Il mondo tradizionale di Tolkien e i maestri censori della mostra a lui dedicata

Pochi giorni fa si è inaugurata la mostra su Tolkien e il giudizio dei Maestri Censori oscilla tra questi due anatemi.
Molti si formarono sul Signore degli Anelli, basti pensare agli impresari e divulgatori del tolkenismo nostrano; a partire da Alfredo Cattabiani che lo pubblicò da Rusconi, Elémire Zolla che lo propose, Gianfranco De Turris che ne è il vicario nostrano e Oronzo Cilli che ha curato la mostra.

Negli anni ’50-’60, Il Signore degli Anelli era una specie di Bibbia favolosa per i giovani di destra in libera uscita dalla storia; ma era anche un nuovo libro Cuore per la formazione dei ragazzi al tempo degli anni di piombo. Era un breviario per la gioventù tradizionalista, che piaceva sia ai cattolici che ai neopagani; quei ragazzi si allontanavano dalla mitologia fascista per abbracciare una nuova mitologia fuori dalla storia e dall’ideologia. Una mitologia mite, ecologista, nutrita di boschi e di pacifici hobbit, creature piccole, buffe, inoffensive. Certo, poi c’erano i maghi che erano la trasposizione in fiaba degli Evola e dei Guénon, c’erano i guerrieri che lottavano con la Compagnia dell’Anello.

Quel viaggio fantastico tra gli Hobbit disarmava l’egoismo, la brama di potere, la volontà di potenza. Una teologia primordiale e puerile, una specie di scoutismo eroico e magico, dove si intrecciano elementi celtici e pagani ed elementi cristiani, e dove si contrappongono in modo netto le forze del bene e le forze del male. Con gli hobbit e l’eroic fantasy molti giovani di destra cercavano la loro rivincita dal regno storico dei vinti.

La sinistra reputava il tolkenismo di destra un’oasi di ricreazione del nazismo, quasi l’asilo nido per la militanza fascista.
Anche chi non ama particolarmente gli Hobbit, trova piacevole il ripiegamento nella dimensione fiabesca del fantasy e dei mezzi uomini dai piedi pelosi: una fuga dalla realtà, frutto dell’incapacità di affrontare il mondo, preferendo rifarsi delle sconfitte storiche rifugiandosi nei castelli della fantasia. Tolkien dava una rappresentazione fiabesca del Mondo della Tradizione; quasi un rifugio in un mondo magico di eroi, maghi e demoni e la realtà della vita quotidiana. Tolkienismo, malattia infantile del tradizionalismo.

Ma gli hobbit e gli elfi nel frattempo hanno colonizzato l’immaginario globale, sono esplosi al cinema e tra le masse. Quei giovani sognatori di Frodo erano gli ignari precursori di un bisogno profondo, diffuso e insoddisfatto. Come può una saga priva di storie d’amore, di sesso, priva di storia, di modernità, perfino priva di scarpe, suscitare una così accesa passione planetaria? C’è qualcosa che sfugge alle contabilità del nostro tempo.

La fuga dal presente cresceva anche a sinistra, ma anziché inseguire tempi favolosi e medioevi dello spirito, come facevano i ragazzi di destra, inseguivano miti esotici e rivoluzioni premoderne, ondeggiando tra Mao, Hochimin e il Che. L’altrove della destra era fuori dal tempo; l’altrove della sinistra rivoluzionaria era fuori dallo spazio capitalistico-occidentale. Gli uni a cavallo, gli altri in bicicletta. L’unico Medioevo che si affacciò poi a sinistra fu quello del Nome della rosa; ma il loro Tolkien era l’Eco dell’illuminismo e del progressismo. A destra, Tolkien ridava invece fiato all’immaginario simbolico del Graal, di Re Artù e perfino alla Divina Commedia col suo cammino iniziatico dagli inferi al cielo.

Il sacro si incontrava con il santo, il mito con la storia sacra, e gli elfi apparivano un po’ angeli e un po’ déi, tra fate e madonne in una rappresentazione infantile e manichea della lotta tra il Bene e il Male. Nessuno più ricorda i libri di culto della sinistra giovanile negli anni settanta mentre è ancora vivo oggi il librone che piaceva ai ragazzi di destra. Come mai la colta sinistra ha ceduto il Libro all’incolta destra dei boschi? Perché il bisogno di coltivare mondi ulteriori, di viaggiare in dimensioni fantastiche, di passare dall’inferno al paradiso, ce lo portiamo dentro di noi, sempre.

Il Signore degli Anelli è un romanzo d’eccezione, al di fuori del tempo: chiarissimo ed enigmatico, semplice e sublime. Esso dona alla felicità del lettore ciò che la narrativa del nostro secolo sembrava incapace di offrire: avventure in luoghi remoti e terribili, episodi d’inesauribile allegria, segreti paurosi che si svelano a poco a poco, draghi crudeli e alberi che camminano, città d’argento e di diamante poco lontane da necropoli tenebrose in cui dimorano esseri che spaventano solo al nominarli, urti giganteschi di eserciti luminosi e oscuri; e tutto questo in un mondo immaginario ma ricostruito con cura meticolosa, e in effetti assolutamente verosimile, perché dietro i suoi simboli si nasconde una realtà che dura oltre e malgrado la storia: la lotta, senza tregua, fra il bene e il male. Leggenda e fiaba, tragedia e poema cavalleresco, il romanzo di Tolkien è in realtà un’allegoria della condizione umana che ripropone in chiave moderna i miti antichi.

Il mito abita dentro la nostra anima, e niente può sfrattarlo; il senso del sacro è una dimensione radicale, costitutiva del nostro essere uomini. Possiamo figurarlo in modi diversi, ma non sopprimerlo. Da quando il mondo ha scoperto di essere dentro un’unica dimensione globale, si avverte ancor più il bisogno di abitare un’altra città non dominata dalla tecnica e dall’economia. Una città dell’anima e dei sogni, dove abitano i desideri e le pulsioni, i sentimenti e i valori negati nella realtà: è il bisogno di connettersi a un’altra dimensione, la necessità di trascendere il nostro io piccino e quotidiano, il nostro presente meschino e profano. Non sappiamo vivere senza un aldilà.

Oltre la fisica cerchiamo una metafisica. Anche puerile, anche impraticabile, e fantasiosa; ma ne abbiamo bisogno come il pane; anzi il lembas, il pane degli elfi, indigesto alla sinistra e a certi giornali che parlano di Tolkien di Stato. Polemiche che probabilmente rivelano una determinata propensione da parte della sinistra ad etichettare tutto ciò che non appartiene alla loro cultura, come estrema destra o fascista.

Tolkien è riuscito intelligentemente a dare ad ogni archetipo una profondità e una solidità fuori dal comune, raccontando per ognuno di loro una storia che è rappresentativa del clan a cui appartiene. Il passato di Aragorn, ad esempio, parla non solo di lui ma di tutti i Raminghi.

Probabilmente la più grande impresa di Tolkien è quella di aver scritto un romanzo epico che sembra del tutto pertinente alla realtà dell’epoca in cui viviamo. Quando leggiamo storie medievali del medesimo genere, per quanto piacevoli le possiamo trovare, siamo talvolta tentati di domandare al Cavaliere Errante: la tua missione è così importante? Ma forse la sinistra mal tollera le storie medievali scritte da un cattolico, da un conservatore, perdipiù caratterizzate da uno spiccato ambientalismo (sano).

 

Perché Tolkien ammaliò i ragazzi di destra  

‘Paura e disgusto a Las Vegas’ di Hunter S. Thompson. Tra i massimi esempi di gonzo journalism

Fear and Loathing in Las Vegas” è un romanzo rimasto alla storia come uno dei massimi esempi di gonzo journalism. Il suo autore, Hunter S. Thompson (1937-2005), è diventato leggenda per aver concepito un nuovo stile narrativo e per aver interpretato il ruolo del giornalista in modo completamente nuovo, sensazionale e lisergico.

Hunter S. Thompson, il gonzo journalist

Esponente di spicco del “Nuovo Giornalismo Americano”, Hunter S. Thompson aveva pubblicato il suo primo libro nel 1967, intitolato “Hell’s Angels”. L’opera era dedicata alla celebre banda di biker americani, motociclisti accusati dall’opinione pubblica americana di vivere ai confini della legalità, se non proprio criminalmente. Il giornalista aveva trascorso con loro intere giornate e lunghe nottate, tra bevute, risse e fatti assurdi di ogni sorta. Per la rivista Scanlan’s Monthly scrive un articolo che passa subito alla storia, ovvero “The Kentucky Derby Is Decadent and Depraved”. Racconta di una celebre corsa di cavalli di Louisville, descrivendo in ogni dettaglio l’atmosfera degradata, corrotta e festosa dell’evento, non tanto la corsa in sé. Questo articolo viene definito da Bill Caroso, giornalista del Boston Globe, come primo esempio di gonzo journalism. La parola gonzo veniva usata dagli irlandesi per designare l’ultimo uomo che resta in piedi dopo una lunga notte di bagordi. Hunter S. Thompson continua a scrivere e pubblica nuovi libri come “La grande caccia allo squalo”, “Meglio del sesso”, “Cronache del rum” e “Screwjack”.

 

Paura e disgusto a Las Vegas

Tuttavia, il libro che più di ogni altro gli darà gloria sarà “Paura e disgusto a Las Vegas, pubblicato in due puntate sulla rivista Rolling Stone nel 1971. Il testo viene tradotto in Italia per la prima volta nel 1978 da Alberto Gini per i tipi di Arcana Editrice. È intitolato “Paranoia a Las Vegas” e non ottiene grande successo né di pubblico, né di critica. Viene ritradotto molti anni dopo, nel 1996, da Sandro Veronesi per Bompiani. Questa nuova edizione vedrà l’aggiunta in appendice di una “Piccola Enciclopedia Psichedelica”, che contiene un glossario di voci e di spiegazioni sui luoghi e i personaggi che compaiono nel libro.

 

Welcome to Las Vegas, pic by Lindsay Scott, Pixabar

 

 

“Scovare il sogno americano”

Come già accennato, “Paura e Disgusto a Las Vegas” si basa su fatti realmente accaduti. Hunter S. Thompson tra il 21 e il 23 marzo del 1971 era partito veramente alla volta di Las Vegas insieme all’avvocato di origine messicana Oscar Zeta Acosta. Hunter S. Thompson stava raccogliendo materiale per scrivere un articolo sulla morte del giornalista messicano-americano Rubén Salazar per mano della polizia di Los Angeles durante le proteste contro la guerra in Vietnam.

L’avvocato Oscar Zeta Acosta era un attivista messicano e Thompson voleva incontrarlo per approfondire la questione. Tuttavia, in città la situazione era molto tesa, così il giornalista decide di invitarlo a Las Vegas. Perché proprio a Las Vegas? In primo luogo perché in quei giorni la rivista Sports Illustrated aveva ingaggiato Thompson per seguire la Mint 400, una corsa motociclistica che si tiene ancora oggi a Las Vegas. In secondo luogo, perché Thompson aveva un obiettivo preciso, ovvero quello di “scovare il Sogno Americano”. Las Vegas all’epoca era già un’icona del sogno americano con tutte le sue luci e tutte le sue ombre. Era una città in cui tutto era possibile, dove in una notte si poteva realizzare ogni cosa. Si potevano trovare i migliori posti al mondo dove giocare a poker, casinò, locali notturni, discoteche e molto altro ancora. Si potevano incontrare persone di ogni tipo. Lì ci si apriva a ogni possibilità, anche alle più improbabili e tutto poteva accadere.

 

Il viaggio di Raoul Duke e del Dr. Gonzo

I personaggi di questo viaggio prenderanno i nomi letterari di Raoul Duke (alter-ego del giornalista) e del Dr. Gonzo, avvocato samoano. Il viaggio dei due è allucinato, esilarante e grottesco allo stesso tempo. Viaggiano a bordo di una Chevrolet decappottabile rossa. Hanno a disposizione 300 dollari in contanti e un bagaglio pieno di sostanze psicotrope di ogni tipo. La corsa motociclistica passa immediatamente in secondo piano, anzi, molto presto viene proprio dimenticata. Emerge un’America grottesca, kitsch. Siamo appena all’inizio degli anni Settanta, ma si percepisce già un senso di disillusione pervadente.

Secondo alcuni critici “Paura e disgusto a Las Vegas” è un’opera segretamente modellata sul Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Il romanzo viene ricalcato sia nei temi, che nel ritmo. D’altronde, si dice che da ragazzo Thompson per esercizio avesse ribattuto a macchina tutto il libro di Fitzgerald nella sua interezza.

Paura e disgusto a Las Vegas” ritornerà in auge grazie al cinema. Negli anni Ottanta, il libro verrà portato sul grande schermo dal regista Art Linson, che ingaggerà Bill Murray e Peter Boyle per un film che sarà intitolato “Where the Buffalo Roam”. La pellicola è un flop, ma nel 1998 Terry Gilliam ci riprova e dirige una nuova versione di “Fear and Loathing in Las Vegas”. Sullo schermo troviamo Johnny Depp e Benicio del Toro, il successo è mondiale.

Fonte Rawpixel

‘Il silenzio’, l’ultimo capolavoro apocalittico pop di Don DeLillo ambientato durante la pandemia

La fine di un mondo passa sempre per i suoi contrari, perciò non bisogna meravigliarsi se per lo scrittore statunitense Don DeLillo a spegnere la civiltà umana così come la conosciamo sia il silenzio, che poi forse non sarebbe una cosa malvagia. Sembra essere proprio questa la chiave di lettura principale dell’ultimo romanzo di Don De Lillo, Il silenzio, 2020.

Manhattan, 2022. Una coppia è in volo verso New York, di ritorno dalla loro prima vacanza dopo la pandemia. In città, in un appartamento nell’East Side, li aspettano tre loro amici per guardare tutti insieme il Super Bowl: una professoressa di fisica in pensione, suo marito e un suo ex studente geniale e visionario. Una scena come tante, un quadro di ritrovata normalità. Poi, all’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio.

Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?) L’aereo è costretto a un atterraggio di fortuna. E addio Super Bowl. Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente? O è il collasso della tecnologia su se stessa, sotto il proprio tirannico peso? È l’apparizione di un buco nero, l’aprirsi di una piega dello spazio e del tempo in cui le nostre vite scivolano inesorabilmente? Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.

Vera protagonista del romanzo è la teoria dell’apocalisse che De Lillo ha affidato al suo editore poco prima che la pandemia prendesse il largo: a marzo le ultime bozze, qualche giorno dopo i lockdown in tutto il mondo. In America Il silenzio è uscito a ottobre per Picador; resta inedito in Italia dove arriverà per Einaudi a febbraio 2021, un romanzo brevissimo in cui assistiamo al blackout della nostra tecnologia digitale in un ipotetico 2022, nel giorno del Super Bowl, giornata evento per gli americani. Ma non è un libro dagli intenti profetici come ha spiegato lo stesso autore al Guardian: “È solo una storia ambientata nel futuro”.

De Lillo si sforza poco di spiegare cosa sia veramente successo al mondo dei suoi personaggi. La catastrofe è al cuore della trama ma non lo sono le sue cause. Quel che DeLillo vuole mostrarci è la reazione umana allo spegnimento delle cose: quel rumore digitale che permea le nostre vite e a cui inconsapevolmente non solo siamo dipendenti, ma anche, in una certa misura, legati ormai culturalmente e persino a livello intellettivo.

Protagonisti del Silenzio sono alcuni intellettuali di classe medio alta che gradualmente si radunano a casa di due amici, dove avrebbero dovuto seguire la partita e dove invece lo schermo del televisore è morto dopo aver trasmesso un ultimo misterioso segnale. Una volta caduto il silenzio digitale (muta la radio, inerti gli smartphone) i presenti, sebbene in compagnia, si isolano in lunghi monologhi, solo in parte filosofici e più spesso sconnessi. Si parlano addosso ignorando gli altri nella stanza, come se d’improvviso non fossero più capaci di comunicare tra loro senza la mediazione di un dispositivo elettronico.

Il silenzio è un capolavoro della non scrittura, delle pause e delle cesure tra le parole, il subconscio implicito che, quando viene meno la base, il terreno comune che ci rende animali sociali che condividono le stesse passioni, non riesce ad innalzarsi come coscienza di massa, in quanto inadatto e superato per gestire i pezzi di un mosaico che compongono il vivere comune.

Quali sono i potere e allo stesso tempo i pericoli della modernità? Senza qualcosa da guardare, da ascoltare, se non digitiamo, chattiamo, creiamo una storia su Instagram, noi non siamo più niente. Sono solo parole nel vuoto, pensieri vagabondi. Silenzio, appunto.

Il nuovo romanzo minimale di DeLillo ha uno stile scarno, mostrando ancora una volta come la scrittura di dell’autore di Underworld sia cambiata, non servono più paragrafi, frasi elaborate e articolate. Solo delle parole, leggere che ci indicano la strada, la nostra strada.
Il modo di scrivere di DeLillo è diventato olografico, per consentirci di scandagliare le ombre della nostra coscienza e di vivere anche noi il vissuto dei suoi personaggi.

Come ha acutamente rilevato Paolo Latini  (tenutario del Blog Americanorum), qui ancora più che in altre sue opere abbiamo personaggi che parlano una lingua peculiare, il DeLilliano, e questo concorre a creare un insieme di dialogo e sequenze probabilmente inconfondibili, quasi al limite della auto-parodia: cultura pop, frasi spezzate, frasi fatte e riflessione sulle stesse, filosofeggiare, calchi e mixaggi di alto e basso.

Proprio in questa estremizzazione di un linguaggio volutamente artefatto, il libro clamorosamente funziona e funzionano spunto e ambientazioni, che impropriamente hanno fatto pensare a un romanzo sulla pandemia e sul lockdown. Più suggestivamente e apocalitticamente si immagina invece una New York dove tutta la tecnologia (tutta!) smette improvvisamente di funzionare, e un insieme di cinque personaggi principali intrappolati (o forse compiutamente liberi) in questo nuovo (provvisorio?) paradigma.

 

Fonte: L’apocalisse di Don DeLillo

‘L’Affaire Casati Stampa’, il nuovo libro di successo di Davide Amante sulla vita di coppia di Anna Fallarino e il marchese Casati Stampa

Uno dei primi romanzi usciti nel 2021, edito da DMA Books, L’Affaire Casati Stampa dello scrittore Davide Amante, sta avendo un grande successo, come indicano i dati delle vendite. Certamente le ragioni di questi ragguardevoli risultati sono nel tema del romanzo, la vita della coppia Anna Fallarino e marchese Camillo Casati Stampa, intensa, passionale e per certi aspetti al limite della moralità. Ma più ancora che la vicenda stessa, L’Affaire Casati Stampa, è capace di ricreare intorno ai personaggi, con intensità e profondità, quell’atmosfera anni Settanta così carica di vitalità, follia e anticonformismo.
La parola chiave di questo romanzo di Davide Amante è proprio ‘anticonformismo’.
L’autore da un lato affronta una vicenda molto difficile – un omicidio passionale, cruento, cui è seguito il suicidio. La storia d’amore fra Anna Fallarino e il marchese Casati Stampa fu alla ribalta della cronaca per buona parte degli anni Sessanta, spesso assumendo toni scandalistici, e rimase per tutti gli anni ’70, dopo l’omicidio, uno dei casi più in vista e più discussi da moltissimi giornali.
Le indagini sull’omicidio porteranno alla luce ogni dettaglio di una relazione che appare da subito più intensa e complicata delle apparenze. L’approccio anticonformista e dal ritmo veloce dell’autore permetterà di svelare a poco a poco una storia d’amore intensissima e fuori dagli schemi, in tutta la sua grandiosità e passionalità.
D’altro canto l’autore, nel ricostruire attraverso le indagini la vicenda Casati Stampa, riesce con raffinatezza e grande controllo stilistico a immergere il lettore in quel mondo anticonformista degli anni Settanta. Questo è un punto importante perché è proprio partendo dal contesto di questo mondo anni Settanta che è possibile capire e vedere sotto tutt’altro sguardo la vicenda stessa, in tutta la sua passionalità.
Davide Amante ci guida attraverso quella trasgressione e voglia di libertà, nelle relazioni così come nella vita quotidiana, che ha poi portato alla formidabile creatività ma anche a quel disordine sociale, che si è poi cristallizzato negli anni di Piombo, che chiamiamo Anni ’70.
Lo scrittore ci porta nella normalità dell’anticonformismo, nella voglia di rottura con gli schemi e le rigidità dell’epoca precedente, in un amore più libero e più sincero, mostrandoci non soltanto il valore di quell’epoca ma anche il forte contrasto con l’epoca contemporanea, nuovamente regolata da un conformismo e da una rigidità morale di massa, imposta in parte anche dal predominio dei Social Media.
Insomma un libro, L’Affaire Casati Stampa, in cui sono presenti tutti gli ingredienti per catturare l’attenzione del lettore: la vita di provincia che sta stretta, il desiderio di ascesa sociale, la complessità del rapporto di coppia, i vizi e i capricci dell’alta società, ma anche le debolezze e i dolori che accomunano tutti gli esseri umani, Amante, giunto al suo quarto romanzo si rivolge a quei formidabili anni ’70 che hanno lasciato un segno indelebile in tutti noi e nella storia moderna.

Dalla quarta di copertina

30 agosto 1970, il più grande scandalo italiano.
30 agosto 1970, il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino uccide la moglie Anna Fallarino e l’amante Massimo Minorenti per poi suicidarsi. La vicenda scatena ampia risonanza pubblica al punto da essere considerata dalla stampa uno dei più grandi scandali italiani sia perché è coinvolta una delle più antiche famiglie aristocratiche milanesi sia per i retroscena sessuali e morbosi, basati sulla passione voyeuristica e candaulistica di una coppia al limite della moralità.
Le indagini sull’omicidio porteranno alla luce ogni dettaglio di una relazione che appare da subito più intensa e complicata delle apparenze.
Si rivelerà a poco a poco una storia che è difficile definire d’amore, ma certamente di interesse e passione, intensissima e fuori dagli schemi, in tutta la sua grandiosità tragicità. Si scoprirà così un “amore” tutt’altro che scandalistico e la intima bellezza dei personaggi coinvolti.
Un romanzo raffinato e dalla grande potenza narrativa che rivela, attraverso il percorso delle indagini, una delle più grandi verità dell’amore o che crediamo essere amore, della passione, della sofferenze e della vita.

L’autore Davide Amante

Davide Amante è scrittore di narrativa. Ha studiato in scuole di lingua inglese e italiana. Ha collaborato con varie case editrici (fra cui McGraw-Hill, Bertelsmann, Vallardi, Mondadori). Ha insegnato letteratura moderna e contemporanea. Ha scritto sceneggiature in lingua inglese per il cinema.
Ha collaborato con il Politecnico di Milano, su invito del Dipartimento di Architettura, insegnando agli studenti l’interpretazione e la trasposizione dell’opera letteraria negli allestimenti scenici teatrali e cinematografici.
Parla correntemente tre lingue ed è appassionato dello sport della vela e snowboard. Ha attraversato il Ténéré ed altri deserti del nord-Africa, ha navigato in solitario in barca a vela ed ha intrapreso numerosi altri viaggi.
Tra le sue opere: Punto di fuga Wallenberg (Leopard, 2014), Il guardiano delle stelle. Il viaggio di Anais insieme al vento (DMA International, 2018).

‘Cambiare l’acqua ai fiori’ di Valerie Perrin, il caso letterario del momento: un libro costruito a regola d’arte

Vincitore nel 2018 del Prix Maison de la Presse, presieduto da Michel Bussi, con la seguente motivazione: “un romanzo sensibile, un libro che vi porta dalle lacrime alle risate con personaggi divertenti e commoventi”, Cambiare l’acqua ai fiori, della francese Valerie Perrin (edizioni e/o) è divenuto un fenomeno virale grazie al passaparola tra lettori, romanzo la cui forza dell’empatia che l’autrice ha conferito ai suoi personaggi, soprattutto alla sua protagonista di Cambiare l’acqua ai fiori, Violette Toussaint (in italiano significa Ognissanti) che ricorda la protagonista de L’eleganza del riccio, la quale ha avuto un’infanzia difficile, dapprima in orfanotrofio e poi, durante l’adolescenza, sballottata da una famiglia affidataria all’altra. Violette nasconde dietro un’apparenza sciatta una grande personalità e una vita piena di misteri.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, Violette cresce bene. “Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte”, dice. Conosce un ragazzo, Philippe Toussaint, un nullafacente, nel bar, dove saltuariamente fa la cameriera, e se ne innamora. O forse, vuole dare il nome di amore a qualcosa di diverso, perché l’amore lei non lo ha mai conosciuto, almeno fino a quando, da quello strano rapporto, nasce sua figlia, Leonine.

Ma il destino avrà in serbo per lei altre avversità, perché “la vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama”. E solo come custode in un piccolo cimitero di una cittadina della Borgogna, Violette troverà un po’ di quiete. Durante le visite ai loro cari, tante persone vengono a trovare nella sua casetta questa bella donna, solare, dal cuore grande, che ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre pronta a offrire un caffè caldo o un cordiale. Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto.

Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime, che parevano nere, si rivelano luminose. Attraverso incontri, racconti, flashback, diari e corrispondenze, la storia personale di Violette si intreccia con mille altre storie personali in un caleidoscopio di esistenze che vanno dal drammatico al comico, dall’ordinario all’eccentrico, dal grigio a tutti i colori dell’arcobaleno. La vita di Violette non è certo stata una passeggiata, è stata anzi un percorso irto di difficoltà e contrassegnato da tragedie, eppure nel suo modo di approcciare le cose quel che prevale sempre è l’ottimismo e la meraviglia che si prova guardando un fiore o una semplice goccia di rugiada su un filo d’erba.

Consolando gli altri, Violette capisce che “c’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi … perché la sepoltura più bella è la memoria degli uomini”.

Di questo libro, osannato anche dalla critica nostrana, si è usata un’espressione abbastanza banale, ovvero “entra nel cuore del lettore”che si adopera quando si ha poco da dire su un libro che piace ma che non ha sale e per scrivere un buon libro non basta una buona storia qual è quella di Come dare l’acqua ai fiori.

Una storia che prende certamente quella della Perrin in cui ognuno di noi può immedesimarsi, complice la scorrevolezza della lettura: la trama è un susseguirsi di tragedie, piccole letizie, ricadute, frasi scontate sul concetto di morte, frasi confezionate ad hoc per i social. La struttura del libro è fatta a regola d’arte, una alternanza tra la narrazione del presente e quella del passato, con l’inserimento di diari privati, trascrizioni di dialoghi, lettere e ricordi nostalgici, quasi tutto in prima persona, una mossa editoriale vincente. Come l’incipit:

“I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. (…) I miei vicini sono morti”. 

 

Come libro da ombrellone, il delicato Cambiare l’acqua ai fiori è l’ideale, alla fine però non resta granché. Nulla che possa davvero scuotere o indurre a rileggere i punti salienti. Se ne esce illesi, dopo essersi chiesti all’inizio del libro chi fossero i responsabili del dolore della protagonista e naturalmente come andrà a finire la vicenda.

‘Le correzioni’ di Jonathan Franzen: quando cambiamento non necessariamente significa miglioramento

Le correzioni, The Corrections, è il  romanzo più celebre, insieme a Purity, di Jonathan Franzen. Scrittore e stagista statunitense con radici tedesche, Franzen nasce nell’Illinois; compie Studi Umanistici tra gli Stati Uniti e Berlino, esordendo come scrittore nel 1998. Nel 2002 arriva la consacrazione dalla critica letteraria aggiudicandosi, proprio grazie a Le Correzioni, l’ambito premio National Books Awards. Il Time gli dedica una copertina per l’uscita del suo libro nel 2009. Collabora al New York Times dal 2010, uscendo con diversi scritti e saggi . Questi ultimi sono famosi per  aver attirato malumori dei tanti colleghi scrittori nazionali e internazionali.

Pubblicato nel 2001, The Corrections ,è uno dei racconti di narrativa in stile post-modernista che descrive minuziosamente e in modo satireggiante, i cambiamenti in chiave ottimistica delle famiglie americane prima della crisi di inizio anni duemila. La narrazione verte sulle relazioni umane e sul loro modo di condizionare le vite dei singoli. Si addentra ed analizza l’intimità di una qualunque famiglia contemporanea, dove i valori di una generazione passata si contrappongono e si mescolano con la generazione successiva, senza mai fondersi del tutto.

Trama e contenuti nel romanzo di Franzen

Il romanzo di Franzen sembrerebbe raccontare le vicende di una normale famiglia del Midwest, simile a tante altre: la tipica famiglia bianca della borghesia statunitense, impregnata di quel perbenismo ipocrita e moralista. Tuttavia il voler accentuare queste caratteristiche rende i personaggi sorprendentemente contraddittori. La maggior perseguitrice dei valori puritani e borghesi è sicuramente Enid Lambert, moglie di Alfred e madre di Gary, Chip e Denise. Ella si confronta in modo ossessivo con i suoi vicini e le sue amicizie, considerati modello di uno stile di vita “giusto e rispettabile, riscontrabile solo tra i cittadini di Saint Jude.

Enid per una vita intera cerca di raggiungere il modello di perfetta moglie e madre, volendo in tutti i modi eccellere e diventare lei stessa e la sua famiglia modello ambito e invidiato dal vicinato. Questo la porta a criticare ogni minimo sbaglio della vita dei suoi conoscenti, contemporaneamente dissimula i comportamenti errati suoi o dei suoi familiari. Enid sarà esasperata delle sue ossessive correzioni e solo alla fine del libro capirà che ha dedicato a questa attività tempo inutile. A differenza di sua moglie, Alfred è forse il personaggio che Franzen farà ricorrere meno alla revisione dei suoi comportamenti: lo farà solo in relazione al suo lavoro, fulcro della sua vita.

Ben presto il padre di famiglia si arrenderà ai suoi sbagli ma involontariamente: la depressione e poi la malattia di Parkinson ridurranno in lui la soggiogazione a quella smania di perfezione etica e morale che sfociava della corrosiva dedizione al lavoro. Al rifiuta la vita familiare, gli svaghi, i piaceri. Per lui la vita è fatta di affanni, di lotta, di sofferenze. Ecco perché forse lo scrittore gli attribuisce una malattia tanto grave che lo porterà alla morte. La malattia gli permetterà di correggersi senza il suo volere, perché la sua troppa rigidità non gli avrebbe permesso passi in dietro. La stessa famiglia è concepita da lui come una squadra che lavora per adempiere ad un compito: sostentarsi a vicenda.

La moglie è il familiare che subisce maggiormente la sua concezione schopenhaueriana: questa è a tutti gli effetti un suo subordinato alla quale impartire ordini sulla gestione della casa e dei figli e alla quale non consentire neanche un briciolo di compassione, supporto o di gesti affettuosi. Nel rapporto coniugale sono riversate, quindi, le rispettive frustrazioni per quell’idea dell’altro irreale. Enid aspetta per tutta la vita che suo marito possa diventare in qualche modo più affettuoso, possa ricambiare i suoi gesti d’amore ed anche se sa che il cambiamento non avverrà mai, lei sarà innamorata di un Alfred esistente solo nella sua mente. Alfred, che sguazza nella propria autocommiserazione, ad ogni modo imporrà alla moglie i suoi voleri, la sua privacy, ammonendola ogni qualvolta non rispetti le sue indicazioni.

Questo nodo cruciale sarà sbrogliato solo con l’aggravarsi della malattia di Alfred, quando non vi sarà più bisogno di correggere l’altro. I tre figli della coppia, hanno vissuto la loro infanzia i questo clima di eccessiva rigidità. Forgiati su quella rincorsa alla perfezione ostinata, finiscono per distaccarsi quasi per ripicca da quel perbenismo maniacale. Per quanto possano odiare quegli atteggiamenti e pensieri così repressivi, non potranno ignorarli, ci dice Franzen.

Gary il maggiore, è colui che più di tutti ha subito l’influenza di sua madre cercando di imitarla sotto tutti i punti: in primis vuole far in modo da entrare nelle grazie di suo padre e, di conseguenza di sua madre, fin da quando è piccolo. E’ l’unico dei tre che ha costruito un nucleo borghese a Philadelphia ,con una moglie rispettabile e benestante, tre figli e un lavoro dirigenziale. Pur allontanandosi dalla sua famiglia non riesce a far a meno di comportarsi come loro, lavorando sodo come il padre, certe volte estraniandosi, commentando e giudicando con disprezzo chi non rientra nei canoni, bramando prestigio e affari.

Egli è però terrorizzato dal porte assomigliare in qualche modo a suo padre, Alfred : le sue correzioni sono principalmente volte a rimodulare i malsani atteggiamenti paterni cercando di non commettere le stesse azioni che un tempo hanno recato dolore alla sua famiglia. Chip, il secondo fratello, è considerato il sovvertitore degli equilibri familiari: viene descritto come la “Pecora Nera”, anche se i suoi genitori non hanno fatto altro che lodarlo e vantarlo per tutta la vita, a detta sua, sopravvalutando le sue capacità. Sente la forte pressione dei suoi genitori, che confidano in alte aspettative per la sua vita e la sua carriera. Ha la capacità di opposti in qualunque modo a queste volontà idealizzate dalla sua famiglia. Si tratta forse del personaggio più eclettico nella vicenda, capace di immischiarsi in diversi guai e riprendersi, cadendo sempre in piedi.

Per quanto egli voglia in qualche modo sfuggire alle speranze genitoriali, non potrà fare a meno di deluderle: vorrebbe dare loro quelle agogniate soddisfazioni ma la sua natura glielo impedisce. Quando non opporrà più resistenze al suo spirito libero, ritroverà il suo baricentro e la serenità.

L’ultima dei tre, Denise, sembrerebbe essere la più affine al comportamento di Alfred, anche se il suo lato umano è molto più spiccato. Come lui è ambiziosa e testarda. Riesce a far emergere il lato sentimentale e umano di suo padre, che probabilmente riconosce molto di lui in lei. Descritta come una chef in carriera, dedica tanto tempo al lavoro ma finisce per farsi licenziare. I piaceri che tanto Al aveva ripudiato, la persuadono e allontanandola per sempre da quella vita fatta di solo lavoro. Spesso è la “vittima” preferita delle ammonizioni di sua madre. Con quest’ultima, è in continuo scontro ma contemporaneamente riesce ad immedesimarsi nel suo punto di vista anche non condividendolo. Il contrasto con l’ aspirazioni materne, la porterà a compiere scelte, nella sua vita sentimentale, molto distanti dai voleri di Enid.

Cercherà, come suo fratello, ma con la dedizione che la differenzia, di allontanarsi e poi di avvicinarsi ai valori paterni, fallendo miseramente, scegliendo in fine la propria felicità condivisi in fine anche dai suoi familiari, infischiandosene dei loro giudizi.

Il cambiamento inevitabile

Le vicende di questa famiglia riportano il lettore a confrontarsi con se stesso, ad aiutarlo a comprendere il modo corretto di correggere il proprio io. L’accattivante uso di regressioni offre un’ampia panoramica sulla vita di questi cinque personaggi: un’analisi così ben presentata da poter far diventare i cinque, persone comuni intercambiabili, alle prese con i loro dissidi interiori suscitati dalla smania di voler essere conforme a un qualche modello prestabilito. Paiono tutti non sfuggire a quell’anedonia radicata, come suggerisce Franzen: l’Anedonia era il segnale d’allarme che stava contagiando un piacere dopo l’altro, frutto di quella comodità infelice che prima o poi si finisce per accettare.

Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell’aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia

La conquista di Franzen sta nell’essere riuscito a trovare per questi personaggi di una saga familiare che fotografa il cambiamento di una società (non solo quella americana) che smarrisce ogni riferimento morale, seppur ipocrita e autoritario, una svolta plausibile che riporta loro verso una via d’uscita, offrendo un finale ricco di sorprese e non scontato. Le citazioni di cui si serve lo scrittore, dalla Bibbia a Schopenhauer a S.C. Lewis, risultano opporune e calzanti e mai del tutto scontate. Ritornano come lampi all’interno della narrazione e permettono di collegare episodi apparentemente sconnessi.

Il linguaggio di Franzen è fluido e mai troppo ricercato, ironico e a tratti caustico anche nell’affrontare argomenti scientifici o di economia. Se pur la traduzione italiana non riporta il significato corretto di alcuni gerghi e giochi di parole tipicamente yankees, c’è da apprezzare la volontà di riportarne almeno in parte la funzionalità nella narrazione conferendo allo scritto una freschezza moderna che fa venire in mente American Beauty, Tempesta di ghiaccio e Pastorale Americana. Ma per Franzen non sempre il cambiamento è verso qualcosa di meglio e i rapporti umani, familiari ne rappresentano il nodo irrisolto.

‘Il Signore degli Anelli’ di Tolkien, un mondo immaginario ma reale nella recensione del poeta Auden

Al mondo esisteranno pure lettori che non amano le Gesta Eroiche, però io non ne ho mai incontrati. Per molti di noi costituiscono il più piacevole genere letterario, al punto che non possiamo fare a meno di divorarne le pagine anche quando la nostra capacità critica le bolla come spazzatura. Chiunque ricordi Lo Hobbit come il miglior racconto per bambini degli ultimi cinquant’anni non potrà che aprire la nuova opera del professor Tolkien con le più alte aspettative, e tuttavia La Compagnia dell’Anello le supera tutte. Sarebbe alquanto sorprendente se entro il prossimo Natale il libro non lo rendesse ricco.

Nel parlare di un romanzo di questo tipo il recensore si trova in difficoltà, perché non deve rovinare il gusto della lettura rivelando la trama, che in questo caso è intrigante almeno quanto quella de I Trentanove Scalini. Di norma i racconti epici trattano di un oggetto arcano di cui il Nemico si è impossessato, o che terrificanti guardiani proteggono da quanti ne sono indegni; nessuno può recuperarlo se non l’eletto, il cui compito è appunto quello di trovarlo. Ne La Compagnia dell’Anello, l’oggetto arcano (che somiglia all’Anello dei Nibelunghi, ma ancora più minaccioso) è già all’inizio in mano all’eroe. Il Nemico che lo ha creato lo credeva perduto per sempre, ma ora ha scoperto dove si trova e dispiega i suoi mezzi demoniaci per recuperarlo. E poiché nemmeno i giusti possono farne uso senza soccombere al male, deve essere distrutto: questo però si può fare soltanto in un certo modo e in certo luogo, che si trova purtroppo nel cuore del regno Nemico. La Missione, quindi, consiste portare l’Anello nel luogo della sua disfatta, senza mai essere intercettati.

Questa Missione si svolge all’interno di un mondo scaturito dall’immaginazione di Tolkien, con tanto di paesaggi, storia, abitanti. Nelle sue linee generali, questo mondo è Celtico e Scandinavo, più che Mediterraneo. L’eroe, il signor Frodo Baggins, appartiene a una razza di creature note come Hobbit. Nonostante la statura di tre piedi soltanto e la peluria plantare, gli Hobbit ricordano molto nel modo di pensare e nella sensibilità gli arcadici paesani che popolano i racconti gialli inglesi. Per mille anni questi esseri rurali hanno goduto di un’esistenza idilliaca all’interno di una fertile regione denominata la Contea, poco informati (e per nulla interessati) sulla vita oltre il confine. In realtà, la Contea è una piccola oasi in un mondo in decadenza: quelle che erano un tempo grandi città ormai sono cadute in rovina, fertili pianure si sono trasformate in sterili distese, le strade e i ponti sono uno sfacelo, ovunque si è braccati da bestie feroci e poteri maligni. Oltre agli Hobbit e alla loro infantile innocenza, incontriamo Elfi (che conoscono il bene e il male, ma non hanno sperimentato la Caduta), Nani e Uomini (buoni o cattivi). Alcuni di loro sono eroici combattenti, e discendono da sovrani del passato, altri sono stregoni. L’incarnazione più recente del Nemico è Sauron, Signore di Barad-dûr, la Torre Nera della Terra di Mordor. Sauron è a capo di un esercito di Troll, Orchi e altre creature ancora più letali, e ogni giorno accresce il suo potere sulle menti degli uomini.

Uno scrittore contemporaneo che si prefigga di creare un universo immaginario ma convincente ha davanti a sé impresa molto più ardua di quella affrontata dagli autori dei romanzi cortesi, perché non può scrivere né essere letto senza tenere a mente la letteratura del verosimile e la ricerca scientifica degli ultimi secoli. Per questo, darà una qualche idea del portento di Tolkien il fatto che sono riuscito a trovare solo due dettagli poco plausibili da contestargli. I dettagli stessi illustrano bene le differenze fra i lettori del ventesimo secolo e i contemporanei di Edmund Spenser. In primo luogo, leggiamo che gli Hobbit hanno conosciuto molti anni di prosperità, immuni da guerre, pestilenze e carestie, e che di norma sono longevi e hanno famiglie numerose. In tal caso, non riesco a concepire come la sovrappopolazione non li abbia costretti a emigrare dalla Contea. In secondo luogo (dettaglio quasi irrilevante) il prosciugamento del fiume Sirannon viene attribuito ad una diga, che ha creato un lago. Questo lago è però pieno da anni: dove vanno a finire le sue acque?

Il primo problema che si presenta a chi crea un mondo immaginario è lo stesso che si presentò ad Adamo: deve stabilire un nome per ogni cosa e ogni creatura; questi nomi devono essere appropriati e coerenti fra loro. Già in un universo ‘comico’ il compito è arduo; in uno ‘serio’, il successo sembra quasi un miraggio. Posso solo dire che l’abilità di Tolkien al riguardo supera quella di qualsiasi altro scrittore a me noto, morto o vivente. Il paesaggio del suo racconto è vastissimo: da est a ovest, dalle Colline Ferrose al Golfo della Luna, corrono milleduecento miglia, e da Nord a Sud, da Carn Dum al delta dell’Anduin, ne passano millecento. In questa regione vivono numerose specie dotate di parola: ognuna ha la sua nomenclatura, la sua storia e la sua politica, eppure l’autore trova senza difficoltà apparente nomi che sembrano ineluttabili. Vero che è un filologo rinomato, però chi dei suoi colleghi saprebbe inventarsi linguaggi ‘buoni’ e ‘malvagi’ convincenti quanto i seguenti esempi?

A Elbereth Gilthoniel,
silivren penna míriel
o menel aglar elenath!
Na-chaered palan-díriel
o galadhremmin ennorath,
Fanuilos, le linnathon
nef aear, sí nef aearon!
Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul,
ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul

E ancora: quale altro creatore di paesaggi immaginari possiede un altrettanto acuto occhio per la topografia? Perché un viaggio sembri reale, il lettore deve poter vedere i luoghi attraversati come li vedrebbe il viandante, vale a dire diversamente a seconda del mezzo di trasporto e delle circostanze della missione. Alla fine del libro Frodo Baggins ha percorso all’incirca milletrecento miglia, in gran parte a piedi, coi sensi costantemente all’erta per via della paura, scrutando ogni angolo del cammino in cerca dei suoi inseguitori; eppure, Tolkien riesce a convincerci di non aver tralasciato nemmeno un dettaglio di quelli colti dai suoi eroi. In effetti, è talmente accurato che il lettore che consulta la bellissima cartina a fine libro si accorgerà subito che il percorso effettuato fra il Ponte sull’Hoarwell e il Forte di Bruinen è disegnato in modo errato.

Nelle circostanze critiche che caratterizzano le trame eroiche, le reazioni contemplate non sono molte (combattere o fuggire, essere leali o tradire), e le sfumature caratteriali non sono possibili né importanti. I personaggi devono rappresentare gli archetipi letterari fondamentali: il Saggio, il Forte, lo Spensierato, il Cauto, la Dama Bianca, il Signore Oscuro. Tolkien riesce intelligentemente a dare ad ogni archetipo una profondità e una solidità fuori dal comune, e racconta per ognuno di loro una storia che è rappresentativa del clan a cui appartiene. Il passato di Aragorn, ad esempio, parla non solo di lui ma di tutti i Raminghi. Soltanto un personaggio non gli è riuscito, ma forse si tratta di antipatia personale. Sam Gamgee, lo scudiero fidato, è senz’altro un personaggio rispettabile e suppongo dovremmo apprezzarlo, però a me fa solo venir voglia di prenderlo a calci.

Probabilmente la più grande impresa di Tolkien è esser riuscito a scrivere un romanzo epico che sembra del tutto pertinente alla realtà dell’epoca in cui viviamo. Quando leggiamo storie medievali del medesimo genere, per quanto piacevoli le possiamo trovare, siamo talvolta tentati di domandare al Cavaliere Errante: la tua missione è così importante? Persino nella ricerca del Sacro Graal, il successo o il fallimento sono rilevanti soltanto per quelli che la intraprendono. È difficile scrollarsi di dosso il sospetto che, nel caso dei suddetti Cavalieri, la loro ‘vocazione’ sia un termine altisonante che designa il passatempo a cui i più ricchi possono giocare mentre il duro lavoro è svolto dai ‘villani’. Ne La Compagnia dell’Anello, al contrario, il destino dell’anello segnerà l’esistenza di popoli interi, che magari nemmeno l’hanno mai sentito nominare. Inoltre, come accade nella Bibbia e in altre fiabe, l’eroe non è un Cavaliere, a cui il lignaggio e l’educazione abbiano donato una aretè fuori dal comune, ma un hobbit non diverso da tutti gli altri. Non è il saggio Gandalf, o il potente Aragorn, che viene chiamato a compiere questa missione pericolosa e potenzialmente mortale, ma Frodo Baggins, il quale volentieri ne farebbe a meno; e se ci domandiamo perché proprio lui, e non uno delle centinaia come lui, l’unica risposta è che il caso, o la Provvidenza, lo ha scelto, e lui non può che obbedire.

Se esistono persone per le quali leggere La Compagnia dell’Anello può essere dannoso (e probabilmente ce ne sono), si tratta di coloro che ne trarranno un parallelismo troppo letterale alla nostra attuale situazione. In un romanzo è giusto e naturale che le idee malvagie siano incarnate in creature malvagie, ma se guardiamo alla storia questa è una teoria pericolosa. Viviamo purtroppo in un’epoca nella quale se pensiamo a ideologie perverse, subito possiamo localizzare sull’atlante la posizione di Dol Guldur e Barad-Dûr (credo di essere in grado di identificare Minas Tirith, anche se il New Statesman, da sinistra, non mi darebbe ragione); sarebbe un errore, tuttavia, concludere che tutti gli abitanti ad Est dell’Anduin siano Orchi da sterminare.

Null’altro ho da aggiungere su quest’opera magnifica se non che è piuttosto indelicato da parte dell’editore non pubblicare contemporaneamente al primo i due volumi successivi, Le Due Torri e Il Ritorno del Re: mi è insopportabile dover aspettare per scoprire cosa accada al Portatore dell’Anello. Spero poi che nella seconda edizione infileranno la mappa in una busta al posto di incollarla alla copertina: come me, infatti, molti lettori la staccheranno per poter seguire il percorso della storia, col rischio di perderla. Per finire, a chi (come il sottoscritto) scorre nelle vene sangue Nano, piacerebbe che il signor Tolkien disegnasse anche una carta geologica.

 

Wystan Hugh Auden

 

Fonte

http://www.pangea.news/auden-recensione-tolkien-signore-anelli/

Edizioni Le Assassine: le donne al centro della letteratura gialla

Edizioni Le Assassine, diretta da Tiziana Elsa Prina, è un piccolo gruppo di appassionate/i di crime che da anni lavora nel mondo editoriale, occupandosi di scelta dei libri, traduzioni, editing e comunicazione. La casa editrice propone la letteratura gialla, declinandola nelle sue svariate sfaccettature – giallo a suspence, deduttivo, hard boiled, psicologico, noir –, negli stili più diversi – fantasiosi, essenziali, sofisticati, semplici, d’antan – e nei contesti geografici più vari – Marocco, Malesia, Canada, ma anche Germania, Francia, solo un piccolo esempio dei Paesi da cui vengono le scrittrici.

 Il logo di Edizioni Le Assassine è un volto enigmatico, che rievoca donne un po’ misteriose, immerse in un’atmosfera inquietante. 

Pur spaziando dall’enigma della camera chiusa al thriller psicologico, al noir, Edizioni Le Assassine ha “un centro di gravità permanente”: protagoniste della narrazione, oltre che le scrittrici, ci sono nel bene e nel male le donne, talvolta vittime e talaltra vessatrici.

Si è voluto avere, inoltre, uno sguardo più ampio sul mondo e così è stato pensato, di dedicarsi ai romanzi stranieri, mettendosi sulle tracce di penne che abitano i quattro angoli del globo e delle storie che più entusiasmano.

La ricerca non si ferma al presente, la passione per il crime, come una macchina del tempo, ha portato alla scoperta di scrittrici del passato, coraggiose pioniere di questo genere, A volte potranno sembrare distanti perché soggette a certe convenzioni letterarie e sociali, ma non per questo sono meno capaci di creare atmosfere intriganti.

La scelta di trattare la letteratura gialla non solo al femminile ma anche di scrittrici straniere sia viventi, per la collana Oltreconfine, che non per quella Vintage ha catalizzato l’attenzione di molte testate nazionali, trasformando Edizioni Le Assassine in un caso editoriale.

 

L’urlo dell’innocente per la collana Oltreconfine delle Edizioni Le Assassine

L’ultima uscita sul mercato editoriale de Le Edizioni Assassine è L’urlo dell’innocente di Unity Dow.

Unity Dow, giudice, attivista per i diritti umani, scrittrice e ministro del governo del Botswana è nata in un’area rurale dove i valori tradizionali erano dominanti; ha frequentato Giurisprudenza all’Università del Botwsana e dello Swaziland e poi a Edinburgh in Scozia, suscitando con la sua educazione occidentale un misto di stima, ma anche di sospetto. Impegnata nella difesa dei diritti delle donne, è stata tra le fondatrici di EmagnBasadi, la prima organizzazione femminile del Paese. Si è occupata dei diritti dei gay e ha partecipato anche alla creazione di Aids Action Trust. Prima donna giudice dell’Alta Corte del Botswana, si è impegnata molto per la democratizzazione delle leggi del Paese, per esempio nell’ambito del diritto di famiglia.

Personaggio poliedrico, ha dimostrato il suo valore anche come scrittrice; nei suoi libri spesso emergono i conflitti tra i valori occidentali e quelli tradizionali, ma anche i problemi riguardanti i rapporti tra uomo e donna in un continente afflitto dalla povertà come quello africano. Dow ha contribuito al libro Schicksal Afrika (Destino Africa) dell’ex presidente tedesco Horst Koehler (2009), e ha spesso fatto parte di missioni dell’Onu in Sierra Leone e Ruanda. Oltre al conferimento della Legion d’onore francese, Unity Dow è stata menzionata al Women of the World Summit nel marzo 2011 come una delle 150 donne che “scuotono il mondo”. Dal 2013 è entrata in politica e da allora ha più volte rivestito il ruolo di ministro.

Sinossi

Una ragazzina di dodici anni sparisce nei pressi del suo villaggio, nel Botswana. La polizia locale dice alla madre che è stata presa e uccisa dalle bestie feroci. Cinque anni dopo, la giovane Amantle Bokaa viene inviata in quel villaggio sperduto dell’Africa per assolvere un tirocinio nell’ospedale, e lì accidentalmente trova una scatola dalla misteriosa etichetta. La scatola contiene qualcosa che riporta al caso ormai archiviato e dà luogo alla ricerca della verità, verità che risulterà ben più terribile di quanto Amantle possa immaginare.

 

La guardava senza malizia: semplicemente la voleva, ne sentiva il bisogno. Certo, nel volerla e nel sentirne il bisogno c’era una qualche forma di affetto, anche se era difficile definirlo tale. E lei era, a conti fatti, disponibile. La guardava ridere con gli amici, gettando la testa all’indietro, mentre forse imitava con le braccia il volo di un uccello. Era intenta a raccontare una storia divertente ai compagni e tutti l’ascoltavano. Probabilmente stava facendo la sciocchina, come talvolta succede ai ragazzini. Qualsiasi cosa stesse facendo, non si era accorta che lui la osservava. Era la seconda volta che con l’auto passava accanto a quel gruppetto di bambini. Non aveva avuto difficoltà a riconoscerla, l’aveva già puntata in precedenza. No, la guardava senza malizia, senza volerle fare del male o causare dolore ai suoi famigliari. Semplicemente la voleva, ne sentiva il bisogno: dopo, il dolore sarebbe stato inevitabile. Sotto ogni aspetto lo si poteva considerare una brava persona

“Questo romanzo pubblicato da una piccola casa editrice australiana che ho trovato alla Fiera di Francoforte non è solo un thriller nato dalla fertile fantasia di uno scrittore, ma una storia che si basa su un caso vero o, forse, sarebbe meglio dire su casi veri di omicidi rituali. L’autrice, che tra l’altro è una donna nota nel continente africano per le sue battaglie per i diritti civili, ci porta infatti in un mondo sconosciuto a molti occidentali e attraverso la narrazione riesce non solo a creare quella suspense che si cerca in questo genere di romanzi, ma a farci capire aspetti di una società così lontana dalla nostra. Un libro, insomma, che incuriosisce, ma che strappa anche il cuore per quel che ci mostra” – ha dichiarato l’editrice Tiziana Elsa Prina

Edizioni Le Assassine: Il mistero della vetreria per la collana vintage

Edizioni Le Assassine arricchisce la sua collana vintage con Il mistero della vetreria di Margaret Armstrong, scritto nel 1939 con il titolo Murder in Stained Glass.

Margaret Armstrong nasce nel 1867 a New York da una famiglia socialmente molto in vista. Per gran parte della sua vita è illustratrice molto apprezzata di copertine in stile Art Nouveau e solo in età avanzata si dedica alla scrittura, diventando un’esponente tardiva della Golden Age. Come il padre, grande conoscitore dell’arte vetraria, e una sorella, Margaret si distingue per le sue doti artistiche e in tarda età abbandona l’attività di illustratrice per dedicarsi alla scrittura, pubblicando due biografie e tre romanzi gialli molto apprezzati dalla critica; tra i suoi lettori si annovera anche Agatha Christie.

Sinossi

La signorina Trumbull, agiata e frizzante newyorkese di mezza età, decide di lasciare la sua comoda dimora per andare a trovare la vecchia amica Charlotte. Non può sottrarsi all’invito, che prevede però già noioso, sia perché preferisce la vita effervescente di New York alla tranquillità della campagna, sia perché considera la donna un po’ triste e cupa. Tuttavia le sue previsioni saranno del tutto scombinate quando nella fornace della vetreria di Frederick Ullathorne, noto creatore di vetrate artistiche, verranno ritrovati resti umani. Grazie alla sua spiccata curiosità e a un’innata capacità investigativa, la signorina Trumbull si troverà così coinvolta nell’indagine ̶ che si rivela alquanto complicata ̶ per scoprire chi era la vittima e chi l’assassino; la guida la certezza di essere più abile del detective incaricato del caso, e di riuscire a “vedere ciò che altri non hanno visto”. Non sa che la sua intraprendenza potrebbe costarle cara.

Immagino che il tempo, bello o brutto che sia, abbia spesso fatto la differenza nella vita delle persone. È un’ovvietà, senza dubbio: tuttavia quando ripenso alla parte che ho avuto nel caso Ullathorne, mi rendo conto che se il sole non fosse stato così splendente in quel particolare lunedì mattina dello scorso marzo, niente di quello che è avvenuto a Bassett’s Bridge sarebbe accaduto esattamente nello stesso modo, e anzi una parte non sarebbe successa affatto. Perché io non sarei stata là. Era un po’ come quella filastrocca che diceva: “E venne il gatto che si mangiò il topo, che al mercato eccetera eccetera”.  il tempo non si fosse messo al bello, non sarei andata a far visita a Charlotte Blair

Haycraft, uno dei maggiori studiosi del genere giallo,  considerò Margaret Armstrong tra le migliori scrittrici che ricorsero nei loro romanzi alla tecnica dell’HIBK (Had I But Know ovvero “se lo avessi saputo”), di cui un’altra autrice americana, Mary Roberts Rinehat, fu l’iniziatrice

Ella utilizza questa tecnica, soprattutto nella parte iniziale e in quella finale. L’elemento caratterizzante era costituito dal narratore, di solito una donna, non più giovane e benestante, che si lamentava per le cose che avrebbe potuto fare per prevenire i terribili crimini esposti nella storia, se solo avesse avuto l’acutezza di prevederli.

Mentre per alcune detective amatoriali HIBK l’accusa è quella di mancare di razionalità e dunque di presentare un’investigatrice che resta incapace di risolvere il caso e che deve alla fine rivolgersi a un uomo per risolverlo, la nostra signorina Trumbull sa investigare con vigore e intelligenza e giunge alla soluzione più logica, se solo l’autrice non intervenisse con un paio di mosse che portano a un esito inatteso della vicenda.

Insomma, ci viene presentata una figura di donna agiata, determinata e single e che a tratti ci meraviglia per la sua libertà di pensiero e di azione: in nuce ha tutte le caratteristiche della donna emancipata che sa bastare a se stessa, pur non rinunciando a un certo lato romantico soprattutto nei confronti di due giovani personaggi della storia che faticano a coronare il loro sogno d’amore: in quel caso si presenterà non più come una novella Sherlock Holmes ma come la Fata Turchina.

Un altro elemento interessante del libro e della tecnica narrativa a cui si faceva riferimento è la narrazione in prima persona, che nel giallo della Armstrong riesce a dare un tono leggero e anche divertente all’intera vicenda, cosa non facile visti i tranelli e le difficoltà che pone l’utilizzo della prima persona al posto della terza. Immaginiamo infatti un personaggio come Miss Marple che narra in prima persona invece che in terza come perderebbe molto della sua attrattiva, anche se in fondo entrambe le investigatrici hanno almeno una somiglianza: la capacità di trarre informazioni dalle chiacchiere degli altri.

Abbastanza curioso, poi, il fatto che uno dei personaggi più immorali e spiacevoli del romanzo abbia la stessa professione del padre della Armstrong. Che in qualche modo rispecchiasse una relazione difficile padre-figlia?

Anche Charlotte, l’amica dell’investigatrice improvvisata, ricorda vagamente la scrittrice: le accomuna la passione per la natura, che portò l’autrice a viaggiare per il West, raccogliendo nozioni sui fiori selvatici che poi mise in un libro.

Domina comunque sull’intera storia il personaggio della signorina Trumbull, che inizialmente indaga per curiosità, ma poi viene spinta dalla volontà di anticipare le mosse della polizia per soddisfare un suo personale bisogno, quello di arrivare a un finale del caso che sia positivo per le persone che le sono care, più che per un senso di giustizia. Non manca infatti un lato romantico della donna che influenza talvolta le sue teorie, rendendole un po’ fantasiose, anche se poi lei sa prendere in mano le situazioni con molto senso pratico.

Pur trovandoci di fronte a un delitto, non proviamo angoscia, ma curiosità per il dipanarsi della vicenda, e il modo leggero in cui la donna tratteggia personaggi e situazioni spesso ci strappa un sorriso.

 

Fonti

https://edizionileassassine.it/prodotto/lurlo-dellinnocente/

https://edizionileassassine.it/prodotto/il-mistero-della-vetreria/

 

 

Exit mobile version