Mistero, doppio, mutamento di identità. Il grande risultato dei film di David Lynch risiede nella fascinazione di questi tre aspetti e nella capacità di abbattere la distanza tra spettatore e schermo. Invece di consentire la prossimità immaginaria che domina nel cinema mainstream, i film di Lynch coinvolgono lo spettatore nella loro stessa struttura. La struttura di un film di Lynch altera la situazione di visione cinematografica stessa e priva lo spettatore del senso di fondo di rimanere a una distanza di sicurezza da ciò che accade sullo schermo.
Evitando la questione di cosa costituisca esattamente il “cinema mainstream” e il rapporto di Lynch con esso, ci si deve chiedere come la “situazione di visione” per l’opera di David Lynch sia rimasta abbastanza invariata negli anni trascorsi da Eraserhead. Da allora uno spettatore attento avrebbe potuto imbattersi nell’opera di Lynch in contesti così diversi come nelle proiezioni di mezzanotte negli anni ’70, sui loro schermi televisivi alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, fino allo scaricamento di esperimenti di cortometraggi sul proprio
computer nell’ultimo decennio. Anche se uno spettatore si limitasse solo ai lungometraggi di Lynch, non si può ancora affermare che esista una singolare “situazione di visione cinematografica” in cui li avrebbe guardati tutti.
Il cinema “discontinuo” e perturbante di David Lynch è stato variamente criticato, accolto e interpretato nei più differenti modi da pubblico e critica. I critici e gli appassionati più ferventi non si sono lasciati sfuggire occasione per interpretare i suoi film alla ricerca di analogie e similitudini con pellicole di altri grandi geni del cinema come lo sono stati Buñuel, Hitchcock e Lang.
Già nel 1977, anno di uscita del suo primo lungometraggio, “Ereaserhead – La mente che cancella”, gli viene affibbiata l’etichetta di surrealista perché il film in certi momenti sembrerebbe ricordare “Un Chien Andalou” di L. Buñuel e S. Dalì. Cadere nell’equivoco di considerare David Lynch un surrealista è cosa facile, soprattutto a causa delle atmosfere stranianti ed astratte che pervadono i suoi film, atmosfere che turbano lo spettatore nel profondo.
“Per me il mistero è una calamita. Ovunque ci sia qualcosa di ignoto, si sviluppa sempre una grande attrazione. Se ci si trovasse in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si apre e la forte tentazione di precipitarsi giù da quelle scale”. (David Lynch)
Il mistero che interessa Lynch è quello che pretende una spiegazione, quello che genera uno stato di disorientamento percettivo/cognitivo e che coglie lo spettatore – insieme al personaggio – di fronte a eventi inspiegabili o in attesa di risoluzione. Uno “scioglimento” logico dei dubbi spesso non viene raggiunto, come se il cineasta percepisca deludente ogni curva narrativa che si risolva semplicemente nel percorso
“mondo tradizionale > evento perturbante > conflitto > sconfitta dell’irrazionale > ritorno al mondo ricomposto”. Ciò su cui fa leva
è invece la perenne esitazione tra il razionale e l’irrazionale degli avvenimenti narrati, egli preferisce dilatare all’infinito il mistero, mantenendone le caratteristiche iniziali di “rottura” ma rinunciando di fatto a una sua riduzione elementare.
Da una parte l’autore non rinuncia a marche di enunciazione che indichino la presenza di un’attività onirica, dall’altra i film si nutrono di visioni, profezie, apparizioni che non si sa mai a chi o a che cosa attribuire. Di qui, una sensazione diffusa di minaccia
che “possiede” fantasmaticamente anche i luoghi apparentemente pi sicuri, come la casa o la camera da letto.
Il mistero in Lynch si struttura in diverse forme: misteri che muovono l’intera vicenda, misteri occasionali in grado di turbare gli eventi della narrazione e infine misteri nonsense, circoscritti a una sequenza o a un comportamento anomalo. Una delle caratteristiche principali che distingue il racconto cinematografico dalla fiction televisiva è il limite di tempo della narrazione.
Mentre nel cinema la storia è destinata a svilupparsi e concludersi entro un certo arco temporale che mediamente si aggira intorno alle due ore, in televisione si ha la possibilità, almeno in teoria e a pubblico piacendo, di poter raccontare una storia per un tempo illimitato, cambiando di continuo le carte in tavola. La narrazione televisiva consente per esempio di mettere in risalto dettagli che prima sembravano insignificanti e d’improvviso aprono le porte a nuove possibilità di sviluppo del racconto; ancora consente di far evolvere la storia di un
personaggio secondario fino a fargli assumere la stessa importanza dei protagonisti.
Cinquant’anni dopo che Roland Barthes e Michel Foucault hanno avviato la demolizione del concetto di autore, sottolineandone l’inadeguatezza come fonte di significato, la critica cinematografica oscilla ancora tra approcci devoti e cauti alla questione. I primi, come se fossero improvvisamente liberati dalla repressione del loro entusiasmo, abbracciano con tutto il cuore l’autore come pratica euristica e propongono di usarlo come fonte di analisi esplicativa. I secondi, spesso allineati al pensiero post-strutturalista, cercano di delineare i modi in cui gli autori influenzano la circolazione della loro opera senza cadere nella trappola di difendere la reificazione borghese della loro posizione. Tra questi ci sono stati tentativi di affrontare i contesti storici e istituzionali degli autori, che hanno spesso ridotto la loro funzione a meri partecipanti alla commercializzazione del cinema, insieme a una ripresa di studi che si aggrappano ancora alla capacità dell’autore di mobilitare aspetti dell’identità, ad esempio, attivando fantasie sulla capacità degli spettatori di avere il controllo del significato ed esprimersi.
In questo contesto il cinema dell’inossidabile Clint Eastwood ha diviso e divide la critica in chi si crogiola in accuse di antisemitismo, razzismo, mascolinità eccessiva, autoritarismo, rudezza e chi esalta il coraggio del pluripremiato cineasta nel non essersi mai lasciato sedurre da sperimentalismi, continuando a proporre se stesso con grande rigore e autenticità.
Anche l’ultimo pregevole legal thriller di Eastwood si colloca nel solco del rigore stilistico e della classicità. Giurato numero 2 va dritto al punto senza giri di retorica: Verità/inno al ragionevole dubbio, giocando abilmente col motivo del visibile e dell’invisibile, dell’evidente e del nascosto: la sposa bendata, il protagonista abbacinato dal temporale, il testimone confuso dalla distanza, il pubblico ministero ‘accecato’ dalla carriera. Le zone d’ombre sono tutte messe in luce da Eastwood, che mostra quello che i personaggi non vedono o non vogliono vedere. Ma è tutto lì, in piena luce grazie alla fotografia è limpida, l’illuminazione uniforme, l’inquadratura spinta al massimo punto di eccellenza, eppure tutti guardano senza vedere. E qui risiede la profondità del film, molto più che nel dilemma morale che deve affrontare il protagonista e che richiede una sola scelta giusta, senza possibilità di sbagliare.
Justin Kemp, giovane uomo con un passato da alcolista e un futuro da papà – la moglie aspetta la loro bambina -, è convocato come giurato in un caso di omicidio alle porte di Savannah, in Georgia. La vittima, Kendall Carter, è stata presumibilmente picchiata a morte e abbandonata in un fosso dopo una violenta discussione con il suo ragazzo, membro pentito di una gang di quartiere. Il colpevole ideale per i dodici giurati e per il procuratore della contea in piena campagna elettorale.
Justin, giurato numero 2, realizza progressivamente la propria colpevolezza nella tragedia avvenuta un anno prima, nel cuore della notte, sulla stessa strada dove si era convinto di aver investito un cervo. Sotto una pioggia battente di ricordi, il marito perfetto si scopre omicida involontario e si ritrova difronte a un dilemma morale: confessare, scagionando l’imputato, o sottrarsi alla giustizia, condannando un innocente?
Il film cita il Sidney Lumet de La parola ai giurati quando entra nella stanza della giuria, formata da gente normalissima con convinzioni precostituite, mentre Justin che tenta di salvare la propria coscienza man mano scardina le loro convinzioni colpevoliste. Tuttavia, in Lumet Henry Fonda era l’eroe americano senza macchia, mentre in Giurato numero 2, il marito perfetto è anche l’inquieto colpevole, per quanto involontario, di una tragedia più grande di lui.
Qualcuno ha avuto una relazione o conoscenza con l’imputato prima di oggi? Chiede il giudice.
È stato passeggero del mio bus, risponde la giurata.
Gli atteggiamenti verso la rilevanza dell’autorialità corrono paralleli a una diffusa ansia nella cultura contemporanea causata dalla tensione tra il desiderio di trovare modelli di identità coerenti per guidare la nostra identificazione e la consapevolezza che le società postmoderne non offrono molto in tal senso, ovvero il conflitto tra un’adattabilità al cambiamento richiesta socialmente e il bisogno, anch’esso originato dalla società, di un’identità personale stabile e forte che possa sopravvivere a quello stesso cambiamento senza dissolversi in esso.
Tale conflitto può essere visto come la tensione creata dalla richiesta sociale di identità che sono allo stesso tempo deboli e forti, un conflitto visibile nei discorsi creati dal cinema americano e che risulta più visibile in quei film che sono associati ad autori con una potente presenza culturale, acquisita attraverso una lunga carriera di regista o attraverso la loro contemporanea condizione di attori di punta. Clint Eastwood, uno dei più importanti autori di questo genere nel cinema hollywoodiano contemporaneo, si erge come un prodotto culturale sintomatico di quella tensione, poiché i significati che ha accumulato nel corso della sua lunga carriera. includono fantasie sia sull’autosufficienza che sulla flessibilità del soggetto contemporaneo.
Le diverse fantasie offerte dal cinema di Eastwood, Giurato numero 2 compreso, spaziano dal sé maschile determinato a quello duttile e si combinano tra loro in vari modi, attestando le tensioni che attraversano le società contemporanee in merito alla formazione e alla circolazione dell’identità, mostrando i modi in cui la cultura statunitense riflette l’ansia maschile causata dalla pressione di adattarsi a una nuova sfera sociale in cui la malleabilità e l’identità come stile di vita sono più richieste rispetto al tradizionale ethos maschile di lavoro ed efficienza. Tale tensione è articolata dai film attraverso il ricorso allo status culturale di Eastwood come autore e rappresentante del maschio statunitense.
La sua circolazione come voce autoriale mostra l’impatto di tale necessità di adattarsi ai tempi che cambiano, con conseguenti fantasie di espressione che suggeriscono allo spettatore una varietà di interventi autoriali. Sebbene i film di Eastwood siano pervasi dai significati
portati dalla sua potente presenza come attore, funzionano anche producendo fantasie su di lui come autore di cinema d’azione-spettacolo, di film indipendenti, di tentativi di revisione attraverso il melodramma e in generale su di Eastwood come autore con una visione del mondo molto personale. Del resto, chi oggi parla di ambiguità morale al cinema con il rigore di Eastwood, trattando contemporaneamente, senza partorire un guazzabuglio, politica, sistema giudiziario americano, vicenda personale, fede, fiducia della legge?
Parlando di indipendenza artistica, è utile sottolineare come la stessa società di produzione di Eastwood, inoltre, la Malpaso, illustra l’ambigua relazione dei suoi film con il mainstream: il suo ufficio si trova all’interno dei terreni della Warner Bros. dal 1976, a testimonianza della relazione di complicità e opposizione di Eastwood con Hollywood, che è fondamentale per comprendere il suo lavoro e il suo significato culturale. Un’ambiguità simile ha definito la connessione delle produzioni indipendenti con le major negli ultimi vent’anni, al punto che la comparsa all’interno dei grandi studi di divisioni specializzate in progetti dall’aspetto indipendente ha costretto gli studi cinematografici a ripensare il significato del cinema indipendente. Una volta che l’indipendenza economica è diventata un’utopia, l’etichetta indipendente è diventata un’ulteriore nicchia commerciale per l’industria, designando ora uno stile diverso caratterizzato dall’attenzione alla costruzione del personaggio, alla sovversione della struttura narrativa.
The Beguiled (1971, titolo italiano, La notte brava del soldato Jonathan) è uno dei film più potenti, coesi, visionari e controversi diretti da Don Siegel, sceneggiato magnificamente con una sottile connotazione psicologica, pennellate antropologiche di magistrale riuscita, composto e sfrenato nel medesimo gesto registico.
La trama è semplice, lineare, scarnificata fino all’estremo dell’essenziale, e tutto si svolge all’interno del collegio femminile sudista. Ma il modo peculiare con cui Don Siegel dà estro all’affresco dei personaggi, la cura nelle inquadrature, il dinamismo delle immagini e le suggestioni pressoché pittoriche degli interni, degli sguardi, dei volti, sono qualcosa che difficilmente si lascia dimenticare.
Clint Eastwood (alla sua prima prova attoriale di spessore, riconosciuta tale anche dalla critica del tempo) è il caporale John McBurney, la sola figura maschile all’interno del collegio; introdotta a dispetto delle ordinanze e dei codici che vedrebbero l’obbligo, in tempi di conflitto, di consegnarlo all’esercito sudista come prigioniero. Miss Martha Farnsworth, più che matura e arcigna direttrice della scuola, appare dibattuta proprio nel decidere le sorti del giovane soldato, ma prende la decisione di curarlo in attesa di vedere il da farsi, con l’alibi di salvarlo da una prigionia che nelle sue condizioni ne avrebbe decretato la morte, ma adombrando intenti occulti di ben altra natura.
In questa sorta di gineceo, il soldato si muove furbescamente e in modo maliardo, catturando le attenzioni, più o meno sessualmente esplicite, di tutte le educande, comprese quelle di Miss Martha, che, a dispetto dell’aria e della condotta irreprensibili, nasconde un passato torbido e incestuoso. Di particolare spessore (e stuzzicata, anche lei, dal fascino del caporale) è la figura della serva di colore: dipinta come forte, risoluta e di una certa fibra morale, nasconde qualcosa, nel proprio trascorso, di innominabile, ed ha subito un maltolto che non dimentica. È forse la figura più schietta e umana della lunga carrellata di personaggi femminili che offre il film.
Tutto appare lindo, rispettoso della migliore tradizione ed etichetta, corroborato per questa via dalla gestione severa e didascalica della direttrice e dai precetti della giovane insegnante Edwina. Ma in realtà tutto è inganno, e il limine tra quello imbastito dal caporale per aggraziarsi la simpatia dell’una e dell’altra delle giovani figlie di sudisti, e quello di queste, è assai impalpabile. McBurney mente sul proprio agito all’interno dell’esercito dell’Unione, si finge quacchero e del corpo di soccorso, quando il suo ruolo e la sua condotta erano stati ben altri; in particolare, mentre sciorina mellifluamente le circostanze del suo ferimento, si vedono scorrere impietosamente le immagini che dichiarano la sua arte menzognera.
Chi inganna chi? Chi per primo e chi colpevolmente o con una vena di innocenza dettata dalla eteroclita situazione in atto?
Il lavoro di uncinetto imbastito dal caporale con fatti e parole è in dubbio di onestà, ma egli resta pur sempre uno sprovveduto preso in un gioco perverso delle identità e dei ruoli che culmina in un teatro del terrore e ha per attrici delle donne fatte Furie. I piccoli siparietti, le contese più o meno gentili, i sottesi e l’understatement (che non arriva a celare le urgenti pulsioni libidiche dei personaggi), assieme a tutte le false suppellettili morali e religiose di quel Mississippi rurale, esornano soltanto, senza cancellarla, la reale crudezza dell’abietto che prende forma.
Il film è stato accusato di misoginia, ma una sana risposta a questo che sembra solo un vezzo moraleggiante, potrebbe essere che i miti antichi superano ogni più sfrenata immaginazione presso i paradigmi e i contesti messi al centro della pellicola. In fondo, è un film su sesso e vendetta, e cosa c’è di più topico nelle radici antiche di ogni cultura? Si potrebbe azzardare che sia quasi boccaccesco, e non per antonomasia, ma per temi, intrighi e modalità espressive.
Miss Martha vede nel caporale l’omologo del fratello amato incestuosamente, la bimba che lo ha soccorso vagheggia di lui quasi fosse un padre e un amante, una scafata diciassettenne lo corteggia fino ad amarlo carnalmente, e la giovane insegnante Edwina, in questo carosello che rasenta il melodramma sessuale, lo ama sinceramente di un amore che sembra essere estraneo ai raggiri e alle capziose sottigliezze di tutte le altre. McBurney non è una vittima ideale, ma è pur sempre una vittima. E il collegio femminile, alcova di Dio, Patria e buone creanze, diventa un crogiolo di atrocità come non se ne vedono forse neanche in guerra: qui attuate tra merletti e guanti bianchi, ma non meno fatali.
Magistrale, prima del culmine drammatico del film, è il sogno orgiastico (di lì a poco non si distinguerà dalla realtà, anche perché filmato nella stessa impassibile, fedele maniera) di Miss Martha, che, entrata in maggiore intimità col soldato, lo ama (oniricamente) in un tourbillon di passione.
Tutto sembra concorrere a disegnare una repressione sessuale e di costumi dietro la cui sottile vernice sta la linfa pulsante del peccato e della peggiore depravazione.
Amore e morte si confondono. Così come colpa e innocenza, verità e menzogna. Apparenza e realtà. Parola veridica e inverecondo inganno.
Le immagini sono plurime, con giochi di figure riflesse e l’abilità di incorniciare pezzi di narrazione mettendoli in dialogo tra loro, anche con singole scene che raccontano storie quasi fossero immagini in successione e in evolversi.
Nemmeno la luce del giorno è garanzia di riparo dall’inganno e dalle tresche, anzi la maggior parte della pellicola gioca a mettere in scena il nascondimento e l’inganno proprio alla luce diurna. Mentre gli interni, per contrasto, risultano spesso crepuscolari, soffusi, pennellati tonalmente con rilievi in chiaroscuro, o espressi con parti in ombra e frammenti di luce come piccole feritoie esigue nel buio. Almeno in un paio di espedienti l’estinguersi della parte in luce è il passaggio alla scena successiva.
Raramente si è visto un film più perverso e crudo, e l’energica messa in scena, dinamica ed estrema, concorre a renderlo, seppure claustrofobico, di un respiro corale e minuto, elegante e terribile: proprio come l’educandato che racchiude il film tra quattro mura.
Se la sceneggiatura ha puntiglio psicologico, la messa in scena appare quasi quella di un testo teatrale dove tutto concorre a un intreccio di dialoghi e di ruoli preciso e puntuale; ma le immagini esondano perfino un semplice teatro di posa (fisico come allegorico), scorrono in maniera carsica sotto un velo labile di apparenze, di parole e atti vaghi, doppi se non plurimi, ingannevoli e esiziali, con una vena robustamente vitale e realistica che estenua non solo un possibile senso morale, ma anche la possibilità stessa di non fare dell’immoralità una condotta pratica.
In finale di pellicola torna nuovamente il color seppia, e il cancello del collegio vede uscire il caporale che aveva visto entrare soccorso, morto per un machiavello perfido di tutte le educande, con a capo la perfida Miss Martha, unite dal risentimento nella vendetta. V’è qualcosa di erinnico in questo film, e la castrazione è un fatto, non un’idea appena accennata o una sua sfumatura.
Sempre nel finale, le parole delle collegiali risultano una pantomima della verità a discapito della verità effettiva, come se fosse la voce di un’innocenza che non può che essere estranea alla colpa… Ma solo mentendo e rimuovendola… E i fatti rimangono occultati nel sacco che cuciono attorno al cadavere del caporale, assieme all’amore intatto di Edwina che depone un fazzoletto, per pudore e veridico sentimento, a velarne il volto esangue. Si è conclusa una battaglia senza strepito e cannoni, ma il risultato è lo stesso del conflitto sullo sfondo, dentro come fuori dai cancelli della timorata scuola.
Guardando American Pastoral, film diretto da Ewan McGregor e uscito nei cinema statunitensi nel 2016, la struggente bellezza della storia raccontata da Philip Roth nell’omonimo romanzo del 1997 si percepisce a tratti e la pellicola colpisce più dal punto di vista emotivo che non artistico.
Non è certo una scelta facile esordire con l’adattamento di American Pastoral, un’opera nota, monumentale, forse troppo dark per un pubblico cinematografico esteso. Adattare un tale colosso della letteratura al linguaggio del cinema significa riuscire a rendere l’atmosfera, le emozioni, le sensazioni, i pensieri e il non detto che aleggia in tutta la storia non usando le parole ma le immagini, gli sguardi degli attori e le loro interpretazioni.
Per iniziare, è interessante soffermarsi sull’ingranaggio che avvia il racconto della gloria e dell’improvvisa caduta dello Svedese : se nel film questo momento non è che poco più di un pretesto narrativo- lo scrittore Nathan Zuckerman incontra Jerry Levov, il fratello minore di Seymour (da poco deceduto) e suo amico di infanzia, alla quarantacinquesima riunione degli ex allievi del liceo di Weequahic a Newark, e da lui apprende la tragedia che sul finire degli anni Sessanta aveva travolto l’eroe della sua infanzia – nel romanzo è un’impalcatura imponente, una solida cornice narrativa in cui Roth, nei panni del narratore Zuckerman, suo alter ego, dice molto di sé e del proprio background socio-culturale.
Già nell’incipit il narratore fornisce le coordinate principali della propria estrazione sociale, e lo fa attraverso un primo inquadramento dello Svedese, campione sportivo simbolo della sua generazione: un ragazzo di qualche anno più grande, come lui ebreo, come lui di Newark, come lui allievo del liceo pubblico a maggioranza ebraica di Weequahic; a poco a poco, poi, la presenza del narratore nella vita dei protagonisti si fa più tangibile: Nathan, detto Skip perché da ragazzino aveva saltato due anni alle elementari, è dapprima l’unico amico, o quasi, di Jerry Levov, grazie al quale aveva sempre mantenuto un contatto, sebbene minimo e indiretto, con lo Svedese, di cui amava spiare i trofei sportivi attraverso la porta semiaperta della camera da letto.
É il protagonista di Pastorale Americana, ricordato da quanti l’avevano conosciuto ai tempi delle sue imprese sportive con quest’appellativo che rimanda all’eccezionalità dell’aspetto del ragazzo e alle sue origini.
“Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov”.
Inaspettatamente Jerry Levov, ormai un affermato medico-chirurgo che opera a molti chilometri da Newark, fa la sua comparsa nella sala e mette Nathan al corrente prima della morte del fratello, del quale sono appena stati celebrati i funerali, poi della sua vita trasformata in irrimediabile sofferenza dalla figlia ingrata, Merry, nota all’America come la terrorista di Old Rimrock; incredibile ma vero, la terrorista di Old Rimrock che nel ’68 aveva fatto esplodere la bomba nello spaccio cittadino era la figlia di Seymour lo Svedese, l’eroe interamente buono e privo di contraddizioni della sua gioventù. “La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America” – dice Philip Roth prestando la voce a Nathan, un io di finzione capace tuttavia di fissarne i tratti essenziali.
Quella che si svolge dentro e in memoria della riunione degli ex-allievi del Weequahic è a mio avviso la parte più autoreferenziale del romanzo: non solo perché Roth vi dissemina numerosi riferimenti alle sue origini ebraiche, essendo il liceo pubblico frequentato in gioventù da Skip, Seymour e Jerry Levov un liceo a maggioranza ebraica ( dove tuttavia la matrice ebraica si mescola a un modello di
vita americano sempre più omologante, destinato a espandersi in modo vertiginoso nei decenni a venire rendendo l’essere ebrei un sostrato più o meno remoto ai tempi della riunione, o forse, più precisamente, latente nella vita di ognuno dei vecchi compagni di scuola); anche e soprattutto perché sulla spinta delle confessioni fatte da Jerry a Nathan assistiamo a qualcosa di profondamente
meta-narrativo, al momento stesso della creazione letteraria, messo a nudo davanti al lettore. É utile fare attenzione, qui, al fatto che Jerry rivela solo una minima parte della storia che si snoderà nelle pagine del romanzo; solo le sue linee principali, restituite dalla prospettiva cinica e parziale del fratello dello Svedese.
La parte più consistente di quella storia è invece frutto dell’immaginazione di Nathan, nella misura in cui dietro Nathan c’è Philip Roth. Questo implicito patto col lettore affiora in un passaggio cruciale:
Aveva destato in me, quando ero un ragazzo (come in centinaia di altri ragazzi), la più accesa fantasia di essere un altro che avessi mai avuto. Ma condividere la gloria altrui, anche se solo in sogno, da adulto o da ragazzo, è una cosa impossibile, irrealizzabile sul piano psicologico se non sei uno scrittore, e sul piano estetico se lo sei.
Da questo momento in poi Roth non abbandona più la terza persona, decide di rimanere sullo sfondo adottando quasi interamente il punto di vista di Seymour Levov mentre ne ripercorre le vicissitudini familiari. La tecnica narrativa é per così dire sospesa fino alla Parte terza del libro , l’ultima, in cui l’illusione ricompare anche se questa volta non ha alcun rapporto con l’autobiografia: la voce, l’io di Seymour è ora più che mai dirompente e straziante, lo Svedese è ora più che mai un eroe interamente solitario; lo è mentre cerca di rimettere insieme i pezzi apparentemente sconnessi dell’epilogo, il ritrovamento della figlia in stato di indigenza nella periferia di Newark cinque anni dopo l’attentato, la prevaricazione del fratello cui ha rivelato tutto quello stesso pomeriggio, la dolorosa scoperta
dell’adulterio della moglie e del tradimento di Sheila Salzman, che aveva in cura Merry ai tempi della sua balbuzie e l’aveva nascosta dopo l’esplosione dello spaccio di Old Rimrock: tutto nel corso di un’unica giornata che termina con una cena, la quale agisce come epifania all’interno del romanzo; immensa è la sua portata rivelatrice, ora che finalmente Seymour può vedere:
“E la causa di questo recupero della vista è Merry. La figlia ha fatto sì che il padre vedesse. E forse era proprio questo che aveva sempre voluto. Gli ha donato la vista, la capacità di vedere con chiarezza ciò che non potrà mai essere normalizzato, di vedere ciò che non puoi vedere e non vedi e non vuoi vedere finché il tre non sarà aggiunto all’uno per fare quattro” , alludendo al numero di omicidi commessi da Merry.
É ormai chiaro a Seymour di essere stato privato del futuro:
Aveva visto com’è inverosimile che si possa discendere l’uno dall’altro e com’è inverosimile che davvero si discenda l’uno dall’altro. Nascita, successione, le generazioni, la storia: assolutamente inverosimile.
Prevedibilmente, il film ha uno sviluppo del tutto diverso: l’unica porta sul presente dei sopravvissuti (Jerry e Nathan, le voci narranti) é in questo caso la quarantacinquesima riunione degli ex-allievi del liceo di Weequahic a Newark. Di lì, il racconto della vita di Seymour si snoda senza interruzioni fino alla separazione finale dalla figlia Merry, che vede per l’ultima volta nella periferia di Newark nei panni di una giaina ; il plot ingloba, sommariamente, la fine della Parte prima e tutta la Parte seconda del romanzo.
In modo meno prevedibile il regista decide poi di creare un ricongiungimento tra la cornice narrativa e la storia di Seymour, fino a quel momento tutta declinata al passato: non solo Seymour muore qualche giorno prima dell’incontro con i vecchi compagni di scuola, ma nell’ultima sequenza del film ne vengono anche celebrati i funerali ( ai quali sono presenti Jerry, Nathan, e l’ex-moglie di Seymour, Dawn Dwyer), con un incredibile colpo di scena, il ritorno di Merry tra lo stupore dei presenti; una donna bionda che vediamo solo di spalle mentre cammina fino alla bara di Seymour Levov, regalando così l’ultima inquadratura del film.
L’adattamento cinematografico di Pastorale americana ci introduce quasi subito nel racconto, riducendo al minimo, a puro pretesto, la cornice narrativa; dopo i primi cinque minuti la voce narrante sparisce lasciando spazio alla parabola discendente dei Levov, riprodotta in modo sempre progressivo dal punto di vista cronologico.
Ciò che la pellicola abolisce per ovvie ragioni di carattere tecnico é l’andirivieni dei fatti nell’esistenza mentale di Seymour, l’affollarsi di ricordi tormentosi che ricreano, in ordine sparso, i cinque anni compresi tra lo scoppio della bomba nello spaccio di Old Rimrock e l’ultimo incontro con Merry, tra il ’68 e il ’73; quest’arco temporale è compresso in un periodo dalla lunghezza imprecisata ma molto più breve nel film; gli eventi che portano al ritrovamento di Merry sembrano succedersi uno dopo l’altro.
Sul piano narrativo molti sono i rimaneggiamenti fatti per comprimere la miriade di informazioni che Roth distribuisce in oltre quattrocento pagine e in un arco temporale più esteso: alcune figure rilevanti vengono accorpate (lo psichiatra e il foniatra che avevano in cura Merry da piccola diventano un’unica persona nel film, colei che nasconderà Merry dopo l’attentato); spesso la combinazione tra dialoghi, personaggi e situazioni del romanzo cambia restituendoci gli stessi personaggi calati in situazioni diverse e
protagonisti di dialoghi altrettanto differenti.
Per quanto riguarda le scelte registiche, iniziamo da un bacio mancato: Ewan McGregor modifica il testo di Roth, credo senza troppe titubanze, nel punto in cui Merry undicenne, tornando dal mare col papà, gli chiede di baciarla come lui baciava la mamma ; incredulo e in preda a sentimenti contrastanti, alla fine Seymour concede a Merry quel bacio perché non sopporta di vederla umiliata e affranta dalla sua stessa richiesta; teme che il proprio rifiuto possa acuire la sofferenza testimoniata dalla balbuzie della figlia al momento
stesso della sua richiesta.
Quel bacio, che non dura più di cinque o dieci secondi, all’indomani dell’attentato tormenterà però a lungo Seymour, che imputa forse lo sviluppo anomalo di Merry, la violenza della sua protesta adolescenziale, a quell’episodio, alla richiesta di fronte alla quale aveva ceduto; certo, Seymour sonderà in profondità le possibili ragioni dell’odio di Merry e le troverà in altri
meandri sepolti dal tempo, ma quello del bacio rimarrà per lui uno stigma indelebile.
Nella scelta di opporre un secco rifiuto al desiderio espresso dalla figlia undicenne, il film agisce come una censura: non vuole compromettere l’integrità, l’alta statura morale di Seymour Levov, considerando l’eventualità di quel bacio come un imperdonabile cedimento a pulsioni che non gli appartengono. Rimanendo fedele a questa linea, sul finale invece riabilita, riammette Merry nel consesso civile facendola avanzare verso la bara del padre dopo la celebrazione dei funerali.
Un finale, anche questo, a suo modo rassicurante, un’opera che si chiude nel segno della riconciliazione; un ritorno non contemplato da Philip Roth, che non accennerà più a Merry dopo quel giorno d’estate del 1973 in cui Seymour la ritrova vestita di stracci e ridotta a un mucchio di ossa nella sua stessa Newark; anzi, vi accenna molte pagine prima per bocca di Jerry Levov, ma allora forse Merry è appena morta, a circa quarant’anni, e sicuramente non nel segno della riconciliazione con la sua famiglia.
Il risultato é un punto di vista complessivo, quello dell’eroe solitario, che fa cadere nell’indifferenza tutti gli altri: in fondo ciò che ha sempre dato la misura dell’essere Americani é proprioquest’indifferenza, la convinzione di poter convivere più o meno pacificamente con chiunque, non importa da dove arrivi e cos’abbia fatto per arrivare fin lì. Facendo esplodere la bomba, tuttavia Merry manda in frantumi il buonsenso americano.
Ora che la violenza l’ha messa a nudo, quest’indifferenza non può che assumere segno negativo, e lo fa attraverso lo sguardo illuminato di Seymour. Interessante per la tecnica narrativa, questo epilogo é la prova di quanto l’autore sia presente nel testo attraverso la voce del suo protagonista; è questo un finale ideologico e a suo modo autoreferenziale che si autoesclude da qualsiasi adattamento cinematografico, rendendo la magia delle parole di Philip Roth irriducibile al grande schermo.
La Palma d’oro 2024 va al Sean Baker di Anora, narratore indie dell’America diseredata con una speciale attenzione per gli hustlers, gli spiantati che campano di espedienti, e per i lavoratori del sesso in particolare. Li considera, uomini e donne, il nuovo proletariato. Il suo film-troppo lungo- sembra all’inizio una replica di Pretty Woman, con una Cenerentola lap dancer che lo svitato rampollo di un oligarca sposa per gioco. Ma poi diventa una scorribanda mozzafiato con bodyguards e genitori nababbi impegnati a ricacciare Cenerentola nel fango da cui è venuta. Solo i perdenti possono darsi, tra loro, comprensione e conforto, e questo avverrà. E’ il più bel film del concorso? Naturalmente no.
Emilia Pèrez, il mélo in musical di Jacques Audiard che ha avuto comunque due premi, il Prix di Jury e la Palma collettiva per l’interpretazione femminile al quartetto protagonista: l’attrice transgender Karla Sofìa Gascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez, avrebbe meritato il premio più ambito.
E’ troppo facile premiare le donne perché fa tanto “femminista impegnato”. Il Gran Premio della giuria, secondo in ordine di importanza, è andato a All we imagine as light della documentarista indiana Payal Kapadia, debuttante nella finzione, con le storie intrecciate di tre donne emarginate da una Mumbai caotica e ostile. Altra regista donna, Coralie Fargeat, premiata per la sceneggiatura di The Substance, un body-horror per palati robusti che denuncia l’asservimento delle donne all’imperativo maschile che le vuole belle, giovani e sode e le cestina sopra i 50. Con una impavida Demi Moore.
E’ discutibile anche il premio per la regia a Grand Tour del portoghese Miguel Gòmez: è il film meno originale della sua carriera, mentre il Jesse Plemons miglior attore per Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos risarcisce un film di sottile humour noir massacrato dalla critica. Restano fuori in tanti, a torto o a ragione: il più vicino a noi è Paolo Sorrentino, che racconta una storia di donna ma con sguardo maschile, il più glorioso è Francis Ford Coppola, col suo pirotecnico sogno di una vita, Megalopolis.
Insomma la giuria presieduta da Greta Gerwig ha assegnato il premio per la miglior attrice a ben quattro interpreti a pari merito: Adriana Paz, Zoe Saldana, Karla Sofia Gascon e Selena Gomez, Karla Sofìa Gascòn, che ha iniziato la sua transizione di genere all’età di 46 anni, è la prima attrice transgender a vincere questo premio. Tutto nella norma.
Il film vincitore racconta tuttavia racconta di una ragazza che sogna di diventare una principessa, una prostituta di Brooklyn, che ha la possibilità di vivere una storia da Cenerentola quando incontra e sposa il figlio di un oligarca russo. Pellicola curiosa e divertente che consente di fare qualche annotazione in relazione:
Una ragazza di oggi sogna la favola, l’agiatezza, la bella vita, e nel frattempo pratica la propria libertà ed emancipazione facendo la sex worker (come direbbero quelli che parlando bene e che non discriminano!);
per fare ciò la ragazza ha bisogno degli uomini;
sempre la ragazza viene dipinta come l’eroina della vicenda, in quanto donna libera che si “autodetermina” e che smaschera le ipocrisie dell’alta società di cui vorrebbe far parte;
I genitori del ragazzo russo non vogliono avere a che fare con una nuora americana ex spogliarellista e prostituta;
il regista americano prende in giro l’oligarca russo e rappresenta la protagonista, un russa americana, come una sex worker in nero (che originalità).
Una rivisitazione senza troppe ambizioni dunque, di Pretty Woman, Anora, film che secondo alcuni rappresenterebbe il nuovo cinema statunitense, lontano da quello dei grandi maestri, un cinema di piccole storie e nella fattispecie una storia con un protagonista maschile ricchissimo ed idiota e una ragazza sveglia, che “deve” muovere il sedere in faccia alla gente per dimostrare di avere potere sugli uomini.
Anora sembra raccontare solo di una generazione che dà per scontato di doversi vendere. Il regista stira allo stremo ogni idea e questo forse indebolisce Anora anziché rafforzarlo, a maggior ragione considerando il fatto che l’intera trama è completamente prevedibile e non presenta nessuno scostamento da quanto uno spettatore minimamente avveduto possa dedurre dal primo quarto d’ora, per quanto riguarda la prima metà, e poi dall’ingresso in scena degli sgherri e soprattutto dell’attento e gentile Igor per quanto riguarda lo sviluppo che porterà alla risoluzione.
La pellicola intrattiene e porta al pubblico anche qualche spunto di riflessione (senza però spremere troppo le meningi, sia chiaro), ma non è così inventivo o creativo da motivare la propria durata. Basti pensare al dialogo pre-fnale tra Igor e Anora, in cui si ribadiscono otto volte due concetti: sebbene l’attrice protagonista abbia lavorato con Tarantino e in ogni frase dica – volutamente – “fuck” o “fucking” in ogni possibile declinazione, Sean Baker non ha la genialità del collega e il suo film non ha forse la brillantezza per reggere ogni singolo minuto di pellicola (è girato in 35mm).
Anora resta una rom-com spassosa che mantiene comunque quel che promette. Non che prometta più di tanto.
Solitamente i premi cinematografici sono vincenti perché in un modo o nell’altro fanno presa anche su coloro che del cinema non sono appassionati. Tuttavia la premessa per l’edizione 2024 dei David di Donatello (come è stato per gli Oscar del resto) è che la familiarità degli spettatori più o meno consapevoli con determinati film sia aumentata e si riscontra una diffusa familiarità con molti film grazie alla pubblicità dei media.
Tre colori: Blu è un controverso e premiato film del 1993 diretto da Krzysztof Kieślowski e il primo della trilogia che il regista polacco ha dedicato ai tre colori della bandiera francese ed al motto della Rivoluzione francese: Liberté, Égalité, Fraternité!Un film robusto nei connotati estetici e nei contenuti, diretto con maestria e forza evocatrice commista a vibrante malinconia e a sprazzi di speranza e apertura tutt’altro che ingenua a valori universali, o meglio, che dovrebbero avere statuto d’esistenza in ogni latitudine della vicenda umana (il finire del secolo scorso qui testimonia, nello spirito del regista, di una fiducia nel progetto europeista sinceramente laica e fondata sull’eguaglianza e l’equità sociale, sulla libertà e la cittadinanza di diritti non disegnati da confini, che oggi a conti fatti può sembrare velleitaria e aurorale rispetto a quanto sarebbe seguito).
Libertà sta a Blue. Un blu drammatico e innervato di una tristezza dolente ma non desolata, sideralmente distante dalla asciuttezza formale del Decalogo, dalle contraddizioni e dagli aspetti controversi, sdruccioli e non semplicemente evenemenziali, inerenti la cogenza e possibile attualità dei comandamenti biblici.
Un film, questo, purgato da qualsivoglia connotazione politica e squisitamente dedicato alla dimensione individuale ed esistenziale sul piano di un’esperienza intima che non vuole assurgere a paradigma di alcunché, ma narrare un amore per la vita declinato in piccole o grandi azioni che riscattino dall’apparente insensatezza del dolore, dalla lingua astrusa del caso – che solo raramente si può comprendere e ricomprendere in un proprio disegno assertivo di sé e di libertà della scelta.
Blu: trama del film
Julie, una tragica ed ineffabile Juliette Binoche, perde nel medesimo incidente suo marito Patrice, compositore affermato, e la figlia Anna. In seguito a questa feroce tragedia, la donna stabilisce di traslocare a Parigi per intraprendere una nuova vita, avvolta nell’invisibilità dell’anonimato, affatto indipendente ed affrancata da chicchessia, intenzionata ad abbandonare tutto quanto (anche l’agiatezza) possa essere impronta della sua passata vita, con l’intento di ormare sé e nessun altro che sé in una sorta di sinfonia di libertà.
La vita crea un trauma: irreparabile. E la protagonista lo affronta come se le sue prime, istintive decisioni fossero dettate da una sorta di stato di shock e quindi eziologicamente corrive, estreme e imprevedibili.
Ma qui subentra ancora l’imprevedibile da ascriversi alla partitura del caso.
Quando una giornalista comincia a sospettare che sia Julie l’autrice delle musiche del marito, questa demolisce categoricamente questa congettura, negando tassativamente di essere coinvolta nelle composizioni ascritte a Patrice, e in seguito si sbarazza di quella che crede essere l’unica copia degli spariti dell’ultima di esse (il Concerto per l’Europa) rimasta incompiuta; ma Olivier (Benoît Régent), giovane assistente di Patrice, innamorato di Julie da lungo, silenzioso tempo, ne riceve per vie traverse un’ulteriore copia e intende terminarla lui stesso.
Nel frattempo, Julie si ritrova obbligata a misurarsi con il suo passato e con gli ostacoli che insidiano la sua libertà.
Cos’è mai la libertà?
Jean-Luc Nancy così si esprimeva:
“Il motto Libertà, uguaglianza, fraternità ha per noi qualcosa di ridicolo ed è difficile introdurlo nel discorso filosofico. Perché in Francia è un motto ufficiale (una menzogna di Stato) e perché è la sintesi, così si dice, di un ‘rousseauvismo’ ormai inutilizzabile”.
La libertà secondo Kieślowski
Tuttavia, vi è un’uguaglianza che non può essere minimamente inficiata dal nostro essere nel mondo, quella della libertà: non un’Idea astratta, ma fattoconcreto e nevralgico di un soggetto autonomo. Anche nell’aspirare allo sconfinamento in zone franche dell’esistenza entro le quali non si belligera con essa, ma al contempo sembrano non vigere le regole consolidate e per orientarsi si deve scegliere e volere la via di un firmamento di valori che la reinventino, la ridefiniscano – anche drasticamente. Libertà anche di disconoscere sé stessi quando e soprattutto qualcosa di mortifero ci è dentro e pervade ogni nostra fibra.
L’Io rischia nella bolgia dell’Etica (o di un compromesso costante con le regole di una normalità che sono altrettante ferite inciprignite incapaci persino di versare sangue visibile) di non realizzarsi mai nel corso di un’esistenza.
L’io della protagonista è invece un Io demiurgo. Soggetto autonomo, libero di tentare il suicidio come di sventarlo in un gesto di estremo riscatto di vita (capace di scollinare oltre la disperazione più cieca) e non figlio del semplice istinto primario; o libertà di sgombrare la mente dal peso della memoria con il suo carico di sentimenti, oggetti, nomi, circostanze, per salvare di essi solo un canto di vita: e così avviene per la lampada di pietre azzurre, gli abbozzi della composizione di Patrice, le melodie al flauto di un suonatore di strada, la catenina con la croce (che diventa il testimone passato di mano al giovane che aveva assistito al drammatico incidente a proscenio di tuta la vicenda), il nascituro dell’amante, la madre malata di Alzheimer. Nel finale di pellicola, il montaggio infatti presiede proprio al ricongiungimento di tutti questi soggetti ed elementi nel segno di una scelta oggi in eclissi nella nostra “matura” società cosiddetta civile: ovvero l’amore per la vita, la scelta che la protegge e salvaguarda, la nutrica di senso e le conferisce una prospettiva altrimenti strozzata da condotte captative e incapaci di farsene carico o gioia.
La Libertà di sprofondare nel Blue, di scegliere come si vuole scegliere e perché così si vuole, è allora ricongiunta a un senso (proprio e distintivo) da calare nell’esistenza e che non si può spiccare già maturo e a portata da un metaforico ramo.Un blu che invade lo schermo sino a confondersi con il nero. Un blu di riverberi fantasmatici del ricordo, che è concreto almeno quanto l’oggetto che ne testimonia, ma assume la consistenza fragile e diafana di qualcosa che non si stringe più ma colora ancora attimi di vita.
“Adesso so che farò una sola cosa: niente. Non voglio più né proprietà né ricordi, amici, amori o legami: sono tutte trappole”, afferma Julie.
Taciturna Julie con compagne fedelissime: le note del pentagramma. A cui si aggiunge la prostituta che la protagonista non vuole “punire”, rifiutandosi di firmare una petizione dei condomini che la vogliono cacciare. Qui, nel genio del regista sarà la voce del caso a parlare o una citazione, preconscia se non volontaria, dall’Inquilino del terzo piano di Polanski? Fatto sta che si stringe fra le due una sorta di sorellanza e Julie, persona solida e generosa ma ferita dal lutto, sembra provare per lei una sottile tenerezza, un atteggiamento protettivo e fedele all’idea che la libertà non sia solo un possesso ma un criterio da esercitare coerentemente in ogni atto della vita.
La Musica è prepotente protagonista in un film che si anima di silenzi: diegetica ed extradiegetica; rifinita modalità espressiva che scardina ogni sovrastruttura sociale, accademica, politica, culturale o economica. Kieślowski racconta che
“il film è stato girato come una illustrazione della musica […] la musica era pronta prima delle riprese. Tutte le scene con la colonna sonora sono state girate con il playback sul set, nella registrazione definitiva.”
Sette note fatidiche per una disperata, universale riflessione sul tentativo di un’umanità afflitta e dolente di smarcarsi da sé stessa per essere autenticamente sé stessa.
È questo un agito pratico e etico possibile?
Jaspers vede nel sempre illusorio e deluso tentativo dell’uomo di conquistarsi la libertà quello che egli chiama “lo scacco dell’esistenza”:
“La libertà non è dunque un mezzo per l’esistenza, ma coincide con l’esistenza stessa: Io non posso farmi da capo e scegliere tra l’essere me stesso e il non essere me stesso, come se la libertà fosse davanti a me solo come uno strumento. Ma in quanto scelgo sono, se non sono non scelgo”.
Anzi, per Sartre la libertà è il segno dell’assurdità della vita dell’uomo “condannato a essere libero”: le cose già sono (sono realizzate), mentre l’uomo è condannato a inventare sempre sé stesso, a inventarsi, tra l’altro, senza punti di riferimento. L’uomo non può negare il condizionamento della naturalità della sua esistenza, e questo lo condanna a non poter mai riferirsi a un valore trascendente ed assoluto.
L’unica libertà che possediamo è, quindi, quella di essere obbligati ad essere liberi?
In verità, il regista sembra suggerire che la libertà è un “obbligo” ma verso se stessi: si risponde di sé in primo luogo alla propria persona, e se questo avviene, sorge anche il miracolo di un gioco delle possibilità che non ricade nel fondale indistinto di una vita anodina e incapace di gesti elargivi di un potente “sì” alla vita. Scrivere lo spartito della propria esistenza dà voce alla più significativa delle sinfonie, quella di una libertà non rintuzzata, ma nutrita e voluta in nome di un canto alla vita. Julie ricomincia a scriverne una che è simbolica e no.
Ancora lui? La mitografia bonapartista non prevede pause. Nel cinema di Ridley Scott, inoltre, l’immagine di “Napoleon” aleggia fin dal suo primo lungometraggio del 1977, “I duellanti”, ambientato negli anni del mandato di Primo Console. L’incontro era dunque scontato, tuttavia il regista britannico ha aspettato sino al 2020 prima di lanciarsi nell’impresa: avviato inizialmente con la 20th Century Fox, il progetto è stato abbandonato a causa del budget di circa duecento milioni di dollari che ha spinto la piattaforma streaming Apple TV+ prima a subentrare e poi a collaborare con un distributore per portare il film anche nelle sale (sui teleschermi sarà messa in onda una versione di oltre 4 ore).
Dando per scontato l’elenco di errori, alterazioni e falsificazioni che diventerà pratica da sbrigare per gli storici specialisti –a cominciare dall’eminente Luigi Mascilli Migliorini-, è doveroso ricordare che più di 100 attori (per difetto…) hanno indossato sul set il fatidico cappello a bicorno ed è facile pronosticare le dispute tra gli appassionati su quale di loro abbia retto meglio la sfida inaugurata da Albert Dieudonné nel kolossal muto diretto da Abel Gance nel 1927 (il languido Boyer di “Maria Walewska”, il carismatico Brando di “Désirée, il torvo Steiger di “Waterloo”?).
A onore del vero Scott ripete da mesi che il film non è un’opera storica e nemmeno un film biografico, ma è inevitabile valutare la credibilità di un personaggio così monumentale e universale: Phoenix è di solito straordinario, però stavolta lascia perplessi la scelta di affibbiare a Napoleon troppe personalità cangianti tra quelle del ragazzino prepotente, il genio militare, il politico megalomane e l’ossessivo consorte della spregiudicata Josephine de Beauharnais (Kirby).
Penalizzando, peraltro, con l’eccessivo rilievo dato alle zuffe della coppia quello che dovrebbe costituire il punto di forza del film ovvero le rutilanti scene di battaglia debitamente aggiornate da dettagli splatter come il corpo dell’artigliere disintegrato da un’esplosione o le truppe austriache e russe ridotte a poltiglia dalle cannonate sul lago ghiacciato. Mentre è altrettanto vero che le sontuose scenografie di Arthur Max, i costumi di Janty Yates e Dave Crossman, le immagini in widescreen del direttore della fotografia Dariusz Wolski, l’uso creativo della musica d’epoca e la colonna sonora di Martin Phipps riescono a suggerire solo un vago parallelo con l’esorbitante iconografia napoleonica al pari dell’eccentrica performance di Phoenix.
La riluttanza a riconoscere la sconfitta di qualsiasi tipo, sia essa coniugale o militare, resta la chiave più seria della caratterizzazione, ancorché la sceneggiatura di David Scarpa, frettolosa nonostante le oltre due ore e mezza di durata, si conceda uscite derisorie come quella di Napoleon che grida “Stiamo vincendo!” su un campo di battaglia disseminato dei cadaveri della sua fanteria.
Persino dopo la catastrofica disfatta di Waterloo, il nostro rimane fermo nel rifiuto dell’autocritica preferendo di gran lunga incolpare i sottoposti di non essere stati in grado di eseguire correttamente i suoi ordini. “La cosa più difficile nella vita è accettare il fallimento degli altri”: con questa battuta emergerebbe un’idea intrigante di leadership illusoria che, però, poi non viene adeguatamente sviluppata per le esigenze di un kolossal all’altezza della nostra epoca iper smaliziata.
Chiunque abbia familiarità con la storia dell’Imperatore “Due volte nella polvere, Due volte sull’altar” sa già che l’irresistibile ascesa non terminerà con l’happy end, ma anche quando arrivano alle bobine finali Scott e Phoenix continuano a tenere curiosamente il soggetto a distanza, senza chiedere mai agli spettatori la comprensione, l’adesione o la ripulsa. Una plumbea rassegnazione permea, piuttosto, l’ultimo N. dello schermo, quasi la consapevolezza che, come nella burrascosa love story con Josephine, pulsasse sempre in lui qualcosa di non corrisposto, d’incomunicabile, irrimediabile o fuori dalla sua portata. Non basterà certo a rendere il film memorabile, ma questa ‘zona grigia’ almeno ci tramanda l’ambiguità e il pathos dell’uomo che cercò di conquistare il mondo senza riuscire a dominare la disperazione intima.