“Due vite” di Emanuele Trevi vince lo Strega 2021. Un vero romanzo che è un atto di fede verso l’amicizia e uno strappo alla regola

Finalmente vince un romanzo vero. Alla proclamazione del vincitore la conduttrice ha avuto timore di pronunciare la casa editrice che ha avuto il merito di pubblicare Due Vite di Emanuele Trevi, ovvero Neri Pozza, e ha menzionato la più rassicurante Einaudi.

Due vite è molto di più, e molto meglio, di quelli che minacciano di essere un romanzo. Non è questione di esercitare a tutti i costi il ruolo del bastian contrario, che in un Paese vocato al pascolo come questo causa pur sempre molti disagi. Si tratta piuttosto di saper individuare e riconoscere, nel libro di Emanuele Trevi, un’armonia antica e non esibita, un talento indiscutibile ma non ingombrante, una pazienza pesata come l’oro, una grazia presente ma non ossessiva, un equilibrio non pedagogico e una spettinatura calva: prerogative involontarie dei grandi libri.

Due vite: trama e contenuti

La sinossi del libro: Rocco Carbone nasce a Reggio Calabria nel febbraio del 1962, ma una buona parte della sua infanzia la trascorre in un piccolo paese dell’Aspromonte, Cosoleto: un posto di gente dura, taciturna, incline a una rigorosa amarezza di vedute sulla vita e sulla morte. Emanuele Trevi lo conosce nell’inverno del 1983, quando è arrivato a Roma da poco tempo e si è iscritto a Lettere.

Parlare della vita di Rocco, per Trevi, significa necessariamente parlare della sua infelicità, ammettere che faceva parte di quella schiera predestinata dei nati sotto Saturno, tratteggiarne la personalità bipolare e a tratti sadica, il carattere spigoloso, la natura lucida e sintetica dell’opera. Pia Pera cresce a Lucca in una famiglia colta, originale ed eccentrica. Poco più che adolescente lascia la città toscana e studia Filosofia all’università di Torino.

Dopo un dottorato in storia russa alla University of London inizia a insegnare letteratura russa all’Università di Trento, ma poi, delusa dall’ambiente, lascia perdere ogni ambizione accademica e decide di occuparsi di un fondo abbandonato a San Lorenzo, dedicandosi alla cura del giardino.

Quando Trevi la incontra, Pia è una trentenne spavalda e maldestra, brillante, anticonformista e generosa. Ma già possiede quella leggerezza e quella grazia di chi, mentre la malattia costringe alla resistenza continua, sa correre sempre in avanti, verso l’altrove. Tratteggiando, con affetto, le vite dei due amici, Emanuele Trevi persegue una ricerca narrativa fondata sulla memoria e, al contempo, rende un sentito omaggio a due talentuosi scrittori italiani.

L’evocazione dei morti tramite una scrittura raffinata

Trevi evoca i defunti attraverso la scrittura. Una scrittura raffinata, ricca di metafore e termini dotti. E nel mondo che sa occuparsi solo dei vivi, nel tempo che va troppo di corsa per dare retta a chi si è fermato ad allacciarsi le scarpe, rappresenta un investimento, un incoraggiamento antistorico. Forse anche troppo coraggioso, per un Paese vile come il nostro.

Due vite offre l’occasione, all’Italia e probabilmente al mondo intero, di sapere chi erano, chi sono stati e chi continueranno a essere Rocco Carbone e Pia Pera. Due italiani, innanzi tutto due italiani. Lontani dalla media nazionale, ma proprio per questo due italiani che avevano fatto della normalità, della sobrietà e della loro trafficata solitudine il tratto distintivo di un’esistenza che è valsa la pena nutrire.

Due vite è stato scritto da uno scrittore autentico. Uno che t’incanti ad ascoltarlo, quelle rare volte che lo passano in tv. Uno che nel deserto del niente pianta le tende della ragione, del ragionamento. Uno privo dell’aureola, privo dei galloni che decretano la differenza tra fenomeno e artigiano. Uno che non ha mai anteposto la propria faccia ai propri libri, che non ha mai umiliato il proprio talento al necessario sacrificio di certe vetrine (sempre le stesse).

Emanuele Trevi

Emanuele Trevi è nato a Roma nel 1960. Scrittore e critico letterario, ha esordito come autore di narrativa con I cani del nulla (Einaudi, 2003) e ha pubblicato per la collana Contromano di Laterza Senza verso (2005) e L’onda del porto (2005). Il suo ultimo romanzo è Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010). Collabora con «la Repubblica», «il manifesto», «Il Messaggero» e «Il Foglio». È conduttore di programmi radiofonici per Rai Radio 3.

 

Fonte

Davide Grittani

‘Strega 2020’, vince come previsto, Il colibrì di Sandro Veronesi

L’avevamo lasciato con il suo inutile diario sul Covid, il fresco e annunciato vincitore del Premio Strega 2020, Sandro Veronesi, nonché con ben 47 articoli che il Corriere della Sera (quotidiano dove lo scrittore toscano collabora) ha dedicato al suo libro Il colibrì, storia che parla di amore, dolore e forza, dopo essersi lamentato della scalata alla classifica Amazon del libro Virus, del virologo Roberto Burioni, reso noto da quest’ultimo su Twitter. Veronesi che sbotta contro un libro quando del suo se n’è parlato abbondantemente unitamente al diario in tempo di quarantena, fa quantomeno ridere, sebbene la connaturale tendenza a rinfacciare agli altri i propri stessi limiti (ossessione per le classifiche, permalosia, narcisismo, bramosia di marketing) ormai, si sa, è ormai un assioma.

Sinossi del romanzo di Sandro Veronesi

Il colibrì è tra gli uccelli più piccoli al mondo; ha la capacità di rimanere quasi immobile, a mezz’aria, grazie a un frenetico e rapidissimo battito alare (dai 12 agli 80 battiti al secondo). La sua apparente immobilità è frutto piuttosto di un lavoro vorticoso, che gli consente anche, oltre alla stasi assoluta, prodezze di volo inimmaginabili per altri uccelli come volare all’indietro. Marco Carrera, il protagonista del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, è il colibrì. La sua è una vita di perdite e di dolore; il suo passato sembra trascinarlo sempre più a fondo come un mulinello d’acqua. Eppure Marco Carrera non precipita: il suo è un movimento frenetico per rimanere saldo, fermo e, anzi, risalire, capace di straordinarie acrobazie esistenziali. Il colibrì è un romanzo sul dolore e sulla forza struggente della vita, Marco Carrera è – come il Pietro Paladini di “Caos Calmo” – un personaggio talmente vivo e palpitante che è destinato a diventare compagno di viaggio nella vita del lettore. E, intorno a Marco Carrera, Veronesi costruisce un mondo intero, una galleria di personaggi, un’architettura romanzesca, che si muove tra i primi anni ’70 e il nostro futuro prossimo – nel quale, proprio grazie allo sforzo del colibrì, splenderà l’Uomo Nuovo.

Una vittoria annunciata

Ritroviamo così Sandro Veronesi, già vincitore dell’edizione del 2006, con Caos calmo, portato al successo dall’omonimo film di Nanni Moretti, con un libro che esalta ancora una volta, insieme a quasi tutti gli altri finalisti del concorso, la mediocrità e la prevedibilità di questa kermesse che pretende di stabilire dei criteri di valutazione intorno ad un oggetto culturale che per sua stessa natura è indecifrabile, nessuno può conoscere con certezza cosa decreti il successo o meno di un prodotto culturale, quale sia l’ingredienti vincente, soprattutto nel breve termine. Però (quasi) tutti vogliono vincere un premio e scrivono il loro romanzo a misura di onorificenza, supportato da qualche editor e frequentando salotto giusti, non di certo familiari a scrittori sconosciuti ai più ma infinitamente più bravi, perché antepongono il linguaggio alla tecnica, la frase che ti rapisce a quella letteratura seriale che ti gratifica e basta, ma non ti scuote, anche perché il lettore medio non vuole essere scosso più di tanto e al contempo sa persino che l’offerta è scadente. C’è bisogno di una letteratura vertiginosa e avvolgente, di scrittori e editori coraggiosi, non nostalgici, perché non si tratta di rimpiangere i vari Pasolini, Flaiano, Morante, Landolfi, Calvino, che ai tempi andati apparivano nella cinquina dei finalisti.

Il problema inoltre è anche nel romanzo, ma in un certo modo di dire ‘romanzo’: che deve apparire risolto in sé, maturo, compiuto, sempre pieno di buoni sentimenti, confortante, che si poggia sulla bontà dei temi, soprattutto se attuali e politicamente corretti. Sarebbe bello poter leggere di storie di una provincia oscura e segreta, del trascendente non in modo sdolcinato o superficiale, di rabbia, anche odio. Il libro di Veronesi parla di come si può sopravvivere al dolore perdendosi in una prosa altalenante, ora piatta ora enfatica per un finale esagerato, preceduto da lunghi elenchi tanto per riempire le pagine e scambio di lettere tra due personaggi che rendono la narrazione stagnante.

Il punto non è volere promuovere a tutti i costi come vorrebbero alcuni scrittori fuori da certi giri patinati, i quali si definiscono anti-borghesi e quindi contro a prescindere al Premio Strega, che vorrebbero romanzi solo di stampo naturalistico, scientifico, materialistico, contando solo sulla forma. Ma la forma e il contenuto dovrebbero coincidere e allora se uno scrittore pensa di scandalizzare e/o svegliare il lettore dal suo torpore, raccontando storie maledette senza via d’uscita con un linguaggio “biochimico”, perché secondo lui, ignorantemente, le scienze, il progresso e la tecnica hanno scalzato ogni residuo di filosofia e religione in cui rifugiarsi, in cui l’uomo stesso è ridotto ad essere una macchina, scagliandosi contro i perbenisti (che non si capisce mai chi sarebbero di preciso) e la Chiesa, dovrebbe sapere non c’è nulla di più borghese che scagliarsi contro categorie e istituzioni che sono state prese di mira in modo anche più intelligente in passato da chi invece possedeva cultura, senza raccontare troppe menzogne in merito al rapporto tra fede e scienza. E poi nella vita reale chi non vorrebbe mai una via d’uscita a meno che non si sia masochisti?! Anche i nichilisti depressi autori di libri altrettanto nichilisti (ma fighi secondo loro), per cui il contenuto non è poi tanto importante.

Insomma c’è chi si sbroda tra gli applausi della giura del Premio Strega, proponendo storie banali, e chi invece, invidiando chi vince lo Strega, ma argomentando a volte a ragione, straparla di abolizione del Premio Strega, perché giustamente un bel libro rimane un bel libro anche se non premiato.

Non si può tralasciare il curioso conflitto di interessi (chiedere agli antiberlusconiani con la bava alla bocca), per cui la casa editrice La Nave di Teseo che ha pubblicato Il colibrì, e della quale è socio lo stesso Sandro Veronesi, ha tra i fondatori Piergaetano Marchetti il quale oggi è Presidente della Fondazione Corriere della sera, il quotidiano  su cui sono usciti a oggi circa 50 articoli fra recensioni e segnalazioni del romanzo e che ha recentemente premiato Il colibrì “Libro dell’anno” del supplemento del Corriere della sera “La Lettura”.

Gli altri finalisti

Gli altri partecipanti allo Strega che si sono contesi l’ambito premio sono stati l’ex magistrato Gianrico Carofiglio con La misura del tempo, il quale ha intrapreso con Sandro Veronesi un duello fino alla fine, Valeria Parrella con Almarina, Daniele Mencarelli con Tutto chiede salvezza e Gian Arturo Ferrari con Ragazzo italiano, oltre all’interessante Febbre di Jonathan Bazzi, uscito nel 2019, libro che avrebbe potuto anche vincere per la qualità scrittoria che dimostra l’autore nel raccontare una storia di ricerca e di accettazione di se stessi, un dolore ineffabile, raggiungendo il punto zero dell’esistenza, e soprattutto non scontato a differenza del modo di narrare epidermico di Sandro Veronesi. Qualche parola va spesa anche per Ragazzo italiano, edito dalla Feltrinelli, storia di un figlio del dopoguerra, attraverso le durezze della prima rivoluzione industriale della provincia lombarda, fino al tramonto della civiltà rurale emiliana, e all’esplosione di vita della Milano riformista, il cui autore è anche un editore con un fiuto eccezionale per i libri (Mazzantini, Giordano, Ammaniti, etc..) che ha ceduto alla tentazione di concorrere con un proprio libro; da giudicante a partecipante, con una scrittura da editor impeccabile. Perfetto per il Premio Strega. E con tanto di sgarbo alla Mondadori rivale della Feltrinelli (la quale non partecipava allo Strega da anni), dove Ferrari ha lavorato per una vita. Ma una sua vittoria sarebbe stata troppo smaccata. Tutto come previsto, dunque.

 

Strega 2019: vince “M. il figlio del secolo’ di Scurati, romanzo tra anacronismi e sviste

Come era prevedibile il Premio Strega 2019 è andato a M. il figlio del secolo, saggio-romanzo presentato come il “non plus ultra” di romanzo storico estremamente ben documentato. In realtà l’opera di Scurati, in perfetta linea con lo spirito dei tempi, non è altro che un artificio letterario, in quanto i  rari “documenti” citati sono critici per supportare la veridicità di quanto scritto dall’autore, dando più che altro una nota di colore. Sin dall’inizio Mussolini viene fatto passare per un attendista insicuro, sulla scia della vecchia tesi dei socialisti per giustificare il passaggio del Duce all’interventismo ed è in sostanza ripresa anche dallo storico De Felice e Vivarelli nella sua monumentale opera “Storia delle origini del Fascismo”.

Dunque nulla di nuovo sul versante storiografico. Ma su come Mussolini sia diventato il Duce, nessun accenno. Possibile che Antonio Scurati, esaltatore del 25 aprile come mito sacrosanto della Repubblica, colui che rilascia interviste ogni giorno ai giornali, distinguendo un fascismo regressivo da un altro «più moderno e progressivo», non sappia che in quegli anni il sindaco era denominato podestà e sottoposto all’autorità governativa, ossia a Mussolini? Possibile che l’autore cada in un errore così grossolano da distinguere un fascismo «regressivo» e un altro «più moderno e progressivo»?

Per non parlare della presa di posizione da parte di Scurati sulla questione “Mussolini sifilitico”, in quanto assiduo frequentatore di bordelli, pettegolezzo che girava a Milano verso la fine degli anni dieci, giù esaminato da De Felice, il quale ha sempre escluso tale fatto. Insomma M. il figlio del secolo è un’opera che ritocca la realtà storica, sguazzando tra incongruenze e anacronismi, ma che tanto piace all’editoria e all’opinione pubblica nostrana.

Ma ragioniamo per un minuto sul valore del Premio Strega. A cosa serve? Prima consideriamo i contenuti e la provenienza dei partecipanti: almeno tre libri presenti coinvolgono un protagonista che gravita intorno all’editoria; altri tre parlano dell’emigrazione; il 75% tira in ballo psicodrammi familiari e getta luce sulle ombre del nostro Novecento.

Non ci dà il peso di quanto ancora sia di qualità e potente la letteratura italiana contemporanea, come pensa qualcuno. Letteratura e Italiana è un ossimoro che fa nostalgicamente pensare agli amanti della vera letteratura ai premi vinti da Flaiano, Buzzati, Bufalino, Cassola, Cardarelli, Pavese, Bontempelli, Ortese, Alvaro, La Capria, Arpino…

La verità è che il Premio Strega, come hanno ribadito più volte gli outsider del panorama letterario italiano come ad esempio Gian Paolo Serino, e altri scrittori degni di menzione, è solo un modo per vender qualche copia in più. Dal punto di vista stilistico, linguistico, il piatto piange. Non c’è una voce fuori dal coro. Assenti sofferenza, passione, tormenti, spigolosità, sangue, sperimentazione.

Magari in Italia ci fossero dei Cormac McCarthy, James Ellroy, Palahniuk, Pynchon, Don DeLillo, Don Winslow, Irvine Welsh, scrittori che non si piegano ai diktat dell’apparato industriale di un casa editrice. Sarebbe fantastico, ma purtroppo non accadrà perché oggi il pubblico medio dei lettori vuole pagine confortanti, politicamente corrette, che distillano cultura quel po’ che basta, non vogliono pagine che non li faccia dormire e svegliare con la testa piena di pensieri. I libri, per chi ha impostato la modalità mediocrità alla voce letture, sono un passatempo durante un viaggio o sulla tazza del water. E per tali esigenze ci sono gli scrittori paludati e plauditissimi del Premio Strega. Quelli validi, nati in patria, non sono abbastanza interconnessi con l’Olimpo dell’editoria italiana.

Non si può parlare sempre con retorica della nostra decadenza morale e civile se non ci occupiamo anche della decadenza culturale e letteraria. Tanto per cominciare potremmo smettere di raccontarci la favoletta dello scrittore tuttologo, intellettuale che dice la sua con una certa autocompiacenza e arroganza su ogni argomento trattato dallo scibile umano, senza però mai entrare in trincea.

Piantiamola di premiare l’ovvio, di celebrare il banale, cerchiamo nuove vie per la letteratura, diamo sfogo ai deliri creativi, guardiamo davvero in faccia alla Storia, che è cannibale e angelo al contempo, invece di tracannare liquore tra complimenti stantii e sorrisi bonari e svagati.

 

 

Premio Strega 2018: trionfa Helena Janeczek con ‘La Ragazza con la Leica’, romanzo disorganico che ha solo il merito di portare alla luce un personaggio sconosciuto

Il Ninfeo di Villa Giulia, ieri, 5 luglio, è stato lo sfondo della 72° edizione del Premio Strega 2018. Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con Le otto montagne e il gruppo storico Bellonci, fondatore e promotore dell’evento, hanno annunciato il vincitore del prestigioso premio letterario. La Giuria dopo sei scrutini, ha annunciato la classifica della cinquina finalista: Quinto posto  con 55 voti per Lia Levi con Questa sera è già domani (Edizione e/o); quarto posto  con un punteggio di  57 Carlo de Amicis, Il Gioco (Mondadori); terzo  posto  con 101 preferenze Sandra Petrignani  La corsara – Ritratto di Natalia Ginzburg  (Neri Pozza); secondo posto con 144 voti per Marco Balzano con Resto qui (Enaudi); primo posto per Helena Janeczek con La ragazza con la Leica (Guada).

Dopo 15 anni il Premio Strega 2018 ritorna nelle mani di una scrittrice donna e si tinge di rosa per ben due volte:  Lia Levi vince il Premio Strega Giovani 2018.

La ragazza con la Leica trionfa al Premio Strega 2018

La scrittrice italo-tedesca Helena Janeczek con La Ragazza con la Leica ci riporta indietro nel tempo, nel pieno della guerra civile spagnola. In quel periodo, precisamente il 26 luglio del 1937, trova la morte all’età di 27 anni la giovane reporter di guerra Gerda Taro. Era proprio intenta a fare il suo lavoro quando fu schiacciata da un carro armato sotto gli occhi del compagno Robert Capa, anch’egli reporter. La storia è narrata seguendo un punto di vista multi prospettico: si conoscerà la reporter attraverso la testimonianza di tre persone molto vicine a lei.

Il libro è innanzitutto un romanzo storico perché ripercorre gli eventi bellici degli anni ’30 ma è anche  sentimentale e soprattutto una biografia: si descrivono momenti della vita vissuta con il suo compagno, una Gerda giocosa, autoironica, piena di gioia di vivere  ma anche la Gerda coraggiosa, militante antifascista, che si opponeva a Hitler, in nome della libertà.

Il romanzo ha l’intento di riportare in vita Gerda Taro e fissare la sua fotografia nelle pagine della nostra quotidianità affinché non sia semplicemente celebrata per il suo lavoro ma sia d’esempio per tutti per il coraggio e la sua forza in un tempo dove sempre più spesso vengono meno modelli da seguire.

Ancora una volta sembra contare la bontà del tema storico sull’abilità stilistica e linguistica dell’autore: la storia finisce infatti in secondo piano, irrimediabilmente, per l’ambizione della scrittrice di trattare la materia con mezzi che sono appannaggio della letteratura, più che al saggio biografico. Il risultato è una scrittura costruita su flussi di coscienza, ma confusa, nebulosa, e il lettore ne resta frastornato, dovendo compiere salti temporali che non sono funzionali alla storia. Merito alla Janeczek di aver riportato alla luce un personaggio sconosciuto, ma lo ha polverizzato, mettendogli in bocca frasi disorganiche. Quale pensiero è alla base della costruzione dei periodi del romanzo? Probabilmente tale confusione nasce dal fatto che Janeczek, di madrelingua tedesca, scrive in italiano, e lo fa mantenendo un sistema di pensiero che forse troverebbe un’espressione più efficace in tedesco.

https://www.ibs.it/ragazza-con-leica-libro-helena-janeczek/e/9788823518353

 

 

Premio Strega 2017: l’amplein di Paolo Cognetti con il romanzo ‘Le otto montagne’

Nella location romana del Museo etrusco di Villa Giulia si è celebrata ieri, 5 luglio, la 71° edizione del Premio Strega 2017.
Il presidente della giuria Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega 2016 con La scuola cattolica, in collaborazione con la Fondazione Bellonci, promotrice del Premio, hanno presieduto lo scrutinio per decretare il vincitore della più nota manifestazione letteraria.

Sulla lavagna, simbolo del Premio Strega è stato scritto il verdetto:
Il quinto posto con 52 voti è andato ad Alberto Rollo con Educazione milanese (Manni);
Al quarto posto si è posizionato con 79 voti Matteo Nucci e il suo romanzo E’ giusto obbedire alla notte(Ponte delle grazie);
Il terzo è stato conquistato con 87 preferenze da Wanda Marasco con La compagnia delle anime finte(Neri Pozza); secondo posto con 119 voti per Teresa Ciabatti con La più amata (Mondadori) e infine primo posto con 208 voti per Paolo Cognetti con il romanzo Le otto montagne, edito da Einaudi.

Duplice trionfo dunque per Cognetti, il quale, oltre al essere decretato come vincitore del Premio Strega 2017, ha portato a casa in questa serata un ulteriore riconoscimento: nel corso della manifestazione infatti è stato fregiato anche del Premio Strega Giovani.

Le otto montagne conquista il Premio Strega 2017

Lo scrittore 39enne milanese, nel suo romanzo Le otto montagne, catalizza l’attenzione del pubblico conducendolo in un luogo incantato che è la  montagna. I protagonisti della storia sono due genitori, una madre, un padre e un bambino di nome Pietro. Questa famiglia con la passione per la montagna, vive con sofferenza la città, alienata, e comincia a peregrinare fino a quando giunge in villaggio ai piedi del monte Rosa, precisamente Grana, dove ritrova la propria identità. Lassù Pietro comincia a trascorre le sue estati con un nuovo amico, Bruno, che sarà il suo compagno d’avventura. Insieme giocano ed esplorano i luoghi che la montagna offre: i mulini i torrenti, le case.

“La montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare”, scrive l’autore. Essere in montagna, quindi significa abbandonarsi alla civiltà, sentirsi liberi di vivere in maniera “selvaggia”. Il libro di Cognetti è stato un caso letterario prima ancora della pubblicazione ed è la terza opera montanara dello scrittore dopo Il ragazzo selvatico e alcune ispirazioni di A pesca nelle pozze più profonde. È il racconto di un apprendistato all’amicizia e alla vita, attraverso il rapporto tra Pietro e Bruno, un ragazzino che abita nel paesino ai piedi del Monte Rosa.

I temi trattati da Cognetti come il paesaggio, l’amicizia e il diventare adulti sono universali e toccano tutti noi, per questo il romanzo sta riscuotendo grande successo anche all’estero. Per molti, quando si parla di romanzo a tema “montagna” la prima cosa che viene in mente è Mauro Corona, e le sue elegie minime da eremita in divisa. In Cognetti non c’è niente di tutto questo. Siamo davanti ad un romanzo asciutto e classico, che verso il finale riserva delle sorprese.

Come ha sostenuto l’autore stesso, “Le otto montagne rappresentano il tanto vagabondare di ognuno di noi” dunque, il nostro ricercare un posto nel mondo: una nona montagna ancora inesplorata.

 

‘Gli anni’ di Annie Ernaux, la cronistoria di una vita, Premio Strega Europa 2016

«Tutte le immagini scompariranno». Si apre così, con questo perentorio statuto di verità, il romanzo autobiografico Gli anni che è valso ad Annie Ernaux, classe 1940, il Premio Strega Europeo (2016), oltre a svariati altri riconoscimenti ufficiali in ambito francese.

Pubblicato nel 2008, Gli anni è la «cronistoria» di una vita dagli anni Quaranta ad oggi, in cui l’elemento privato e l’elemento collettivo si intrecciano indistricabilmente, sulla scorta dei “Je me souviens…” attraverso cui Perec cantò la serie infinita delle piccole memorie che accomunavano un’intera generazione: sigle, pubblicità, film, mode, gerghi, ma anche eventi politici, sociali e scorci storici che hanno segnato un’epoca. Il punto di partenza della narrazione – o, più propriamente, della rievocazione–è l’oblio: l’oblio da cui siamo stati strappati al momento della nostra nascita; l’oblio amnesico della prima infanzia, di cui abbiamo testimonianza solo indiretta – in cui, peraltro, stentiamo a riconoscerci -; l’oblio, infine, che seguirà la nostra morte, e la cui prospettiva costituisce precisamente il movente della rievocazione.

Venendo a mancare la coscienza, intesa come «memoria di sé», l’intera costruzione dei ricordi associati a quel «sé» verrà meno: non «ricordando» più noi stessi, non potremo ricordare nulla di tutto ciò che ci costituiva intimamente, comprese le immagini dei volti amati, le voci, i suoni, i piccoli momenti che abbiamo custodito per una vita.

Per questo motivo, lo spazio della nostalgia deve necessariamente essere risospinto entro i confini della vita, dilazionato nei giorni, mesi e anni che la compongono, inducendoci a una «commemorazione in vitam» di noi stessi, cioè dei ricordi che conserviamo, dalla nascita fino al momento presente. L’unità psicologica dell’individuo è sfaldata secondo piani paralleli, «sfogliata» nei diversi «Io» che si avvicendano, di giorno in giorno, compattati dall’illusione di un’unità organica, di un corpo e di una coscienza immutabili nel tempo. Ciò che eravamo ieri, oggi non ci appartiene già più: a tutti i nostri «Io» passati è rivolta la preghiera funebre della nostalgia. Ma ciò che è perso a livello individuale può essere riscattato in due modi: attraverso la «memoria collettiva», che raccoglie il materiale refluo delle singole vite e lo sublima, preservandolo dall’azione del tempo; o attraverso la scrittura, che è in grado di salvare «le immagini di un momento bagnate da una luce che è soltanto loro […], e che non ha smesso di depositarsi sulle cose appena vissute».

Questo è ciò che Annie Ernaux realizza ne Gli anni, privilegiando l’uno o l’altro espediente a seconda che le testimonianze da salvare siano, rispettivamente, tendenzialmente condivise o tendenzialmente private. In questo libro, infatti, la rievocazione scaturisce da fonti diverse, svolgendosi su piani altrettanto distinti.

Gli anni, la componente predominante dell’autobiografia collettiva

C’è la componente – predominante negli Anni – dell’«autobiografia collettiva», che emerge da un corpus di frammenti slegati, immagini brevi, lasciate cadere apparentemente alla rinfusa da un narratore totalmente neutro, aperto all’identificazione di coloro che hanno vissuto quegli stessi avvenimenti, quello stesso clima, quegli stessi ricordi. In realtà, oltre all’inevitabile ordine cronologico dei fatti storici rappresentati – dalla Seconda Guerra Mondiale, al conflitto d’Algeria, all’avvicendarsi di primi ministri e partiti, fino al ’68, alla rivoluzione della società occidentale, a Internet e ai nativi digitali -, esiste una logica alla base dell’esposizione delle varie immagini-satellite che costellano l’intero testo: non una logica aristotelica, asimmetrica, che procede per unità, ma una nuova logica simmetrica, che concatena le immagini per analogia, come se nascessero spontaneamente l’una dall’altra (teoria peraltro affine a quella della bi-logica di Ignacio Matte Blanco).

Ma la «generazione» a cui la Ernaux dà voce negli Anni non è solo quella, definita, dei nati in Francia intorno al secondo dopoguerra, bensì quella estesa nel tempo e nello spazio alla totalità degli uomini e delle donne, le cui vicende si avvolgono su se stesse, ripetendosi all’infinito, ciclicamente, e conservando intatto il nucleo fondamentale del «tipo umano»: le condizioni di contorno cambiano, la società si evolve, ma i problemi, le questioni, le sofferenze, le ambizioni degli uomini restano immutati, per quanto ammantati di nuove tecnologie, ideologie e libertà.

L’importanza della memoria

In seconda istanza, la memoria può derivare da supporti fisici (quali fotografie, filmati, e così via), che la Ernaux si premura di ricavare dal proprio archivio personale, intercalandoli – sempre verbalizzati, cioè descritti, non presentati fisicamente – alla materia collettiva, ma trattati alla stregua di essa: la prima persona è totalmente abolita, e il distacco analitico con cui l’autrice descrive le fotografie e i video di cui essa stessa è il soggetto corrisponde allo scarto identificativo che intercorre tra la donna rappresentata e la donna presente, riscontrabile anche nelle scelte stilistiche, rese esplicite nell’ultima parte del testo: «Sarà una narrazione scivolosa, in un imperfetto continuo, assoluto, che divori via via il presente fino all’ultima immagine di una vita. Un fluire interrotto, tuttavia, da foto e sequenze di filmati che a intervalli regolari coglieranno la forma corporea e le posizioni sociali successive del suo essere, fermi-immagine della memoria e allo stesso tempo resoconti sull’evoluzione della sua esistenza

Infine, la memoria può scaturire dall’interno, in maniera volontaria o involontaria; per Annie Ernaux, questa è la memoria degli «oggetti desueti», degli scarti, dei ninnoli e delle quisquilie inutili che affollano i nostri giorni, e a cui siamo profondamente legati. In un ardito paragone con Proust, a cui l’autrice si è ispirata sin da giovanissima come a un «insegnante di vita», è essa stessa a sottolineare la differenza che intercorre tra le loro poetiche: non un «edificio del ricordo» aspira a realizzare, né una letteratura in grado di colpire con il proprio acume, la propria verità incontestabile che insegna a vivere, bensì confida in una intimistica poetica degli scarti, genuina, dimessa, autentica, in grado di riportare il focus sulla spesso deprecata «banalità» della vita, ovvero sull’esperienza stessa di vivere, superiore a qualsiasi sovrastruttura letteraria o ideologica.

 

Perché “La scuola cattolica” ha conquistato lo Strega

L’8 luglio scorso, nella cornice dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, il presidente di seggio Nicola Lagioia (già vincitore del Premio Strega 2015 con La ferocia, edito da Einaudi), e Tullio De Mauro, presidente della Fondazione Bellonci, hanno proclamato vincitore del LXX Premio Strega La scuola cattolica di Edoardo Albinati, edito da Rizzoli, con 143 dei 395 voti espressi.

Perché La scuola cattolica ha “stregato” tutti

La scuola cattolica è un libro è composto dalla bellezza di 1.294 pagine. Una lettura impegnativa, ostica, difficilmente digeribile e assolutamente controcorrente rispetto alla tendenza contemporanea (non solo) italiana di puntare su scritti solitamente più agili e brevi, taglienti (anche se c’è da dire che 1.294 pagine sono tante in generale, e rari sono i casi nell’intera storia della letteratura). Allora perché La scuola cattolica è riuscita a strappare il primo posto in questa settantesima edizione del più prestigioso premio italiano, superando testi altrettanto favoriti (almeno secondo i rumors) come Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci (minimum fax) o Conforme alla gloria di Demetrio Paolin (Voland)?

Partiamo allora dalla trama per dare una prima risposta: Albinati racconta, almeno in prima battuta, delle vicende che hanno condotto al (tristemente) rinomato massacro del Circeo del 1975, durante il quale Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira hanno violentato, seviziato e massacrato Donatella Colasanti e Rosaria Lopez. Albinati parte proprio dagli ambienti in cui i tre ragazzi sono cresciuti: la scuola cattolica (appunto) maschile San Leone Magno e le strade del quartiere Trieste di Roma. Da qui, da queste vicende che l’autore/protagonista ha vissuto in prima persona in quanto compagno di scuola dei tre, il romanzo/saggio/confessione prende strade diverse, contorte e variegate, arrivando a toccare temi quali la famiglia, l’educazione cattolica, il rapporto col sesso; tutte questioni legate inestricabilmente tra loro e, al contempo, a un altro grande ceppo tematico: la società italiana del secondo dopoguerra, quella società in cui sono cresciute e si sono formate tutte le figure rilevanti che, nel bene o nel male, hanno contato e contano nell’Italia contemporanea.

L’Italia degli anni Settanta – che poi è anche l’Italia degli anni di piombo, quella in cui si formano le compagini di attività criminali come la Banda della Magliana, quella delle Brigate Rosse, quella in cui emerge con chiarezza il problema mafioso che solo uno o due decenni più tardi porterà alle stragi di Falcone e Borsellino e a Mani Pulite – è anche e ancora questa Italia, quella con cui facciamo i conti oggi. Anche se questi temi vengono solo toccati da Albinati, che ci concentra su altre vicende (quelle, appunto, legate al massacro del Circeo), è bene tenere a mente, per comprendere la grandezza e al contempo la complessità di questo testo, che tutti questi eventi così importanti nella storia del nostro Paese si sono formati nel medesimo calderone.

Al di là dei temi, poi, c’è da dire che il modo in cui Albinati ha scritto è parte integrante del “segreto” del suo successo al Premio Strega: l’autore ha scelto il metodo dialogico, e ha deciso che questo dialogo doveva essere col lettore, al quale si rivolge con maestria per dettare tempi, concessioni, pause e ricompense. Solo in un libro così strutturato l’autore può insistere quanto vuole su certe tematiche, consapevole che il lettore starà al gioco ma solo date certe premesse: «Abbiate pazienza» chiede a noi lettori «se proseguo qui per qualche pagina a parlare di famiglia. Se non scrivessi ancora qualche riga, se non ci ragionassi sopra con calma, i ragazzi di questo libro resterebbero incollati come figurine su grandi fogli bianchi».

La scuola cattolica è dunque un libro maestoso e grande; grande nel senso duplice del termine, come volume “tosto” da buttare giù ma, al contempo, che punta molto, molto in alto. Il suo obiettivo è infatti svelare al pubblico (a noi tutti) l’ossatura stessa di questa nostra società contemporanea, figlia ed erede di quel periodo storico in cui il testo è ambientato.

Premio Strega 2016: i 5 finalisti

Due giorni fa, a Roma, in Casa Bellonci si è chiusa la votazione per designare i cinque finalisti dell’edizione del Premio Strega 2016. Il premio è promosso, come sempre, dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Liquore Strega con il sostegno di Roma Capitale e Unindustria (Unione degli Industriali e delle Imprese Roma Frosinone Latina Rieti Viterbo).
In Casa Bellonci gli Amici della domenica, il corpo elettorale del premio, presieduto da Nicola Lagioia, vincitore del Premio Strega 2015, ha sommato i voti elettronici e delle schede cartacee. Ai voti dei 400 Amici della domenica, si aggiungono i voti di 40 lettori forti selezionati da librerie indipendenti italiane associate all’ALI e 20 voti provenienti da scuole, università e Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Si è delineata così la cinquina finalista del Premio Strega 2016:

La scuola cattolica edizioni Rizzoli di Edoardo Albinati (voti 202)
L’uomo del futuro edito da Mondadori di Eraldo Affinati (160)
Se avessero, edizioni Garzanti di Vittorio Sermonti (156)
Il cinghiale che uccise Liberty Valance edizioni minimum fax di Giordano Meacci (138)
La femmina nuda edito da La nave di Teseo di Elena Stancanelli (102)

Gli autori e i libri finalisti esclusi dalla precedente votazione sono:

L’addio edizioni Giunti di Antonio Moresco
La figlia sbagliata edizioni Frassinelli di Raffaella Romagnolo
Dove troverete un altro padre come il mio edizioni Ponte alle Grazie di Rossana Campo
La reliquia di Costantinopoli edito da Neri Pozza di Paolo Malaguti
Le streghe di Lenzavacche edizioni e/o di Simona Lo Iacono
Conforme alla gloria edizioni Voland di Demetrio Paolin
Dalle rovine edizioni Tunué di Luciano Funetta

Mai assenti i colossi dell’editoria al Premio Strega, ma a sorpresa anche case editrici piccole, indipendenti e appena nate come La Nave di Teseo e la più consolidata Minimum fax. Nella cinquina finalista del premio la presenza del colosso editoriale italiano appena creatosi sul mercato è forte ma è evidente la volontà di dare spazio a linee alternative che riguardano le case editrici indipendenti.

Autentica novità è certamente Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Meacci, probabilmente l’unico vivo lavoro linguistico di questa cinquina orientata stilisticamente sulla narrativa più classica, con l’asse -Albinati-Stancanelli-Sermonti-Affinati. Anche Se avessero di Sermonti non è una presenza letteraria da poco.
Per ora sembra che il predestinato vincitore sia Edoardo Albinati; con il suo La scuola cattolica, lo scrittore si immerge nella confessione dell’adolescenza, tra sesso, religione e violenza. Da non sottovalutare L’uomo del futuro di Albinti e La femmina nuda della Stancanelli.
Non resta che aspettare l’appuntamento dell’8 luglio per decretare il vincitore di questa settantesima edizione del Premio.

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