La morte di un carabiniere non può dividere l’Italia

La tragica morte del Vice Brigadiere Mario Cerciello Rega, sposatosi da poco di più di un mese, merita rispetto e cordoglio da parte dell’Italia intera. La vicenda del carabiniere ucciso nelle scorse ore ha più punti oscuri che certezze, domande che – data la dinamica così poco usuale dei fatti – non possono non sorgere nell’opinione pubblica.

Chi era l’uomo che ha richiesto l’intervento dell’Arma per rientrare in possesso dello zaino trafugato dai due studenti americani? Cosa consente a due turisti statunitensi, appena maggiorenni, di sentirsi così sicuri – a mille miglia da casa – da sfidare quello che nell’immaginario comune è, nel migliore dei casi, un delinquente di mezza tacca, certo, ma sicuramente inserito all’interno del tessuto criminale di una città che per i due dovrebbe essere del tutto sconosciuto? Com’è possibile che un ragazzino della Los Angeles bene, viziato, coccolato, prepotente: in soldoni un bamboccione, riesca a sferrare otto, dico otto, coltellate fatali ad un carabiniere addestrato?

La verità su questa storia, se uscirà mai, non potrà che provenire da un’aula di tribunale, ergo, con tempi biblici. I pochi dati certi che abbiamo ci permettono, comunque, di tratteggiare una situazione veramente atroce della nostra quotidianità. Del resto, fin quando fatti di cronaca che non dovrebbero essere tali, vengono manipolati ed utilizzati per meri calcoli elettorali dal ministro dell’Interno, fin quando vedremo educatori e professori esaltarsi sui social per la morte di un carabiniere, perché a loro avviso rappresentante di una non meglio identificata reazione – chi scrive si domanda quale sia l’azione a cui reagire –, non ci si potrà meravigliare che accadano vicende del genere.

Il fatto odierno è solo la punta dell’iceberg dello sfacelo totale del sistema nazione, poco importa se nelle pieghe di questa vicenda emergeranno altri fatti che riusciranno a spiegare più semplicemente l’accaduto. Tra qualche settimana, purtroppo, saremo di nuovo qui a chiederci come sia potuto accadere un qualcosa di impensabile, senza capire che la risposta sta nel nostro essere una nazione finita. Crediamo non ci sia altra chiave di lettura per spiegare certi fatti di cronaca, non fatti isolati e circostanziati, ma una lunga teoria della stessa matrice.

Del resto, non si è fatto neanche a tempo a celebrare il funerale del caduto, che una fuga di immagini da una caserma dei carabinieri, colleghi del brigadiere ucciso, direttamente sulle home page delle principali testate giornalistiche nazionali, potrebbe con buona probabilità dare una base di difesa processuale al presunto assassino. Uno Stato al collasso, una nazione finita, dove l’interesse di parte, sempre più individuale, ha soppiantato completamente l’interesse nazionale.

 

Andrea Scaraglino

Bibbiano non è una cronachetta da due soldi, è la sintesi dei mali del nostro tempo

Tre giorni fa, si è tenuto alla Camera un convegno a proposito dell’inchiesta “Angeli e Demoni” che coinvolge il comune di Bibbiano. Riportiamo qui le voci di tutti coloro che, nell’omertà generale, hanno avuto il coraggio di bucare la coltre del silenzio.

Dovevamo arrivarci, ci siamo arrivati. L’anticomplottismo dei complottisti ha appicciato la viscida targhetta del complotto anche sulle macabre cronache di Bibbiano (Reggio Emilia). Mentre giovedì ci recavamo al convegno inerente l’inchiesta “Angeli e Demoni”, organizzato presso la Camera dei Deputati da Armando Manocchia di ImolaOggi e dall’Onorevole Maria Teresa Bellucci di Fratelli d’Italia, i social secernevano il fetore di post e tweet senza remore, pronti a gettare fango su chiunque si permetta di parlare di Bibbiano.

Hanno ragione da vendere. Come opportunamente ricordato durante il convegno dall’avvocato Francesco Morcavallo: «Il permanere di questo tipo di vicende si è sempre nutrito del silenzio». Morcavallo è un uomo con la schiena talmente dritta, da aver abbandonato la toga di giudice del tribunale dei minori di Bologna nel 2013, dopo anni di battaglie portate avanti contro le nefandezze relative al sistema degli affidi all’interno del collegio. L’avvocato cosentino non lascia spazio a fraintendimenti. La notizia, nello scandalo di Bibbiano, non è rappresentata dagli abusi commessi nei confronti dei bambini, è il contesto ad inquietare: «Le istituzioni che dovevano garantire che ciò non succedesse hanno contribuito in modo efficiente al fatto che certi fatti accadessero».

È un sistema malato quello degli affidi, una gigantesca tenia che scava negli intestini del silenzio, nutrendosene alacremente. I tribunali spesso e volentieri sfornano provvedimenti d’affido non fondati su fatti e prove, bensì su soffiate, presupposizioni, delazioni, chiacchiericcio. «Perché in tutti i processi contemplati dall’ordinamento si decide su fatti e su prove e nel processo minorile no?», una risposta potrebbe offrirla il Ministro della giustizia Alfonso Bonafede, interrogato a tale proposito di recente in Parlamento: «Le questioni sollevate investono solo in parte lo spettro delle competenze del Ministero», con buona pace del principio del giusto processo e dell’articolo 111 della nostra Costituzione.

Nel corso del suo intervento Maria Teresa Bellucci ha ricordato l’imminente istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare riguardante i tragici fatti della Val d’Enza, uno strumento sul quale i vari relatori non nascondono alcune perplessità: «Da chi sarà composta? Una parte non può farla in quanto referente politico dei gestori, un’altra in quanto referente politico di altri gestori, un’altra che ancora propone gente che è stata garante dell’infanzia quando queste cose odiose accadevano. Chi la fa la commissione d’inchiesta? Diventerà una riunione di condominio».

Prende poi la parola l’avvocato Francesco Miraglia, difensore legale di tante parti lese coinvolte nell’inchiesta “Angeli e Demoni”: «Non passi l’idea che questo problema riguardi solo l’Emilia Romagna: a Venezia un bambino di tre anni veniva allontanato in modo da abituarsi all’adozione; in un’altra regione un bambino doveva essere allontanato in quanto troppo effemminato, dato che aveva come punti di riferimento la mamma e due sorelle. Il papà non c’era più. Oppure potrei ricordare di un bambino allontanato per quattro anni in comunità perché la mamma era troppo amorevole».

Per spazzare via il marcio da questo sistema infame c’è bisogno di un’azione combinata tanto sul piano processuale quanto su quello dell’informazione: parrebbe più accessibile il primo del secondo. A questo proposito, Miraglia riporta un aneddoto piuttosto umiliante per chi è solito insozzarsi le mani con questo sudicio mestiere: «Abbiamo passato due giorni a illustrare questo sistema marcio a una giornalista di uno tra i quotidiani più importanti d’Italia, questa persona è entrata anche in contatto con alcune delle famiglie coinvolte. Il giorno prima che il pezzo dovesse essere pubblicato, mi ha chiamato, vergognandosi, e dicendomi che il caporedattore, dopo tre giorni di lavoro, ha impedito la pubblicazione dell’articolo». Il sistema degli affidi illeciti è una gigantesca tenia che si ingurgita di silenzio. E di minori.

Dietro l’omertà della grande informazione si celano più ragioni: il traffico di denaro è certamente tra queste. Qualche numero l’ha riportato Alessandro Meluzzi: «50.000 bambini sottratti alle proprie famiglie naturali, per un business che vale un miliardo e mezzo di euro». Una montagna di soldi. Altra magagna riguarda il conflitto di interessi, quello in cui sarebbero invischiati i giudici onorari dei tribunali dei minori.

Un caso emblematico richiamato nel corso dell’evento dà il polso della situazione: «Una psicologa, che accusa una mamma per violenza sessuale nel momento in cui questa voleva indietro la sua bambina dopo 3 anni in comunità, era allo stesso tempo: responsabile del centro aiuti al bambino, consulente della procura e responsabile della comunità. Non solo: addirittura fu poi la stessa psicologa ad adottare questa bambina». La soluzione è condivisa: stanare i colpevoli all’interno della magistratura e disporre, finalmente, provvedimenti disciplinari ferrei. Il legislatore non si affanni, le leggi ci sono già. Occorre solo farle rispettare.

Una chiosa finale dedicata alla ciclopica macchina del fango che già parrebbe essersi messa in moto da qualche giorno a questa parte contro Bibbiano. La trama è sempre la stessa: i debunker da strapazzo, i giornalistucoli delle redazioni benvolute dai ministri della verità e i loro sodali spargono il pestilenziale incenso del complotto sulle vicende più periferiche della questione – pensiamo ai ripetuti attacchi contro il PD di questi giorni. I cani da riporto di un giornalismo composto da lecchini e invertebrati si aggirano latrando ai margini della vicenda, su questioni apparentemente inique, leccandosi i baffi mentre avvertono l’odore del sangue, il vero obiettivo delle loro sudicie, mollicce penne: si parte dalle sciocchezze e si punta dritti al nocciolo della questione. Ridurre Bibbiano, la val d’Enza e lo scandalo affidi a una cronachetta da quattro spiccioli. Un caso isolato tra tanti. Puntano dritti lì, alla decostruzione del fatto. E all’annichilimento delle vittime.

È invece necessario dire le cose come stanno. Bibbiano è l’estrema sintesi dei mali del nostro tempo: neoliberismo miscelato a una buona dose di malthusianesimo. L’inchiesta sulla Val d’Enza è una lieve spennellatina su una mastodontica montagna di merda: eventi come quello organizzato ieri alla camera non possono che aiutare un lungo e difficile percorso di ricostruzione di verità storiche e processuali. Nella speranza che non si replichino tempi biblici come quelli che hanno contraddistinto l’orrenda vicenda del Forteto.

 

Federico Lordi

Alfie Evans e la cultura della morte: il liberalismo selvaggio la difesa della vita in quanto esseri umani

Non è progressista una civiltà in cui si registrano più aborti che nascite, più divorzi che matrimoni, più cannabis club che sale giochi, dove non è possibile esercitare la libertà d’espressione dietro l’accusa di essere fascisti, o quella di riunione dietro la minaccia dei cosiddetti antagonisti (del buon senso). Soprattutto, non è realmente progressista una civiltà in cui non è possibile esercitare la libertà di movimento per fuggire da una condanna a morte e reclamare la difesa della vita di un figlio malato e bisognoso di cure urgenti quale diritto inalienabile di ogni essere umano – ogni riferimento ad Alfie Evans è puramente intenzionale. La cultura della morte ha vinto ed esteso i suoi tentacoli in tutto l’Occidente; a ricordarlo ci ha pensato la sentenza del giudice Anthony Hayden, che sarà prima o poi chiamato a rispondere dell’accusa di omicidio ai posteri (per i laici) o a Dio (per i credenti).

Huntington si sbagliava: non saranno la civiltà islamica, sinica od ortodossa a galvanizzare il crollo di questo (post-)Occidente da tempo incamminatosi sul viale del tramonto, ma il totalitarismo liberal-democratico. Un’ideologia nel cui nome vengono abbattuti governi ostili, vietati indumenti e simboli religiosi nei luoghi pubblici, censurati pensatori anti-sistema ed impedite manifestazioni, ma che napoleonicamente si è autoincoronata paladina dei diritti umani e della giustizia. La scienza come riflesso del potere ideologico dominante, una teoria del pensatore Michel Foucault oggi più che mai corroborata dalla piega che ha preso la medicina nei paesi occidentali, più interessata al profitto che alla salute. Gli ospedali e i centri di ricerca sono divenuti luoghi di business, nei quali i pazienti sono dei semplici numeri agli occhi di chi dovrebbe curarli.

Parte tutto dalla manipolazione semantica: il diritto alla vita è inalienabile ed è irrimediabilmente legato al diritto alla salute, del quale è accessorio essenziale il divieto dell’accanimento terapeutico, ne consegue la possibilità di cessare le cure ad un malato terminale od incurabile o di aiutare a morire mediante suicidio assistito una persona afflitta da depressione. La ricerca costa troppo, i governi non vogliono assumersi l’onere di finanziarla e i cosiddetti filantropi, stile famiglia Rockefeller o Bill Gates, elargiscono generose quote dei loro personali averi esclusivamente su base ideologica, ossia ad istituti ed entità coinvolte nella promozione dei diritti lgbt o della genitorialità pianificata. Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di plasmare e trasformare in merce ogni sfera ed aspetto delle relazioni umane, dalla religione, al sesso, sino alla salute: lo mostra il caso di Alfie Evans, e lo ribadisce l’analisi “The Genome Revolution” di Goldman Sachs inerente la non-remuneratività della ricerca farmaceutica in cure definitive per le malattie. In breve, il rapporto giunge alla conclusione che lo sviluppo di farmaci e trattamenti di cura definitivi riduca nel lungo termine in maniera sensibile le possibilità di nuove infezioni, annullando il ritorno economico per i produttori. La ricerca farmaceutica dovrebbe quindi puntare a delle cure parziali, in modo tale da creare dei malati cronici, dipendenti dai farmaci o desiderosi di un costoso suicidio assistito?
Riflessioni ed invettive contro la mercificazione della salute a parte, difendere il diritto alla vita di Alfie Evans, un bambino affetto da un’epilessia mioclonica progressiva, non è solo un dovere che spetta ai suoi genitori, ma a tutti coloro che ritengono di possedere un’anima, o quantomeno una coscienza funzionante e non corrotta dalle dottrine liberal-progressiste. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sorta per vegliare sulla corretta applicazione ed il rispetto della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, chiamata in causa dalla famiglia Evans, ha scelto di (non) intervenire, mostrando per intero la sua coerente inutilità.

Nessun paese comunitario ha protestato per il trattamento riservato dalla giustizia e dalla sanità inglese a questo cittadino in fasce colpevole soltanto di essere afflitto da un male per il quale la ricerca non ha ancora prodotto risultati. Nessuno è intervenuto per fermare l’omicidio in diretta di un bambino dato a più riprese come morto cerebralmente ed incapace di vivere senza l’aiuto delle macchine, eppure capace di aprire gli occhi, muovere gli arti superiori, respirare spontaneamente e, soprattutto, sopravvivere nonostante la disintubazione e la cessazione dell’idratazione e della nutrizione. Nonostante le accuse di inazione, il Vaticano ha abilmente sfruttato la propria influenza nella politica italiana per spingere il ministero dell’interno e degli esteri a concedere la cittadinanza a questo bambino in tempi straordinari, nell’aspettativa di convincere le autorità inglesi a permettere il suo trasferimento all’ospedale Bambino Gesù, dichiaratosi pronto ad ospitarlo e trattarlo con un protocollo sperimentale. L’intromissione italo-vaticana nella vicenda non è stata però gradita dalla corte d’appello che in data 25 aprile è stata chiamata per rivedere la sentenza del giudice Hayden: al bambino è stato negato il trasporto all’estero, è stata rifiutata l’eventualità di una giurisdizione di Italia e Vaticano sul caso, ed è stata ribadita la validità della precedente sentenza che ha difatto prevaricato la potestà genitoriale trasformando Alfie Evans in un bene privato la cui sorte è gestita dall’ospedale.

Ogni ricorso della famiglia Evans in sede nazionale e comunitaria è stato vano, come vani sono stati i riferimenti fatti dai legali della coppia alle libertà e ai diritti previsti dai documenti che formano la costituzione britannica, tra i quali l’Habeas Corpus Act. Michela Marzano, docente di filosofia morale all’Université Paris Descartes, in un editoriale per La Repubblica ha giudicato l’intervento della coppia Minniti-Alfano come un pasticcio incomprensibile di un governo dimissionario che dovrebbe occuparsi solo di ordinaria amministrazione, trovando anche il tempo per parlare di ius soli. Lo stesso governo che però è piaciuto molto ai liberali di tutto l’Occidente quando, seguendo il cordone angloamericano di rappresaglie nei confronti della Russia in reazione al caso Skipral, ha espulso due diplomatici russi.

I leader del mondo libero, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, non sono stati pervenuti, fornendo una prova ulteriore della visione che l’Unione Europea ha della vita e dell’etica – la stessa Ue che oltre un decennio fa rifiutò di inserire ogni riferimento all’influenza cristiana nella storia europea nel progetto di carta costituzionale, facendo presagire quale direzione avrebbe preso il progetto europeista. È normale che una civiltà avente più riguardo per la morte dei suoi figli, che per la loro nascita e crescita, un bambino venga condannato a morte da un tribunale e che i connazionali di questo inconsapevole imputato siano maggiormente presi a festeggiare una nuova vita nella famiglia reale che a protestare per la morte di un figlio del popolo. L’Occidente è destinato al tramonto e non perché lo abbia detto Spengler, ma perché ha deciso di abbracciare la cultura della morte ed il relativismo culturale a detrimento del cristianesimo, ringraziato periodicamente e in maniera alquanto vaga per l’aiuto fornito nella realizzazione di una civiltà basata sulla giustizia e sullo stato di diritto.

Arthur Moeller van den Bruck diceva che il liberalismo fosse un cancro capace di colpire ogni aspetto dell’essere umano, pensiero, creatività, ingegno e spirito, un’ideologia da distruggere per mezzo di una rivoluzione conservatrice. Allo stesso modo, Alberto Ruiz-Gallardon, capofila del movimento antiabortista spagnolo e ministro della giustizia sotto il governo Rajoy, dichiarò ai tempi della proposta di riforma della legge sull’aborto quanto fosse importante combattere per fatare il mito della superiorità morale della sinistra.
Nel caso di Alfie Evans, proprio di sinistra e liberalismo si parla, perché i giudici che lo hanno condannato a morte hanno pubblicamente assunto posizioni di matrice liberale e progressista nei confronti di tematiche come il recupero sociale dei criminali e dei terroristi e i diritti lgbt. Hayden è il coautore di un libro intitolato “Children and Same Sex Families”, mentre Andrew McFarlane, il giudice della corte d’appello, ha assunto rilevanza internazionale nel 2015 per aver creato un precedente su un tema molto sensibile quale la surrogazione di maternità e il diritto di rescissione, dando ragione alla coppia omosessuale che aveva comprato un bambino, negando ogni diritto di potestà alla madre surrogata.

Il destino di un bambino, figlio di due persone che hanno ritrovato la fede in questi mesi di lotta legale per via dell’incredibile umanità proveniente e dimostrata dal mondo cattolico, tanto da causare un diretto interessamento del pontefice e, tramite esso, del governo italiano, è stato affidato a dei giudici noti per le loro posizioni estremamente progressiste, ma forse è solo una coincidenza. Lasciando le convinzioni etiche, religiose e politiche a parte, il caso di Alfie Evans interessa l’Italia anche da un punto di vista legale dal momento in cui gli è stata concessa la cittadinanza: ad un cittadino italiano viene impedito di tornare in patria per ricevere delle cure urgenti, tra l’altro negate nonostante il parere contrario della famiglia, e al governo italiano viene negata ogni possibilità di giurisdizione sulla vicenda da un tribunale inglese, un precedente gravissimo che in futuro impedirebbe ai governi di fornire cure a dei cittadini sequestrati illegalmente in paesi terzi. In ogni caso, Alfie non morirà invano: se dovesse sopravvivere o morire al protocollo sperimentale, allora la sua vita servirebbe alla ricerca medica come opportunità di crescita e conoscenza, e se fosse lasciato morire perché ritenuto una voce di spesa eccessiva per l’ospedale che teoricamente dovrebbe curarlo ed impeditagli ogni possibilità di cura altrove, allora il suo omicidio lo trasformerebbe in un martire, la cui storia forse servirà alla massa per capire quanto atroce e brutalmente incoerente sia il liberal-progressismo.

I maestri del liberalismo selvaggio hanno insegnato a chiamare libertà e diritti qualsiasi loro capriccio e desiderio egoistico, parafrasando Nicolas Gomez Davila. Ed è così che nelle società del malessere si riesce a malapena a trovare una folla da portare in piazza per protestare contro i tagli ai servizi pubblici e al sociale, mentre quasi chiunque è disposto a firmare una petizione o a scendere in strada per uno spinello o contro l’obiezione di coscienza.

 

Emanuel Pietrobon

 

 

Tony Iwobi e il razzismo degli antirazzisti, ipocriti quanto l’ideologia che sostengono

Un giovane nigeriano proveniente da una famiglia modesta giugne in Italia nel 1976 con un permesso di soggiorno per motivi di studio. È uno dei primi immigrati provenienti dall’Africa nera a giungere nel Bel paese, all’epoca sull’orlo di una guerra civile, dilaniato da attentati, violenze e manifestazioni squadriste da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Testardaggine, volontà di emancipazione e di riscatto sociale e tanta ambizione, questi i moventi che spingono il giovane Tony Chike Iwobi a svolgere qualsiasi lavoro, muratore, stalliere e idraulico, pur avendo in mano una laurea in Scienze informatiche conseguita negli Stati Uniti. Si trasferisce nel profondo settentrione, nella provincia di Bergamo, dove viene assunto dall’Amsa in qualità di operatore ecologico, ma pochi mesi dopo viene promosso agli uffici divenendo impiegato. Cambia tanti lavori, non più umili, ricoprendo mansioni di responsabilità presso aziende italiane e svizzere, continuando allo stesso tempo ad arricchire il suo profilo lavorativo con corsi di specializzazione seguiti in Italia e all’estero.

Nel 1993 si iscrive alla Lega Nord, all’epoca movimento politico a carattere regionale mirante alla secessione delle regioni settentrionali dal resto d’Italia e ad una rivoluzione fiscale basata sul federalismo. Come nel mondo del lavoro, ugualmente Iwobi colpisce e fa carriera anche nella politica, soprattutto quando il partito inizia a perdere i suoi caratteri originari per tentare di diventare una forza nazionale facendo leva sull’euroscettiscismo, sulla minaccia dell’immigrazione incontrollata e sulla difesa dei valori e dell’identità cristiana del Vecchio Continente dal relativismo culturale del liberalismo e dall’estremismo islamico. Il colore della pelle di Iwobi non è mai stato un problema per quello che viene descritto come il principale partito xenofobo del paese, sia in Italia che all’estero, ma anzi viene visto come un elemento di forza: Iwobi raffigura lo straniero che ce l’ha fatta, partendo dal nulla e aiutato solo dalle sue capacità, che si è integrato e ha accolto positivamente valori, costumi e tradizioni del paese in cui ha scelto di vivere, l’immagine perfetta per un partito che viene periodicamente accusato di propagandare idee razziste ed alimentare tensione sociale tra le comunità etniche e religiose presenti nella nazione.

Dal 1993 al 2014 è ininterrottamente consigliere comunale a Spirano, una piccola città del Bergamasco, un decennio nel quale le sue posizioni politiche, specialmente sull’immigrazione, raccolgono l’attenzione dei leader del partito e nel 2014 viene designato responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza della Lega Nord su iniziativa di Matteo Salvini. C’è Iwobi dietro alcuni slogan di successo utilizzati dal partito, diventati dei veri e propri tormentoni elettorali, come ‘Aiutamoli a casa loro!‘ e ‘Stop invasione!‘ e al programma riguardante la regolamentazione dell’immigrazione dai paesi extraeuropei, basato sull’applicazione di misure per la selezione e la scrematura delle richieste di permessi umanitari e di soggiorno, sul rimpatrio di tutti quegli immigrati clandestini sbarcati in Italia negli ultimi anni le cui domande d’asilo sono state rifiutate, sulla chiusura dell’accesso ai migranti economici.

L’elezione di Iwobi a senatore della Repubblica italiana – il primo di colore in assoluto – alle recenti elezioni ha scatenato l’ira e l’ironia sui social network, tra i politici e tra il panorama dei vari antirazzisti riciclatisi pseudo-intellettuali dell’ultima ora per deridere la sua candidatura con la Lega Nord. Il clamore suscitato dall’evento ha persino attirato l’attenzione di importanti media globali, come The Guardian, El País, Independent e Times, che ne hanno tratteggiato una breve biografia e raccontato le motivazioni della sua affiliazione ad un partito anti-immigrazione. Addirittura il calciatore Mario Balotelli ha provocatoriamente chiesto, via Instagram, a Iwobi se si fosse accorto d’essere nero; l’ex ministro dell’integrazione Cécile Kyenge ha dichiarato, invece, che l’evento non intacca minimamente la natura razzista della Lega, mentre su Facebook impazzano immagini satiriche che comparano l’accoppiata Iwobi-Salvini alla DiCaprio-Jackson del film Django Unchained.

Un negro di casa come Stephen, lo schiavo domestico della tenuta di Calvin Candie, così la superiore satira liberal ai tempi di Facebook ha dipinto Iwobi, ossia un fratello che – ripercorrendo il pensiero di Malcolm X – si è svenduto ai bianchi, di cui appoggia lotte e rivendicazioni nella convinzione che ciò lo aiuterà ad essere accettato nella società bianca. È proprio in questi momenti che emerge il vero volto delle nuove sinistre occidentali, affiorate nel dopo-guerra fredda come le più importanti manifestazioni politiche della nuova élite borghese globalista; sinistre che hanno vergognosamente abbandonato ogni riferimento al proletariato e alla difesa della classe operaia.

Da anni la propaganda di una certa sinistra martella l’opinione pubblica sulla necessità di una politica fortemente immigrazionista, tuonando slogan come ‘Faranno i lavori che gli italiani non vogliono più fare!‘ o ‘Ci pagheranno le pensioni!‘. Flussi migratori costanti e continui nel tempo come un rimedio alla denatalità e alla carenza di manodopera dequalificata a basso costo, anziché politiche incentrate sull’aiuto alle famiglie e su una reale alternanza scuola-lavoro, questo propone la sinistra, accusando poi di razzismo chiunque ritenga che l’afflusso di milioni di persone provenienti da contesti culturali profondamente differenti – senza un’adeguato meccanismo di integrazione nella società e nel mondo del lavoro, possa alimentare tensioni sociali, il mercato del lavoro nero e la criminalità.

L’assenza di un modello d’integrazione o, meglio, l’assenza di una reale volontà di integrare gli immigrati, ha portato alla proliferazione di ghetti etnici, di no-go zones, all’esplosione della microcriminalità e a sempre più frequenti rivolte razziali. Scenari di disordine ed anarchia che da decenni irrompono nella quotidianità di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Svezia, mai apparsi in Italia, ma a cui il paese dovrebbe iniziare ad abituarsi a meno di un cambio di rotta nel modo di pensare l’integrazione e la convivenza tra etnie e culture. La risposta dei partiti e dei centri sociali di sinistra all’omicidio di Pamela Mastropietro ad opera di un gruppo di nigeriani legati al sottobosco malavitoso di Macerata è stata un corteo antifascista ed antirazzista nel quale i manifestanti hanno lanciato invettive contro i partiti di destra, l’intolleranza e le forze dell’ordine. Un episodio che dovrebbe far riflettere sulla totale alienazione della sinistra dalla realtà e che spiega l’emorragia di voti dal Partito Democratico a partiti anti-sistema come Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Iwobi è solo uno dei tanti nuovi italiani che ha preso atto dell’insensatezza delle politiche open borders e refugees welcome sostenute dalle nuove sinistre occidentali, che hanno soltanto esacerbato un clima già teso a causa della decennale crisi economica e delle tensioni inter-etniche causate dal fallimento dei progetti multiculturalisti in salsa anglosassone e scandinava.

Confindustria, Tito Boeri, Emma Bonino, Laura Boldrini, Paolo Gentiloni, Alessandro Cecchi Paone, Roberto Saviano, tanti coloro che hanno pubblicamente dichiarato di vedere l’immigrazione come una soluzione ai problemi demografici e lavorativi del paese. Nell’immaginario della sinistra l’immigrato ideale dovrebbe costruire famiglie numerose per ripopolare l’Italia (in pratica una sostituzione etnica, ma guai a dirlo) e fare lavori umili, precari e sottopagati come raccogliere pomodori nelle piantagioni del Sud Italia – citando la Bonino, e ovviamente essere ideologicamente allineato a sinistra.

Alla luce di queste cose è facile comprendere perché contro Iwobi sia stata lanciata una campagna denigratoria, oltre che razzista: lo straniero che si integra e non si accontenta dei lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma che attraverso le sue capacità si eleva socialmente e vede nell’accoglienza indiscriminata un male per tutti quegli stranieri onesti che a fatica hanno ottenuto dei meriti, è scomodo, non è stato manipolato dal miraggio dell’antirazzismo, quindi è un suffragio perduto.

No, Iwobi non è un negro di casa, e neanche di cortile, è molto più italiano e fiero di esserlo di tutti quelli che si stanno divertendo a denigrarlo, a ritenerlo un burattino dell’uomo bianco ed un venduto, e il suo ‘Aiutamoli a casa loro!‘ non è un’offesa, ma quello che l’Occidente dovrebbe finalmente iniziare a fare dopo anni di politiche neo colonialiste ed imperialistiche nel Sud globale che hanno portato al saccheggio di risorse naturali, al sostegno verso sanguinose dittature militari e a guerre per procura volte all’accaparramento di metalli rari e preziosi che sono alla base dell’odierna crisi migratoria.

 

L’intellettuale dissidente

Salviamo la scuola dall’anacronismo politico

Lavinia Flavia Cassaro, l’insegnante di Torino che ora rischia il posto per aver augurato la morte alle forze dell’ordine, rappresenta uno dei tanti modelli diseducativi che vorremmo sinceramente sparissero dalle nostre scuole.

Sembra che l’aria che si respira possa tranquillamente provenire da uno dei film di Elio Petri: le strade sono in fermento, i caschi della celere non occupano le gradinate degli stadi ma l’asfalto, ed il neo prototipo dell’anarchico da copertina si scaglia contro i tutori dell’ordine costituito. Cortei e fumo, disordine controllato, di nuovo il nemico nero da combattere, l’incombere di vecchie paure con l’ombra che torna a distendersi sul martoriato stivale del Belpaese. “Anacronismo che avanza!”, potrebbe essere lo slogan di una moderna corrente di pensiero, che ripesca modelli dal passato, per far fronte alla voragine politico-sociale, apertasi nel tessuto di questa nostra Italia che stenta a trovare una propria identità.

Gli avvenimenti di Torino vedono protagonista una donna, un’insegnante, che insorge da esagitata contro il discutibile pericolo nero. Una novella pulzella che invece della spada, utilizza la più proletaria bottiglia di birra e le malauguranti minacce di morte, opportunamente ingurgitate dal mostro mediatico, sempre sensibile alla prodezza scenica del gesto esasperato. La ricerca di un senso riguardante la vicenda, potrebbe mostrare i limiti di questa Italietta, che si dimena tra evanescenti condottieri e vecchie paure, pronta ad indossare panni logori e a recitare la buffa caricatura di se stessa.
Un’analisi più attenta, potrebbe rischiare di portare alla luce una crisi dei valori borghesi, che sembrano essere le traballanti colonne dell’attuale impalcatura sociale. Si potrebbe ipotizzare che la disgregazione dei valori vive di una degenerata simbiosi che si autoalimenta e conferma se stessa sia dal basso che dall’alto. Dall’alto si assiste alla pratica di illegalità diffusa da parte delle istituzioni, che sembrano avallare l’utilizzo della corruzione, facendola passare come prassi del fare.

Le azioni compiute consolidano la mutazione del concetto di illecito, non più legato ad una definizione universale, ma ad una semantica mutevole a seconda del proprio autore. Tale mutazione ripetutamente confermata, potrebbe rendere ormai superate le insegne presenti nelle aule dei tribunali della Repubblica inneggianti ad una sbiadita uguaglianza della legge. Per quel che riguarda la disgregazione dei valori provenienti dal basso, possiamo prendere ad esempio l’atteggiamento dell’insegnante di Torino, che sembra aver smarrito il significato di quello che più che un lavoro dovrebbe essere una missione, così come succede per il prete, il medico, il politico e la stampa stessa, vecchi capisaldi del nostro vivere sociale, che un tempo consolidavano le stesse istituzioni, che oggi sembrano sgretolarsi giorno dopo giorno.

Sarebbe opportuno chiederci se siamo soltanto nel bel mezzo di una crisi temporanea, o se il tunnel è cieco ed è in atto una sostituzione di valori che concorreranno alla formazione della nuova morale.

 

L’intellettuale dissidente

A Natale si legge: a Napoli 500 libri donati in strada

Cinquecento libri messi a disposizione da Mondolibri, un gruppo di scrittori che li doneranno ai passanti del centro storico (nell’area compresa tra piazza San Domenico Maggiore e Piazzetta Nilo). Sono gli ingredienti di “A Natale regala un libro”, l’evento organizzato da LibriMarket con il contributo di Livecode (media partner dell’iniziativa) e Se.po.fà (agenzia di promozione culturale e editoriale).

L’iniziativa, che gode del patrocinio morale del Comune di Napoli ed è appoggiata dall’Assessorato alla cultura partenopeo, si terrà oggi 14 dicembre a partire dalle 17:30.

Prima della consegna dei libri ai cittadini napoletani, è prevista una breve conferenza stampa al Museum Shop & Bar di Largo Corpo di Napoli a cui parteciperanno: Corrado Matacena, ideatore di LibriMarket; Valerio Granato, CEO di Livecode; Roberto Malfatti in rappresentanza di Sepofà; e in rappresentanza del sindaco Luigi de Magistris il presidente della Commissione Scuole del Comune di Napoli Luigi Felaco. Modera il giornalista Enrico Parolisi.

Tra gli scrittori che hanno aderito all’iniziativa, e che si presteranno a consegnare i libri ai passanti, hanno confermato la presenza Christian Capriello, Armando Grassitelli, Roberto Todisco, Mario De Simone, Antonio Benforte, Angela Bevilacqua, Giancarlo Palombi, Paolo Trapani. Invitati anche Maurizio De Giovanni, Giuliana Covella, Marco Perillo e altri nomi potrebbero aggiungersi alla lista nelle prossime ore.

“Stando agli ultimi dati del Rapporto sullo stato dell’editoria 2017 diffuso durante la Buchmesse di Francoforte – spiega Corrado Matacena, imprenditore e patron di LibriMarketil numero generale di lettori è in calo. ‘A Natale regala un libro’ unisce tre realtà meridionali che hanno accettato l’emozionante sfida di moltiplicare le emozioni legate alla lettura di un libro. Come? Proprio a partire da un dono: ai passanti verranno regalate le sensazioni e i desideri che vivono celati fra le pagine dei libri. Sarà possibile, così, riscoprire il piacere di sfogliare le pagine di una nuova storia e magari, in vista delle festività natalizie, condividere il piacere della lettura con le persone più care, regalando libri sotto l’albero”.

Sarà anche l’occasione per presentare in anteprima la piattaforma LibriMarket.it. Si tratta di una piattaforma web (a cui seguirà lo sviluppo di un’app per smartphone) che va incontro proprio alle librerie di quartiere: attraverso un sistema di match tra domanda e offerta, il lettore registrato al portale potrà immediatamente sapere intorno a lui quale libreria ha a disposizione il libro che cerca. Senza dover ricorrere alle attese dell’acquisto web con annessa spedizione o a dover raggiungere un lontano maxistore, magari inconsapevole che il libro da lui desiderato è proprio sotto casa sua.

 

Fonte: http://napoli.repubblica.it/cronaca/2017/12/13/news/a_natale_si_legge_a_napoli_500_libri_donati_in_strada_ai_napoletani-183986499/

La realtà è una fake news

I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti.

La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento miltiare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti). In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”.

Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, non esiste.

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

Cosa sappiamo dell’attentato a New York

Ieri, quando in Italia erano circa le 20.30, un furgone ha colpito uno scuolabus e investito diverse persone su una pista ciclabile nella zona sud di Manhattan, New York. Nell’attacco sono state uccise 8 persone e altre 11 sono state ferite. Quello che è successo è stato trattato quasi subito come un attentato terroristico, anche se finora non c’è stata alcuna rivendicazione. L’uomo alla guida del furgone è stato ferito da colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia e poi arrestato. Nelle ultime ore stanno emergendo diverse informazioni sul suo conto: si chiama Sayfullo Saipov, ha 29 anni, è originario dell’Uzbekistan e lavorava come autista per Uber, il famoso servizio di auto private a noleggio con conducente. Non ha precedenti penali rilevanti. Oggi il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha confermato una notizia che era già circolata ieri sera: cioè che dentro il furgone usato per compiere l’attacco sono stati trovati dei riferimenti allo Stato Islamico (o ISIS).

La dinamica dell’attacco è stata chiarita grazie a diverse testimonianze fornite alla polizia e ai giornali (la zona colpita è molto trafficata). Intorno alle 15.30 ora locale, l’uomo alla guida del furgone ha invaso la pista ciclabile investendo diverse persone. Dopo alcune decine di metri ha colpito uno scuolabus, e poco dopo ha abbandonato il furgone. La polizia di New York ha detto che una volta sceso, l’uomo ha mostrato un’arma da paintball (un gioco in cui ci si sparano palline di vernice) e un’altra ad aria compressa. Il New York Times dà per certo che una volta sceso dal furgone l’uomo abbia gridato Allah Akbar, “Dio è il più grande” in arabo. La polizia ha sparato ferendo l’uomo all’addome, prima di arrestarlo.

Nelle ultime ore sono emerse diverse informazioni sull’identità delle persone uccise nell’attentato. Cinque di loro erano cittadini argentini intorno ai quarant’anni. Si trovavano a New York per festeggiare l’anniversario dei 30 anni del loro diploma di liceo insieme alla loro classe. Una delle persone uccise è di nazionalità belga, era in vacanza insieme a sua madre e a sua sorella. Le altre due persone morte nell’attacco non sono ancora state identificate.
Cuomo ha detto che stando alle informazioni disponibili al momento sembra che Saipov abbia agito da solo, senza l’appoggio di una rete. Anche il presidente americano Donald Trump l’ha lasciato intendere, nel suo primo tweet dopo l’incidente. Nel suo secondo tweet, però, ha fatto esplicito riferimento allo Stato Islamico (o ISIS). In molti stanno ipotizzando che dietro l’attacco ci sia proprio l’ISIS.

Rukmini Callimachi, esperta giornalista del New York Times che si occupa di terrorismo e Medio Oriente, ha fatto notare che l’ISIS potrebbe anche decidere di non rivendicare l’attacco, se anche fosse appurato che Saipov sia stato ispirato dalla sua propaganda o fosse in contatto con una cellula del gruppo. Di solito infatti l’ISIS non rivendica attentati in cui il responsabile è stato catturato (anche se Callimachi scrive che in passato ci sono state delle eccezioni).

 

Fonte:

http://www.ilpost.it/2017/11/01/attentato-a-new-york/

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