Oscars 2022. ‘Il potere del cane’ di Jane Campion: il profeta diventa cowboy

Il potere del cane della regista Jane Campion, tra i film candidati all’Oscar 2022 come miglior film, non è un un capolavoro e nemmeno un “anti-western”. Riguardo al genere – diciamo: western terminali – non c’è paragone con il barocco, onirico, sballato I cancelli del cielo (1980; dirige Michael Cimino) o con il lucido, commosso, violento film di Clint Eastwood, Gli spietati (1992).

D’altronde, il romanzo di Thomas Savage (ottimo autore di genere), da cui dipende la pellicola di Jane Campion, non ha a che fare con Meridiano di sangue, il libro definitivo di Cormac McCarthy. Questione di altezze e di fango; interessante, semmai, far caso al fatto che il West americano pare una rotolo-rotocalco aggiunto al biblico Libro dei re: è sempre una vicenda di eredi, di fratelli, di promesse, di tradimenti, sopra cui incombe la cupa morale di un dio amorfo, morboso, cupo.

Montana, 1925. I fratelli Burbanks, Phil e George, sono gli eredi di un grande ranch di famiglia, che mandano avanti occupandosi quotidianamente dello spostamento delle mandrie, dell’essicazione delle pelli e dell’addestramento degi lavoratori. Mentre George è un uomo sensibile e desidera una famiglia, Phil è un bullo ossessionato dal mito del suo mentore Bronco Henri. Quando George prende in sposa la giovane vedova Rose e la porta al ranch, Phil prende di mira la donna e suo figlio Peter e non smette di tormentarli.

Jane Campion sa rendere sensuale l’America rocciosa e dura degli anni venti in un film che non sa decollare dove sguardo della Campion, si concentra su immagini già note, figure poco figurate (la castrazione di massa degli animali, il branco), attese che girano a vuoto, non sufficientemente ricompensate dal colpo di coda del finale.

L’enigma del film è nel gheriglio del titolo. The Power of the Dog. Un gergo ipnotico. S’intitola così il romanzo di Thomas Savage, ma pure un romanzo di Don Winslow; James Ellroy, “Demon Dog of Crime Fiction”, era tentato di griffare nello stesso modo un suo libro. La ragione del titolo è placida. A un certo punto Peter, il ragazzo, sfoglia una Bibbia, gli occhi si fermano su quel versetto, ligneo, terribile: Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog. Nel film – almeno per allusioni – si capirà che cosa s’intende per power of the dog e per my darling.

Il versetto è tratto dal Salmo 22, barbaglio di bava liturgica pronunciata nel momento estremo, penzolante dalla Croce, da Gesù; nella figura dell’eletto martoriato, sfregiato, sputato (“Ma io sono verme, non uomo, rifiuto d’uomo, disprezzo di genti/ Chi mi vede di me si fa beffe, ruota le labbra, scuote il capo”, 22, 7-8) si rivela Peter, chiaroscurale protagonista del film. Il mistero, semmai, è che “il potere del cane”, nella Bibbia che avete sul comodino, non c’è.

Inebriante odore del tradurre: il versetto citato nel film è tratto dalla King James, la Bibbia di Re Giacomo, pietra d’angolo della lingua inglese, stampata nel 1611. La versione della CEI traduce così: “Libera dalla spada la mia vita,/ dalle zampe del cane l’unico mio bene”.

Dal contesto si capisce che l’unico mio bene è la mia vita; i cani, alla luce del versetto superiore (“Un branco di cani mi circonda,/ mi accerchia una banda di malfattori”, 22, 17), sono i nemici del giusto, quelli che vogliono sbranarlo, divorandolo lontano da Dio. I cani, nel ring biblico, sono le bestie basse, emblema della pura fame, dell’aggressione priva di fierezza: i cani “ringhiano”, “divorano”, “sbranano”; “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai” dice San Paolo ai Filippesi. David Maria Turoldo fa del Salmo un inno, canto offeso da balbettare a notte: “dalle spade accorri a scamparmi/ la mia carne, Dio, salva dai cani”.

Dunque, è una sfasatura, un errore aureo, quello che troviamo nella King James: the power of the dog è un’invenzione dell’esegeta colto da estro shakespeariano. Nella Bibbia ebraica curata da Rav Dario Disegni il versetto ha questa formula, contratta: “Salva dalla spada la mia persona, dai cani il mio corpo”; il grande Diodati traduce così: “Riscuoti l’anima mia dalla spada, l’unica mia dalla branca del cane”; Guido Ceronetti rende in questo modo: “Strappa al coltello la mia vita/ La mia unica alla mano del cane”. La Vulgata conforta la versione di Ceronetti: Erue a framea animam meam/ et de manu canis unicam meam.

La prepotente carnalità del canto biblico, tutto corpo, sangue e cani all’erta, pronti a sbranare, diventa un vertiginoso testo atto al teatro, dove c’è l’anima e la spada del cavaliere, la bella soggiogata dal potere del cane, simbolo delle forze oscure, sinistre, che bisogna combattere. Una livida vicenda dei deserti, di carovanieri corsari, di allucinazioni meridiane, di un Dio che pianta leggi, così, pare l’appendice di una storia arturiana. Nel West, naturalmente, quello stesso versetto, piagato da un’allusione obliqua, prende un altro significato ancora: il profeta diventato cavaliere, ora è cow boy. Che razza di viaggio ci fa fare un film, neppure indimenticabile.

 

Fonte

https://www.pangea.news/jane-campion-power-of-the-dog-bibbia/?msclkid=66f4becba91711ecafacd557cc59468e

In ricordo di Monica Vitti, la sola e unica mattatrice italiana

Diversi giornali trattano la morte di Monica Vitti, scomparsa oggi a 90 anni, in relazione alla sua malattia titolando squallidamente “Era irriconoscibile”, “Era malata da tempo”, come se quello che si dovesse ricordare di lei sia il suo cambiamento fisico e la sua malattia, l’ultima parte della sua vita lontano dai riflettori e dal cinema.

Monica Vitti è stata una grande attrice, una professionista, una donna bellissima, simpatica, intelligente, rigorosa, cordiale, amatissima dagli italiani, le sue pellicole rimarranno nella storia e lei continuerà ad essere un punto di riferimento per le aspiranti attrici. Se va un pezzo del nostro cinema tanto apprezzato all’estero, se ne va una figura unica nel panorama del nostro cinema, di tutte le epoche. Non era, né si considerava, un monumento. I ruoli le aderivano come gli abiti che indossava. Tutti. Era tanto intensa, completa, presente a tutta la gamma delle parti, che a volte lasciava la sua bellezza indietro. Era lei che la controllava, e non voleva che invadesse tutto il resto che le apparteneva.

Era di una bellezza fuori dagli schemi, Monica Vitti, nella stagione delle maggiorate. Una bellezza inconsapevole, intellettuale, magnetica e celata, mai esibita, volgare o pacchiana, al servizio dei ruoli che interpretava. Dei film cui ha preso parte come protagonista, celebri sono L’avventuraLa notte e L’eclisse, fra il ’60 e il ’62, dove diede vita a quel personaggio triste, ferito, confuso, silente, anaffettivo solo in apparenza.

Michelangelo Antonioni doveva molto a Monica Vitti, sua compagna anche nella vita, considerata cinematograficamente da lui solo in vesti drammatiche. Ma Monica possedeva anche un grande senso dell’ironia che seppe mettere a frutto, cambiando registro. Assunse la commedia con la stessa spigliatezza del dramma. Indimenticabile il ruolo della donna siciliana d’onore che la Vitti ci ha consegnato nel film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, come pure quello di Teresa la ladra.

Monica Vitti in Deserto rosso

Tra “alienazione” ed ironia

Fa donna difficile che non riusciva ad inserirsi nella realtà, a dare ordine alla cose, Monica Vitti diventò l’attrice “brillante” più popolare del cinema italiano degli anni ’60 e ’70, che invece riusciva a dare senso alla realtà avvalendosi di ironia e leggerezza, grazie a film come Alta infedeltà diretto da Luciano Salce, Le bambole di Dino Risi, Ti ho sposata per allegria, ancora di Luciano Salce. Nel 1969 interpretò Amore mio aiutami: fu il primo film di e con Alberto Sordi, che metteva alla berlina la falsa emancipazione del matrimonio in Italia.

L’anno seguente fu la protagonista de Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola accanto a Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. Si fece dunque strada come la “mattatrice” incontrastata, la risposta femminile al mattatore Vittorio Gassman, unica donna capace di competere con i grandi comici della commedia all’italiana. Nel 1973 fu la protagonista di Polvere di stelle, esilarante commedia cinematografica diretta e interpretata da Alberto Sordi.

Nel 1966 a chiamarla fu un maestro l’americano, Joseph Losey che le assegnò il ruolo di protagonista in Modesty Blaise – La bellissima che uccide, dove Monica era un agente segreto, una sorta di parodia di ‘007.

Nel 1974 venne chiamata da Luis Bunuel ad interpretare la signora Foucauld in Le Fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà). In tutto Monica Vitti ha ricevuto tre Nastri d’argento e cinque David di Donatello. Il teatro è stato un suo grande amore: nel 1986 recitò accanto a Rossella Falk in La strana coppia, per la regia di Franca Valeri; due anni dopo  in Prima pagina di Hecht e MacArthur, diretta da Giancarlo Sbragia.

Io so che tu sai che io so

E’ stata autrice di due soggetti cinematografici: Flirt, scritto nel 1983 e Francesca è mia, del 1986. Non contenta di essere diventata l’attrice numero uno delle commedie brillanti all’italiana, nel 1989 diresse anche un film, Scandalo segreto, che interpreta al fianco di Elliott Gould e Catherine Spaak.

Ma cosa pensava Monica Vitti del cinema del suo tempo? In un’intervista ad Oriana Fallaci, l’attrice confessò di amare i film western, si divertiva con i saloon, le sparatorie, le cavalcate e partecipava emotivamente al film che guardava, agitandosi e urlando.

Alla Vitti inoltre, soprattutto nel periodo antonioniano, veniva affiancano il termine alienazione. Alla domanda della Fallaci su cosa fosse l’alienazione, la Vitti rispose che non lo sapeva, neppure si era posta mai il problema di domandarsi da dove provenisse, se dal Capitale di Marx o dai Vangeli e che i giochi intellettuali non era capace a farli, anzi si professava ignorante:

<<Di cosa crede che io parli con Michelangelo (Antonioni, suo compagno)? Di incomunicabilità?>>?

Incomunicabilità, altra parola chiave, non solo del cinema di Antonioni ma del nostro tempo e intorno alla quale la Vitti aveva le idee chiare e le espose in questi termine alla Fallaci:

<<Analizziamo L’eclisse che è il film più difficile. Che storia racconta? Quella di una ragazza che non ama più un uomo e lo pianta. Quando lo ha piantato, ne trova un altro. I due si piacciono, credono alla possibilità di un amore e si danno un appuntamento. A questo punto però ad entrambi prende una paura, quella impegnarsi troppo, forse di farsi imbrogliare, di subire una delusione e non vanno all’appuntamento. Stop. Ma siccome Antonioni è un intellettuale, ci deve essere il sottofondo>>.

L’eclisse

Monica Vitti spiegò candidamente e semplicemente la differenza della funzione dell’attore e del cineasta e di come Antonioni venisse spesso frainteso e anche lei, considerata un’ambizione che pur di fare cinema di spessore, sacrificasse la sua natura di donna estroversa ed ironica, pensiero smentito dal successivo capitolo cinematografico della carriera di Monica Vitti, un’alienata con riserva e di grandissimo talento. Un esempio per tutti coloro che vogliono fare cinema per amore dell’Arte, non per il successo, con passione, e serietà, senza accettare compromessi.

 

 

‘Illusioni perdute’ di Giannoli: le degenerazioni del nostro sistema mediatico

Con “Illusioni perdute” un regista colto e tradizionale come Giannoli (“Marguerite”) offre una versione di tutto rispetto, ancorché ridotta e impoverita, del romanzo pubblicato in tre parti da Honoré de Balzac tra il 1837 e il 1843 e diventato il secondo dei cicli narrativi della monumentale La Comédie Humaine e proprio una “commedia umana” scorre per 141 minuti sullo schermo in cui tutto si compra e si vende, la letteratura come la stampa, la politica come i sentimenti, le reputazioni come le anime.

Jeu de massacre nella Parigi del 1820. Lucien Chardon è un giovane di bell’aspetto che dati gli umili natali deve sopravvivere come umile impiegato della tipografia di famiglia ad Angouleme, capoluogo del dipartimento della Charente; le spropositate ambizioni di poeta dilettante, incoraggiate dalla nobildonna che lo protegge, lo spingono a lasciare la provincia per trasferirsi nella capitale dove viene presto trascinato nel tourbillon mondano, culturale e giornalistico dell’epoca della Restaurazione.

In un quadro figurativo garantito da costumi, scenografie, fotografia, musiche d’alto e (oggi) inusitato livello è piacevole, così, farsi sorprendere dalle ascese e le cadute del brillante e arrivista Lucien autonominatosi de Rubempré tra i comportamenti di personaggi affascinanti o grotteschi, nel frenetico caos delle strade, i teatri, le redazioni, i salotti, nella fluidità delle inquadrature e le sequenze spesso contrappuntata da veri e propri schizzi in stile caricaturistico.

Metodo utilizzato anche dal venerato scrittore, peraltro saccheggiato molto meno di quanto si possa pensare dalle trasposizioni –vengono in mente “Eugenia Grandet”, “Il colonnello Chabert”, “Out 1”, “La bella scontrosa” e “La duchessa di Langeais”- forse perché, come ha scritto acutamente Roberto Manassero, “se è vero com’è vero che il cinema narrativo deriva dal romanzo ottocentesco, non ha bisogno di tradurre Balzac perché nei suoi elementi di base è già naturalmente balzachiano”.

Non volendo o potendo replicare la sottigliezza delle psicologie balzachiane, la complessità del Bildungsroman o romanzo di formazione e neppure la cruda spregiudicatezza dei film di Stone (“Wall Street”) o Scorsese (“The Wolf of Wall Street”) ai quali insieme al co-sceggiatore Fieschi si è sicuramente e astutamente ispirato, Giannoli privilegia la seconda parte del testo originario che sembra anticipare le degenerazioni del sistema mediatico odierno: con la sua chiara concessione agli umori populisti, “Illusioni perdute” insiste sulle comparazioni tra il torbido intreccio delle carriere e la lotta di classe, l’affannosa corsa alle cene, le lusinghe editoriali e le manovre dei precorritori dei tweet e fake news e la segreta voluttà delle alcove amorose, i misteri e i voltafaccia sentimentali e le oscure trattative pubblicitarie, finanziarie e politiche.

 

ILLUSIONI PERDUTE

‘È stata la mano di Dio’, il cinema necessario di Paolo Sorrentino tra reale e immaginario

Sguardo caldo e mano salda per condurti nei segreti di un’autobiografia, certo, ma anche alla fonte di un cinema sentito dalla prima all’ultima sequenza come necessario. Dunque non a caso Sorrentino costruisce “È stata la mano di Dio” su tre interruttori che danno luce a un affresco perfettamente bilanciato tra reale e immaginario: il mare che rappresenta il vero cielo di Napoli, il miracolo di Maradona e l’avvento di un mentore come il cineasta Antonio Capuano, autoctono per scelta di libertà, il più mansueto degli incazzosi, l’antidoto vivente contro la diffusione dello SPAIP.

Al centro del ritratto estroso e sarcastico della tranquilla vita medioborghese della famiglia Sorrentino alias Schisa, Fabietto, l’alter ego di Paolo, deve però affrontare, manco fosse un eroe omerico, un dolore pressoché insostenibile, un’assurda disgrazia forse destinata a funestare tutti gli anni a venire del già spaesato adolescente.

La scorrevolezza del ritmo, la sobrietà delle musiche, la duttilità della fotografia e la pertinenza di costumi e scenografie riescono a garantire sino al finale il coinvolgimento, però è logico che una cesura così tragica provochi un mutamento delle atmosfere e il connesso adeguamento del respiro e dei toni del film. È pertanto alquanto strano che qualche recensore e qualche spettatore imputino a un film che assomiglia pour cause a un percorso marino contrassegnato dalle sue anse, le sue coste, i suoi approdi e i suoi abissi, l’affievolimento di una presunta “seconda parte”: la quale esiste, ovviamente, sul piano drammaturgico, ma non opera ribaltamenti su quello stilistico.

In un contesto polifonico i contributi degli interpreti non si dovrebbero neanche suddividere, ma il cinema di Sorrentino è spontaneamente generoso, non genera macchiette bensì caratteri, finge la verosimiglianza attaccandovi sempre di sguincio il cartellino del fantastico: Servillo è come al solito impressionante per come è in grado di modellare con cronometrici tocchi l’affabilità cameratesca del pater familias; Teresa Saponangelo, eccezionale in doppia modalità perché recita per il personaggio ma contemporaneamente per come (ri)vive nell’amore del figlio; Luisa Ranieri, oltre che fenomeno da studiare nei convegni di genetica (diventa sempre più bella col passare degli anni), molto concentrata in sequenze nient’affatto facili e via via tutti gli altri, dal Fabietto di Scotti al fratello di Joubert, dal Franco di Gallo al Capuano di Capano, dall’Alfredo di Carpentieri alla Pedrazzi nel ruolo dell’impagabile baronessa: vedere per credere come un episodio estremamente spinto si trasformi in una pagina squisita di cinema, dove, cioè, l’arredamento gremito di polveroso e smorto lusso (non manca la riproduzione in bronzo del pescatorello di Gemito), le movenze da lady Frankenstein della stessa, i suoi comandi da navigatrice esperta nell’atto sconosciuto dell’amplesso fanno davvero percepire in sala il fatidico “odore delle case dei vecchi” che è una delle battute ereditate dai dialoghi sorrentiniani d’eccellenza.

Tra i tanti e straripanti omaggi dedicati al calciatore argentino che volle farsi re, riannodati a un’età d’oro che ha preso la forma di una nuvola di fuoco piazzata sul cono del Vesuvio, quello di Sorrentino è certo il più commovente: niente analisi tecniche o risse da talk show, bensì un’esplosione incontenibile d’ebbrezza popolare, l’orgia della devozione al culto più puro, quello del talento e all’obiettivo finale più nobile, quello della leggenda.

Gol “falso” e gol vero (inestimabili entrambi), cosa importa? La grande bellezza al servizio della nostra condizione di voyeurs assomiglia a quella del cinema, falsa/vera per definizione, magari la stessa del capodopera “C’era una volta in America” che il protagonista cerca ogni volta invano di godersi in cassetta VHS.

L’identico meccanismo che genera l’apparizione del munaciello (ovviamente anch’esso falso/vero) inseguito dal narratore a Marechiaro nei tunnel allagati tra le rovine classiche e gli scogli, ricevendone in premio una sorta di breviario esistenziale: Capuano e la perseveranza, Capuano e la libertà, Capuano e l’indignazione, Capuano che affronta a brutto muso l’adepto… “O tiene ‘nu poco e curaggio?”. Succede proprio così: il coraggio -in questo film universale nonostante o forse a causa delle metafore ossessive e i miti personali- l’acquisisce in extremis proprio l’autore infischiandosene delle pennellate potenzialmente (politicamente) scorrette su donne, desiderio e sesso e cercando sempre e solo di non disunirsi come recita l’ultimo strillo del mentore prima di tuffarsi in mare aperto.

Sì, il mare. Perché la realtà sarà pure scadente ma non lo è il karma di Paolo/Fabietto ricalcato sul capitano della conradiana “Linea d’ombra”, quella che separa la giovinezza dall’ingresso nella maturità e la catartica coscienza di sé.

 

E’ STATA LA MANO DI DIO

 

‘Todo se puede’, la commedia brillante di Marcello Crea dall’atmosfera mitteleuropea

Il film italiano Todo se puede di Marcello Crea, debutterà in prima internazionale in Serbia. La pellicola infatti sarà trasmessa domenica 7 novembre dall’emittente televisiva satellitare Sat TV che oltre ad essere molto seguita a Belgrado, trasmette in gran parte della Serbia.

Il film è stato seguito anche in Italia e in altri Paesi scaricando l’app della popolare piattaforma televisiva Orion TV.

Todo se puede” è una commedia brillante con molti spunti grotteschi, giocati sul solco del neorealismo. Il progetto si è sviluppato in collaborazione con Nova Academia Alpe Adria – settore cinema  e il Comune di Gorizia, città nominata Capitale Europea della Cultura, la collaborazione si è svolta anche dal punto di vista delle location (suggestive le scene interne ed esterne del prestigioso Palazzo Coronini), nonché delle immagini: nel secondo tempo del film, infatti, si vedono i Sindaci (veri) di Gorizia e Nova Gorica che interloquiscono attraverso una rete divisoria che divide i due confini con metà scrivania dalla parte italiana e metà dalla parte slovena.

Todo se puede racconta una storia di provincia completamente nuova, sconosciuta al grande pubblico. Le riprese sono state fatte tra Trieste e Gorizia in una zona culturalmente affascinante, ai confini con la Slovenia, dove si respira ancora quell’aria indimenticabile della Mitteleuropa.

La pellicola è stata girata in piena pandemia tra mille difficoltà e interruzioni, ed ora, dopo due anni finalmente l’esordio. La storia è incentrata su un gruppo squattrinato di artisti di Trieste, i quali attraverso la proposta di un mega sponsor, riescono a realizzare un evento artistico clamoroso con la partecipazione di celebri ospiti internazionali.

Quando ormai l’organizzazione dello spettacolo è in dirittura di arrivo, il grande show viene bruscamente interrotto da un virus che blocca ogni attività nel Paese. I nostri protagonisti, tuttavia, non si arrendono e si rifugiano nella vicina Slovenia. Da qui una nuova e inaspettata avventura li attende…

In un primo momento Todo se puede doveva essere proiettata nelle sale cinematografiche italiane, ma la distribuzione del film ha ritenuto di non prendere in carico le proiezioni per le difficoltà scaturite dall’introduzione della legge sul green pass. Pertanto, almeno per il momento, il film seguirà un percorso televisivo.

Oltre a Marcello Crea (regista ed interprete) il film vede la partecipazione amichevole di Maria Giovanna Elmi e Andro Merkù (imitatore in molti programmi radiofonici e televisivi Mediaset tra cui “Striscia la notizia”, noto anche per i noti scherzi telefonici con numerose celebrità italiane. La consulenza artistica dell’opera è stata affidata a Paolo Magris, figlio d’arte, di recente ospite alla Festa del Cinema di Roma con il film “Il mare negli occhi”.

 

Marcello Crea – attore – regista – scrittore

Marcello Crea ha lavorato come attore e autore con il Teatro Stabile del F.V.G. e allo Zelig di Milano. Autore regista ed interprete del varietà intitolato “Atmosfere d’Avanspettacolo” (tra gli artisti della compagnia ci fu Gigi Sabani).

Voce recitante in vari recital tra cui “Laboratorio D’Annunzio”, da un’idea di Giorgio Albertazzi, e  “C’est pas la la fin du monde”, con testi di Jacques Prevert, spettacolo rappresentato con il Patrocinio dell’Ambasciata di Francia.

Ha lavorato in produzioni Rai e Mediaset e nella soap opera di Canale 5 “Vivere”; è autore insieme a Paolo Magris del libro su Carlo Michelstaedter “Come fosse l’ultimo” (Garzanti Editore), vincitore del Premio Internazionale “Attori in cerca di autore” al Teatro Valle di Roma, ora divenuto una sceneggiatura per il cinema in fase di elaborazione finale, scritta dai medesimi autori.

Come regista ha realizzato diversi film cortometraggi i quali sono scaturiti, in gran parte, a conclusione dei suoi laboratori di recitazione cinematografica e sceneggiatura; corsi da lui tenuti numerose volte presso varie sedi tra cui l’Università di Trieste e la Sala Conferenze della Biblioteca Statale  Stelio Crise (Ministero dei beni e delle attività culturali).

 

 

TODO SE PUEDE – YouTube

 

Festa del Cinema di Roma 2021. Grande presenza delle serie TV

La Festa del Cinema di Roma 2021 si è conclusa con la première europea del film Marvel The Eternals, di Chloé Zhao, attesissimo titolo che arriverà nelle sale italiane mercoledì 3 novembre, e chiude con numeri formidabili: 37.213 di biglietti per 55.532 ingressi inclusi gli accreditati.

Molto presenti le serie televisive, soprattutto italiane, che si sono distinte alla Festa del Cinema di Roma proprio attraverso autori e registi che si sono misurati per la prima volta con la serialità, come Carlo Verdone e il suo Vita da Carlo, di cui sono stati mostrati i primi quattro episodi, A casa tutti bene – La serie, diretto da Gabriele Muccino, e Strappare lungo i bordi, serie animata di Zerocalcare che sarà su Netflix dal 13 Novembre.

Inoltre nel corso della Festa del Cinema di Roma 2021, ha trovato spazio un lungo incontro del pubblico della manifestazione con Quentin Tarantino, che per l’occasione ha ricevuto anche il Premio alla Carriera della rassegna romana.

Alla Festa del Cinema di Roma 2021 ha vinto il Premio del Pubblico FS Open Arms – La legge del mare di Marcel Barrena, che è stato assegnato dagli spettatori che hanno votato tramite l’applicazione ufficiale della Festa. Il premio Bnl Gruppo Bnp Paribas è stato invece consegnato a Giuseppe Bonito per l’Arminuta, film ispirato all’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio

Sono stati premiati presso Spazio Roma Lazio Film Commission – Auditorium Parco della Musicai vincitori del premio collaterale de La Pellicola d’Oro in occasione della 16° Festa del Cinema di Roma.

Si tratta di un premio cinematografico, promosso ed organizzato dall’Associazione Culturale Articolo 9 Cultura & Spettacolo e dalla S.A.S. Cinema. Il presidente è lo scenografo e regista Enzo De Camillis. Durante l’incontro si sono affrontati argomenti come L’arte dei mestieri e dell’artigianato del cinema e i nostri giovani.

L’obiettivo è stato quello di evidenziare e premiare i mestieri e gli artigiani del cinema italiano. Questo sempre sottolineando il nostro Made in Italy nel mondo. E divulgare l’importanza artistica alle nuove generazioni che non conoscono i mestieri dei titoli di coda. Erano presenti all’evento le istituzioni e le aziende del settore cinea-udiovisivo, a moderare l’incontro Pino Nazio (Giornalista Rai).

Per la sezione Alice nella città, è stato eletto come Miglior Film nella sezione young adult, Petite Maman di Celine Sciamma; la Miglior Regia, invece, è stata conquistata da Belfast di Kenneth Branagh. Il premio Camera d’Oro di Mymovies per l’opera prima è stato consegnato Softie di Samuel Theis con una menzione speciale ad Olga di Elie Grappe; il premio RB Casting per i giovani talenti è stato destinato a Madalina Maria Jekal per Anima Bella di Dario Albertini; il premio Rising Star Award è stato consegnato a Sophie Breyer per The Hive diretto da Christophe Hermans.

Passando ai cortometraggi, è stato premiato come il Miglior cortometraggio Big di Daniele Pini; il premio Rai Cinema è stato affidato ancora una volta a Big, mentre infine il Premio Raffaella Fioretta è stato consegnato a La tana di Beatrice Baldacci, consegnato da una giuria composta da Paolo GenoveseRiccardo MilaniLucia OconeAnna Ferzetti e Tania Pedroni.

I premiati della Festa di Roma 2021

Hanno ricevuto il premio: Alessandro Ferretti (scultore), Ciro Scongliamiglio (aiuto regista) e Corrado Trionfera (produttore esecutivo).

Ma, oltre ai vincitori del premio Pellicola d’Oro alla Festa del cinema di Roma, erano presenti anche altri nomi. Tra questi Cristina Priarone (Presidente Film Commission Nazionale), Chiara Sbarigia (Presidente Cinecittà), Laura Delli Colli (Presidente Festa del Cinema di Roma), Giovanna Pugliesi (Responsabile Cinema Regiona Lazio) e Verdiana Bixio (Publispei). Ma ancora Franco Ragusa (Presidente Associazioni Effetti Speciali), Gianluca Franculli (Scenarredo), Virginia Carnabucci (Rancati srl), Andrea Viotti costumista (scuola IED), Studenti del liceo Artistico A. Caravillani, Silvia Carusillo (attrice) e Vincenzo Marcotta (Ambasciatore dell’Italia in Messico).

 

Fonti Premio collaterale ‘La Pellicola d’Oro’ alla Festa del cinema di Roma: i vincitori – Taxidrivers.it

‘L’Arte nei manifesti del Cinema di Florestano Vancini’ in mostra a Ferrara dal 18 settembre

Ferrara omaggia il grande regista Florestano Vancini con la mostra intitolata ‘L’Arte nei manifesti del Cinema di Florestano Vancini‘, la prima esposizione permanente dedicata al cinema ferrarese e a uno dei suoi massimi rappresentanti.

L’ inaugurazione avrà luogo domani, sabato 18 settembre, alle ore 18.00, presso lo Spazio Grisù. L’iniziativa di una mostra con manifesti, cimeli, testimonianze storiche di pregio è piaciuta anche alla Regione Emilia-Romagna, che ha selezionato la proposta di Stefano Muroni, attore e organizzatore culturale ferrarese, nell’ambito del Bando regionale sulla memoria, dedicato alle figure che “hanno segnato la storia del territorio emiliano-romagnolo del ‘900, di cui va conservata la memoria storica e garantita la sua trasmissione alle nuove generazioni, oltre a sostenere una ricerca storica approfondita e aggiornata”.

Curatore della mostra permanente sarà Luca Siano, tra i massimi esperti a livello nazionale di pittori del cinema e direttore dell’Archivio Sandro Simeoni. “Abbiamo raccolto ed archiviato – spiega Simeoni – il maggior numero di locandine, foto, buste, soggetti e manifesti riguardanti tutta l’opera cinematografica del grande regista estense, compreso un rarissimo bozzetto originale disegnato da Ermanno Iaia per il corredo pubblicitario de ‘La banda Casaroli’ del 1962. Simeoni, Iaia, Brini, Ferrini, Casaro, sono alcuni dei nomi dei pittori che con la loro arte hanno fatto da tramite tra l’autore ed il suo pubblico, cogliendo l’essenza di quei film e cristallizzandola in una singola immagine dipinta.

Le immagini dipinte evocano parte delle storia del cinema italiano, quel cinema capace di coniugare abilmente l’impegno politico, la narrazione storica e il puro spettacolo, attuando anche un revisionismo storico, insieme a Visconti (Senso) attraverso la pellicola del 1972,  “Bronte”, in cui il regista ferrarese abbatte definitivamente il mito consolidato che la tradizione italiana aveva costruito intorno al Risorgimento, periodo che viene visto da Vancini come pieno di aspettative deluse e di occasioni mancate, a cominciare dalla non partorita Repubblica democratica, sostituita da una monarchia sabauda priva di vigore, sia sul piano delle libertà che su quello della giustizia sociale.

Vancini non è riuscito dalla metà degli anni Settanta a tenere alta l’attenzione verso l’analisi della realtà perché il neorealismo stava perdendo vitalità, ma film come Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, La lunga notte del ’43 (suo esordio cinematografico, Amore amaro, rappresentano tentativi esemplari e riusciti di quell’inizio di ricostruzione della storia dalla parte dei vinti e delle classi subalterne che si comincia a fare proprio alla svolta del decennio, capovolgendo non pochi indiscussi stereotipi rimasti troppo a lungo immutati.

La tensione morale e l’ammissione di una insensibilità culturale verso la presa di coscienza della frattura tra passato e presente sono le peculiarità del cinema di Vancini e che purtroppo il cinema italiano di oggi ha smarrito, votandosi alla bieca retorica.

‘Rebeniza-L’ombra del maestro’: amore e sradicamento secondo Leonardo Bonetti

Rebeniza – L’Ombra del Maestro è il nuovo film di Leonardo Bonetti presentato il 10 agosto 2021, da Massimo Gazzè e Raffaele Rivieccio in prima nazionale, all’Arena Elsa Morante, nel contesto della rassegna cinematografica dell’Estate Romana.

Leonardo Bonetti (Roma 1963) è un poeta, compositore e regista italiano. Ha pubblicato in riviste letterarie e cinematografiche tra cui Il Caffè illustrato, L’Illuminista, 451 Via della Letteratura della Scienza e dell’Arte, l’immaginazione, ET Cinematografica, La Gru, Rifrazioni.
I suoi libri hanno ricevuto importanti riconoscimenti come il Premio Nabokov 2009, il Premio Carver 2011 e il Premio di poesia Lorenzo Montano 2012.

L’opera che lo ha portato all’attenzione dei lettori è il romanzo d’esordio Racconto d’inverno. Dopo la realizzazione di un mediometraggio dal titolo Donina – un ritorno (Roma 2015), ha scritto e diretto il film Un amore rubato (Roma, 2016) e recentemente realizzato il lungometraggio Rebeniza-l’ombra del Maestro (Roma 2021).

Proprio per la sua natura di autore attivo su più fronti del linguaggio, i suoi lavori sono caratterizzati da una tensione espressiva che, nella dimensione più specificatamente filmica, tende a un’idea di
opera intesa come contaminazione di musica, parola e immagine.

Le sue opere narrative sono:

  • Racconto d’inverno, Marietti, Milano 2009 (Premio Nabokov 2009)
  • Racconto di primavera, Marietti, Milano 2010 – nota critica di Walter Pedullà – (Premio Carver 2011)
  • A libro chiuso, Sigismundus, Ascoli Piceno 2012 – nota introduttiva di Antonio Prete – (Premio di poesia Lorenzo Montano 2012)
  • Racconto d’estate, Marietti, Milano 2012 – (finalista Premio Celano 2013)
  •  Una storia immortale, Italic peQuod, Ancona 2013
  • La quercia nella fortezza, Italic peQuod, Ancona 2015
  • Una relazione pericolosa, Italic peQuod, Ancona 2016
  • L’isola che non c’era, Il Ramo e la Foglia, Roma, 2021 (2° classificato – Premio Anna Maria Ortese 2021)

Le sue produzioni audiovisive:

  • Pinì dice di sì ma non ne vuole sapere (della disponibilità indifferente), (cortometraggio)
    Italia, 2001
  • Donina (un ritorno), (mediometraggio), Italia, 2015
  • Un amore rubato, (lungometraggio), Italia, 2016
  • Rebeniza, l’ombra del Maestro (lungometraggio), Italia, 2021

 

Rebeniza – L’Ombra del Maestro: Sinossi del film

Il film Rebeniza- L’Omnra del Maestro è in distribuzione da fine settembre sulle tv nazionali e locali oltre che nelle principali piattaforme online (Amazon Prime Video, Chili, Rakuten, etc.).

Rebeniza-L’ombra del Maestro

“Rebeniza” (da Srebrenica, cittadina della Bosnia-Erzegovina teatro di un massacro di civili durante l’ultima guerra serbo-bosniaca) è il cognome italianizzato di un giovane regista di origini serbo-croate in Italia ormai da oltre vent’anni.

Sta girando un documentario sull’ “amore ai nostri tempi in Italia”, un lavoro iniziato un paio di anni prima dal suo maestro, figura di spicco del cinema romano e già insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Il giovane, che è in possesso del film incompiuto a causa della misteriosa scomparsa del grande regista, sta conducendo una serie di interviste a intellettuali e scrittori, alcuni già intervistati dal maestro, altri la cui partecipazione era prevista nel piano originale dell’opera. Rebeniza spera di poter finire il film ma, al tempo stesso, non disdegna di condurre un’inchiesta privata per trovare il maestro. Nel suo viaggio attraverso l’Italia, incontrando misteriosi personaggi ancora da intervistare, la verità sul protagonista e ciò che accadde al maestro due anni prima si svela lentamente, come un mosaico che va componendosi da solo.

Il documentario da terminare è per Rebeniza un modo per portare a compimento la sua vendetta.
L’opera stessa, in tutte le sue sfaccettature, sembrerebbe vivere e valere solo per consumare quel sentimento pieno di disperazione. Sennonché il destino lo porterà a incontrare due figure femminili che, conducendolo dal maestro, gli impediranno, tuttavia, di commettere un delitto che lo perderebbe per sempre.

“Nel processo che mi ha condotto alla realizzazione di questo film– dichiara il regista Leonardo Bonetti- lavoro indipendente che ha preso vita da un gruppo di artisti attivi attorno al nucleo creativo del progetto, c’è un’esigenza di ricerca che parte da tre temi: sradicamento, orfanità e amore.

Il protagonista proviene da una realtà di nazionalismi disgregati, tra Serbia e Croazia e, dopo aver subito lo strappo della fine delle patrie, è vittima di un ulteriore tradimento vissuto attraverso il contrastato rapporto discepolo-maestro. Alla nuova orfanità reagisce con una domanda d’amore, che si realizza nel viaggio attraverso il suo nuovo paese e nella forma dell’inchiesta a tema. Le interviste agli intellettuali sull’amore in Italia ai nostri tempi hanno infatti il sapore della richiesta, di chi presta ascolto sperando di trovare nell’interlocutore una saggezza o una sapienza che gli restituisca il segno di un vero riconoscimento: “ecco, questo è il mio maestro”.           

Ma, nello stesso tempo, si traduce nell’incapacità di comprensione più intima di chi ha di fronte, perché chi è davvero orfano è incapace di riconoscere il padre nel recinto della propria patria interiore. È, in definitiva, un film sul nostro tempo, sull’uomo contemporaneo e la tragedia del suo sradicamento, sull’orfanità che lo rende incapace di amare. 
Unico varco possibile quello di tornare alla semplicità di un gesto: inginocchiarsi alla divinità inconsapevole che si manifesta sempre nella forma della bambina e della vergine”.

Il film promette di seguire due binari narrativi, due filoni di inchiesta coinvolgenti per quello che si annuncia essere un film nel film e una storia di salvazione attraverso la conoscenza delle storia e l’arte stessa che porta l’essere umano a comprendere le proprie radici affrontando il dolore e la propria storia inscritta in una storia più grande che rende l’uomo vulnerabile e senza identità.

Quella di Bonetti è una pellicola importante, un documento prezioso da far vedere in tutte le scuole e università affinché si capisca davvero l’importanza e la bellezza dell’avere radici e in che modo la storia contribuisce a formare l’identità di uomini e donne.

 

 

Per guardare il trailer del film: https://www.youtube.com/watch?v=oAIwSvPPb38

 

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