Leggendo Il male oscurodi Giuseppe Berto ci si accorge di come, nei suoi tratti essenziali, l’approccio alla sofferenza psichica sia rimasto sostanzialmente invariato dal tempo in cui l’opera fu scritta. Bisogna che l’autore passi per trecento pagine di romanzo circa – attraversando svariate peripezie, quali farsi aprire la pancia da medici dalle competenze piuttosto discutibili –, prima che si decida ad intraprendere un percorso psicoterapico. Un retaggio, più folcloristico che religioso, spingeva Berto a considerare l’ulcera da cui era affetto come castigo divino.
Lo scrittore fugge dall’ospedale dove è ricoverato il padre poco prima che un cancro all’intestino lo uccida. Narra di quanto fosse infastidito dall’odore sgradevole emanato da quel corpo, ma ancor più dalle recriminazioni che le sorelle e la madre elargivano generosamente, sebbene in una situazione tanto delicata. Da qui il senso di colpa; lo spirito autoritario del padre che migra in un Super-Io severo e schiacciante; il malessere inteso come un’espiazione dovuta. L’ombra nera del genitore si spiega sull’esistenza di Berto, che procede a tentoni incapace di identificare il mostro che lo tiene prigioniero.
Comprendiamo il male del corpo, ma non quello della psiche; e solo chi non ha conosciuto l’intensità di tali crisi si avventerebbe a difendere le ragioni dell’uno sull’altro. Ancora: è assurdo il pensiero stesso che si considerino scisse le due parti. Il disturbo d’ansia generalizzato è paura che impedisce un normale svolgimento della vita, impedisce a chi ne è affetto di uscire a fare la spesa, di incontrare persone. La sensazione di pericolo costante porta a una produzione di adrenalina in eccesso, in modo tale che a metà giornata si è esausti pur non avendo fatto nulla. Concentrarsi su di un’azione semplice risulta impossibile, figuriamoci se si pretende, ad esempio, di studiare. Interviene quindi la paura della paura (ovvero lo stato ansioso indotto dal timore di rivivere una crisi), che rende sgradevoli anche i rari momenti in cui ci si sente più sereni.
Una maggiore possibilità di accesso al sentimento della noia, scardinare il privilegio del negozio sull’ozio, potrebbe forse renderci meno ciechi a noi stessi. È una spiacevole circostanza che fagocita la stessa comunità intellettuale-artistica, che, più di altre, dell’ozio e della noia dovrebbe essere attenta conoscitrice. Ma la chiamata alla produzione rimane pervasiva.
Nello stile di Berto deflagra la sintassi, potremmo dire che egli cerchi una forma che sia la trasposizione letteraria del rimuginìo nevrotico. Eliminando la punteggiatura è il ritmo stesso ad essere abolito. Il testo è un monolitico agglomerato della psiche, inestricabile matassa di pensieri che non dà tregua all’intreccio, che più si affanna nella narrazione e più si aggroviglia. Sul telaio dell’anima i fili dell’infanzia – con gli anni del collegio e del luna park, dei veneziani bene in visita alla provincia, della bicicletta da femmina che deve servire anche alle sorelle – infittiscono con quelli dei tempi più recenti, della guerra e delle avventure erotiche del Berto ormai adulto.
Altro filo è quello che annoda l’opera di Berto a Dissipatio H.G.di Morselli. Si tratta di un atto di opposizione intransigente, che entrambi i testi presuppongono. In Berto – si è visto – il conflitto è con la figura paterna, maresciallo dei carabinieri all’Arma Nei Secoli Fedele, simbolo della Patria, dell’Onore, e di tutte le maiuscole necessarie ad accreditare un portato di valori fascisti che si decompongono nel secondo dopoguerra, e della cui dissoluzione Berto è diretto testimone. Morselli, dal canto suo, si schiera contro un nemico se possibile ancora più temibile: il mondo delle banche; dei cartelloni pubblicitari che ripropongono sotto mentite spoglie – le Bahamas- l’archetipo dell’Isola dei Beati; della spietata, e inarrestabile, corsa del tempo sui quadranti degli orologi della sua Zurigo. Il nemico è qui una società meccanicistica, crudelmente funzionale, fatta di narrazioni sempre più stringenti e pervasive, che relega ai margini ogni realtà incapace a rispondere debitamente al paradigma imposto.
Morselli eredita da Zurigo una passione per il calcolo, segnalata dallo stesso Manganelli in quarta di copertina, che così definisce la scrittura dell’autore: “un gelo mentale matematico”. È in questo snodo della sua fatale lotta che Morselli si allontana drasticamente da Berto: nello stile. Dissipatio H.G. è un costrutto logico di capovolgimenti, paradossi, tautologie severamente irregimentate dalla punteggiatura, che frena e rilancia il lettore secondo la sua volontà. Nella prosa morselliana scopriamo il ticchettio, l’ingegneria orologistica dell’amata e odiata Svizzera, il rintocco delle campane che, più ancora del tempo, segnano la funebre uscita dalla grotta del Sifone, come fosse una nascita alla morte. La struttura della pagina di Morselli suscita il macabro ricordo del rito edificatorio dei babilonesi. La pratica prevedeva che il primo palo spinto nella terra si configgesse nella testa del serpente originario, che si credeva ivi sepolto; in tal modo veniva replicata l’uccisione mitologica di Tiamat per mano di Marduk. Il rito era necessario affinché venisse assicurata la stabilità della costruzione. Morselli morì suicida dopo aver ultimato la stesura di Dissipatio H.G.,; quasi a dire che la salma su cui doveva erigersi l’axis mundi della sua opera non poteva essere che quella dello stesso autore.
Con “Nessuna come Lei”, Sara De Simone, vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society, penna critica del Manifesto e traduttrice, ha dato luce ad aspetti solitamente poco esplorati, vagamente raccontati o clandestinamente trasmessi, non solo della biografia delle due grandi autrici Mansfield e Woolf, ma di una certa storia della letteratura che ha a che fare con le abitudini, i canoni e le convenzioni sociali, così come le abbiamo ereditate.
La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che parlano dei propri libri […] e si guardano negli occhi, e si temono, e si ammirano. E sono amiche
Pubblicato nel gennaio di quest’anno per i Colibrì di Neri Pozza, Nessuna come lei è un’autentica biografia di un’amicizia che al contempo racconta di un quotidiano tanto difforme – per quanto radicalmente simile – due vite da scrittrici perfettamente parallele.
Con serietà, accortezza e intelligenza, Sara de Simone restituisce gli anni del fervore artistico e intellettuale europeo del XX secolo. Dal 1916 al 1941, aneddoti intimi e mondani si intrecciano alla storia letteraria e sociale. Ai carteggi – significativamente importanti ai fini delle relazioni intrattenute dalle due scrittrici non solo fra di loro, ma anche con le persone coinvolte nelle loro vite – si aggiungono i diari, gli esimi testimoni di quello che risulta essere il fulcro vitale del libro, la sua ragione d’essere. In poche parole, la volontà di restituzione di un’ostinazione verso il vero, di una ricerca essenziale – ai limiti dell’ossessione – della verità non solo artistica, ma anche umana.
Una verità che De Simone ha voluto illuminare, raccontare – finalmente – dalla parte delle donne. Due, queste, che risultano irraggiungibili a loro stesse e fuse allo stesso tempo. Parallele perché in una condivisione quasi timida e tacita di una fragilità e sensibilità impareggiabili. Entrambe soffrono, si ammalano, vivono una posizione orizzontale che, nella costrizione, trasformano in azione creativa, in ricerca di quella stessa cosa che è uno sguardo differente che verte sulle differenze.
Sara De Simone lo racconta lungo tutto il libro, senza troppo ripeterlo, quanto la ricerca del vero di Mansfield e Woolf abbia abitato i loro inchiostri, immortali e discussi, sinfonici e vivifici, di falsa invidia e forse, pura gelosia.
Un lavoro di ricerca mastodontico, “Nessuna come Lei”, che in sostanza serve due voci umane di donne pilastro nella storia della letteratura. Il risultato di questa ricerca, secondo la penna di chi scrive, è che una delle due voci, quella di Virginia Woolf, che quasi si invocherebbe a mainstream – da postuma influenza la ricezione dell’altra, di Katherine Mansfield che, a sua volta, ha fatalmente viaggiato davanti, ha influenzato la scrittrice che Woolf è diventata.
Ci si augura che a questo saggio biografico ne seguano altri. Che pubblico resti, questo amore per le parole, il loro peso, il loro infinito silenzio.
«Entrambe mettevano la letteratura al primo posto. E questa non era un’affinità come un’altra: era tutto. Era come essere partecipi di un rito segreto, come camminare sulle stesse zolle di terra incandescente, dove nessun altro osava avventurarsi».
«Mio Dio, Virginia, adoro pensare a te come un’amica». – Katherine Mansfield
Non c’è niente di stantio in Sulla Strada di Kerouac. Niente di retorico, niente di superfluo, niente di invecchiato male. Se si torna al libro- lasciando perdere la sua abusata mitologia, l’esasperata devozione dei suoi cultori- si ritrova una vitalità intatta, splendida, seducente. È un libro che parla di oggi, perché, anche se all’epoca divenne di moda, non ha nessuna concessione alle cose più stereotipate della beat generation, alle cose che sono diventate più presto logore. Parla di cose eterne. Parla di amicizia, innanzitutto: ed anzi, prima ancora che di strada e di viaggio, mi sento di dire che questo libro sia innanzitutto l’enorme atto di amore che Jack Kerouac- Sal Paradise nel romanzo- tributò al suo amico fraterno Neal Cassady- reso immortale con l’ormai leggendario nome di Dean Moriarty.
Il beat di Kerouac
A ben vedere, Kerouac- così come si dipinge nel suo libro, almeno- non è del tutto addentro alla follia del beat, non sposa del tutto quella vita, ed anzi: in lui rimane sempre un’impostazione sostanzialmente borghese, una resistenza a rinunciare del tutto ad una certa idea di stabilità, di realizzazione personale, di compimento “classico” della propria vita. Più profondamente, in Sal Paradise (alter ego di Kerouac) resta, in tutto il libro, la nostalgia di un paradiso perduto- forse in questo senso il suo è un nome parlante- di un eden nel quale riposarsi, di una casa nella quale finalmente placare la propria irrequietezza, la propria ansia famelica di vita.
Probabilmente, è proprio questa posizione mediana tra salute mentale e follia, tra vita regolare e viaggi pieni di eccessi, tra aspirazione alla monogamia e promiscuità, tra una solida base letteraria (nel libro si mostra evidentemente che Kerouac conosce Dostoevskij, Hemingway, Melville) e concessioni allo slang e al linguaggio disarticolato e primitivo del beat, che Kerouac riesce a diventare il cantore più autentico di quella generazione, quello che abbia saputo trarre l’opera più longeva e capitale da quella stagione fatta di cose effimere e fugaci. È rimasto dentro il beat quanto bastava per poterlo raccontare- e raccontarlo come si racconta qualcosa che si ama, senza snobismo, alterigia, paternalistico distacco-, ma abbastanza a distanza da non farsene fagocitare, da non soccombere dentro di esso.
Dean Moriarty, un personaggio consapevolmente confuso
E questa devozione a quella stagione, a quegli autori, a quei viaggi, a quel tentativo folle e disperato di dettare una nuova visione al mondo, è anzitutto la devozione al suo amico, a Neal. Dean Moriarty è un personaggio tra i più riusciti della letteratura mondiale, e si vede che Kerouac descrive qualcuno che ha profondamente amato, il suo più fraterno amico, quello del destino. C’è qualcosa di commovente, tremendamente commovente e straziante in questa amicizia che sostiene tutto il romanzo, che anima tutti questi viaggi senza meta. Sal Paradise è un giovane di belle speranze, mantenuto dalla zia, che vuole fare le cose a modo, in fondo: fare l’università, diventare scrittore, mettere su famiglia, fare una buona carriera. I suoi sogni sono ancora sogni borghesi, sogni di una borghesia onesta, che sa cogliere la nobiltà di una certa quotidianità, senza farla precipitare in mediocrità, in spirito gregario, in acquiescenza.
Ma dentro questo ragazzo borghese alberga anche una confusa consapevolezza: e cioè che tutto ciò che il mondo gli sta lasciando in eredità è ripugnante e falso. Falsa la politica, falsa l’arte, falso il vivere civile, falso lo spettacolo e falso l’intrattenimento; falso anche tutto ciò che si dice sull’amore, sulla fedeltà e il matrimonio; falsa la scienza prona al potere e che in quegli anni raffinava la bomba atomica e faceva aleggiare sul mondo lo spettro dell’apocalisse imminente, falso lo stesso potere, falsa la religione nelle sue forme ingessate, piccolo-borghesi, istituzionalizzate, moribonde. Malgrado il suo temperamento e la sua formazione siano sempre nostalgiche dell’ordine, del senso e della direzione; Sal Paradise si trova spaesato in un mondo dove l’ordine ha lasciato spazio al caos, in cui nessuno sa più dove andare, cosa seguire, chi cercare, e dunque tutto diventa un folle e caleidoscopico viaggio senza direzione e senza requie.
Un viaggio tra bellezza e follia
Una sola cosa conforta, una sola cosa salva: la vita stessa, quella che si dispiega lungo il viaggio, i volti i nomi e le strade, l’America infinita e sterminata, l’ebbrezza del vento in faccia e la vertigine di voler arrivare ai confini del mondo, la folle libertà dei pionieri, lo spettacolo inesauribile dell’umanità malgrado tutto stupenda, la bellezza della strada, di una macchina, della velocità. Tutto questo sarebbe rimasto solo un confuso sogno di uno scrittore introverso e senza una particolare disposizione al viaggio- Sal Paradise, si apprende quasi a metà del romanzo, detesta guidare, ha una paura vera degli incidenti-, se Sal non avesse conosciuto Dean.
Dean è la personificazione della coscienza infelice di Sal, la follia incarnata, l’uomo che ha il coraggio di essere ciò che lui- con la sua attenzione malgrado tutto riservata alla sicurezza, al sogno di una moglie, alla propria rispettabilità, alla propria sopravvivenza- non avrebbe mai il coraggio di diventare. Abbandonato presto dal padre alcolizzato, cresciuto senza famiglia e allevato dalla strada, capace di perdere la verginità a dodici anni, di ingerire quantità abnormi di alcool e di guidare senza sosta da un capo all’altro dell’America, Dean non è solo un amico: è l’epifania della vita di Sal, l’illuminazione di ciò che deve fare, qualcosa che dà un nome e un volto alla sua perenne irrequietezza, alla sua insoddisfazione segreta e prorompente per la sua vita borghese.
Nulla ferma la pazzia di Dean: né le due mogli sperse in angoli sempre distanti dell’America, né la figlia, né l’incedere dell’età: la sua è un’esistenza da esteta, a cui Sal perdona tutto, la sua totale mancanza di affidabilità, il suo procedere verso zone di riflessione sempre più lontani dal senso comune e dalla comprensibilità, il suo essere essenzialmente avvitato su sé stesso, capace anche di grandi slanci di generosità ma in definitiva egoista, addirittura solipsista nel suo modo di vivere la vita ed i rapporti. Sal vede che Dean non è un amico: non gli dà, dell’amico, né le garanzie né il vero conforto affettivo. Ma gli dà la possibilità di viaggiare, l’ebbrezza delle notti, i versi dei poeti, il cemento della strada, le vaste e ineffabili prateria d’America.
Per lui- ma non solo per lui- la presenza di Dean va goduta per quello che è: uno spettacolo, una manifestazione inedita e esorbitante di energia, l’esplosione assurda e incessante di una vitalità estrema, insensata, che arde al punto di arrivare al parossismo. Nessuno è disposto a seguire Dean in questa folle corsa all’annientamento: ma tutti gli sono grati di essere così, di scuotere le esistenze degli altri altrimenti così grigie, monotone, ripetitive. Sal lo sa, come lo sanno tutti: ma lui è il solo e riconoscerlo, il solo a proclamare amore per quel grande e spettacolare matto. In lui Sal vede una scintilla che non ha niente di manieristico, di costruito, di artificioso- così diversa dalla finta pazzia di tanti artisti o sedicenti tali, che si atteggiano, magari proprio ispirandosi al beat, a folli solo come posa letteraria… Sal ama di Dean la sua genuinità, malgrado tutto conservata: la sua purezza.
“Lui era soltanto un ragazzo tremendamente eccitato dalla vita, un imbroglione, certo, ma solo perché aveva quest’ansia di vivere e di mescolarsi a gente che altrimenti non gli avrebbe prestato la minima attenzione”
I viaggi del libro di Kerouac sono quattro, uno per ogni parte del romanzo. La prima volta Sal parte da solo, in autostop e con i mezzi, da New York, raggiunge Dean a Denver, dove lo trova impegnato in folli dispute notturne con Carlo Marx- alter ego di Allen Ginsberg-, e allora se ne va nel West, dove trova impiego come poliziotto. Deve essere un fatto vero della vita di Kerouac questo, ma non crediamo sia casuale la scelta di inserirlo nel romanzo. Questo infatti mi sembra anche un grandissimo libro sulla lotta intestina che si svolge da sempre dentro l’America, la stessa lotta che oggi infuria e che minaccia di far saltare l’unità stessa di quella nazione.
All’epoca infatti gli Stati Uniti iniziavano a vivere quel paradosso di nazione nata sul concetto stesso di libertà ma, ad un tempo, sempre più obbligata dal peso internazionale di stato più potente del mondo a convertirsi silenziosamente in uno stato di polizia, e poi in poliziotto globale. C’è un’America che sogna la prateria, i lunghi viaggi sterminati, la natura, amare i propri fratelli che si trovano in fondo alla strada; e un’America che invece ha tutte le esigenze di uno stato sempre più accentratore, securitario, pervasivo.
L’America di Kerouac
C’è l’America libertaria e l’America della burocrazia. Sal Paradise che veste di malavoglia i vestiti da poliziotto è allegoria stupenda di questa America che esercita da anni ordini senza crederci più, vedendo in modo lampante la loro assenza di legittimità. Quando Sal torna, ogni volta è la stessa storia: proprio quando sta per accomodarsi nella sua vita borghese, nella placida tranquillità della sua vita ordinaria, Dean arriva alla sua porta e lo trascina in un nuovo viaggio verso l’Ovest. Troppe le cose raccontate, in quello stile nervoso e sincopato, in quella scrittura che si muove sempre più aderente alla vita, senza più mediazioni artificiose, sempre più attaccata alla pelle delle cose, per poterle citare tutte. Citiamo alcuni brani a campione, per dire la pazzesca maestria che aveva Kerouac nel mostrare non soltanto l’estasi del viaggio- del sesso, della strada, degli incontri- ma anche la malinconia sottile di questa vita fatta tutta di gente sfiorata e poi dimenticata, il senso di afflizione di non poter tenere tutto il mondo con sé, nella sua commovente vastità e varietà, di doversi rassegnare a perdere tanto di ciò che s’è visto.
“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e perdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio”.
<<Dissi a Terry che me ne andavo. Lei ci aveva pensato tutta la notte ed era rassegnata. Mi baciò senza emozione nel vigneto e si allontanò lungo il filare. Dopo una decina di passi ci girammo, perché l’amore è un duello, ci guardammo per l’ultima volta. “Ci vediamo a New York, Terry”, dissi. Terry aveva in programma di raggiungermi di lì ad un mese, in macchina con suo fratello. Sapevo entrambi che non ce l’avrebbe fatta. Dopo una trentina di metri mi girai a guardarla. Lei continuò a camminare verso la baracca con il piatto della colazione in mano. Chinai il capo senza smettere di guardarla. Ero di nuovo sulla strada, ahimè>>.
“Avrei voluto andare a prendere di nuovo Rita per dirle molte altre cose, e far veramente l’amore con lei, e calmare la sua paura degli uomini. Ragazzi e ragazze hanno rapporti così tristi in America; snobismo vuole che cedano immediatamente al sesso senza adeguate parole preliminari. Non parole di corteggiamento, ma sincera apertura dell’anima, perché la vita è sacra e ogni momento è prezioso.”
Alla fine questa folle corsa dove conduce? Strano a dirsi, in Messico, dove Sal e Dean sembrano trovare requie perché incontrano un popolo strano e gentile, dagli sguardi accoglienti, un modo di vivere sano e semplice, attaccato ai ritmi della terra, senza tutta quell’insensata diffidenza e quella morbosa paura che stava avvelenando l’America. Il segreto del mondo sembrano trovarlo dentro gli occhi degli indios, il popolo più negletto e mortificato della terra. Dice di loro Dean
“Non c’è sospetto, qui, niente del genere. Tutti sono rilassati, tutti ti guardano in faccia con i loro occhi scuri e non ti dicono niente, guardano soltanto, e nel loro sguardo ci sono ancora tutte le qualità umane più dolci e tenui. (…) gente onesta e gentile, che non fa scherzi.”
Tra viaggio e fuga
Forse tutta quest’ansia di viaggiare era solo una folle fuga, un’incapacità di riconciliarsi con la propria terra, i propri luoghi, i propri volti più famigliari. Lo stesso Dean Moriarty, forse, non fa che cercare per tutto il continente quel padre che non ha più rivisto, dal quale non si è mai sentito amato. Ma, sia come sia, questa psicologia non è interessante. Ciò che è bello e struggente è che Sal Paradise, anni dopo, quando ormai avrà raggiunto quell’agiatezza e quella realizzazione borghese di una vita in ordine, come antidoto contro l’incedere della vecchiaia e la ripetitività dei giorni non ha nient’altro che pensare a quell’amico, a quello che è stato il brandello della sua vita accanto a lui, che altri liquidano ormai come un periodo di perdizione giovanile ma che in realtà lui custodisce in sé come il momento più vero e autentico della sua vita. Il momento in cui tutto roteava attorno a loro come uno spettacolare caleidoscopio- le donne, i volti, i luoghi, l’America tutta- e dentro il cuore rovente del mondo c’erano solo lui e il suo amico, disposti a ogni cosa pur di cogliere fino in fondo il segreto della vita.
<<E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta questa terra nuda che si srotola in un’unica incredibile massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty>>.
Si narra che la poesia sia più antica della civilizzazione e, in epoche assai remote, imbrigliava la follia del mondo nel modo più potente e fertile, esaltandone la linfa. Poi tutto mutò…
In origine la scena del mito, dove si presentavano dèi, uomini e cose, era la natura; la quale evocò negli uomini un ordine fondato sul disordine originario dei fenomeni del mondo, che fino ad allora aveva consentito di assimilare per analogia il reale, senza ucciderlo o disprezzarlo. La complessità della rugosa realtà da stringere era ancora onorata, benché temuta.
E infine accadde l’irrimediabile frattura.
Un mirabile storico delle idee racconta che il razionalismo mistico dell’antichità, il pensiero greco a Eleusi, disprezzava la carne e cercava di sostituire la creazione divina con qualcosa di proprio. All’alba della ragione autonoma, il razionalismo filosofico si spinse oltre e fu un pallido surrogato di quello mistico, giacché predicò la fiducia nelle sole proprie forze, ossia in un universo costruito con la logica, la geometria, la chimica.
Jacob Taubes, a sua volta, aggiunse che tendenzialmente i filosofi moderni oltrepassano l’ambito ontologico della filosofia classica greca, che, comunque intesa, girava ancora intorno a un’elaborazione del concetto di natura; concetto nel quale perfino la teologia cristiana era inclusa, poiché essa separava l’ambito naturale da quello sovrannaturale, cogliendo dunque l’ambito sovrannaturale attraverso concetti naturali. Il principio gnostico era già presente, ma le categorie meta-fisiche, allora, erano ancora fisiche, determinate dalla norma della physis.
La categoria universale della filosofia moderna al contrario non fu più rappresentata dalla natura, ma da un sistema di riferimento totalmente nuovo: lo spirito autonomo e i suoi corollari – interiorità, mente, intelletto. Le categorie della filosofia moderna furono trascendentali, non metafisiche. La sua norma non era la natura, ma ciò che veniva prodotto esclusivamente dall’uomo, da colui che si voleva superiore alla natura. La matematica moderna, infatti, non parlava più la lingua della natura. Venne così meno ogni costitutiva mondanità, la simbolica del mondo esteriore, che, rispetto al passato, si tradusse in mera allegoria, vuota idealità e vuota trascendenza di un io artificiale. Se la dissacrazione ebbe origine con la filosofia greca, e proseguì con la rivelazione monoteistica – poiché, “più netto della linea di separazione posta dalla filosofia pagana tra l’ambito divino e quello mondano, tra forma originaria e materia, fu il confine tra Dio, il creatore, e le sue creature, posto dalla rivelazione monoteistica” –, con l’affermarsi del metodo moderno delle scienze della natura il cerchio infine si chiuse, e l’interpretazione simbolica della natura, il mistero delle corrispondenze, persero ogni valore. Furono smascherate come mistificazioni. L’immaginazione, l’analogia e le corrispondenze, prive di un correlato mondano, presero la strada dell’allegoria, che rappresentò la vittoria della coscienza demitizzata sulla coscienza mitica.
Anche il Romanticismo non sfuggì a tale schema: “i collegamenti romantici e post-romantici tra ordinamenti ed esplorazioni di corrispondenze non abbattono i ponti esistenti tra la fantasia soggettiva e il mondo oggettivo, ma restano fatalmente esiliati nell’interiorità soggettiva”. Con una cesura quasi manichea tra mondo e uomo, analogie e metafore mutarono in prodotti dell’immaginazione individuale, interiore, privi di un correlato esteriore. In fuga dal reale. Le corrispondenze, da allora, ebbero origine solo nel più profondo dell’anima, in un ritiro nel proprio essere.
Se la coscienza mitica in origine non conosceva alcuna separazione tra ambito divino, mondano e umano, in seguito vi furono i molti secoli, il cui retaggio ancora oggi domina, nei quali l’accento venne posto sull’interiorità del soggetto, e la verità dell’analogia fu esiliata nell’ambito chiuso, contemplativo, della poesia, con la relativa nascita del concetto dell’arte, surrogato e conseguenza di una frattura originaria: l’estinzione del mito. Era il rivolgimento dell’istinto dall’esterno all’interno. Una forma di contrasto della vitalità reale, impura, per sublimarla a un livello superiore, astratto, in un universo poetico chiuso, al riparo da quel che troviamo là fuori. Solo in quanto impulso poetico chiuso, interiore, si rivelò, da allora, il divino, l’assoluto, l’eterno, il non-mondano, l’infinito.
È un mutamento profondo dello schema mitologico dell’antichità.
Io e mondo furono separati, e il desiderio di esistere, da allora, fu una colpa, un peccato. Si scatenò così quel processo di interiorizzazione della sofferenza, della stessa colpa della nascita e del desiderio di esistere, che neutralizzava e riassorbiva la carne della volontà.
L’impulso creativo, da allora, privo di un correlato mondano, fu questa stessa trascendenza interiore del soggetto, irrelata, storica, profana, autonoma. In preda a un dualismo gnostico, quasi manicheo, immaginammo una trascendenza che mutò nell’oltremondano, nel contro-mondano. In un contro-principio che si stagliava di fronte al mondo esteriore. Da una parte, la psiche, le potenze mondane, la vita naturale, che nella redenzione gnostica bisognava lasciarsi alle spalle; dall’altra, il pneuma, l’idea di un Sé non-mondano, centro trascendente e acosmico dell’io, interiorità ultima e irrelata, che nella gnosi corrisponde al Dio oltremondano. Un’antica idea di libertà, che si propaga per osmosi attraverso i secoli, e che, nella modernità, unisce pensatori anche diversissimi tra loro. Valéry e Proust, per esempio, furono dei pneaumatici che si rifugeranno nell’extra-mondanità dell’arte, in un particolare surnaturalisme – il loro unico aldilà, e assoluto, a cui si aggrapperanno con tutte le loro forze, sarà infatti la parola, considerata quale trascendenza in sé, in cui riaffiora intatto l’antico sigillo: “In principio fu il Verbo”. Una agognata perfezione caratterizzata dall’indipendenza dalla natura e dalla mondanità.
Con delle qualificazioni che aprirono le porte a una gamma di strumenti per depotenziare il contesto reale dei fenomeni della natura, di fronte al soggetto che tentava di spogliarsi non solo della natura ma anche dell’impura soggettività mondana della sua umanità, l’essere umano fu evocato come apertura sul possibile più che sul reale, come potenza immaginale che reagiva al piatto realismo, alla “falsa realtà dell’esperienza”, per evadere nel sogno e imbarcarsi nell’irreale. Così da proiettare l’Uomo al di là delle proprie condizioni biologiche, per spezzare “il sistema chiuso dei bisogni fisiologici, in cui sono prigioniere le altre specie animali”, e fare di lui una creatura alata, superiore. Colui che non spiccava tale volo spirituale era considerato alla stregua di un ominide. E non ingannatevi! Anche la celebre distinzione di Valéry, tra “spirito” nell’accezione metafisica – sia essa di natura filosofica, religiosa o iniziatica, ch’egli ripudiava – e la sua nozione di “spirito”, a cui attribuisce un significato strettamente funzionale: “di potenza trasformatrice che si oppone ad una realtà data, per proiettarsi oltre, verso un possibile che ancora non è, ma che, tuttavia, è in grado di prefigurare, sognare e, soprattutto, di costruire”, è vana, poiché le due nozioni sono unite da un comune e letale scopo: sdegnare il reale.
Da allora, paradossalmente, sottrarsi, sprezzanti, alla ciclicità dei processi naturali diventa un merito, un progresso, e non il vile privilegiare una fuga dal reale, un temibile idealismo originario, un’umiliante astrazione intellettuale in seno a una wasteland… una terra desolata. Spirito, mente, pensiero sono tutti avatar che indicano una fuga da un disordine naturale – tutto ciò che è naturale, infatti, venne sempre stigmatizzato come disordine – per costruire un ordine artificiale. Un ordine per sé, a partire da un disordine per sé, in cui l’Animale, questo scioccante singolare generale, mutò nel nostro più intimo rimosso.
L’Occidente e l’Europa, di conseguenza, furono questa fabbrica di sapere intellettuale senza pari, poiché nati da un modello intellettuale incorruttibile, quello pagano, “in cui per la prima volta si è effettuato il passaggio decisivo dal linguaggio comune, per natura empirico e approssimativo, al ragionamento universale, astratto”. Grazie al quale l’Occidente valicò ogni confine geografico, riuscendo a imporre le proprie conquiste intellettuali nel mondo intero, al punto da diventare “la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello d’un vasto corpo, una prodigiosa macchina civilizzatrice”, afferma con orgoglio lo stesso Valéry. Al di fuori di tale astrazione: l’arcaico, il barbaro, il non illuminato. L’indotto.
È la cultura che, fin dagli albori, privilegerà il Tempo, il culto superstizioso per la Storia e l’Uomo, per ripudiare lo spazio. Ne farà una divinità, a danno della carne – l’Occidente, il teatro dell’immortalità nella conoscenza.
Tutto lo scibile umano è la grande arte di eludere la temibile esperienza terrena.
Viaggiatore solitario. Interviste e conversazioni 1980-1991 di Pier Vittorio Tondelli, pubblicato postumo nel 2021 dalla Bompiani, si apre con il “giovane scrittore” Tondelli. con la sua altezza di 1,93, timido, dinoccolato e miope, che si destreggia nelle interviste con la sua aria comica e dalla parlata ricercata, usando anche delle citazioni di Rilke e Botho Strauss, senza però, definirsi “intellettuale”.
Non è un intellettuale questo viaggiatore emiliano, semmai è “uno scrittore. punto e basta”. Il suo è un lavoro che lo porta a incubarsi nella sua solitudine, a stare con i suoi personaggi e la sua musica, non ci lavora tutti i giorni però, come Moravia. Conoscere Tondelli significa entrare nella sua sfera privata con la sua scrittura, del suo rapporto intimo con essa, l’unico oggetto che fa da scenografia durante la sua composizione, è la musica di Lou Reed, Leonard Cohen e gli Smiths.
Tondelli e l’omaggio a Kerouac
Il titolo del romanzo un caro omaggio all’On the road di Kerouac: il scrittore emiliano, autore di racconti e di romanzi, scabrosi e turbolenti, come Altri libertini, che gli è costato un sequestro per turpiloquio e poi assolto, un libro rivolto ai giovani degli anni sessanta, gli anni del sesso, rock and n’roll e dell’ omosessualità. Parla ai giovani, il neolaureato al DAMS di Bologna, entra nelle loro vite e li fa protagonisti di una vita spericolata con un linguaggio hard.
Il beat e il sound
Il linguaggio hard lo ritroviamo anche nel suo secondo romanzo, Pao Pao, incentrata sui giovani e il loro modo di adattarsi per 12 lunghi mesi alla vita militare: male o bene? Tondelli in questo romanzo sostiene che poteva andare peggio, ma anche bene, a seconda di come si prendeva la vita e in quel posto niente mutava, era sempre la tua vita precedente, con la differenza che non stavi fuori, ma all’interno di un cameratismo maschile, dove mancano le donne. L’evoluzione della sintassi e dello stile tondelliano, avviene pari passi con la sua crescita anagrafica e intellettuale, rispetto ai suoi primi due romanzi: Altri libertini (1980) e Pao Pao (1982), Rimini e Camere Separate, presentano un linguaggio più maturo e tematiche quali la solitudine e il lutto che fanno pensare ai romanzi polifonici alla Bachtin.
La scrittura di Tondelli è frenetica, movimentata, ma anche ritmata: il senso del ritmo, causato dalle parole rimate e il suo repertorio musicale, è onnipresente insieme ai suoi personaggi.
La Realtà e Finzione del ribelle emiliano sono concetti “antropologici”, lo scrittore indaga sui giovani, parla di loro, priva di quella spia dei genitori, che entrano senza bussare alla porta, (i genitori non sono mai presenti nei suoi libri) nell’epoca degli anni ’60, per poi stoppare, darci un taglio, agli albori degli anni ’80, per rivolgersi a un pubblico adulto, ai trentenni, sempre, trattando però, dell’amore, del sentimentalismo, vidimato in Rimini (1985) e Camere Separate (1989). La sua vita potrebbe sembrare cinematografica come i romanzi che ha scritto, ma non lo è. Tondelli infatti si trattiene dal farsi scoprire, ma allo stesso tempo esce fuori, si fa portatore delle sue generazioni, ci parla, rende possibile che nei suoi romanzi, i giovani, trovino sé stessi.
Questo è il viaggio secondo Tondelli: la ricerca sull’interiorità, trovare un proprio posto, che sia Rimini con le sue luci al neon alla Fitzgerald con il suo “The Great Gatsby”, dove si cerca con ossessione, il successo, il mito italiano, di quegli anni, la Rimini Hollywoodiana; o Camere separate, viaggiando per l’Europa, evitando però, di spostarsi più in là, a seguito di un lutto, simile al “ A Single Man” di Christopher Isherwood, la solitudine che prende sopravvento, che culmina con la morte.
Secondo Tondelli, bisogna trasferire il parlato nella scrittura, nella macchina da scrivere. L’estraniamento in Tondelli è possibile? È possibile vederlo attuato in Altri libertini, in una scena che lo trascinò al Tribunale, non solo per l’uso del turpiloquio, ma anche per quella scena, che poteva portare il lettore a masturbarsi o a distaccarsene, creando uno shock, proprio come nel film surrealista Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel.
“Alla fine, uno dei due fa la dose sul pene dell’altro, perché non trova delle vene intatte. È molto violento, molto emozionale. Queste pagine hanno fatto sequestrare il libro ma ho vinto il processo e ne ho vendute ventimila copie”.
Memoriale di Paolo Volponisi configura come il racconto della vita di un operaio durante un arco cronologico di dieci anni. Albino Saluggia è dunque protagonista e narratore delle vicende. Egli, reduce dalla guerra e dalla prigionia in Germania, attraversa profondi contrasti individuali e familiari acuiti dall’esperienza bellica e vive l’ingresso in fabbrica come l’opportunità (che si rivelerà poi falsa) di ottenere un risarcimento per i suoi mali.
Questo si concretizza nel 1946, ma immediatamente l’anno seguente si presentano problemi di salute. Saluggia entra ed esce dall’infermeria di fabbrica, a causa di una diagnosi di tubercolosi. Qui incontra il Dottor Tortora, una figura che si rivela paternalistica poiché impartisce direttive con severità e allo stesso tempo paterna poiché lo prende in cura. L’operaio negli anni successivi si divide tra sanatorio e fabbrica, nel tentativo di curare una nevrosi e tra il 1951 e il 1952 si affida alle cure del presunto Dottor Fioravanti che gli inietta un siero non altrimenti specificato. La finzione letteraria impone di credere che il resoconto sia stato scritto alla fine di questo arco cronologico, ma alcuni avverbi di tempo che compaiono nel testo, ad esempio «oggi», indicano che Albino Saluggia avrebbe potuto scrivere in diversi momenti e quindi alternare stadi di consapevolezza differenti.
Il Memoriale consiste in una narrazione a scopo auto-terapeutico, «una introspezione autoanalitica]» per certi versi simile al modello sveviano. Il protagonista non è un operaio come gli altri, difficilmente socializza, non è sindacalizzato né ha coscienza di classe, ha una sua lingua peculiare e un particolare modo di raccontare.
Rispetto agli operai di Ottieriegli risulta sconfitto, ma non solo dal lavoro di fabbrica. Saluggia non è unicamente controfigura del disagio operaio, non rappresenta solamente il dramma dell’alienazione, non incarna la rabbia sociale. Saluggia si trova al centro di un conflitto ben più ampio e cioè quello tra io, società e reale. Il suo male sembra connaturato alla sua esistenza, come nel caso di Zeno, e su questa l’autore riflette e dichiara: <<Io mi sono messo in mente di non scrivere romanzi sull’io […] proprio perché sento forte oggi l’impegno di fare un discorso in termini oggettivi, di confronto con il reale, in termini, senza presunzione alcuna, di storia>>.
La natura restituisce solo temporaneamente al protagonista un afflato salvifico perché poi finisce inevitabilmente col sovrapporsi all’idea di fabbrica corredata di tutti i suoi aspetti negativi. Se per Sarte la nausea deriva dall’errato rapporto tra soggetto e mondo delle cose e dal fatto che queste assumano tratti e sfumature umane, è proprio questo che Albino Saluggia vive. Egli mescola il reale, non distingue più i confini, lo fagocita e finisce col perdere la sua identità. Ecco che il mondo diventa antropomorfizzato:
Guardavo la campagna e fumavo; il fumo che usciva dal finestrino, tra la luce del treno e la notte azzurra, diventava una cosa viva, un animale che dovesse nascondersi tra i campi e le fratte.
La fabbrica che assorbe la vita dell’operaio sottrae a questo l’identità ed il senso del presente: «il tempo interiore del narratore, legato al mondo contadino, è circolare e mitico, viceversa il tempo della fabbrica è artificiale e alterato». La tesi di Memoriale è avvalorata da una confessione dello stesso Saluggia:
Quando io sono entrato nella fabbrica, l’orologio della nostra officina segnava l’ora 1227. Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi.
Ben lontano è però il fine ultimo di Memoriale dall’individuare nella fabbrica il capro espiatorio universale al quale imputare le lacerazioni dell’umano. La storia di Albino Saluggia non è una storia finita e le contraddizioni non si appianano.
Fonti
G. Alfano, F. De Cristofaro, Il romanzo in Italia, Vol. 4: secondo Novecento, II, Carocci, Roma, 2018
Negli anni di passaggio al Novecento,Giovanni Pascolisi dedicò allo studio assiduo della Bibbia. Le sue opere, in prosa e in poesia, sono disseminate di riferimenti alle Scritture. La lettura degli autografi raccolti nel fascicolo Preparativi per il Piccolo Vangelo chiarisce l’eterogeneità e la rilevanza delle fonti consultate. Si tratta delle pubblicazioni e delle ricerche più significative nell’esegesi, nella storia delle religioni e nella cultura popolare. Pascoli traduce paragrafi dalla Vie de Jésus di Renan, legge i Vangeli apocrificurati da Constantin von Tischendorf, annota le visioni liriche di Matilde Serao davanti ai luoghi della Palestina. Tratteggia la figura, ovvero lo stile, del “suo” Gesù, cuore del non finito Piccolo Vangelo, esempio sommo di umanità, egli stesso poeta, in ricerca della propria divinità perduta: maestro di una felicità che passa attraverso la speranza e lo spirito di non contraddizione, verso una concordia universale la cui bellezza è già nel suo annuncio.
Pascoli indugia sul Cantico dei Cantici. Rielabora gli spunti, talora minimi, offerti dalle sacre leggende popolari raccolte da Giuseppe Pitrè, vi accosta ver-setti dei vangeli, mostrando tutta la peculiarità del suo fare poetico. Il Piccolo Vangelo, anche per questo, si pone tra i casi esemplari delle riscritture bibliche.
I fogli autografi conservati a Castelvecchio nel fascicolo Preparativi peril Piccolo Vangelo, che riporta nella sua terrena missione Gesù, che il poeta chiama “figlio di Dio”, ma che vede nel suo più realistico aspetto; un Gesù uomo, con il suo essere terreno con il quale affronta una divina missione, che per gli altri è un profeta, ma la sua è una missione di umanità, carità e di martirio, mostrano la ricchezza, l’attualità e la rilevanza delle fonti che Pascoli consultò e trascrisse, nella redazione del suo «futuro successo».
Assieme alle idee sparse, alle varie ipotesi abbozzate, ai lunghi elenchi di titoli, vi sono infatti riferimenti ai più aggiornati studi in campo biblico con trascrizioni puntuali o richiami a consultazioni erudite. Questo aspetto, a suo modo sorprendente, tanto più se vi si affianca la coeva produzione dei poemetti cristiani in lingua latina esemplari per lingua e contenuti, invita a indagare più ampiamente i rapporti di Pascoli con il sentire religioso nel trapasso del secolo, per arrivare a suggerire i possibili motivi di una scelta letteraria che ha per protagonista Gesù.
Nel Gesù di Pascoli c’è un’altra figura, cioè è un uomo che pur avendo in sé il dono divino, è umanamente fra gli uomini, che va predicando la sua buona novella, che rende sani i cechi, gli ossessi, i lebbrosi, ed è tuttavia anche sconfortato, ed è anche stanco: “A sera stanco il figlio del Dio vivo,/ come lavoratore, era, ma pago;/ e s’assideva al tronco di un ulivo,/ guardando al cielo.”
La fine del secolo fluiva nel Novecento in un clima di generale attesa, con umili e segrete speranze oppure solenni e rilevate aspettative. Ad amplificare l’annuncio del tempo nuovo, in una visione fortemente suggestiva, venivano tolti i sigilli alla Porta Santa di San Pietro, con l’inaugurazione del primo Giubileo nello Stato Italiano, quando l’autorità temporale del Papa era già sfumata.
Le stesse scansioni temporali del Giubileo, dedicato a Gesù Redentore, trovarono eco in Pascoli nella pubblicazione su «L’Illustrazione italiana»dei futuri. In Oriente ed In Occidente, explicit dei Poemi Convivialinel 1904, con i titoli originari di La Natività e L’annunzio a Roma, rispettivamente il 24dicembre 1899 ed il 30 dicembre 1900.
In quegli anni di transizione, e di fervore, Giovanni Pascoli s’impegnava così nello studio assiduo e approfondito della Bibbia con esiti diversi, dalla prosa alla poesia, lungo un medesimo disegno e pensiero. Le indagini dantesche, le riflessioni leopardiane, le prose programmatiche e d’impegno umanitario preparate tra il 1895 ed il 1906, quali L’era nuova, L’avvento, Il settimo giorno, La messa d’oro, sono infatti disseminate di riferimenti biblici con proposito, com’è stato rilevato, non puramente esemplificativo o retorico ben-sì etico-pedagogico.
Il Grande Codice offriva le chiavi interpretative del poema divino, illuminava la toccante meditazione sulla vita e sosteneva l’ideale umanitario pascoliano, nel segno di una possibile redenzione universale. La dedizione pascoliana alle pagine della Sacra Scrittura risulta inoltre di grande interesse perché si esprime in un contesto culturale, prossimo a Pascoli, ma di segno contrario, rappresentato in maniera emblematica daCarducci e dall’entourage bolognese.
La riscrittura biblica più palese è però quella riferita al Cantico dei Cantici (2, 11-13), altro luogo poetico di Minocchi [1898] 11, riproposta nell’incipit dell’inedita poesia che chiude le carte degli autografi e che poteva invece aprire il Piccolo Vangelo in un piano narrativo più ampio.
Un caso davvero interessante è tuttavia costituito dalla poesia Il fiore, la cui genesi sembra essere una leggenda raccolta da Pitrè, S. Petru e lu nuciuni. Il racconto è abbastanza noto. Secondo San Pietro l’aver fatto alberi alti con frutti piccoli e alberi bassi con frutti grandi è una contraddizione di cui si lamenta con Gesù. Il Maestro lo soddisfa. Ma durante una sosta sotto un albero di noce, San Pietrone riceve in testa il grosso frutto staccato facilmente dal ramo da una folata divento. Gesù stesso commenta con saggezza la disavventura di Pietro, dolorante e con la testa fasciata:
«Caru Petru, iu n’ò munnu fici tutti cosi giusti e prupurziunati» (Pitrè [1888: 171]). Di là dal sapore squisitamente popolare della parabola, Pascoli registra nei sui appunti solo l’immagine degli alberi alti e i frutti piccoli, citando la fonte (A VII, 244). L’apparente dissonanza tra i due termini opposti diviene ne Il fiorerassicurante già dai primi versi, sostituendo alla pesantezza del frutto la levità dei petali e offrendo la certezza di una sicura fioritura, in qualsiasi condizione o stato, nel tempo opportuno:
E seguitò: Nel fiore de la vita. Ché non è pianta, ché non è vermena che non si trovi al tempo suo fiorita;[…]e la quercia che immensa l’ombra spande, piccolo; e il fioraliso ch’ha lo stelo sottile, porta il fiore suo più grande: piccolo il pino, grande il grogo: e il melo
L’aneddotica ed il prodigioso ritornano invece nell’antologia Sul limitare, al capitolo XX, Parabole, Allegorie, Leggende, accanto alle dieci traduzioni delle parabole evangeliche e dai Fioretti di San Francesco.
I numeri di pagine indicati da Pascoli a margine delle trascrizioni, anche in latino, rinvia-no a quest’opera. Cfr. A VI, 13 e ss. Il
Piccolo Vangelo di Giovanni Pascoli l’ha bianco e pure è la fuggevol cosa! e il cardo, eterno e del color di cielo [1914: 200, vv. 1-3; 7-12].
Le parole del Gesù di Pascoli rimandano, ancora, ad una giustizia e ad una proporzione rivelate dalla stessa natura che non manca di confortare nella dolce e positiva illusione di una «fuggevol cosa», capace di custodire il miele della vita, libato dalle api, dal poeta e dalla «paziente anima umana» (L’ape,v. 8). L’immagine originaria si estende quindi al rapporto tra il fuggevole e l’eterno, l’asperità di un cespuglio spinoso e la grazia della rosa. E, in modo chiaro, tra lo sguardo comune, schietto e pratico, lo sguardo di San Pietro, e la contemplazione poetica che rinviene o crea destini ulteriori, all’ombra delle stelle d’oro:
[…] e da l’irsuto bronco esce la rosa: e tale è nuda e squallida e soletta a gli occhi nostri, sopra ignave zolle, che a l’ombra de le stelle d’oro aspetta d’aprir l’olezzo de le sue corolle(Il fiore, vv. 15-19). Questi versi da Il fiore, il cui andamento prosegue nella poesia L’ape, tentano la via della speranza o quanto meno l’aspirazione a tale virtù.
L’affinità con l’aura morale o conoscitiva della leggenda popolare di riferimento non fa altro che confermarne l’intento, in favore dell’esito poetico. Se San Pietro,«comu li cani vastunati» (Pitrè [1888: 171]), accetta lo stato delle cose entro il registro emotivo della paura, pur nell’accezione caricaturale, «pirchì annuncami pò succediri qualchi mali comu chistu», Pascoli, nelle parole di Gesù, invita ad una condizione interiore esile ma libera, come fa l’ape ovvero il poeta:
[…]
In verità ti dico, anima: ornello o salcio o cardo, ognuno ha sua fiorita; amara o dolce; ma sol dolce è quello che tu ne libi miele de la vita
(L’ape, vv. 16-19).
Le api, compagne simboliche della scrittura pascoliana, quali immagini classiche del poeta così come il miele lo è della poesia, appaiono dunque nel loro valore esemplare, al pari dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo. Nel Piccolo Vangelo il magistero dell’ape è affine a quello dell’allodola. Perché l’ape ed il canto traggono dalla vita il miele.
Da menzionare anche la poesia Gesù, di solito lodata come uno dei testi nei quali il Pascoli mostrerebbe «tenerezza e liricità». Tuttavia bisogna nutrire dei dubbi intorno a questi due caratteri, tenerezza e liricità, come appartenenti in generale alla poesia di Pascoli, nonostante tanti bambineggiamenti di lettori e antologizzatori attraverso i quali essa è stata falsata e, una volta falsata, è stata offerta in pasto in particolare agli alunni dei primi gradi scolastici.
E Gesù rivedeva, oltre il Giordano, campagne sotto il mietitor rimorte: il suo giorno non molto era lontano.
E stettero le donne in sulle porte delle case, dicendo: «Ave, Profeta!» Egli pensava al giorno di sua morte.
Egli si assise all’ombra d’una meta di grano, e disse: «Se non è chi celi sotterra il seme, non sarà chi mieta».
Egli parlava di granai ne’ Cieli: voi fanciulli, intorno lui correste con nelle teste brune aridi steli.
Egli stringeva al seno quelle teste brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi, temo per l’inconsutile tua veste».
>Egli abbracciava i suoi piccoli eredi: «Il figlio – Giuda bisbigliò veloce – d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi:
Barabba ha nome il padre suo, che in croce morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi, «No», mormorò con l’ombra nella voce;
Il Neorealismo è una corrente letteraria di particolare spessore che ha creato nel corso degli anni un vero e proprio “filone” critico o semplicemente di analisi, da parte di studiosi, letterati, linguistici ma anche storici.
Attraverso la letteratura neorealista si mette in scena la quotidianità, con una serie di elementi negativi o positivi che siano e che indiscutibilmente la caratterizzano. Una rappresentazione oggettiva, che può scuotere gli animi. In questa situazione la più evidente testimonianza dei tempi, proprio per le sue contraddizioni, è offerta da Pier Paolo Pasolini1.
Il Neorealismo in Italia fu contraddistinto da una serie di “voci” impastate nella lingua letteraria ma anche artistica. La visione ed il modo critico-razionale di intervenire sulla quotidianità, propri di Pier Paolo Pasolini, si oppongono al cosiddetto sistema borghese, ma anche al capitalismo.
Quella di Pasolini è una forma di opposizione che sfocia in un vero e proprio dissenso ideologico ed oggettivo; lo scrittore bolognese prende le distanze, grazie al Neorealismo dalla tradizione lirica del Novecento, promuovendo un filone sperimentale diverso, lontano dai canoni della tradizione, vero, in cui chiunque avrebbe potuto riflettersi e riconoscersi. Da tutto ciò nasce quella che è stata definita la demistificazione che lo scrittore fa del non-civile neocapitalismo, l’ipotesi sempre più ostinata di rapporti umani nel quadro di una natura immutabile, la ricerca delle ragioni essenziali di vita al di fuori dell’ambito letterario, la negazione attiva come vitalità, l’impossibilità di mutare il sistema, una sorta di fatalismo astorico, le regressioni e il ritorno alle mitologie.
In questo modo, il Neorealismo di Pasolini diventa la forma più alta di comunicazione con quel mondo fatto di una propria psicologia e cultura due identità strettamente collegate tra loro e spesso dimenticate. Non solo in ambito prettamente letterario, ma anche dal punto di vista cinematografico, gli attori scelti da Pasolini si discostano dal ruolo reale di attori professionisti, sono persone scelte a caso, prese dalla strada, nei quartieri malfamati, casalinghe, padri di famiglia, bambini. I corpi, i volti, le posture di chi ha interpretato i personaggi dei film di Pasolini non sono prodotti di un artificio illusionistico che fa capo al sistema-cinema, poiché gli “attori” riportavano sulla pellicola ciò che erano nella vita reale, senza dover fingere in nulla.
Probabilmente è in questo che risiede la chiave di lettura del Neorealismo inteso come strumento di rappresentazione della verità. Rappresentare tutto ciò che circonda l’uomo ma senza artefatti, in modo naturale e spontaneo.
Una visione che si oppone al Capitalismo, dunque al quale prima si faceva menzione e che presuppone l’abolizione delle classi sociali a favore di un’identità che sappia far parlare di sé per ciò che si è.
L’orda capitalistica che ha invaso la società italiana era stata scorta nella sua più cruda totalità. Era scomparso quel sottoproletariato incontaminato, che trovava come alternativa alla cultura borghese la propria cultura, vera e autentica, basata su una scala di valori “altra”, come sosteneva lo stesso autore. Quella di Pier Paolo Pasolini è stata infatti definita una lotta contro l’universo consumistico.
Ci prova l’autore e regista friulano, con tutte le sue forze. Nonostante spesso non riesca ad arrivare dove vuole. Nonostante a volte proprio quella realtà dove prova ad agire, si opponga ad ogni cambiamento. Infondo è risaputo che il cambiamento è una costante ed in quanto tale non può essere forzato o richiesto, ma Pasolini, pur essendone consapevole ci prova.
Di conseguenza, Pier Paolo Pasolini problematizza il rapporto tra interiorità singola e oggettività sociale e vede come via d’uscita lo sperimentalismo «sprofondato in un’esperienza interiore» come «lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura».
L’arte che ha portato avanti Pasolini, dunque, sposa in maniera precisa la sua intenzione di dare uno ampio scorcio di una dimensione sociale forzatamente messa da parte. Se precedentemente il Neorealismo di De Sica e Rossellini aveva il compito di porre in evidenza la disperazione mortale e totalizzante dell’uomo del dopo-guerra, quello di Pasolini invece di dare a quei ragazzi di vita la voce che gli era stata tolta e mettere in risalto lo spirito del tempo, veicolato dall’egemonia culturale di una borghesia cattolica e selettiva.
Quel genocidio culturale – a cui si è sempre appellato l’autore – che ha generato quella mutazione antropologica del popolo italiano – ha visto una variazione dello spirito del tempo che ha invaso anche il sottoproletariato. Il cambiamento generato da una società che stava basando le proprie fondamenta sulla circolazione e sull’accumulo di denaro, ha causato una variazione di ogni relazione sociale.
“ […] Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler.
[…] Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato sé stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle: ma addirittura non le capirebbe nemmeno […]”.