Quante volte sentiamo dire che la scuola italiana è in crisi, che i docenti hanno perso la propria autorità e che i ragazzi ne sanno sempre meno? Dove risiede la causa della decadenza della scuola italiana?
Secondo il prof. pugliese Antonio Carulli, nella concezione della scuola come ascensore sociale, con la sua falsa inclusività, omologazione culturale, che significa abbattere la meritocrazia e la selezione, risiede il motivo principale delle gravi problematiche che attanagliano la nostra scuola, definita “progressista”.
Antonio Carulli, partendo da una serie di analisi frutto dell’esperienza quotidiana, denuncia questa situazione anomala e propone alternative nel libro “Contro la scuola progressista” (Passaggio al bosco), analizzando in una invettiva incandescente, le dinamiche di un disastro che ha preso forma nello spazio di un ventennio, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.
Spiegando il senso dell’insegnamento, Carulli offre la modalità per scoprire il significato vero della parola cultura e indica anche una riflessione razionale su ciò che registra giorno dopo giorno: la fine dell’eccellenza italiana.
Il libro si sofferma sugli aspetti culturali del problema, tralasciando quelli di natura economica (fondi) e logistica, per affermare l’importanza di rifondare una scuola che non può scadere nel servizio sociale, in quanto essa è luogo di relazioni umane, di socializzazione e di apprendimenti, di conoscenza e trasmissione del sapere snaturata anche dalle teorie nuoviste di matrice aziendalista.
La soluzione per Carulli è far studiare se si vuole iniziare ad alzare il livello qualitativo della scuola.
1 Nella sua visione, cosa non dovrebbe mai essere la scuola?
Semplicemente, un luogo dove non si fanno mandare più le poesie a memoria, dove non si traduce più, dove non si boccia più, dove si fa educazione civica intesa malamente come contestazione sterile del governo in carica al posto di storia, dove la storia dell’arte è vista come una materia inutilmente complementare.
2 Qual è il principale problema che affligge la scuola italiana?
Burocrazia, interessi privati, docenti che non aprono un libro da quarant’anni, docenti che fanno gli psicologi e gli amici degli studenti e, peggio ancora, dei genitori degli studenti, docenti che contestano sistematicamente le scelte del ministero dell’istruzione, docenti che giocano a fare i bastian contrari in nome di una non meglio precisata nozione di democrazia perennemente attentata, gli evangelizzatori dell’anti-tradizione, dell’esotico, dell’arcobaleno, dei diritti senza doveri, di mondi, stati e stadî lontani, dell’eccezione perenne senza norma sottesa trasgredita.
3 Spesso in molti ci si lamenta che la scuola non è mai stata fondata sul merito. Cosa ne pensa?
I primi a non volerlo mi pare siano quei docenti che scambiano il rispetto delle regole per autoritarismo, l’appiattimento per democrazia, le regole introdotte a difesa del pubblico ufficiale per deriva dittatoriale.
4 La scuola progressista danneggia i più deboli? E’ in contrasto dunque con il concetto stesso di meritocrazia?
La storia dell’Italia della seconda parte del Novecento ha mostrato come la maggior parte delle persone proveniente da contesti culturali indubbiamente non disastrati, epperò non propriamente abbienti, alla fine sia riuscita ad assurgere a buoni livelli della macchina professionale. Siamo la seconda generazione dopo la prima che ce l’ha fatta. Il problema semmai va cercato fuori della scuola, magari nelle conventicole. Il solito problema dell’Italia dove tutti conoscono tutti. Il tema, più supposto che reale, dell’appianamento delle difficoltà iniziali su cui possa disputarsi la partita del merito non è affare dell’istituzione scolastica ma della politica in genere. La scuola deve istruire non occuparsi del lavoro, perlomeno non primariamente. La scuola come vettore di mobilità sociale ha svuotato di senso l’insegnamento e fatte deserte le università.
5 Come fare per alzare il livello qualitativo?
Far studiare. Ma perché ciò accada occorre che i docenti per primi tornino farlo. L’educazione è mimetica.
6 Quali autori sono imprescindibili (e che però vengono snobbati o trattati superficialmente) per la formazione dei ragazzi?
Ce n’è un sacco. Basti qui semplicemente ricordare come viene trattato Manzoni (ovviamente da quelli che non l’hanno mai letto integralmente) o lo stesso D’Annunzio che non si studia perché sarebbe stato genericamente fascista quando poi fascista non è mai stato. O Giovanni Gentile, che da essere il nostro filosofo teoreticamente più agguerrito, è solo due righine nei libri di storia, l’autore della riforma e l’ucciso dai partigiani.
7 Cosa si augura per il suo libro? E cosa spera venga recepito soprattutto da ragazzi?
Sono ormai troppo adulto per credere che un libro possa chissà che. I giovani invece mi pare siano le vittime incolpevoli di questo sistema, non solo scolastico. Che finge di salvarli al solo scopo di salvare i propri privilegi. Quelli i quali rifiutano i titoli e/o le desinenze di genere o i dettami di ciò che può essere unicamente detto e fatto (e ce ne sono, per grazia di Dio) sapranno ben recepire questo libro. Ne ho avuto già qualche esempio.
Carlo Tortarolo ama stupire e provocare, pungolando il politicamente corretto che sempre più spesso corrode la nostra società. Lo fa pungolando il lettore con l’opera “Lo scultore di uragani”, Coniglio editore, 2025, con uno stile incisivo e metaforico, che non lascia troppo scampo a scappatoie intellettive.
Lo scultore di uragani è una storia scritta di volta in volta dall’autore insieme al lettore invitato a collaborare alla riflessione di Tortarolo, poliedrica e divertente costruita su saggi pungenti, aforismi alla Leo Longanesi e racconti-parabole evocativi, offrendo ai lettori una chiave di lettura originale per interpretare le sfide della società contemporanea e le sue storture, soprattutto ideologiche.
Frutto di recupero di racconti precedenti, cui si sono aggiunti altri, Lo scultore di uragani, vive di ironia amara, di giochi di parole, di intuizioni illuminanti che descrivono la tristezza della nostra civiltà, dell’Occidente che, come ormai si sente dire da decenni, è come un treno nella notte la cui corsa va sempre più accelerando in direzione del baratro mentre «L’uomo occidentaleè come il passeggero del Titanic che […] (aveva) l’illusione di essere a bordo di una nave inaffondabile». Ma è possibile pensare ad un futuro diverso senza dover ripetere sempre che l’Occidente è morto o sta morendo, esibendosi solo come cantori dello sfacelo dell’Occidente?
Per Tortarolo la strada risiede proprio nel senso di possibilità insito dell’animo umano, nel riscoprire la nostra linfa vitale che ci permette istintivamente di comunicare vita, passione, visione del futura, anche attraverso la letteratura, contro la cultura mortifera post strutturalista.
1 Perché hai deciso di scrivere questo libro?
Non l’ho deciso. Mi è stato chiesto. L’editore mi ha domandato se avessi qualcosa di pronto e io ho risposto col disordine delle mie prime scritture. Ho recuperato i racconti usciti su Satisfiction, li ho riscritti, ne ho aggiunti altri, e li ho lasciati esplodere insieme.
2 Qual è la principale crisi che stiamo vivendo, la madre di tutte le altre, secondo te?
La crisi della felicità.
Abbiamo trasformato ogni desiderio in un diritto, e ci siamo trovati infelici lo stesso.
Viviamo in una civiltà triste, che ha perso il gusto per le piccole cose, per la serata senza smartphone, per il silenzio non monetizzato.
Siamo in lutto per la morte del presente.
3 È stato complicato pubblicare questo libro?
No. Ho avuto la fortuna rara che Coniglio Editore mi abbia cercato.
La vera difficoltà è stata scegliere cosa pubblicare. I racconti erano la forma giusta: tagliano, scivolano, si possono leggere come mine o come specchi.
4 Ad un certo punto fai dire ad un personaggio: “Vede Gilberti, gli italiani non sono ancora a pronti ad accettare la verità”. Quale verità per gli italiani è la più difficile da mandare giù?
La più indigesta è questa: non siamo mai stati davvero liberi, e non ce ne frega nulla.
L’Italia è un algoritmo emotivo: riesce a coniugare l’essere col non essere, il furto con la retorica, il disincanto con l’autoassoluzione.
La nostra verità è un compromesso che ci consente di sopravvivere senza fare i conti con noi stessi.
5 Quali sono i tuoi punti di riferimento letterari? Tre nomi
Dante, Céline e Longanesi.
Dante per la bellezza che non chiede permesso.
Céline per la dissezione dell’uomo e il furore stilistico.
Longanesi perché sapeva fuggire da ogni forma di banalità come fosse peste.
6 Cosa pensavi o speravi mentre scrivevi “Lo scultore d’uragani”?
Pensavo di fare male. Ogni racconto è un colpo: secco, chirurgico, fastidioso.
Scrivo per disturbare la stasi, per svegliare da quella pseudovita narcotizzata che non ha più bisogno dell’intelligenza umana.
Questo libro è un atto di resistenza contro l’idea di un uomo ridotto a entità gestibile da un’élite di debosciati.
Walter Nicoletti è stato l’unico italiano a portare a casa un Oscar lo scorso marzo. Il cortometraggio animato In the Shadow of the Cypress, diretto dai registi iraniani Shirin Sohani e Hossein Molayemi, cha conquistato l’Oscar come Miglior Cortometraggio Animato alla 97ª edizione degli Academy Awards, porta anche la sua firma.
Un riconoscimento straordinario che porta con sé un grande orgoglio per Voce Spettacolo, casa di produzione e distribuzione fondata da Walter Nicoletti, appassionato di cinema fin da bambino, con sede a Matera e operativa anche a Los Angeles. La società si è distinta nel panorama cinematografico internazionale, lavorando con determinazione per qualificare il film agli Oscar e garantendone il successo globale.
TheShadow of the Cypress si è contraddistinto per la sua profondità narrativa e la qualità dell’animazione, affrontando tematiche universali con un linguaggio visivo originale che suggerisce invece di risultare didascalico. L’abilità dei registi Sohani e Molayemi nel raccontare storie attraverso l’animazione ha trovato il giusto riconoscimento con la statuetta dorata.
Walter Nicoletti, è anche attore e regista oltre che produttore, nonché membro della Hollywood Creative Alliance e dell’European Film Academy, mostrando come sia possibile anche per una piccola città del sud Italia raggiungere grandi traguardi.
Voce Spettacolo ha infatti consolidato il proprio ruolo come ponte tra l’Italia e Hollywood, contribuendo alla crescita del settore cinematografico e portando il nome di Matera nell’industria cinematografica internazionale.
Un successo che conferma come Matera, già simbolo di cultura e cinema (basti ricordare che nella celeberrima città dei sassi venne girata “La Passione di Cristo” di Mel Gibson), continui a essere un punto di riferimento anche per la settima arte e in tal senso Nicoletti sta rafforzando la propria produzione negli States.
Quando hai iniziato ad appassionarti al mondo del cinema?
Il cinema ha sempre avuto un ruolo centrale nella mia vita, sin da quando ero bambino. Ricordo distintamente le prime volte in cui mi sono lasciato trasportare da una storia sullo schermo, sentendo che quel linguaggio visivo ed emotivo aveva qualcosa di universale, capace di parlare a tutti ma anche profondamente intimo. La vera svolta è arrivata quando ho deciso di trasformare questa passione in un lavoro: fondando Voce Spettacolo, una realtà di produzione e distribuzione cinematografica. Da allora, il mio obiettivo è stato quello di far arrivare lontano le storie che meritano di essere viste. Accompagnare un corto fino alla vittoria del Premio Oscar è un’esperienza che cambia per sempre la percezione del cinema: ti rendi conto di quanto sia potente la forza dei sogni.
Cinque film che ti hanno ispirato o destabilizzato?
La mia formazione cinematografica è legata a film che hanno scritto la storia del cinema. Ecco cinque titoli che porto con me:
1-Scarface di Brian De Palma: una parabola tragica sulla fame di potere e sulla solitudine, con un Al Pacino leggendario.
2-Carlito’s Way, sempre di De Palma: malinconico, elegante, un gangster movie che parla di redenzione e di destini già scritti.
3-Il Padrino di Francis Ford Coppola: un capolavoro assoluto. Ogni inquadratura, ogni dialogo è parte di una lezione di cinema e umanità.
4-Rambo di Ted Kotcheff: dietro la figura iconica c’è una riflessione potente sulla guerra, il trauma e l’alienazione.
5-Il Signore degli Anelli di Peter Jackson: un viaggio epico, visionario, che mi ha fatto capire quanto il cinema possa costruire mondi e lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo.
Cosa significa per Matera avere una casa di produzione cinematografica internazionale?
Significa sfidare il concetto di periferia. Matera è una città che ha già dimostrato di essere una grande scenografia naturale, ma il mio obiettivo è far sì che da qui partano anche contenuti, idee, progetti. Avere una realtà di distribuzione o produzione internazionale a Matera vuol dire affermare che la qualità non è una prerogativa dei grandi centri metropolitani. È un atto di resistenza culturale e una scelta di radicamento: rimanere con i piedi ben piantati nella propria terra, ma con la testa e la visione orientate al mondo. La sfida è rompere lo stereotipo della provincia come margine creativo. È possibile fare cinema ad alti livelli senza doversi spostare per forza a Roma. E, paradossalmente, è proprio grazie a questa radice profonda che siamo riusciti a raggiungere l’Academy e ad avere un impatto a livello globale.
Quali sono le principali criticità del cinema italiano? E quelle del cinema statunitense?
Il cinema italiano fatica a rinnovarsi: c’è ancora troppa dipendenza dai meccanismi dei bandi pubblici, troppa attenzione a dinamiche interne e troppo poca al pubblico. Si rischia di produrre per dovere, non per urgenza creativa. I giovani autori faticano a trovare spazio e il pubblico, a sua volta, si allontana. Bisognerebbe scrivere storie che parlino al mondo attraverso l’analisi di tematiche universali. Il cinema statunitense ha una struttura industriale impressionante, ma anche un sistema molto selettivo, dove tutto ruota intorno alla logica del Box Office. Attualmente Hollywood sta affrontando una crisi senza precedenti, dovuta anche all’avvento dell’AI. Tuttavia, al momento c’è un’energia creativa pazzesca nella scena indie americana, e quando riesci a entrare in quel mondo, scopri una passione per il cinema che è contagiosa soprattutto perché ti accorgi di quanto la macchina sia efficiente e meritocratica.
Puoi svelarci qualche retroscena durante la Notte degli Oscar che ti ha coinvolto direttamente?
Uno dei momenti più significativi l’ho vissuto sul Red Carpet, prima dell’ingresso ufficiale nel Dolby Theatre. Ho incrociato diversi esponenti dei più importanti media americani che si occupano dell’Award Season, oltre che le Star hollywoodiane, alcune delle quali hanno apprezzato il nostro lavoro. È stato un momento di legittimazione importante. La campagna Oscar è stata estenuante, a volte anche conflittuale internamente, ma quando mi sono trovato lì, con l’abito da sera a rappresentare l’Italia, mi sono reso conto che ogni notte insonne ha avuto senso.
Prossimi progetti?
Stiamo rafforzando la nostra presenza a Los Angeles: abbiamo annunciato il nuovo programma di qualificazione di cortometraggi per la prossima stagione degli Oscar. I registi e produttori interessati possono iscrivere e candidare le loro opere direttamente sul sito di Voce Spettacolo. Al tempo stesso stiamo per avviare una serie di distribuzioni internazionali di opere con partner e produttori americani. Il futuro? Continuare a far volare le storie, da Matera al mondo. Inoltre su Amazon è disponibile ‘Dagli esordi a Hollywood‘, una guida pratica alla distribuzione cinematografica. Si tratta del primo manuale in Italia che racconta la mia decennale esperienza nella distribuzione e nel percorso Oscar, offrendo strumenti concreti per chi vuole entrare in questo mondo con metodo e consapevolezza.
Luca Siniscalco ha studiato filosofia presso l’Università degli Studi della sua città e alla Universität Carl von Ossietzky di Oldenburg (Germania). Dottorando in Studi Umanistici Transculturali presso l’Università degli Studi di Bergamo, in cotutela con la Justus-Liebig-Universität di Gießen, con un progetto di ricerca intitolato The Event of the sacred in postsecular age. Encounters with Hans-Georg Gadamer’s hermeneutics, Hermann Nitsch’s and Anselm Kiefer’s art, è stato Professore a contratto di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano (UNIMI) e l’Università eCampus, tiene corsi di Filosofia, Esoterismo e Letteratura nel progetto accademico UniTreEdu. Ha curato saggi di E. Jünger, N. Sombart, W.I. Thompson, A.J. Heschel, J. Josipovici, E. Niekisch, J. Evola. È redattore di «Antarès – Prospettive Antimoderne» (Edizioni Bietti) e delle riviste accademiche «Informazione Filosofica», «Medium e Medialità», «Education & Learning Styles». Suoi articoli e saggi sono apparsi su numerose riviste scientifiche e divulgative, quotidiani, e in svariate antologie. Ha curato numerose mostre d’arte (personali e collettive).
Professore di Estetica, Filosofia, Letteratura e storia contemporanea, collabora da anni in qualità di curatore con il Nuovo Rinascimento di Milano, fondato dall’artista Davide Foschi con presidente Rosella Maspero. Intellettuale raffinatissimo, è tra gli “Autori in permanenza al Centro Leonardo da Vinci Art Expo Milano”.
Siniscalco riflette sul concetto di estetica moderna, sul problema della negazione del sacro nel mondo moderno, che riemerge nella postmodernità scegliendo come terreno d’elezione l’arte, sull’antimodernità e i suoi protagonisti, sulla funzione dei social media, sull’iperinformazione frenetica e confusionaria di oggi, tra Heidegger, Junger e Eliade.
1 Nell’ultima pubblicazione da lei curata, “DissacrArte”, si affronta il problema della negazione del sacro nel mondo moderno, che però riemerge nella postmodernità scegliendo come terreno d’elezione l’arte. Qual è il fattore principale alla base di tale negazione?
È il problema della secolarizzazione o del “disincanto del mondo” (M. Weber). Come diagnosticato sin dal primo Novecento da numerose ed eterogenee famiglie filosofiche, nella modernità occidentale – che, in seguito alla mondializzazione, ha colonizzato il globo intero – il rapporto con il sacro, ossia l’esperienza sorgiva dell’incontro con il “totalmente altro” (per citare R. Otto), è sempre più relegato ad ambiti marginali della vita sociale, culturale e politica. Laddove, invece, esso è stato valorizzato, sovente ha rischiato di divenire preda di strumentalizzazioni, incomprensioni, riduzionismi. Eppure, questa dimensione, che nell’esistenza dell’uomo, costitutivamente homo religiosus (M. Eliade), è esperienza originaria, è spesso riemersa in forma visibile, anche in ambiti nuovi rispetto a quelli tradizionalmente impregnati dalla “dialettica del sacro e del profano”. L’arte gioca, in tale contesto, un ruolo fondamentale. Nelle forme dell’arte si sono occultati miti, simboli, archetipi, che continuano tuttavia a lasciar scorgere sottotraccia – a chi ha gli strumenti interpretativi per coglierlo – il legame mai scisso con il Principio.
Con l’incedere della cosiddetta “postmodernità”, un vero e proprio nuovo paradigma di civiltà e visione del mondo, in cui i processi del Moderno, per eterogenesi dei fini, si sono rivolti contro la modernità stessa, plasmando un aeriforme, rizomatico e proteiforme scenario, la “grande muraglia” (per citare R. Guénon) che circonda il nostro mondo proteggendolo contro l’intrusione di influenze telluriche è ampiamente crollato. Se la “solidificazione” del mondo sensibile nella modernità ha serrato ogni passaggio verso la trascendenza, le “fenditure” nella “grande muraglia” si aprono oggi da ogni parte. Attraverso di esse le figure del numinoso tornano nel mondo, manifestandosi nelle numerose forme di “seconda religiosità” (Spengler) proprie del contemporaneo, ma anche nella volontà di numerosi artisti, sempre meno outsider, talora dotati di grande riconoscibilità mediatica, di favorire la manifestazione estetica del sacro, ricostruendo i ponti con forme di metafisica verticali e superando l’interregno del nichilismo. L’artista riconquista dunque il ruolo di mago, teurgo, iniziato, psicopompo, sciamano. Assurge a temerario costruttore di templi per il deus adveniens. Proprio per trattare tale emergenza mitico-simbolica in seno all’arte contemporanea, ricostruendone la genesi storico-culturale e dando voce ad artisti che in tale percorso si riconoscono – dalla pittura alla scultura, passando per la fotografia e le performances – è stato concepito “DissacrArte”.
2 La nozione di Antimoderni si presta a qualche resistenza. Ma chi sono oggi gli antimoderni?
Suppongo che il concetto si sia imposto alla sua attenzione in quanto costituisce il sottotitolo della rivista “Antarès. Prospettive antimoderne”, di cui il fascicolo monografico “DissacrArte” rappresenta la ventesima uscita.
L’antimodernismo è una variegata famiglia di pensiero che si è cristallizzata in forma oppositiva rispetto alle istanze promosse dall’ideologia modernista (ossia la versione radicale dell’ideologia promotrice del Moderno, con la sua complementare costellazione concettuale – progressismo, materialismo, liberalismo, individualismo, scientismo). Tale nozione è stata tematizzata in modo eccellente da Antoine Compagnon nel suo celebre “Gli antimoderni”. Qui Compagnon evidenzia come, diversamente dal tradizionalismo o conservatorismo, sempre esistiti, secondo declinazioni diverse, nella storia europea, l’antimodernismo sorge, come famiglia di pensiero, precisamente in contrapposizione agli ideali della Rivoluzione francese, ma secondo una visione del mondo tanto nuova, radicale, e a suo modo avanguardista, da qualificarsi paradossalmente come ultra-moderna. Antimoderni, secondo questa accezione, furono in Francia J. de Maistre, C. Baudelaire, L. Bloy, D. la Rochelle, L.-F. Céline, M. Blanchot, l’intera Rivoluzione Conservatrice austriaca e tedesca, i migliori esponenti del Pensiero di Tradizione (fra tutti, J. Evola), pensatori inattuali (G. Papini, M. Eliade, C. Campo), ma anche grandi poeti (T.S. Eliot, E. Pound), narratori (K. Hamsun, Y. Mishima) e indagatori del fantastico (J.L. Borges, J.R.R. Tolkien, H.P. Lovecraft). Molti di loro, autori di riferimento di “Antarès”, vuoi in quanto oggetto di studio, vuoi quali riferimenti indispensabili all’elaborazione del metodo critico adottato nella nostra ormai ultradecennale storia editoriale.
Essere antimoderni oggi significa ricollegarsi a questa ricca tradizione di pensiero per riattualizzarne il magistero. Secondo un processo che oggi, a mio avviso, richiede particolare impegno e forza creativa, innanzitutto vista l’epocale mutazione di scenario che abbiamo già parzialmente evocato. Se la modernità, infatti, ha fatto bancarotta, un pensiero critico aggiornato deve spingersi sino al confronto con le nuove sfide poste dal pensiero postmoderno. Oggi, forse, più che di antimodernismo servirebbe ragionare su di un postmodernismo realmente “altro” per spirito, orizzonti e vocazione.
3 Parlando ancora di antimoderni, secondo lo scrittore francese Chateaubriand, la democrazia è il naturale prolungamento (moderato e normalizzato) della Rivoluzione. Cosa ne pensa, soprattutto in riferimento alle attuali democrazie, soprattutto europee?
La riflessione di Chateaubriand riflette la tesi, tipicamente antimoderna, sulla genealogia dell’assetto politico moderno, inteso appunto come l’istituzionalizzazione dei “sacri princìpi dell’89”. I valori che la Rivoluzione avrebbe opposto agli ordinamenti tradizionali della civiltà europea si sarebbero configurati in un assetto in cui la centralità della già rousseauviana “volontà popolare” assurge a fonte e legittimazione di ogni forma di autorità politica. Dalla democrazia, però, notava già Platone nella sua teoria sulle forme di governo, sorge la tirannia: e, in effetti, forme di riduzione della rilevanza e libertà concrete del popolo hanno variamente contraddistinto gli sviluppi storici dei sistemi democratici – dal cesarismo o bonapartismo ai totalitarismi novecenteschi (anche d’impronta collettivistica), sino alle contemporanee forme di controllo sociale promosse dal “capitalismo della sorveglianza” (S. Zuboff) o dal “capitalismo politico” (A. Aresu). Ecco che così la Rivoluzione torna a manifestarsi nella sua componente di radicalità e violenza giacobina, mentre simultaneamente “si suicida” (per usare la famosa immagine di A. Del Noce) venendo meno alla propria vocazione ideale trasformativa ed emancipatrice. L’alienazione, che il progetto politico della modernità mirava a superare, diventa il cuore di tenebra del modello democratico. La tragicità di questa dinamica è oggi riposta nella difficoltà di pensare anche solo in termini concettuali a modelli radicalmente alternativi a fronte dell’investitura della democrazia rappresentativa, da parte del “realismo capitalista” (M. Fisher), a sistema politico archetipico del paradigma dominante.
È peraltro da precisare come la politologia abbia variamente mostrato la pluralità dei modelli di “democrazia”. Quello contrastato nella tradizione antimoderna si riferisce principalmente alla democrazia moderna, parlamentare, repubblicana e rappresentativa. Modelli di ristrutturazione del paradigma democratico in senso partecipativo, corporativo, comunitarista e olistico, sono state proposte nell’ultimo secolo da svariati autori – da Othmar Spann a Walter Heinrich, passando per Emmanuel Mounier e Simone Weil e arrivando ad Alain de Benoist, Costanzo Preve e Alasdair MacIntyre, solo per citarne alcuni. Teorie tutt’oggi sfidanti, meritevoli di riflessioni.
4 Nel 1750 Baumgarten pubblica il primo volume dell’Estetica, dove viene messa a punto una nuova disciplina nata da meditazioni sulla specificità della poesia e sulla peculiare perfezione delle sue rappresentazioni sensibili. Secondo lei il campo della sensibilità possiede davvero una propria peculiare razionalità e strutturazione?
Dal mio punto di vista, è corretto intendere il dominio della sensibilità come una sfera della percezione fondamentale anche sul piano conoscitivo. In questa prospettiva, è fin troppo banale notare la differenza che un’esperienza sensibile riveste rispetto ad una esperienza intellettiva puramente concettuale. Più stimolante è invece, anche sulla scia di Baumgarten, riflettere sul valore non esclusivamente percettivo, ma altamente gnoseologico della sensibilità, indagandone caratteristiche, limiti e condizioni di possibilità.
Baumgarten la definiva “gnoseologia inferior”, i romantici l’hanno innalzata a “gnoseologia superior”, l’ermeneutica filosofica ha rilevato la sua stretta interrelazione con ogni atto di comprensione.
Potremmo così asserire, andando oltre le posizioni contrapposte di tipo soggettivista e oggettivista, che il campo della sensibilità media concretamente tra coscienza e mondo, nonché tra il flusso della vita e delle percezioni, cui mai possiamo avere accesso in modo totalmente diretto, e i dispositivi che strutturano la conoscenza e danno forma comunicabile alle percezioni. In questo senso l’arte, che si alimenta di immagini sensibili in-formate da idee, al contempo precede ed eccede la sfera del logos, permette di pensare una alternativa ai paradigmi del razionalismo e dell’empirismo, rifiutando il dualismo ontologico e pensando la realtà in termini correlativi e analogici.
5 L’estetica oggi ha a che fare sempre di più con la confusione o essa è la chiarificazione di ciò che deve rimanere confuso? Come riusciamo a riaccordarci alla realtà?
L’estetica, dal mio punto di vista, è la paradossale ma fertile indagine di quella soglia sensibile che è sempre apertura al mistero, al “totalmente altro”, all’eccedenza di senso, ma che mai è capace di risolverne totalmente il significato. È, per citare immagini jüngeriane, un “avvicinamento” alle “irradiazioni” che dallo sfondo originario promanano mediante forme, segni, immagini simboliche. È, insomma, cura dell’enigma. La confusione può essere dunque sfrondata, ma solo per giungere ad una dinamicità ulteriore, che ci rammenta il carattere energetico e multiforme del reale.
6 Nell’epoca dell’iperinformazione, la vasta accessibilità alle notizie e l’enorme presenza di informazioni istantanee hanno dato il via libera alla cosiddetta ‘corsa al click’. Come si può ritornare alla qualità formale di un articolo? Come scovare la verità tra fake news e polarizzazioni?
Il tema è vastissimo e meriterebbe considerazioni ben più vaste, che un ampio dibattito contemporaneo sta tentando di elaborare, spesso stretto nella morsa di istanze conflittuali – i conseguimenti teoretici, da un lato, e le dinamiche economico-tecnologiche, dall’altro lato.
Mi limito a notare, anche sulla scorta delle riflessioni proposte sulla postmodernità, che oggi forse non ha più senso, né a livello teorico né operativo, distinguere nettamente, nell’ambito della comunicazione, fra “verità” e “fake news”, quasi che queste fossero strutture ontologiche determinate, bensì lavorare, con rispetto deontologico e maturità intellettuale, all’elaborazione di forme comunicative improntate ad una persuasività responsabile, culturalmente fondata e orientata prospetticamente verso la costruzione di una conoscenza articolata e condivisa. Nell’epoca dell’informazione le notizie si proiettano nell’iperspazio digitale creando nuove narrazioni. Operano, per citare Nick Land, come “iperstizioni”: la loro verità coincide con la loro performatività. Un professionista della comunicazione dovrebbe, a mio avviso, fare i conti con questa nuova geografia digitale, producendo “iperstizioni” alternative al fine di delineare modelli culturali ulteriori, fondati non sulla retorica astratta o sull’interesse dei centri di potere dominanti, bensì sulla costruzione di spazi di pensiero critico auspicabilmente dotati di attrattiva nei riguardi del pubblico e di una potenziale performatività concreta sul piano culturale, sociale e politico.
7 Tre autori che hanno segnato la sua formazione personale e accademica
Martin Heidegger, da cui ho appreso la forza radicale del pensiero e la concretezza abissale della filosofia. Ernst Jünger, che mi ha insegnato a cogliere nelle forme della storia e della natura le epifanie di un mondo sovrasensibile caleidoscopico, profondo per senso e sacralità. Mircea Eliade, che mi ha comunicato la passione per il linguaggio dei simboli e le tradizioni religiose, mostrandone l’importanza per decifrare la nostra contemporaneità.
Andrea Lombardi, è tra i massimi studiosi di Céline, appassionato di storia e letteratura del Novecento, è curatore del primo sito italiano tutto dedicato a Louis-Ferdinand Céline ed è corrispondente per l’Italia della Société des Lecteurs de Céline. Tra le opere da lui curate ricordiamo Ernst Jünger nelle tempeste d’acciaio della Grande Guerra. Un compendio documentale e fotografico sull’esperienza di guerra del Tenente Ernst Jünger nel primo conflitto mondiale di Nils Fabiansson (Genova 2024), Grande ospizio occidentale di Eduard Limonov (prefazione di Alain de Benoist, Milano 2023), Profeti inascoltati del ‘900. Sessantasei personalità fuori dagli schemi illustrate dai disegni di Dionisio di Francescantonio e da approfondimenti di intellettuali, scrittori e critici d’arte (con Miriam Pastorino, prefazione di Vittorio Sgarbi, Genova 2022), Louis-Ferdinand Céline. Un profeta dell’Apocalisse (prefazione di Stenio Solinas, Milano 2018-2022), Céline contro Vailland (con uno scritto di Giampiero Mughini, Massa 2019), Nausea di Céline di Jean-Pierre Richard (Firenze 2019), Louis-Ferdinand Céline. Il cane di Dio di Jean Dufaux e Jacques Terpant (prefazione di Stenio Solinas, Milano, 2018), La morte di Céline di Dominique de Roux (prefazione di Marc Laudelout, Roma 2015) e Céline ci scrive. Le lettere di Louis-Ferdinand Céline alla stampa collaborazionista francese, 1940-1944 (prefazione di Stenio Solinas, Roma 2011).
I tesori ritrovati di Louis-Ferdinand Céline curati da Lombardi, è una avvincente ricostruzione del “giallo” del ritrovamento degli inediti di Céline, dal loro furto da parte dei Maquis francesi nell’estate del 1944 a Parigi alle vicissitudini successive e alla loro pubblicazione, per poi passare a una attenta analisi dei testi e della loro datazione e discutendone la rilevanza nel contesto dell’opera céliniana.
Questo prezioso documento della Société des Lecteurs de Céline, mostra come Céline fosse il contemporaneo delle principali rivoluzioni narrative del periodo tra le due guerre, quelle di Proust, Joyce, Faulkner, Kafka, e Virginia Woolf. Innovatore stilistico, “denudatore” di uomini, disincantato testimone del Novecento, Cèline non poteva non intrigare uno studioso scrupoloso e appassionato come Andrea Lombardi il cui intento è quello di far conoscere lo scrittore francese in tutte le sue sfaccettature: il Céline della cronaca, della memoria, del romanzo, del pamphlet, della messa deliberata in questione della linearità del racconto al fine di proporre una rappresentazione del viaggio che trova la propria fonte di legittimazione nello sguardo allucinato di chi racconta. Cèline è la fuga dalla Francia liberata verso il nord Europa intesa come concatenazione logico-razionale di eventi, e dunque come sola garanzia di verità, Cèline è l’autoassoluzione, Cèline e la Storia, Cèline e gli ebrei, Cèline e la guerra, a proposito della quale spese le seguenti parole in cui lo stesso Lombardi si rispecchia:
“Se tutti gli uomini volessero non andare in guerra, è molto semplice, dovrebbero dire: <<Non ci vado>>. Ma hanno il desiderio di morire, è un desiderio; c’è una misantropia nell’uomo […]”
1 Céline non era un letterato di professione. Si può dire che le lacune letterarie gli hanno consentito di non essere influenzato da maestri e modelli?
Louis Destouches, in arte Céline, nato nel 1894 a Courbevoie a Parigi fu un uomo dalle molte vite, corazziere nella prima guerra mondiale, addetto all’ambasciata francese a Londra, direttore di piantagioni in Africa, membro di una commissione sanitaria della Società delle Nazioni, medico di periferia e bohemien nel milieu artistico di Montmartre, prima di diventare scrittore di successo – e al suo primo libro pubblicato, il Viaggio al termine della notte – in età relativamente avanzata nel 1932. Tuttavia, anche se la sua biblioteca personale andò dispersa in parte nel 1944, quando dovette abbandonare Parigi con sua moglie Lucette Almansor, e parte nel secondo dopoguerra nell’incendio della loro ultima residenza a Meudon, Louis Destouches fu un avido lettore anche prima del suo “diventare Céline”, sia di letteratura scientifica data la sua professione medicale e curiosità intellettuale, che di saggi di storia e filosofia e romanzi: ne lascia traccia nei suoi libri e interviste, dove cita spesso classici francesi come Racine, Rabelais, Molière e molti altri romanzieri anche poco conosciuti del ‘600 e ‘700, o stranieri come Shakespeare.
2 Quale Céline vuole presentare, qual è il principale aspetto inedito scaturito dai suoi studi?
Diciamo che da quando nel 2007 aprii il mio blog su Céline non mi sono mai posto come obiettivo in quale modo “presentarlo”, ma di proporre traduzioni di interviste, lettere e scritti di Céline, non tanto scritti di terzi su Céline. Quindi credo che l’aspetto principale scaturito dai libri da me curati negli anni successivi sia stato il presentare al pubblico italiano una visione più ampia e sfaccettata di Céline, della sua opera e della sua vita.
3 Cosa l’ha immediatamente colpita di Céline la prima volta che lo ha letto?
Al di là delle sue innovazioni stilistiche, dell’argot dei suoi primi due romanzi, del vortice picaresco del Ponte di Londra, della petite musique e della Finis Europae della Trilogia del Nord, il Céline che preferisco è quello di Mea Culpa – più che negli altri pamphlet, lì è proprio solo contro tutti. Lì mette veramente l’uomo davanti a se stesso, e non è un bello spettacolo.
4 A cosa servono i romanzi di Céline? Qual è la loro utilità per la vita di ognuno di noi, anche per chi non è appassionato di letteratura e non ha mai letto un libro?
Come scrivo nella prefazione al mio Louis-Ferdinand Céline Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze (Bietti, Milano 2018-1022), conobbi Céline, come molti, attraverso il Viaggio al termine della notte, leggendolo piuttosto da giovane, quindi nella migliore condizione perché questo libro mi mostrasse la vita per quella che è – questa è l’utilità dei romanzi di Céline, di un disincantato testimone del Novecento, di cui conobbe, visse e a volte subì tutte le maschere. Dopo, si è troppo cinici, troppo furbi, troppo stanchi, per capire a fondo Céline.
5 Dove secondo lei Céline “rende meglio”, nel vernacolo o nelle frasi cesellate?
Sicuramente Viaggio al termine della notte, con la sua scrittura in francese popolare e argot e il suo equilibrio trapezistico tra tragico e ironico è uno dei romanzi meglio riusciti, ma Céline stesso lo volle superare stilisticamente prima provandoci con Morte a credito, e riuscendoci poi, passando attraverso il vortice di invettive e di scrittura emozionale dei pamphlet e le varie versioni di Guignol’s Band e Féerie pour un autre fois, con quel durissimo lavoro di alto artigianato sulla musicalità della parola parlata, con le sue pause e le sue enfasi, trasposta nel bidimensionale dell’inchiostro su carta della “Trilogia del nord”: Da un castello all’altro, Nord e Rigodon.
“ricolorizzazione Tom Vous Regarde”
6 “Viaggio al termine della notte”, “Morte a credito”, “Il dottor Semmelweis”, “Trilogia del nord”, fino al recente inedito “Guerre”. Dove si manifesta in tutta l’essenza artistica e umana Céline?
Artisticamente e umanamente a mio parere il vertice è tra il Viaggio e Mea Culpa, artisticamente la Trilogia, mentre nell’inedito Guerra le prime pagine sono forse le più autentiche biograficamente: la descrizione del dolore, dell’orrore e dello choc della ferita e del campo di battaglia e della terra di nessuno ricoperta di feriti e morenti non sono quelle delle trasposizioni letterarie delle esperienze biografiche di Céline tramite i suoi alter ego romanzeschi Bardamu o Ferdinand, ma sono proprio quelli dell’appena ventenne Maresciallo Destouches, solo e disperato contro l’assurdità della guerra come milioni di altri giovani come lui allora nel 1914, e per tutta la storia del mondo.
“Moti d’inerzia” è il nuovo libro dell’ architetto Mariagrazia Spadaro Norella, un viaggio narrativo attraverso la vita di artisti vari come attori, pittori, cantanti e circensi, intrappolati nei loro sogni e aspirazioni nella vibrante periferia di Roma. La domanda ineluttabile e drammatica che emerge dal libro, “Ho davvero talento?”
L’opera di Spadaro Norella offre un’analisi complessa dell’ambizione artistica, mostrando come l’arte possa essere sia una fonte di liberazione della propria creatività che di confinamento. Attraverso storie come quella di Bartolomeo in “Il ferro e la ruggine”, che riflette sul se gli artisti nascano o si facciano, Moti di inerzia tocca questioni di autenticità e auto-realizzazione.
Secondo l’autrice coloro i quali chiamiamo “artisti” sono essere umani come tutti, ma certamente con doti di sensibilità e fantasia più spiccate, la cui personalità sui generis trova terreno fertile nel mondo dell’arte.
“Moti d’inerzia” è un flusso continuo di emozioni e riflessioni, dipingendo un ritratto nitido, senza retorica e senza compromessi della vita artistica, tra desiderio, paura di fallire e identità, lasciando il lettore con una domanda: “l’arte contribuisce davvero a formare in qualche modo la nostra identità?”
1 Quando nasce l’idea di scrivere “Moti di inerzia”?
Potrei dire che ho sempre scritto, fin da quando ho imparato a farlo, e sarebbe la verità: da bambina scrivevo su “quaderni segreti” chiusi da un lucchetto acquistato dal ferramenta (erano molto di moda negli anni ’70 e ’80) poi su quadernini dalla copertina rigorosamente nera e rigida. Ne ho circa un migliaio, ho sempre scritto “per me stessa”, a volte raccontando ciò che mi accadeva altre immaginando “futuri diversi, altre storie che avrei potuto o voluto vivere.
Ma c’è un momento esatto in cui ho desiderato scrivere proprio queste storie che sarebbero diventate un libro. Era l’8 marzo del 2016, avevo convinto alcune amiche ad andare ad ascoltare un mio compagno di classe delle elementari che si esibiva con il suo gruppo musicale in un locale seminterrato in zona Prenestina. Polizia fuori dal locale e musica country dentro. Durante il concerto il mio amico era venuto spesso a chiederci se ci piacesse il concerto, se la birra fosse buona… se l’hamburger cucinato bene … insomma, la sua felicità era palpabile. Lui, che la mattina lavora in una autoscuola e la sera vive per la sua passione: la musica. Rimasi colpita dal mondo fantastico in cui mi aveva fatta entrare: quello delle possibilità. Così cominciai a scrivere, quella sera stessa, ma in un altro modo, con il desiderio “di essere letta”, per avere anche io la mia possibilità: quella di essere riconosciuta come scrittrice.
2 Qual è la paura più grande paura che attanaglia la nostra società?
Non so, non sono in grado di affrontare un tema così ampio e complesso.
Però posso confessarle di avere moltissime paure. Esterne, come la guerra, l’esaurimento delle risorse, il finimondo climatico, e interne, prima fa tutte quella di non essere amata, perdere la salute, perdere il lavoro e non essere “all’altezza”.
La paura più grande dei miei personaggi è quella di fallire. Il fallimento sta lì, come un’ombra che silenziosa fa loro compagnia.
3 In che modo la scrittura può contribuire a cambiare la società ansiogena in cui viviamo?
Purtroppo, non sono Tolstoj e il mio libro non sarà annoverato fra quelli che “cambieranno il mondo”. Pur tuttavia ho vissuto la gioia di sentirmi ringraziare da alcuni di coloro che lo hanno letto e che hanno commentato: “le tue parole mi hanno fatto sentire meno solo”.
4 Gli artisti sono in genere più problematici e nevrotici delle persone “comuni”?
No, coloro i quali chiamiamo “artisti” sono essere umani come tutti, ma certamente con doti di sensibilità e fantasia più spiccate. Ho ascoltato di recente una intervista a Federico Fellini che con grande naturalezza affermava che l’artista “è uno che vive nel suo mondo e che a volte riesce a farci entrare un altro”. Ecco, io sono perfettamente d’accordo con lui.
Quando due anni fa sono andata a Palazzo Ducale a vedere la mostra di Anselm Kiefer sono entrata nel mondo dell’artista, ho vissuto il suo orrore di bambino durante la Seconda guerra mondiale e ho sentito addosso la puzza della polvere da sparo, quella dei cadaveri in putrefazione.
5 Cosa si aspetta da “Moti di inerzia”?
Che chi leggerà questo libro, oltre a “sentirsi meno solo”, possa sviluppare, come me che l’ho scritto, la stessa forma di pietas per i miei personaggi. Sono donne e uomini che rischiano la vita pur di esprimersi come artisti, pur di essere capiti o forse solo di essere amati. Non ultimo mi auguro che il film che sto scrivendo con Stefano Viali, tratto da uno dei capitoli del libro, possa trovare presto una produzione.
La robotica è un universo di pensieri e visioni intrecciati tra loro, una scienza le cui basi della conoscenza furono gettate dallo scrittore fantastico Isaac Asimov, il padre delle tre leggi della robotica e dei robot positronici.
Il giovane ingegnere robotico siciliano Andrea Arcarisi sembra un protagonista dei racconti di Asimov, che nell’arena industriale attuale, si distingue per essere stato selezionato tra i pochi studenti europei e undicesimo italiano per il programma di astronauta analogico presso l’Analog Astronaut Training Centre (AATC) in Polonia, in collaborazione con lo Space Technology Centre di Cracovia (EUSPA-ESA), dopo aver superato una selezione rigorosissima.
La missione ha riguardato nello specifico diverse simulazioni di vita nell’ambiente della Stazione Spaziale Internazionale e diversi esperimenti scientifici personali.
Tra le esperienze della missione l’ingegnere Arcarisi ha affrontato una simulazione di Habitat Lunare direttamente in Polonia, ricreando le condizioni di sopravvivenza di un astronauta. I test di sopravvivenza hanno incluso sfide come il test di forza G e simulazioni di attività extraveicolari (EVA) in immersione.
Spinto a studiare Ingegneria Meccatronica nella sua Sicilia e Robotica a Pisa dopo la visione del film “Interstellar” di Nolan, Andrea Arcarisi, in futuro vorrebbe far parte dell’ESA, l’Agenzia spaziale europea.
Di questo giovane ingegnere colpiscono la cordialità, la passione per il proprio lavoro, la determinazione e la consapevolezza di aver scelto un obiettivo elitario unitamente ad un percorso faticoso, partecipando a simulazioni avanzate per testare sistemi robotici in ambienti simili a quello dello spazio. Un’eccellenza italiana, un ragazzo ambizioso disponibile a parlare sull’origine del mondo senza pregiudizi nei confronti della religione, che ci ricorda che l’uomo è fatto per cose grandi, e che ogni impresa umana cammina sotto l’egida dell’hybris, anche quella dell’uomo più umile.
1 Cosa significa far parte del programma di astronauta analogico presso l’Analog Astronaut Training Centre?
L’esperienza come astronauta analogico rappresenta un vero e proprio trampolino di lancio per chi aspira a diventare astronauta. Durante questo programma, ci si prepara non solo dal punto di vista scientifico, ma anche psicologico e fisico, vivendo in prima persona situazioni che simulano i viaggi spaziali, la vita a bordo delle stazioni spaziali e persino future colonizzazioni di altri pianeti. È un percorso che forma individui capaci di affrontare sfide complesse e situazioni ad alto rischio, mantenendo lucidità e competenza, qualità fondamentali per la comunità scientifica. Inoltre, questa esperienza permette di testare sé stessi in vista delle selezioni per astronauti, che, come nel caso dell’ESA, si tengono solo una volta ogni dieci anni.
2 Qual è l’esperienza di missione più importante cui hai preso parte?
L’esperienza più significativa è stata la “One Man Mission” di ottobre 2023, durante la quale ho trascorso due settimane in completo isolamento all’interno di una stazione spaziale simulata a terra. In questo contesto, ho affrontato numerosi compiti scientifici, resistendo all’isolamento tipico delle missioni spaziali e superando prove di emergenza. È stata una sfida tanto mentale quanto emotiva, ma grazie alla determinazione sono riuscito a completare ogni incarico, inclusa la realizzazione di due prototipi scientifici. Uno di questi, oggi, è diventato il nuovo prototipo sviluppato dallo Space Systems Laboratory dell’Università di Pisa, sotto la direzione del professor Salvo Marcuccio, e rappresenta il futuro sistema di controllo d’assetto per dispositivi nella stratosfera tramite palloni HAB (High Altitude Balloons).
3 Cos’è per te lo spazio? Qual è la tua visione?
Lo spazio, per me, è come una grande avventura, simile al Far West di un tempo: è un luogo sconfinato e misterioso, pieno di possibilità ma anche di sfide che non possiamo ancora immaginare. È qui che l’umanità può sognare in grande, creare nuove tecnologie e forse, un giorno, trovare una seconda casa su pianeti come Marte. Allo stesso tempo, lo spazio ci spinge a collaborare come mai prima d’ora. Già oggi, con progetti come la Stazione Spaziale Internazionale, vediamo cosa possiamo ottenere unendo le forze. Ma è anche un luogo di competizione: aziende private e nazioni si stanno sfidando per essere le prime a sfruttarne le risorse e a portare avanti nuove scoperte.
4 Cosa pensi dei progetti di Elon Musk?
Elon Musk è un innovatore che ha cambiato molti settori, come i pagamenti online con PayPal e le auto elettriche con Tesla. Con SpaceX, sta rendendo i viaggi spaziali più accessibili, puntando a farci arrivare su Marte. Anche se a volte dice cose provocatorie o discutibili, la sua visione del futuro è chiara e ambiziosa: vuole spingere l’umanità oltre i confini della Terra. Quello che lo rende speciale è il suo modo di pensare in grande. Non si accontenta di piccoli cambiamenti, ma vuole trasformare completamente il mondo. Se qualcuno riuscirà a portarci su Marte, Musk potrebbe essere uno dei protagonisti di questa impresa.
5 Un utilizzo illuminato e saggio dell’intelligenza artificiale applicata allo spazio, può senza dubbio aiutare gli stakeholder nei processi decisionali volti a conquistare una solida postura in un dominio sempre più strategico. In che ambiti l’AI può fare la differenza, come trasforma le attività spaziali?
L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando le attività spaziali in molti modi. Immagina una missione spaziale in cui ogni decisione, dalla traiettoria al consumo energetico, è ottimizzata in tempo reale, riducendo costi e rischi. L’AI permette di analizzare enormi quantità di dati raccolti da satelliti e sensori, fornendo agli scienziati informazioni essenziali in tempi record. Inoltre, veicoli spaziali e rover possono operare autonomamente, affrontando imprevisti senza dover attendere istruzioni dalla Terra. Questo non solo rende le missioni più sicure, ma apre nuove possibilità per esplorare ambienti estremi o lontani
6 Come sono messe le università italiane in materia di robotica?
Dal punto di vista strettamente accademico le università italiane presentano delle lacune nonostante la presenza di diversi corsi in ingegneria robotica, cybernetica e meccatronica: pochi laboratori, poche strutture, in compenso però abbiamo centri di eccellenza: tre importanti centri di eccellenza in robotica sono a Genova, Pisa e Napoli. Siamo molto competitivi da questo punto di vista.
7 Secondo i cosmologi Barrow e Tipler lo spazio e il tempo sono entrati nell’esistenza, letteralmente nulla esisteva prima della singolarità, quindi, se l’universo ha origine in tale singolarità, avremo veramente una creazione ex nihilo, cosa ne pensi, qual è la tua visione dell’origine del mondo?
Speculare sull’origine dell’universo senza prove concrete è affascinante proprio perché ci permette di immaginare e ipotizzare liberamente. Un po’ come con la teoria dei frattali, ci ritroviamo a contemplare la perfezione dell’universo, che sembra seguire un ordine che non può essere casuale. Da esseri umani, è naturale voler trovare un senso e vedere un disegno in tutto questo. Personalmente, credo che nulla nasca davvero dal nulla; tutto ha una fonte, anche se è qualcosa di così complesso e indefinibile che la nostra mente, limitata, fatica a comprenderlo. Pensiamo di capire tanto, eppure non riusciamo nemmeno a immaginare la quarta dimensione. Tutto questo non può essere solo una coincidenza, ma qualcosa di molto più profondo. O almeno spero diciamo, mi fa sorridere l’idea che un entità al di sopra di ogni cosa giochi con noi attraverso le leggi della fisica.
Una storia vera e sconvolgente, scritta come un romanzo a due voci, quella della vittima Beniamino Zuncheddu e del suo coraggioso avvocato, Mauro Trogu: “Io sono innocente”, edito da De Agostini è un dramma-thriller che adotta una narrazione ricca di colpi di scena, di aneddoti, ma soprattutto di umanità e di empatia, con il difficile tentativo di far comprendere l’incomprensibile.
Purtroppo è inquietante apprendere che chi fa le indagini, e rappresenta lo Stato in questo, le pieghi al suo volere a noi inconcepibile. La Giustizia, quando inciampa in tali aberrazioni, diventa matrigna e genera profonda sfiducia nel cittadino verso sé stessa.
Nel caso in questione la domanda che tutti si chiedono è: ci potrà essere mai ricompensa, di quale tipo poi, per un uomo a cui sono stati sottratti 33 anni di vita?
Qual è stato l’elemento principale che le ha fatto credere nell’innocenza di Zuncheddu?
La convinzione è nata piano piano. In un primo momento la semplice lettura delle sentenze di condanna mi ha fatto capire che Beniamino era stato giudicato sulla base di prove inconsistenti. Poi i sopralluoghi fatti con il gruppo di consulenti coordinato dal dott. Simone Montaldo mi hanno fatto convincere che alla base della condanna ci fosse una prova falsa. Nel mentre approfondivo la conoscenza di Beniamino, la sua ferma e mite professione di innocenza era straordinaria. La sua personalità era totalmente lontana da quella che avrebbe dovuto avere il killer. Alla fine è arrivata l’intercettazione della confessione nella quale il testimone oculare svelava la falsa testimonianza e la frode innescata dagli inquirenti a danno di Beniamino.
Cosa vorreste che rappresentasse questo libro? A chi è rivolto principalmente?
È rivolto a tutti. Vorrei che tutti i cittadini potessero leggere e prendere spunto da questa tragica vicenda umana per riflettere su come viene amministrata la giustizia nel nostro paese. Ma vorrei anche che si conoscesse l’enorme forza e capacità di resistenza civile di Beniamino, pochi uomini sarebbero stati capaci di fare quel che ha fatto lui. Infine piacerà sicuramente a coloro ai quali piacciono i torbidi misteri italiani.
Cosa l’ha colpita particolarmente del suo assistito?
La sua calma fermezza nel ribadire la sua innocenza ed essere pronto a sostenerla a tutti i costi, anche a costo di perdere la libertà. Non è da tutti dare così tanto valore alla verità. Beniamino a tratti è quasi mistico.
Può raccontarci l’evoluzione emotiva di Beniamino Zuncheddu, dalla prima volta che ha parlato con lui fino all’assoluzione?
Inizialmente appariva più rassegnato che speranzoso, anche se la speranza non l’ha mai abbandonato del tutto. Forse inizialmente non credeva tanto in me. Poi, quando ha visto che il lavoro che avevo deciso di fare iniziava a dare frutti, ha cominciato a diventare più impaziente, non vedeva l’ora che la sua innocenza fosse riconosciuta in una sentenza, e fremeva. Una volta che il processo di revisione è iniziato, era convinto che sarebbe stato scarcerato subito e invece questo non è accaduto. Lo hanno tenuto in esecuzione di pena per altri tre anni, e questo lo ha gettato nello sconforto. Sembra un paradosso, ma il peggio per lui è arrivato proprio quando sono state definitivamente acquisite le prove della sua innocenza. Ha avuto un crollo psicofisico che ci ha fatto spaventare tutti. Quando è stato finalmente scarcerato, è uscito dal carcere in condizioni pietose. Ha trascorso i primi sette mesi di libertà cercando di curare le malattie che in carcere non curavano, e ancora adesso si sta preoccupando della sua salute.
Cosa risponde a chi sostiene che si tratta semplicemente di una incriminazione dovuta ad una testimonianza illecita da parte di un poliziotto e non di errore giudiziario?
Direi loro due cose. La prima, che si leggessero il codice di procedura penale: è il codice che definisce questo genere di condanne “errore giudiziario”. La seconda, che si leggessero le carte dei processi a carico di Beniamino, provassero a mettersi un attimo nei suoi panni, e poi si domandassero che cosa si sarebbero aspettati dai giudici. Sono sicuro che nessuna persona accetterebbe di essere condannata sulla base di quelle prove, anche quando la loro falsità non era palese ma solo sospetta. I giudici avevano in mano tutti gli elementi quantomeno per sospettare che quel che era accaduto non fosse regolare.
Qual è la differenza primaria tra giustizia e legge? Come si potrebbe arrivare alla loro equivalenza?
Non sono concetti tra loro ponderabili. Giustizia è un concetto filosofico prima ancora che giuridico. Ognuno può intenderlo come preferisce, a seconda dei propri valori etici, politici e religioso. Legge invece è un concetto prettamente giuridico (anche se può essere declinato anche in altri ambiti extra-statali), indica la forma delle regole che ci siamo dati nel nostro Stato. Possiamo dire che nel mondo del diritto non ci può essere giustizia formale se non si rispetta la legge. Ma alle volte anche il rispetto della legge può generare decisioni che appaiono ingiuste.
Qual è stato il momento più difficile che ha dovuto affrontare e che l’ha scoraggiata?
Tutte le volte che è stata negata la scarcerazione a Beniamino, quando ritenevo sussistenti i presupposti per la sua liberazione.
Il positivismo giuridico sostiene che la giustizia ha una validità esclusivamente storica e non è un valore giustificabile con la ragione. La giustizia è un ideale irrazionale?
È vero, a seconda del concetto di giustizia che si abbraccia, si può sostenere che essa abbia una validità storica. Ma al positivismo si contrappongono anche altre teorie del diritto che la vedono diversamente, in primis il giusnaturalismo. Ad ogni modo io non credo che la giustizia sia un ideale irrazionale, perché è pur sempre un concetto generato dalla ragione umana. Forse è un ideale irraggiungibile, ma pur sempre razionale.