I baroni e i dormiglioni: il finto stupore intorno ai concorsi universitari truccati

Le denunce fuori tempo massimo contraddistinguono il glorioso modus operandi dei nostri media di regime: solo adesso le belle addormentate hanno scoperto il baronato universitario. Gli hanno anche dato già un nome: “concorsopoli”, come se fosse uno scoop. Come se non fosse nata e cresciuta così l’università italiana, figlia di una prima repubblica in cui tutto il sistema andava avanti per cooptazione. Questa volta non ci caschiamo, questa volta non è una Notizia. La notizia non c’è. Chiunque abbia frequentato un po’ le aule universitarie, anche solo da matricola per poi ritirarsi, lo sa.

Tutto il sistema universitario da decenni va avanti seguendo il criterio dei concorsi truccati: è così. E lo sanno tutti.
Ora il problema non è tanto questo, con il baronato ci abbiamo fatto pace, come con un sacco di altre cose. Il problema è il finto stupore che si crea attorno a questo tipo di notizie, come a far finta di non averne mai sentito nulla. Forse per una volta bisogna ringraziare chi ha denunciato, chi non ci è stato a subire un’altra ingiustizia, perché altrimenti ancora una volta non staremmo parlando dell’elefante nel salotto.

Ed è inutile sperare che il sistema cambi quando le fondamenta sono marce. Il mondo del lavoro è corrotto quanto lo è quello universitario. Il declino dell’Italia è rappresentato dalla mediocrità di chi ricopre i posti del potere, che ormai sono tutti “figli di” cresciuti che a loro volta stanno ripagando favori ricevuti piazzando altri “figli di” e nulla c’entra con chi vuole speculare sul giusto e normalissimo sistema di segnalazione di persone idonee a ricoprire incarichi. Nessuno davvero pensa che non sia normale consigliare una persona per un certo tipo di lavoro o incarico, diverso è manipolare, truccare o impedire a chi non ha agganci la possibilità di avere quello stesso posto.
Non è neanche giusto fare i nomi dei 29 professori indagati perché probabilmente, anche in questo caso ci sarà un piccolo esercito di vittime sacrificali, un piccolo nucleo di capri espiatori a cui addossare indignati tutte le colpe di un sistema di cui siamo tutti figli, nessuno escluso. E allora avanti il prossimo ladro, truffatore, che gli altri sono tutti santi e innocenti.

Il sistema universitario va cambiato, perché l’università così com’è è marcia, non solo per i concorsi truccati, ma soprattutto per il pensiero unico cui si lascia il compito di indottrinare migliaia di studenti ignoranti di sapere e desiderosi di ottenere il pezzo di carta più che la conoscenza. Il baronato è solo una piccola parte di questo macchina fabbricatrice di laureati in serie che pensano nello stesso modo, sempre pronti a indignarsi per un sistema che nessuno ha mai voluto cambiare sapendo di doverlo cambiare, solo perché in fondo, hanno capito il meccanismo, e vogliono entrare a farne parte anche loro.

 

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/cartucce/i-baroni-e-i-dormiglioni/

Terremoto: 268 vittime. Renzi lancia “Casa Italia”

La terra continua a tremare ad Amatrice e il bilancio delle vittime del terremoto è salito a 268 morti. Una nuova forte scossa di magnitudo 4.8 è stata registrata nella zona di Rieti all’alba di stamane. Le scosse di terremoto sono state ben 928, 57 solo dalla mezzanotte di oggi.

In seguito alla forte scossa di stamattina è stato chiuso il Ponte a Tre Occhi sulla strada regionale 260, importante via di accesso ad Amatrice. I militari stanno lavorando per creare un ‘bypass’ che consenta di superarlo e raggiungere Amatrice lungo la strada regionale 260. Il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi,  lancia l’allarme dell’isolamento per la sua città: “Devo garantire l’accesso ai mezzi di soccorso, perché siamo isolati e non ci stanno più le strade. La gente deve sapere che ha i servizi e si deve registrare. Sono state allestite le tendopoli; per questioni di sicurezza e per una migliore assistenza vi invitiamo a raggiungere queste aree”, ha affermato più volte durante diversi collegamenti televisivi. Sono 2.100 le persone che hanno beneficiato dell’assistenza allestita nei comuni coinvolti, 238 vite salvate dalle macerie. Alla macchina dei soccorsi che sta funzionando alla perfezione, si unisce quella della solidarietà, di cui, ancora una volta, in questi tragici casi, l’Italia dimostra essere campione. Italia che dovrebbe lasciare per un attimo le polemiche e stringersi, piaccia o no, intorno al premier Matteo Renzi che ha lanciato il piano “Casa Italia”, un progetto per l’affermazione della cultura della prevenzione, che manca all’Italia da più di 70 anni. Si spera che stavolta sia la volta buona.

Terremoto centro Italia, Renzi: No alle New Town

Il Consiglio dei Ministri ha infatti dichiarato lo stato d’emergenza, e deliberato un primo stanziamento di 50 milioni di euro, che saranno coordinati dalla Protezione Civile, per il terremoto in Lazio, Marche e Umbria; è stato firmato anche “il blocco delle tasse” da parte del ministro Padoan, per i cittadini dei territori colpiti. “La priorità è assicurare agli sfollati un posto dove dormire e permettere loro il prima possibile di abbandonare le tende, gestire nel rispetto del territorio la possibilità per queste persone di restare vicino alle proprie radici, che è una priorità, anzi è un loro diritto”. Sono state queste le parole del capo del governo durante la Conferenza dei ministri di ieri a Palazzo Chigi.

La buona notizia che è emersa dalla Conferenza di ieri è stata inoltre l’esclusione delle New Town, esperimento fallito a L’Aquila, senza dimenticare che con i soldi impiegati per far fronte ai danni dei terremoti (certamente 50 milioni di euro rappresentano un punto di inizio), si sarebbe potuta mettere in sicurezza la maggioranza dei fabbricati che hanno dei problemi, e si sarebbero potute evitare anche questa strage. E a tal proposito non è solamente triste, ma oltremodo indegno e cinico sentire, a due giorni dalla tragedia, il ministro Delrio nella trasmissione “Porta a Porta”dire che adesso “L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa come l’Emilia, che è  anch’essa un grandissimo cantiere in crescita, e farà PIL” e il conduttore Vespa che ciò porterà molto lavoro. Le vite umane vengono prima dell’economia e il lavoro lo si poteva dare prima, attraverso la prevenzione, mettendo al sicuro il nostro Paese.

Ma c’è anche un altro aspetto di cui bisogna tener conto: anche nelle soluzioni emergenziali realative ai disastri ambientali naturali e per quelle ad impronta umana la sovranità nazionale è condizionata dalle regole imposte dall’Unione Europea, nonché la perversa macchina burocratica. Bisogna dunque farsene una ragione e sottostare ai diktat europei oppure rompere gli indugi e ribellarsi una buona volta ai patti unitari europei per la salvaguardia e il benessere del popolo italiano? Purtroppo il sogno di sentirsi ed essere cittadini europei fa a pugni con la cruda realtà.

Terremoto centro Italia, più di 100 le vittime. Dolore e rabbia

Terremoto nel centro Italia. L’Italia è tornata a tremare la scorsa notte. La scossa è avvenuta alle 3,36, con epicentro tra Lazio e Abruzzo e lo sciame sismico si è propagato fino in Campania. Rasa al suolo Arquata con la sua frazione di Pescara del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, cumuli di macerie ad Amatrice e Accumoli in provincia di Rieti. Almeno 100 morti e centinaia di feriti, tra cui molti bambini (la più piccola vittima del terremoto aveva solo 8 mesi); numeri destinati ad aumentare, purtroppo. Il sismologo Boschi avverte: “Forte rischio di una seconda forte scossa nell’area, che è di massima pericolosità”.

Una scossa di magnitudo 6.0 è stata registrata alle 3.36 con epicentro proprio vicino Accumoli, e con ipocentro a soli 4 chilometri di profondità. Una seconda scossa di magnitudo 5.4 è stata registrata alle 4.33 con epicentro tra Norcia (Perugia), già colpita dal sisma del 1979 e che non ha registrato danni significativi, vista la sua messa in sicurezza in seguito al terremoto, e Castelsantangelo sul Nera (Macerata). Non osiamo nemmeno immaginare i drammatici momenti che stanno vivendo le persone delle zone coinvolte in questo momento e come per i più recenti sismi che colpirono Abruzzo ed Emilia Romagna, anche per questa ennesima tragedia, monta, inevitabilmente, la polemica politica. Il cordoglio e il dolore per le vittime si confondono con la rabbia e l’indignazione per come in Italia non si faccia prevenzione e si costruisca bene solo dopo terremoti gravi e in previsione di sciacallaggi e speculazioni.

Terremoto nel centro Italia: l’ennesima tragedia

L’ennesima tragedia che ci ricorda quali sono le priorità quando si redige il bilancio dello Stato; stando ben attenti a non usare il dolore per le vittime come pretesto per silenziare chi legittimamente chiede più spesa utile, magari per un vero piano per l’edilizia, in crisi sempre più nera, e meno bonus, assistenzialismi e opere inutili o comunque non urgenti per il proprio Paese, da sempre a rischio sismico. La rabbia in questi casi che hanno avuto molti precedenti, è l’altra faccia del dolore: se le tragedie della natura non sono del tutto dominabili o prevedibili, i loro effetti possono essere attutiti, tenendo conto di cose che si conoscono e i nostri sismologi sanno benissimo quali zone d’Italia sono a maggior rischio terremoto.

Tuttavia lo Stato dà già un forte contributo a chi adegua le strutture della propria casa in zona sismica 1 e 2: il 65% di detrazione fiscale in 10 anni su un massimo di spesa di oltre 90.000 euro per unità abitativa, ma non basta. E allora si entra anche nel privato, che spesso e volentieri si disinteressa della questione o non può permettersi un’abitazione anti-sismica. Ad ogni modo con la nuova normativa, ogni comune italiano ha la propria accelerazione massima in sito prodotta dal terremoto. E a seconda della classe di utilizzo dell’opera si stabilisce il tempo di ritorno del terremoto. Con tecniche adeguate si può andare a lavorare anche su edifici di struttura medievale, ristruttrando fondamenta ed interni, sebbene tale operazione che porterebbe molto lavoro, non sia certamente semplice e di breve durata date la ricchezza e la complessità del nostro patrimonio storico-artistico, e soprattutto non molto conveniente dal punto di vista elettorale. In Giappone, Paese molto più a rischio dell’Italia, ciò che colpisce e’ proprio il trattamento antisimico applicato anche agli edifici storici esistenti. Naturalmente puo’ capitare il sisma devastante come quello recentissimo di Kumamoto, ma che non può essere paragonato come intensita’ (7.3 gradi Richter), a quello avvenuto la scorsa notte nel centro Italia.

Non è il terremoto, che peraltro se non avvenisse vivremmo su un deserto, che uccide ma il tetto, il muro di un’abitazione non anti-sismica, che ci crolla addosso e non bisogna mai dimenticare che l’italia si è formata dalla compressione della placca africana contro quella euroasiatica e il processo non é terminato.

Il cane ai tempi dell’umanizzazione

Umanizzazione degli animali- Tre giorni fa, nel catanese un bambino di diciotto mesi è morto azzannato da uno dei Dogo argentini di famiglia e l’opinione pubblica continua a dividersi. Risulta sempre particolarmente interessante leggere i commenti degli utenti dei social network sotto gli articoli postati dalle principali testate giornalistiche. Nella maggior parte dei casi, emergono (almeno) due posizioni che non dialogano affatto tra di loro, bensì si polarizzano e procedono su binari paralleli. D’altronde, ogni singolo commento sembra un monologo, un contributo a sé stante. Il confronto è ben altra cosa.

Nel caso del povero bambino, almeno inizialmente i due binari paralleli si sono diretti rispettivamente verso il processo alla mamma, con annesse giustificazione e comprensione del comportamento del cane, e il processo al cane, con annesse invettive contro i cani in generale. Da una parte, quindi: “La mamma deve essere arrestata per negligenza”, “La mamma deve essere arrestata per maltrattamento di animali”, “I due cani era tenuti in pessime condizioni”, “Se il cane ha azzannato il bambino, un motivo ci sarà”, “I cani, se bene integrati nella famiglia, non azzannano”, “I cani non sono mai aggressivi”. Dall’altra parte: “Certe razze andrebbero abbattute”, “I cani sono sempre aggressivi”, “I cani non possono stare in famiglia”, “Adesso abbattete quei cani!”, e simili. Solo timidamente e faticosamente si è fatta strada qualche ipotesi più articolata, qualche visione più complessa, e il tenore generale dei commenti, sulla scia degli articoli proposti dai media, con il passare delle ore si è leggermente modificato, lasciando spazio (anche) a letture di tipo diverso.

C’è un aspetto in particolare, delle due agguerrite posizioni originarie, che colpisce, oltre alla certezza inoppugnabile con cui sono state portate avanti e alla consultazione di fonti non verificabili, caratteristiche distintive delle piazze virtuali. Un aspetto che accomuna sia chi si scaglia contro gli umani che non sanno educare adeguatamente i propri cani, sia chi sembrerebbe volersi vendicare dei cani “assassini”, ovvero l’umanizzazione sempre più massiccia del mondo animale.

Sia che si tratti di voler comprendere a ogni costo un comportamento animale, sia che si tratti di voler punire un cane per “dargli una lezione”, ciò che sembra spuntare tra le righe è l’attribuzione all’animale, soprattutto se domestico, di intenzioni, reazioni, sentimenti umani. In poche parole, è sempre l’uomo con i suoi criteri, i suoi filtri, la sua ottica, a inquadrare, classificare, categorizzare un cane, un gatto, persino una tartaruga o un coniglio, anche quando è convinto di dar voce alla natura, di lasciarla esprimere.

La natura (sbagliata) che attribuiamo agli animali

Ma è davvero in questo modo che si dà voce alla natura? Al di là di qualsiasi tipo di giudizio o pregiudizio, è abbastanza evidente che in questi anni si stiano ponendo le basi per una riflessione molto interessante, che episodi di cronaca di questo genere non fanno che rendere più urgente. Quanto dietro questo bisogno di rendere familiari anche gli animali più difficilmente addomesticabili si nasconda, in realtà, il sempreverde antropocentrismo, lo stesso che gli animalisti si prefiggono di combattere?

Gli addestratori comportamentali, gli psicologi canini, i vestiti per cani e gatti, le affermazioni sempre più diffuse come “il mio cane è come un figlio”, e altro ancora. Tutto ciò non rischia di schiacciare l’animale, solitamente il cane, entro categorie affettive che sono soltanto umane? Non è anche questa una forma di specismo, seppure blanda e mascherata?

Sempre più frequentemente, capita di ascoltare o leggere affermazioni assolutistiche su quanto gli animali siano in grado di dare amore e sollievo più degli esseri umani, sull’altruismo che riescono a dimostrare a differenza delle persone, su quanto nelle nostre relazioni e nei nostri affetti avremmo da imparare dai nostri amici a quattro zampe. O capita di assistere a una scissione totale operata tra distruttività e amorevolezza, con la prima che apparterebbe solo e soltanto all’umanità, che di conseguenza meriterebbe di scomparire, e la seconda che sarebbe appannaggio esclusivo del mondo animale. O, ancora, ci si imbatte in racconti e descrizioni di relazioni uomo-cane in cui l’animale appare come colui che ha riempito una frustrazione o un vuoto tutto umano, quindi come qualcuno su cui riversare aspettative immancabilmente umane.

È noto quanto l’affetto di un cane sia terapeutico, quanto il suo attaccamento sia commovente, quanto il suo contatto fisico faccia bene allo spirito, quanto sia difficile separarsi da lui. A volte viene, però, il sospetto che si stia andando oltre, che ci si aspetti dagli animali domestici, e persino non domestici, qualcosa che bisognerebbe richiedere a se stessi e ai propri simili, e che si proietti su di loro tutta la gamma dei sentimenti umani e delle motivazioni umane, dimenticando e ingabbiando quella che è la loro natura, in ogni caso diversa dalla nostra.

Che fine fa la natura di un cane quando lo trattiamo come un bambino? O quando lo addestriamo affinché sia più gestibile in un piccolo appartamento di città? O quando lo facciamo “sedere” a tavola, lo vestiamo, festeggiamo il suo compleanno, lo additiamo ai nostri figli come un fratellino? Non prevale, ancora una volta, un bisogno tutto umano di ricevere amore e considerazione? Non gli stiamo attribuendo un ruolo che non ha scelto?

Un cane non è un uomo, un bambino, un figlio. Un cane non può subire un processo di umanizzazione. La sua natura, la sua diversità, i suoi istinti, il suo carattere, andrebbero visti e riconosciuti. La relazione che ci permette di sperimentare con lui, così gratificante e unica, andrebbe considerata in ogni caso come un qualcosa di diverso dalle relazioni che abbiamo con familiari, partner e amici, di non assimilabile a quelle. Il rischio dell’umanizzazione è quello di non rispettare la natura dell’animale, di sottovalutare – in alcuni casi – una pericolosità, di non prendersi carico di un proprio bisogno relazionale.

No, un cane non è un figlio. E alla mamma di Mascalucia, a cui è toccato il dolore più grande, vanno soltanto tanto calore e tanto sostegno.

 

 

 

Augias e i boccoli di Fortuna

Fortuna era una bambina di sei anni. E’ morta il 24 giugno di due anni fa, caduta o spinta dall’8° piano del palazzo in cui viveva, a Caivano (NA). Una bambina in un ambiente degradato, abbandonato a sé di cui ci si ricorda mestamente in circostanze come questa. Ancora prima del tragico vagito, ha subìto delle violenze ripetute e che sarebbero premeditate con indicibile macchinazione. Secondo gli inquirenti, il presunto pedofilo, Raimondo Caputo, avrebbe pure avuto l’appoggio della madre e della compagna, anche lei arrestata. Bastava questo.

Tuttavia, durante la trasmissione “Di Martedì” (La7) dello scorso 3 maggio, il giornalista Corrado Augias intervistato dal conduttore Giovanni Floris sul tragico fatto, ha detto la sua, elargendo la sindrome di una sorta di ateismo delle parole, lanciate senza molta assennatezza (con elucubrazioni da intellettualoide), senza risparmiarsi dal fornire una propria personale parentesi, di cui avremmo volentieri fatto a meno, sull’atteggiamento, il trucco e l’acconciatura boccolosa della vittima ritratta in una fotografia. Secondo Augias nello scatto Fortuna “con quei boccoli”, quei vestiti e una postura da 16enne, sollecita “uno stridore” che il giornalista riconducerebbe alla mancanza della madre di un punto di riferimento culturale, di conseguenza di una mancanza di stabilità spirituale per la bambina. Lo stridore andrebbe collegato con la fede cristiana incarnata dalla statuetta di Padre Pio apparso in un intervento della mamma di Fortuna. Augias nelle dichiarazioni ad Huffpost delle ultime ore ha chiarito anche la sua avvisaglia di una perdita del senso del sacro radicata nel contesto famiglia-condominio. In poche parole, una madre che veste e tratta la figlia come una adolescente (oggettivamente non deducibile dalla foto), ha perso l’orientamento, non avrebbe educato la figlia a preservare la purezza dell’infanzia. Ma Augias, in che mondo vive? Non ha mai visto una bambina adornata perché imita la mamma, le amiche o la zia? E che colpa avrebbe, quella di avere indossato un leggero lucidalabbra o un pantaloncino troppo corto? E’ pur vero che oggi il consumismo coglie le sue prede nei minori. Allora, in quel caso si dovrebbe attribuire la colpa della sessualizzazione delle bambine nella martellante campagna pubblicitaria delle grandi case di moda che propongono piccole indossatrici a 6/7 anni. L’età di Fortuna. Ma un adulto non dovrebbe avere capacità di discernimento, maturità e capire che anche acconciata da ragazza adolescente, è sempre una bambina? E’ un po’ come dire che le donne vengono violentate perché provocano con i loro abiti succinti. E i bambini poi? Ci sono anche dei bambini maschi vittime degli adulti, e dalle foto mostrate in TV non sembra affatto che si atteggiassero a machi. Probabilmente Augias non è bene informato.

Fortuna Loffredo: una bambina non una ragazzina

Non si può giustificare nessun abuso sulle bambine e sui bambini, che nasca in un ambiente degradato o meno. La violenza contro i minori è un crimine contro l’umanità, ricamarci sopra riflessioni su riflessioni estenuante e inconcludente.
Ora, di certo Augias non intendeva immolare la foto al presunto pedofilo come prova di una civetteria colpevole della bimba, o santificare l’orco, al contrario. Solo che a volte non serve sviscerare, analizzare, su questioni che sono un’ignominia di per sé. A volte sarebbe preferibile mettere un punto, almeno di sospensione, tra la presunzione di decenza e l’accettabilità di una congettura “sociologica”, antropologica , eccetera eccetera. E anche se fosse, anche Fortuna si atteggiava a ragazza di 16 anni (come tutte le coetanee), cosa vuol dire? Avremmo dovuto presagire perché era troppo bella e “agghindata”? Sarebbe come dire che un colpevole si riconosce dall’esteriorità dei suoi comportamenti. Allora i bambini, e non solo le bambine, dovrebbero essere protette ogni giorno: nei parchi, nei quartieri in e out, e nelle case. I pedofili non portano tunica o blasone di riconoscimento, per echeggiare “l’abito non fa il monaco” così come le vittime. Agghindate o meno, sono vittime innocenti. Anche di una società che non si ricorda che all’adulto per proteggere i bambini non occorrono filosofeggiamenti astratti sulla loro natura di essere fragile, ma riconoscere i propri errori. La società degli adulti si sta dimenticando di nuovo, (non a caso sono stati proprio i bambini a buttare giù il muro di omertà e del silenzio degli adulti, raccontando la verità), che un bimbo non va usato (e l’elenco di questi abusi anche morali è lungo, la pedofilia è la punta triste dell’iceberg), ma rispettato nel suo evolversi creatura autonoma e libera. E non basta la famiglia. E’ la società che deve crescere, recuperando valori sacri come l’infanzia; per citare Dietrich Bonhoeffer: <<Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini>>. Ma questa società di senso morale e di protezione verso i bambini ne ha perso le tracce, si è disintegrata. E ci si mettono anche gli pseudo intellettuali con i loro modi e tempi sbagliati.

 

Omicidio Varani, quando si sceglie il male

Roma è scossa per l’omicidio Varani. Brutali e vacui, gli usurpatori, assassini di un ragazzo fragile, di nome Luca Varani. La parola assassini non basta, ed è difficile trovarne un’altra che renda l’idea di quanto sangue, quanto dolore trasuda e si cosparge sugli osservatori immobili di un becero teatro degli orrori. Quello architettato anche con cura da giovani che, in una notte da sbadigli troppo grossi per ricchi, hanno deciso che si può uccidere tanto perché la coca ce l’ha detto, o chissà quale voce ci dice che si può fare. Luca Varani, 23 anni, già non c’è più. Restano solo poche fotografie, qualche video, e il messaggio perlato di lacrime della fidanzata distrutta dal dolore. Il ragazzo è stato ucciso dai coetanei Marco Prato, l’amico infame, e il conoscente trascinatore: Manuel Foffo. L’omicidio, di impronunciabile crudeltà, è innanzitutto senza movente. E resta un esempio di abominio di cui, inarrestabile, è capace la natura dell’individuo, sollecitato a stare in bilico tra umano e inumano. Se si volge lo sguardo al passato, si potrà constatare che casi come questi, di omicidi sanguinosi, vili in cui si impone la regola del dominio del killer sul più debole, di grado inferiore per età, genere, condizioni economiche o gusti sessuali, sono frequenti, anche se in numero ridotto. Diverso paese, situazione analoga.

Omicidio Varani: uccidere per vedere cosa si prova

Nel 2009 Alyssa Bustamante, 15 anni, strangola Elisabeth Olten una ragazzina più giovane (9 anni) per poi dichiarare, a distanza di due anni dal tragico fatto, che all’epoca la piena consapevolezza nel commettere un gesto irreparabile nato con intenzionalità. L’unica motivazione che l’aveva spinta a strangolare la piccola vittima era il desiderio incontrollabile di mettere alla prova le proprie emozioni. In parola povere, per “vedere cosa si prova ad uccidere”, come fosse un giro sulle montagne russe. Perché non provare? Lo stesso afferma oggi Marco, uno dei due colpevoli dell’omicidio di Luca. Il giovane ignaro delle intenzioni dei compagni, sale dai due che lo aspettano, avidi, bramosi, con gli occhi grandi e vitrei, automi, tossicodipendenti. Venerano il nulla, l’infimo, l’accecata spinta di braccia deficienti. Cosa è rimasto nel petto di questi colpevoli? C’è ancora qualche residuo di sentimento? Non per gli altri, quello l’ha preso la droga, o la vanità del posso tutto a vent’anni. Dov’è andato a finire l’amor proprio? La pietà per un coetaneo non è uguale alla tenerezza per la propria stessa, preziosa esistenza? Si è persa anche quella, tra un festino e una caccia alla preda, non interessa se tra uomini, etero o gay, non ha importanza. Luca varani 23 anni, preso di mira, forse era debole e pieno di sbagli, il più fragile tra i suoi coetanei, una vita che pulsava. E’ stato attirato con inganno nella casa di Foffo, poi torturato, seviziato con martellate e colpito al cuore con un coltello da cucina. Stando alle ultime indiscrezioni e dichiarazioni, Luca non assumeva stupefacenti. Non importa, che fosse etero o meno, che si prostituisse per racimolare due soldi in più, che avesse scelto una strada sbagliata, ma la dignità, chi potrà restituirgliela? Quanto male c’era nelle mani assuefatte dei due assassini? Si può essere incapaci di intendere e volere, intendere che un male atroce come questo non conosce neppure un pizzico di innocenza, né sgravi o giustificazioni? Bisogna sempre passare il limite, per riconoscerlo? Se non si rinviene una ragione, una logica all’omicidio alla trasgressione della vita contro la vita, si può parlare di Male puro, scelto deliberatamente, dato che i due assassini cercavano da giorni un bersaglio umano da seviziare sotto l’effetto disinibitorio della cocaina e dell’alcol, che non possono e non devono costituire delle attenuanti. Purtroppo anche l’opinione pubblica tende ad usare la pschiatria come un tappabuchi, dimenticandosi che esiste la malvagità e che il mondo non si divide in buoni, timorati di Dio e in folli, incapaci di intendere e di volere. Ma dove nasce questo male?

Omicidio Varani, esiste davvero il gene del male?

La scienza, anche se non all’unanimità, dice che sì, il male è presente nei geni. O meglio, si parlerebbe dell’esistenza di un cromosoma del male che provoca reazioni o azioni esasperate, violente, ingestibili? Questo dato allarmante è figlio di un’indagine condotta sui soggetti responsabili d numerose e reiterate azioni criminali a danno di cose o persone. Molti autori di delitti di straordinaria violenta detengono il cromosoma soprannumerario (tra i più celebri ci sarebbe Adolf Hitler) ovvero il risultato cromosomico di XYY. Questi soggetti sono di solito di un’intelligenza limitata, al di sotto della media, fisicamente longilinei ma robusti e con una marcata tendenza a compiere atti aggressivi quando non mortali. Spesso però questo dato non è stato confortante, nel senso che ha spinto ad avvalorare la non imputabilità dei soggetti in questione, non condannati a pene severe perché affetti da psicosi e disturbi mentali. Per fare un esempio, essi avendo una bassa soglia di resistenza a stress o situazioni di dolore o malattia, manifesteranno l’insofferenza scagliandosi su oggetti e cose intorno a loro, ma non sulle persone. Per questo motivo non si può parlare con certezza del legame ereditario con le azioni di un criminale seriale o recidivo, ma non si può escludere questa equivalenza tra genetica e comportamento. Nel 1931 si analizzava già il cervello del Vampiro di Dusseldorf, i risultati poi non resi noti. Invece nel New Messico Kent Kiehl, neuroscienziato, ha effettuato analisi dei cervelli di quei detenuti ritenuti psicopatici in ben otto prigioni. La ricerca condotta da Kiehl avrebbe dimostrato che i killer più violenti hanno un grado piuttosto basso di densità nel paralimbico, ovvero la “zona” che regola e sviluppa le nostre emozioni. In tali soggetti quindi non ci sarebbe un vuoto, una mancanza di sensi di colpa o emozionalità negative legate ad una correlata precedente azione criminale. Sarebbero in parole povere, privi di senso di colpa o remore, e agirebbero guidati solo dal loro istinto. Gli studi del neuroscienziato sono stati criticati da chi sostiene invece che non esiste una comune causa cerebrale che motiverebbe comportamenti di assassini o aggressori. Ma anche se fosse, si può giustificare uno psicopatico e “perdonare” una becera esecuzione, lenta e dolorosa, come quella toccata a Luca Varani? No, non è mai possibile arrivare a tanto, chiamandola follia. Può darsi che ci sia una deficienza di morale, mentale e spirituale che sfugge alla comprensione dei più. La mancanza dei due ragazzi, è probabile che stia in una condotta assunta come valida e unica, materialistica e asociale che schiavizza. Questa fustiga  l’uomo e lo riduce a servo della sostanza, dell’oggetto dei desideri – si può morire per la coca, ma non si muore per un amico, al contrario – che diventa così, il padrone di ogni arbitrio, responsabile di ogni mancanza di ideale, obiettivo, scopo che non sia quello dello sballo.

Si può arrivare a tanto? Spingersi fino al punto di dimenticare che la vita non è una privilegio, ma la possibilità di partecipare ad un capolavoro esclusivo, con un potere dell’uomo di essere altrettanto determinante per l’umanità? Il poter di costruire si è mestamente capovolto nel suo male estremo: se ho un potere di fare del bene, perché non si può agire in modo che il male sia opera mia, e godere di questo?  Le parole non servono, e sono troppo poche per esprimere lo choc dei media e dei lettori dinnanzi ad una nuova forma di violata innocenza, di mancanza assoluta e indiscriminata di raziocinio, oltre che di moralità. Cosa  può spingere un ventenne, sì sotto effetto di stupefacenti, a togliere brutalmente la vita ad un coetaneo? Per cercare una risposta ci richiamiamo a tre occhi: filosofia, teologia e letteratura. Albert Camus parla dell’omicidio nei suoi scritti saggistici: in particolare dell’omicidio nichilista. Il nichilismo assoluto infatti, come di deduce dall’etimologia del primo termine, legittima che un uomo tolga la vita ad un altro uomo perché in esso si va a confondere l’azione creatrice con quella delle creature viventi. Per farla breve, il pensiero nichilista non profonde nessuna speranza nel prossimo, e perciò se non esiste speranza viene a mancare ogni limite da essa. L’umano è accecato, o non vede o scorge troppo, straborda la propria percepibile indignazione, non riesce a cogliere al contrario la ragione. Ne consegue, perciò, che uccidere un altro simile, il quale dalla nascita è di per sé creatura mortale, destinata a morire,  sia un fatto inconsistente, indifferente. La mancanza totale di coinvolgimento all’atto di togliere, tagliare in due, spezzare la vita di un altro essere umano e attribuire al proprio io quell’iniziativa di dare la morte, chiarisce come l’uomo contemporaneo sia cambiato. Gli antichi, difatti, riconoscevano almeno che “il sangue dell’omicidio provocava almeno un orrore sacro: santificava così il prezzo della vita”, (Rivolta e Omicidio, Opere, Albert Camus). Se un uomo, valoroso o meno, si arrischiava a uccidere un altro, quell’azione assumeva un valore riferito alla causa, al motivo scatenante, che fosse un amore, un torto subito o una vendetta, non importa. Ma l’omicidio aveva un germe, e per questo sacrilego. Sempre in Camus, si riflette sull’idea dell’omicidio in Sade: secondo questi poiché Dio è una divinità criminale che sopprime l’uomo , questo è riscontrabile proprio nelle religioni, foriere di spargimenti di sangue e persecuzioni. Allora, in un scontato sillogismo, se Dio uccide l’uomo e può farlo, perché non può l’uomo uccidere se stesso e i suoi simili? Questi spunti sono fondamentali per avviare una riflessione, ardua ma doverosa, sul caso di Luca. L’assassino contemporaneo, che sgozza, strangola, infierisce sulla vittima e stupra, flagella, dispensa prodigali colpi sul corpo inerme e non si fa schifo di se stessa, la mano di questo assassino rinvia al Satana di Vigny (bello a guardarsi), a quelle parole caustiche, precise, come lame: lì scompare la distinzione tra bene e male, non la si riconosce proprio: “non può sentire male né beneficio. E’ persino senza gioia davanti alle sventure che ha create”. Chiamarla sventura sarebbe un generoso eufemismo, ma è chiaro che nell’azione dei due colpevoli c’è il male, che non è oscuro, si faccia attenzione ma ha una luce che acceca, luciferina forse, si capisce. Dietro al fatto che l’avvocato sottolinea che i due “erano incapaci di intendere e di volere” sta la nuova mercanzia della cattiveria.

Una vita, per centoventi euro. Ma qui il prezzo dello scambio è molto più alto: una morte (quella di Luca, fisica) per una morte ( quella dei colpevoli, interiore). Chi agisce per vacuità, perché l’orrendo, l’infimo, il male non ha strade dritte ma provoca piacere, fa sentire vivi uccidere , recidere quel filo, avvampa il petto si gonfia ma la droga non può essere l’unica scusante. Anche nel Medioevo, nell’iconografia, all’immagine di Lucifero bestia cornuta si sovrappone in definitiva quella di Vigny, il diavolo con il viso giovane ma triste e colmo di avvenenza, cita Camus sempre nell’Uomo in rivolta.  Si potrebbe ipotizzare che il dandy si stia riproducendo nella nuova generazione: autoreferenziale quando non atona, meschina ed egotista, accerchiata dal materialismo, non vede più l’essenza, così tra bene e male non sa perché dovrebbe scegliere il primo. Manca perciò la coscienza di cosa fare e cosa non fare, tutto è relativo, nulla inviolabile. Anche la vita è la libertà di una vita al respiro è discutibile, attaccabile e la si può incrinare.  Gli assassini di Luca sono come dei dandy, ma senza fascino. Il dandy si specchia nell’altro, e nell’altro trasferisce la sua euforia disforia. Così, uccidere e seviziare un coetaneo, potrebbe voler dire che non si ha a cuore nemmeno il proprio io, l’integrità, la volontà di opporsi all’oscuro. A vent’anni si può essere belli, forti e tutta la vita davanti. Per questo ha un senso atroce ma potentissimo: sciuparla, stritolarla e affondare con quella dell’altro, la propria; come scriveva Baudelaire: “ Vivere e morire davanti ad uno specchio”. Ma come mai un giovane vuol uccidere e vuol morire, assieme all’altro? Istigarsi alla morte, vivendo per ultimi lo stesso dramma. Ed è quello che poi è successo ad uno dei due colpevoli, che ha tentato il suicidio con i barbiturici, tratto in salvo per il rotto della cuffia. Perché oggi quel esasperato senso di possesso non fa che dare a chi è nel pieno della sua forza psicofisica una gamma di opzioni quasi infinita. La gabbia è sparita, il pettirosso non si sente imprigionato e né vola.

Il male, come il bene, è insito nella natura umana, qualcuno probabilmente darà la colpa ad Adamo ed Eva, al peccato originale; ma troppa libertà ci ha resi meno liberi, poco autodeterminati e di certo maliziosi. Se se puoi pretendere dall’esterno qualsiasi cosa tu voglia. Voglio bere-bevo, voglio farmi-mi faccio, voglio infrangere le regole della decenza, del buon senso, lo farò solo per il gusto di averlo fatto. Aboliti i tabù, inabissate la rara compiutezza della classica trasgressione da fuga d’amore, nulla eccita una mente isolata e asservita ai beni (che bene non procurano) senza i quali la sua individualità non trova posto, o senso nelle sue azioni. che non sa riconoscersi più, non sa cos’è la virtù. Nulla eccita più del fuoco fatuo della malizia. E’un falò che distrugge, senza fertilità la terra dove abiteranno le nuove generazioni è arida. Solitudine e vuoto, questa è la più profonda condanna di due colpevoli privi di rimorso. L’anima non l’avranno indietro, e forse è meglio così La letteratura, anche quando insignita del suggello filosofico, non può darci una certezza. E Raymond Carver direbbe: “dannato”, senza altri appellativi. E adesso, davanti agli inquirenti, i colpevoli si rimpiccioliscono pure davanti al mea culpa, gettandosi fango a vicenda, appallottolandoselo addosso, bevilo tutto sto fango. Chi dice che è stato l’altro a colpire mortalmente Luca e in questa corsa al io sono innocente, non resta che l’oscuro presagio di morte. La coppia prima ha premeditato il fattaccio, poi lo ha organizzato e infine si sta pulendo le mani nella latrina. Puzza di oscuro, e fa male dirsi umani se si può arrivare a produrre tanta melma immonda. Ma loro a cosa pensano: a coprire l’inganno, con l’inganno. E non c’è peggio del male coperto.

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