godereccia.

 

Il Musicista, il nuovo romanzo di Christiano Cerasola

“Tenevo le note a lungo, provocando dei rumori che uscivano dallo spartito e dalla ragionevolezza, cercai di dare un suono ai miei pensieri astratti, e li feci collimare con le note, le mie dita si mossero in modo frenetico e disordinato. Uscii dai canoni della sonata, sbagliai e perseverai negli errori, esagerai e maltrattai la mia amata, sperai che non ci fosse nessuno ad ascoltarmi e uscii volutamente dalle righe del pentagramma.
La mia squallida vendetta fu scatenata dal raggiungimento della consapevolezza di quanto rumore facesse la musica in me, di quanto ingombrante fosse il suo amore e di quanto struggente il mio dolore.”

Sono poche frasi tratte dal nuovo romanzo Il musicista dello scrittore romagnolo di origini danesi, Christiano Cerasola. L’autore, al suo quarto libro, ci racconta la storia di una passione e di un talento fuori dal comune, la storia di un amore che diventa ricerca di una parte perduta di se stessi. La vicenda ha come protagonista Max, artista di provincia con un talento innato nel suonare ogni tipo di strumento. Il suo dono si scontra con un’esistenza mediocre, oppressa da una quotidianità grigia che stona con la grandezza dell’animo di Max. Ha una moglie che non ama, una madre apprensiva e nostalgica e conoscenti che promettono finte amicizie. Ma per la musica è disposto a sopportare tormenti di una vita mediocre e non desiderata. L’amore per la musica assorbe completamente il nostro protagonista portandolo lontano dalla realtà. La quotidianità è abbandonata per il sublime, in una fusione tra distruzione e rinascita. Quella di Max è una ricerca di purezza attraverso l’ amore che si fa suono; Max non sa parlare, non sa amare i suoi simili, non sa odiare. Sa solo suonare. Al limite dell’autismo la musica sembra l’unico sentimento che può provare, il solo per cui valga la pena vivere. Tra ordinarietà e imprevisti seguiamo la storia di questo singolare musicista innamorato della sua arte.

Christiano Cerasola, autore decisamente non convenzionale, coniuga il lavoro nel campo della moda alla passione di viaggiare e di scrivere. In giro per il mondo ha catturato le storie dei passanti e le leggende delle città. È un autore attento alla fragilità, al vigore, alla debolezza e alla forza umana. I suoi tre romanzi tutti pubblicati da Elmi’s World sono: O2 – Ossigeno, edito nel 2010 e tradotto anche in inglese nel 2013 col titolo Oxygen, Uova sbattute, una raccolta di racconti edita nel 2012 e vincitore del primo premio del Concorso letterario di Ostana e il più recente del 2013 Il custode di Izu, un romanzo breve sulle paure nascoste negli abissi dell’animo umano.

Come ha dichiarato lo stesso autore in un’intervista a Vogue.it “L’emozione del viaggio mi ispira a raccontare; mi piace vedere, osservare, e parlare dell’unica cosa che accomuna tutti; cioè di quando il libero arbitrio prende il sopravvento sul fluido scorrere degli eventi”. La facoltà di poter decidere cosa fare sembra un punto fondamentale nella ricerca e nella scrittura di Christiano Cerasola, così come nella vita, così nei libri a dimostrazione che, evidentemente, solo nella scelta c’è la libertà.

Ah…Ahh…Ahhh, la parody-comedy di Nuwanda

Ah..Ahh..Ahhh è un romanzo ben riuscito del genere parody-comedy di Nuwanda (2015, Genesis Joint Venture), ed sorprendente nel contenuto ed essenziale nello stile in cui è proposta ai lettori. Per questo motivo è impresa ardua classificarla o sigillarla in univocità interpretativa, né sarebbe giusto farlo, anche perché il cuore dell’opera comunica il messaggio contrario: non esiste un’interpretazione unica ed inviolabile, il testo è aperto alla molteplicità emozionale e interpretativa che il lettore fornisce con la sua azione, perché la lettura consapevole non è una condizione passiva. Pagina dopo pagina, chi legge contribuisce alla costruzione del testo. Sembra proprio questa la sintesi di Nuwanda. Il titolo onomatopeico suggerisce da subito una doppiezza fondamentale e irrinunciabile per capire il senso della storia che genera un vortice ininterrotto tra godimento-dolore della scrittura e della vita.
Doppio Senso è il nome della città immaginaria dove si svolgono i fatti, e nella quale le strade che portano al paesello vicino sono a senso unico. Sembra impossibile uscirne ma poi, inspiegabilmente, si riesce a trovare la strada del ritorno.

Nella piccola libreria del paese Armando Bentivoglio, scrittore con ascendenze artistiche e di modesta notorietà, presenta il suo libro dal titolo funereo e suggestivo Pochi conoscono la morte. Nel salotto letterario improvvisato e sghembo di un vecchio bar di paese che vende pizzette omicida, avviene un delitto vergognoso che coinvolge tutti i presenti, sottoposti a divertenti e quanto mai strambi interrogatori. I personaggi, macchiette scolorite di una trama semplice ma avvincente, stanno lì a guardare le indagini, suggerendo con involontaria sottomissione, indizi e tracce dell’assassino. L’ambiente è gretto, rustico, ingenuo come ogni bar di paese riesce ad essere: il proprietario è colpevole di molti “crimini”, come quello di attentare alla vita della clientela con un caffè dal gusto deplorevole.

Ma gli scrittori non muiono, la scrittura eternante è una barriera per Armando Bentivoglio, il quale durante l’interrogatorio è distratto dalla magnetica presenza de la Ronda di notte di Rembrandt e sfugge al presente scarno e settoriale del commissario Antonio Loquace, intervenuto prontamente su luogo del delitto per svolgere le indagini. Oltre alla sfilza di agenti dal comportamento quasi grottesco, goffi e impacciati sulla scena del crimine, (Sale pure sul water, in modo da avere una prospettiva dall’alto, però rischia di sprofondarci dentro con un piede, “Scattino, guarda che la vittima, purtroppo non può muoversi. Cerca di stare attento”.) gli attori della scena narrativa sono quasi tutti buffi e parodiati: a partire da Mirko, l’agente letterario di Bentivoglio, un cinico arrivista interessato soltanto ai guadagni della casa editrice, si destreggia con elegante egocentrismo il giornalista Carmelo Fattobene, alias “Firmamento”, pseudo cronista tronfio e banale. Carla, invece, è la direttrice della Biblioteca che ha organizzato l’evento; fedele orchestratrice della serata e sommessa lettrice dei libri di Bentivoglio.

Nel mazzo dei personaggi dai nomi inverosimili e curiosi eccola, la vittima: una donna giovane ed avvenente dalle labbra sensuali di rossetto vinaccio-violaceoo, di un seducente esoterismo, una bocca di rosa in un certo senso, perché calamita attorno a sé l’attenzione degli invitati, nessuno escluso. Si tratta della figlia del sindaco, uomo onesto e reggitore della patria.
Ah…Ahh…Ahhh è un romanzo breve in una agevole terza persona, scorrevole l’utilizzo del tempo presente, di prelibata lettura, parodia del genere giallo/noir. Nonostante ciò, i dialoghi si presentano spesso un po’ deboli o appannati. Il lessico è ricercato, notevole, a volte cromatico: è da sottolineare la cura nella scelta dei colori dei personaggi, probabilmente legata alla cura autoriale della caratterialità dei soggetti.

Nuwanda con questo libro crea una dimensione a sé stante, parodia e leggerezza, paradosso ed ironia si incontrano e si sposano con facilità, il risultato è buono. Ah…Ahh…Ahhh parla anche della letteratura, o meglio, della scrittura. L’autore mette in campo la funzione metanarrativa del testo: le parole riflettono i fatti ma spiegano anche il proprio intrinseco valore. Da qui deriva l’accusa del commissario ad Armando di aver risvegliato il desiderio di uccidere nell’assassino, con il suo titolo (Pochi conoscono la morte), ma non solo: il gioco sillabico tra affètto (sentimento, amore) / affétto (come tagliare a fette, ferire) proposto nella seconda parte del romanzo dal commissario evidenzia esattamente la valorizzazione monumentale ed iperbolica della parola scritta, e non detta, quella che resta nei secoli.
Un altro elemento da segnalare è la simbologia degli oggetti: il romanzo-parodia, fitto di doppi sensi ed ambiguità, chiarisce al lettore anche una delle interpretazioni soggiacenti alla trama in superficie. L’inchiostro rosso, l’inestimabile, pregiato pennino dello scrittore (che scrive più degli altri oggetti in circolazione), l’inchiostro rosso come il sangue, la scritta in bagno. Sono tre degli elementi identificativi di un cumulo di significati, sotterraneo alla trama del delitto della giovane donna che può essere sintetizzato forse così: la parola crea e distrugge, genera e violenta, ha il potere di uccidere e decostruire idee, sentimenti, emozioni. Si potrebbe ipotizzare che con Ah…Ahh…Ahhh, Nuwanda abbia volutamente operato una personale ricostruzione –  in chiave comica – del crimine oggi tristemente diffuso del femminicidio, in una dinamica alquanto singolare. Perché? Non vi resta che scoprirlo leggendo.

 

 

Il Furto dei Munch, di Barbara Bolzan

Il 5 aprile 2004, un commando mette a segno una spettacolare rapina alla banca di Stavanger, in Norvegia. Il 24 agosto 2004, dal Museo Munch di Oslo vengono sottratti i dipinti L’Urlo e Madonna. Due fatti apparentemente non correlati, ma che trascineranno il lettore in una vertigine di intrighi, pericoli e misteri, portandolo nel cuore del mercato nero, dell’arte e della musica.
Quando i dipinti scompaiono, infatti, lasciando dietro di sé una scia di morte, Agata Vidacovich, coinvolta nel traffico d’arte, tenterà di venire a capo dell’intricata vicenda, mettendo a dura prova le proprie certezze. Sposata con un pianista di fama internazionale che ha ormai rinunciato alla propria carriera e al quale ha sempre mentito riguardo alla propria vera vita, Agata si ritroverà costantemente sul filo del rasoio, costretta a mettere a repentaglio tutto quello che ha di più caro per venire a capo di questo mistero. Dove sono finiti i quadri?
Il furto dei Munch è, come recita la sinossi del libro, un thriller avvincente, che si snoda tra Milano, Oslo e Trieste e che tiene il lettore col fiato sospeso fino all’ultima pagina.

Il Furto dei Munch, romanzo scritto da Barbara Bolzan e edito da La Corte editore, ha avuto un finale travagliato, essendo stato ispirato a fatti realmente accaduti (il furto al museo Munch di Oslo avvenuto nel 2004), i quadri, infatti, L’Urlo e Madonna (oggetto d’elezione nella trama) che durante la stesura del romanzo erano ancora dispersi, sono stati ritrovati poco prima dell’uscita del libro, costringendo l’autrice a modificare l’epilogo, per rendere più credibile la storia.

Lo stile della Bolzan è preciso, mai ridondante; la doppia vita di Agata (voce narrante) si alterna alle sue vicende private, al rapporto conflittuale con il marito, creando un doppio piano narrativo in cui la descrizione dei personaggi viene sviluppata in modo coerente e uniforme. La tecnica di mostrare alcuni eventi passati senza fornire spiegazioni non solo tende a rafforzare il ritmo, ma nel contempo consolida l’effetto sorpresa sempre presente all’interno del libro.

La nota di originalità s’intuisce, però, nella capacità della Bolzan di amalgamare arte e musica con il genere thriller (cosa non facile) coesione che probabilmente sarebbe potuta risultare artefatta e posticcia, se l’autrice non avesse avuto una reale padronanza degli argomenti trattati, e perché no anche una certa passione verso l’arte.

Il libro, quindi, non offre soltanto un genuino divertimento al lettore, ma insegna allo stesso anche molte cose su questo mondo e sui traffici illeciti delle opere d’arte; un giallo dall’architettura solida, coerente dall’inizio alla fine; nella trama, avvincente ed efficace, eccellente appare la definizione dei “caratteri”, fatto essenziale in un tipo di narrazione come quella del thriller che deve certamente attrarre l’attenzione del lettore con una tensione continua ma far bene comprendere anche quali siano gli orientamenti, le meditazioni e le riflessioni dell’autrice, talvolta inseriti in maniera implicita, talaltra più esplicita.

La Bolzan non tralascia il lato emozionale, l’amore, infatti, è sempre tra parentesi, appena percepito sullo sfondo, con il suo gioco di attrazioni e con il suo ciclico rimando ai sentimenti e al tormento della protagonista. Le tele di Munch quasi ossessionano Agata, prendono vita tra vertigini e colpi di scena, che fanno della storia un lavoro esemplare di ordine e di equilibrio.

Barbara Bolzan nasce nel 1980 in provincia di Milano. Pur non abbandonando mai il suo primo amore per la recitazione, durante l’adolescenza si avvicina al mondo della scrittura e comincia a partecipare con successo a premi letterari nazionali e internazionali. Pubblica il primo volume di narrativa nel 2004, con la prefazione del Professor Ezio Raimondi (Accademico dei Lincei e docente di Italianistica all’Università di Bologna): un excursus medico-narrativo sulle problematiche adolescenziali associate all’epilessia (AICE, Bologna, 2004). Nel 2006, in seguito alla vittoria del Premio Internazionale Interrete, pubblica Il sasso nello stagno, un romanzo sul difficile rapporto padre-figlia, nel quale la narrativa procede parallelamente agli studi linguistici e filologici (Prospettiva Editrice, Roma, 2006).

Rya – La figlia di Temarin esce nel 2014 (Butterfly Edizioni, Correggio). Figlio della sua passione per la storia e per la manipolazione della realtà, questo romanzo storico-fantasy costituisce il primo volume della saga che prende il nome dalla sua protagonista (La saga di Rya). Di recente pubblicazione, L’età più bella (Butterfly Edizioni, Correggio, 2014) riprende in chiave nuova i temi già affrontati in Sulle Scale.
La scrittrice ha tenuto corsi di scrittura creativa nei licei e, attualmente, collabora come editor e illustratrice con diverse realtà editoriali.

Gianni Lorenzi: L’anno della grande nevicata

L’anno della grande nevicata (2014) di Gianni Lorenzi si prefigura come un romanzo giallo. Il protagonista, Stefano Papini, impiegato dalla vita senza troppi sismi, si ritrova coinvolto in un districato caso di spionaggio aziendale. Ma nel rebus, apparentemente risolto, permangono dei coni d’ombra sino all’epilogo, per il quale Lorenzi opta per il finale aperto.

La trama non è brillante ma a rendere L’anno della grande nevicata un romanzo mal riuscito sono le molteplici scelte svolte dall’autore. Opinabile è lo stile adottato, l’intera struttura narrativa e il lavorio sui personaggi. Già le prime pagine risultano poco convincenti. Un buon attacco dovrebbe fungere da prologo ma Lorenzi vi indugia per un intero capitolo, dilatando i tempi dell’azione sino a depotenziarlo del tutto. Inoltre nelle prime venti pagine, didascaliche più che narrative, l’autore interviene in prima persona, rinuncia al canonico e preferibile (in questo caso) narratore onnisciente e così facendo infrange la finzione letteraria ancor prima che l’affabulazione abbia inizio .

Lorenzi non invita il lettore ad entrare in questa storia e non intende incuriosirlo ma, sin da subito, gli ricorda (reiterato anche nel corso della storia) che L’anno della grande nevicata è un romanzo, ergo un’opera d’invenzione. Il lettore, anche il meno permaloso, potrebbe pensare ad una sofisticata provocazione e che in qualche modo Lorenzi intenda rimediare a questo ‘tradimento’ in altro modo, per esempio con un inatteso colpo di scena.

Al pathos, all’intrigo e alle false piste che caratterizzano un buon gallo, in L’anno della grande nevicata la lettura procede per inerzia e nell’attesa che qualcosa di significativo accada davvero, in realtà nulla muta. Così in questo stato catatonico si giunge alle ultime pagine e nulla è ancora realmente accaduto. Di tanto in tanto Lorenzi apre delle parentesi dedicate a qualche ricordo del protagonista, una sorta di proustiana recherche ma il modello è forse troppo ambizioso e scivola in un diario personalissimo (forse) dell’autore malcelato, che qua e la attraverso Stefano, in modo autoreferenziale, narra di se stesso. I personaggi restano degli schizzi su carta, il ploth dalle maglie troppo larghe è molto esile e il lettore fortemente escluso.

Lo stile di Lorenzi lascia intravedere una padronanza tecnica discreta, tuttavia non la applica dove potrebbe meglio delineare le psicologie, creare atmosfere inedite, intrecci inattesi o scavare in qualche dettaglio emozionale. L’anno della grande nevicata è come avvolto da una nebbiolina che sfiora solo la superficie.

L’eccessiva e prolissa volontà di fornire dettagli caratterizza ciò che è irrilevante ai fini narrativi, non aggiunge nulla alla trama, di contro nelle pagine del romanzo si riscontra ben poco su ciò che narrativamente contribuirebbe all’affratellamento della carta. L’autore dice troppo proprio laddove il lettore potrebbe ricostruire da sé alcuni tasselli. Nel famigerato prologo si ricava una sorta di’ istruzioni per l’uso’. Lorenzi ci spiega pedagogicamente come è strutturata la storia, ammonisce il lettore che essa ha un andamento ciclico, comincia laddove finisce, insomma uno degli ingredienti chiave di un giallo è già presto svelato. Si tratta di quegli inciampi che inevitabilmente producono dei capitomboli narrativi.

Più che puntare a coinvolgere il lettore e lavorare attentamente sullo storytelling, Lorenzi di tanto in tanto interviene nel romanzo, instaura un dialogo con il lettore che esula dalla storia, una sorta di pausa pubblicitaria in cui ci si scambia opinioni in merito ad altro.

Orbene, qualora si trattasse di un tentativo avanguardista di destrutturare un genere narrativo, depotenziandone i tratti salienti, che ben venga, il postmoderno ha insegnato anche questo. Ma qualora si nutrisse questa non facile ambizione, a differenza di quanto si è portati a pensare, occorrerebbe sopperire con mezzi espressivi dotati di maggiore efficacia, con uno stile o inventiva che siano originali, brillanti, al fine di provocare o destabilizzare il lettore. In L’anno della grande nevicata si è più che altro increduli per la grande assenza di narrazione.

 

L’autore

Gianni Lorenzi è nato in Svizzera nel 1969, è cresciuto a Valdastico e da 15 anni vive a Sovizzo, in provincia di Vicenza. Laureato in Lettere all’università di Padova con il poeta vicentino Fernando Bandini, ha lavorato in varie aziende come copy-writer, responsabile marketing e sales manager. L’anno della grande nevicata, pubblicato nel novembre 2014 dall’editore David & Matthaus, è il suo primo romanzo.

Pietro Marchi: L’anno della mia vita

La prima volta in cui mi è stato comunicato che avrei conosciuto dei ragazzi con problemi psichiatrici, la mia fantasia mi ha catapultato immediatamente alla scena del film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, in cui “Grande Capo” Bromden stacca il lavandino da terra e sfonda la finestra dell’ospedale psichiatrico per darsela a gambe, mentre un inerme Jack Nicholson vegeta ignaro a pochi passi da una libertà che così intensamente aveva bramato per sé stesso e per tutti gli altri. (Da L’anno della mia vita, di Pietro Marchi)

Quante volte ci sarà capitato di chiederci come abbiamo speso il nostro tempo, se lo abbiamo perso e se, invece, ci è servito. L’autore del romanzo L’anno della mia vita, Pietro Marchi, ci parla di un anno interno della sua vita,  dell’ anno di servizio civile, una scelta che ha cambiato il modo di vedere le cose ed il mondo e, come lui stesso afferma, l’ha migliorato. Non è facile lavorare in una struttura riservata a persone disabili o affette da determinate patologie, “malati psichiatrici” che, purtroppo, sono costrette a vivere seguendo delle cure, rinchiuse in quel mondo che è il loro microcosmo ma che fa entrare tutti, chiunque bussi a quella porta. Venticinque utenti incontrati che gli hanno aperto il cuore disinteressatamente, perché molti di questi ricoverati sanno tendere la mano, ascoltare; qui lo scambio umano esiste, non si avanzano pretese, si è ciò che si è, per come si è.

Proprio questa tematica affronta Pietro Marchi. Egli racconta la sua esperienza offrendo anche a noi la possibilità di calarci in quella realtà e lo fa spiegando come sia stato difficile osservarle nella loro quotidianeità, senza rischiare di invaderle e questo è anche uno dei motivi per cui sceglie per tutti dei nomi di fantasia, quasi a volerli proteggere.

La vita dei degenti e quella degli opertatori s’interseca continuamente, i rapporti instaurati sono un arricchimento per l’operatore, un mettersi in gioco mostrandosi pronti a tutto.
Ecco che in contriamo Pally, una ragazza down con diverse difficoltà sia comportamentali che linguistiche, eppure ”essenziale” nelle sue richieste insistenti e sognatrice, soprattutto. La fissa per il purè e l’ottenimento di questa prelibata pietanza corona un sogno che va ben oltre il desiderio del cibo, ossia quello di raggiungere la felicità con così poco. Il personaggio di Pally ha colpito molto non solo l’autore che riconosce sia la sua preferita ma anche me e la descrizione dei suoi comportamenti merita di essere approfondita, se per un attimo smettiamo di pensare che non ci sia nulla di interessante in chi è, apparentemente, lontano da noi. Pally dà vita al suo mondo, sceglie un appellativo per Pietro che, forse, da quel momento in poi resterà sempre e solo Niero, secondo delle precise regole di sopravvivenza stabilite da lei stessa.

Come dimenticare Ubi, il ragazzo dagli occhi verdi con la fissa per Ivano Fossati e per i i ”gingilli” con cui si ricopre, dalla sensibilità  disarmante,  di certo inaspettata  per il mondo in cui viviamo,  in grado di catturare l’attenzione di  Pietro al punto da giungere a nuove conclusioni anche sulle potenzialità inesplorate della musica, probabilmente l’unica vera cura e medicina.

Poi c’è Buratz, colui che pur rifiutando il contatto umano, è legato in modo viscerale alla sua famiglia. Questa è la preziosità dei pazienti nelle loro eterne contraddizioni, come contradditorio è anche il suo amore, così inafferrabile, per Gina, nome che riecheggia spesso nella sua mente e nel suo cuore ma Gina forse è solo una distanza, un filo che lega amore e sesso, tuttavia invisibile. Intanto, lei c’è.
Infine Falsitz, tra quelli che più mi hanno rapito perchè più vicino alle persone che abbiamo modo di conoscere, quelle che vivono boderline, in un limbo dove rifugiarsi quando la realtà si presenta netta e spietata, divisa tra il mondo dei giusti e quello dei dimenticati.

Dall’altra parte della barricata c’è chi, assieme a Pietro , prova ad aiutare le persone come Pally: Ale, con la testa tra le nuvole ma a suo modo unica, definita dall’autore la Marylou di KerouacNania, con lo stesso amore morboso per gli animali,  due donne, assieme a Mimma e Tansini e ad altre non meno importanti , che hanno accompagnato Pietro in questo viaggio o meglio chiamarlo, professionalmente, ”percorso’. Un percorso, quindi, che più avanti lo convincerà ad intraprendere una strada inaspettata come operatore o.s.s, una scoperta nella scoperta, una possibilità in più, un nuovo sguardo sull’esistenza che ci auguriamo possa estendersi a tutti.

Le storie di ogni ragazzo, il loro vissuto ed il loro passato, è una rivelazione a cui si arriva pagina dopo pagina. Nei titoli dei capitoli, scelti accuratamente da Pietro Marchi, è racchiusa tutta l’identità di ognuno dei protagonisti coinvolti.
La lettura è scorrevole e fluida, come credo sia opportuno debba essere quando gli argomenti sono così delicati e non facili da trattare.

 

Intervista al poeta emergente David Valentini

Il giovane poeta emergente David Valentini, autore della raccolta poetica La via smarrita, colpisce per la sua capacità di mettere in versi concetti filosofici, ispirandosi a poeti come Palazzeschi, Montale e Ungaretti; la poesia per lui è essenzialmente di contrasto e negazione del valore meramente commerciale dell’opera “libro”. Valentini ha due romanzi in pubblicazione con case editrici NO EAP, un terzo romanzo dai forti temi sociali completato, ma in fase di editing e un nuovo romanzo, sulla vita di una donna.

 

1. Perché scrivi poesie?

Ho iniziato a scrivere verso i 15 anni: appunti personali, perlopiù, frammenti di pensieri sparsi che gettavo lì e spesso lì rimanevano. Poi sono passato a racconti brevi, di poche pagine, e col tempo ho allungato la narrazione. Oggi scrivo perlopiù testi lunghi.
Mentre nei romanzi prediligo la scrittura realistica (narrativa generazionale e sociale perlopiù) e il linguaggio crudo, diretto, senza abbellimenti stilistici, nella poesia vorrei ritrovare il mio aspetto più lirico e “raffinato” (ma non aulico, né pomposo… almeno spero!), col quale solo riesco a trattare tematiche più esistenziali e “cupe”. Posso dire, dunque, che con la poesia riesco a ottenere un effetto più complesso e articolato rispetto al romanzo; inoltre, prediligendo la brevità, cerco di caricare di significato ogni singola parola, ogni singolo elemento di punteggiatura.
2. Che funzione ha la poesia oggi?

Posso dire che funzione ha la poesia per me: essenzialmente di contrasto e negazione del valore meramente commerciale dell’opera “libro”. Voglio sperare che chi ha comprato il mio testo lo abbia fatto perché spinto dalla curiosità, dalla volontà di immergersi nelle parole e di riflettere su quelle brevi composizioni in versi che trattano tematiche essenzialmente filosofico-esistenzialistiche. Voglio sperare, cioè, che si legga quel libro perché si vuole leggere quel libro, e non perché è di moda farlo (preferisco il “se vi pare” al “così è”).  La poesia richiede un grado in più di complessità, e dunque anche un grado in più di concentrazione.
3. Cosa ami maggiormente di Giuseppe Ungaretti, poeta cui ti ispiri?

In una frase: l’essenzialità con cui è stato in grado di esprimere, in modo crudo ma elegante, la precarietà della condizione umana.
4. Da quale aspetto della poetica di Montale invece prendi spunto?

Trasmutandoli, ovviamente, ritorno a temi a me cari come l’invalicabilità dell’esistenza (hic et nunc noi viviamo, creiamo, facciamo: è sulla terra che abbiamo le nostre radici, è qui il nostro “compito”), l’incomunicabilità, il mal di vivere che coglie tutti i viventi, nessuno escluso.
5. Ti definiresti un poeta drammatico?

Drammatica è per me l’esistenza: quando si squarcia la tela dell’illusione di Dio, e ogni appiglio salvifico svanisce di conseguenza, ciò che resta è un abisso con cui confrontarsi costantemente.
Drammatico è il fatto che, qualsiasi cosa facciamo, una sola è la vita che abbiamo. Il dramma è non viverla veramente, non caricarla di significato: sprecarla nel “vortice della mondanità” e della mercificazione.

6. Qual è il rapporto con l’ambiente culturale in cui vivi?
Odio e amore in senso stretto. L’oggetto “libro” ha perso da tempo il suo valore culturale, vestendo la pelliccia dell’intrattenimento e indossando i gioielli di plastica dell’arredo da camera. Un verbo, questo, che odio: “intrattenere”. Trattenere nel mezzo, ritardare, rimandare. Un libro che intrattenga e basta per me è uno spreco di tempo. Se non causa riflessione, se non porta a rivedere e ripensare una parte del proprio orizzonte, è inutile leggerlo.
Però ho incontrato anche molte persone, giovani come me, che mi hanno dato e continuano a darmi qualcosa ogni giorno. Grazie a loro continuo a confidare che la cultura rivesta un valore di rilievo in Italia.

7. “Ho profonde radici/non posso cadere/ma neanche/volteggiare nel vento/libero”, recita una tua poesia. È una sensazione che provi spesso?

La quercia, una delle poesie più vecchie, credo del 2008-9. La quercia contrasta con gli uccelli del paradiso, che vorrebbero invece volare liberi, ma per ora non possono.
In generale è una sensazione che provo quotidianamente. C’è un trade off con cui si fa i conti ogni giorno: la scelta estrema fra sicurezza e libertà, fra stabilità economico-sociale e autonomia. Ma anche fra salde opinioni personali (come una salda fede, per esempio) e possibilità (e volontà) di affrontare i cambiamenti in modo costruttivo.
Personalmente preferirei volteggiare nel vento, avendo appena una radice nel terreno da cui provengo.
8. Cosa vuol dire smarrire la via?

“Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”, diceva Nietzsche.
Smarrire la via vuol dire (essere pronti ad) abbandonare la sicurezza dei propri valori, imporsi di conoscere qualcosa che vada al di là del proprio rifugio sicuro; essere consapevoli che, spesso, “Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante”.
Come ho scritto di recente in una nuova composizione, più aspra e disillusa della Via smarrita: “La via smarrita / è innocenza perduta: / si staglia isolata / fra gli altari celati”.
9. Il poeta soffre più degli altri?

Tutti soffrono. C’è chi copre questa sofferenza comprandosi un Rolex, un iPhone o una nuova auto con i soldi che ha guadagnato vendendo l’unica cosa che veramente conta: il tempo a disposizione.
C’è chi affronta questa sofferenza andandogli incontro, sublimandola nella scrittura, nell’arte, nella filosofia.
Il poeta soffre come gli altri; forse (e specifico di nuovo: “forse”) ne è solo appena un po’ più consapevole.
10. Perché i media e l’editoria sembrano non curarsi della poesia?

La risposta è banalmente volgare: perché non vende. La poesia non è in grado di prostituirsi.
11. Progetti in cantiere?

Ho due romanzi in pubblicazione con case editrici NO EAP; un terzo romanzo dai forti temi sociali (mafia, violenza sulle donne, ostracismo nei confronti degli omosessuali) completato, ma in fase di editing; un nuovo romanzo, ancora in fase embrionale, sulla vita di una donna (una fra tante).
Ho anche una seconda raccolta in scrittura, nata durante il mio viaggio a Berlino. Tratterò tematiche diverse e sperimenterò maggiormente, cercando uno stile più contemporaneo rispetto a La via smarrita.
12. “La poesia non è di chi scrive ma di chi se ne serve”. Sei d’accordo con questa massima?

Quando un’opera lascia il grembo materno/paterno e vaga per il mondo, diventa di chiunque abbia voglia di prendersene cura. Un’opera non è un oggetto su cui si ha proprietà: è un essere vivente, su cui si ha sì paternità, ma che fondamentalmente è autonomo.

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