Lucio Corsi, il mondo poetico e la campagna come ‘locus amoenus’

Un artista delicato, dolce, onirico, un cantautore ispirato come ormai non se ne incontrano quasi più. Ascoltare Lucio Corsi oggi è rivivere un tempo quasi dimenticato. Una Madeleine di Proust, un ricordo felice che si ripresenta; l’estetica vagamente ispirata a Ziggy Stardust di David Bowie, l’universo musicale che ha sfumature di Ivan Graziani, forse Lucio Dalla e Randy Newman pur mantenendo una linea originale netta. Lucio Corsi piace perché, come i cantautori di un tempo, non si vende al mercato dell’infallibilità ma fa poesia cantando la natura che lo circonda.

I suoi testi sembrano avvolti da una sorta di realismo magico e antropomorfismo: popolati da animali e scenari bucolici, come una favola di Esopo o Fedro, i brani di Corsi raccontano la natura, la campagna, il mondo contadino e le tradizioni legate a un tempo ormai dimenticato. Altalena Boy/Vetulonia Dakar è la raccolta dei suoi primi due EP, in cui mescola l’ambientazione bucolica a sfumature fantastiche, mentre Bestiario Musicale è il primo album dell’artista dove la dimensione favolistica è centrale; i testi, apparentemente scanzonati, celano invece significati profondi e ricordano a tratti la poetica di Gianni Rodari.

Bestiario musicale

Nel disco Cosa Faremo Da Grandi, azzardando un parallelismo, si riscontra ancora una sfumatura rodariana; nello specifico il Rodari della raccolta Filastrocche per tutto l’anno dove il poeta di Omegna racconta aspetti della vita quotidiana, il fluire del tempo, i sentimenti come l’amicizia e l’importanza della solidarietà. Il fiabesco ingloba anche la seconda traccia del disco, Freccia Bianca, pur trattandosi di un brano più autobiografico; il treno è lo spirito di un pellerossa che risale, dall’amata Maremma, la strada verso Milano. E anche il vento, per qualcuno fastidioso, può diventare un buon amico; nel brano Trieste, Corsi scrive:

“Il vento no, non è un freno, ma una spinta”.

Risulta chiara l’immagine lirica di cui l’artista fa dono a chi ascolta la sua musica: una condizione apparentemente avversa può nascondere elementi positivi. Anche nella visione di Eugenio Montale a volte il vento può essere segno di vitalità positiva. Il poeta ligure In Limine ( Ossi di Seppia, 1925) scrive:

‘’Godi se il vento ch’entra nel pomario

vi rimena l’ondata della vita […]’’.

Nei versi di Montale il vento rappresenta l’ondata della vita, il cambiamento che può accadere; proprio come Lucio Corsi ricorda in Trieste: a volte lo scompiglio è opportunità. Quello che colpisce dell’artista è l’abilità di cantare la normalità, un quotidiano intriso di sogno ma anche di sentimenti che accomunano; è il caso di Tu sei il mattino (2024) dove Corsi canta la giovinezza e gli anni del liceo in una dimensione intimistica e nostalgica che ricorda le band anni ’70, come La Bottega dell’Arte nel brano Che dolce lei o ancora il già citato Ivan Graziani che pure nel brano Agnese si lascia andare al ricordo luminoso della giovinezza, rievocando malinconicamente nella figura della giovane ragazza un tempo dorato e perduto. Ascoltando con attenzione i brani di Lucio Corsi ci si catapulta in un mondo che non c’è più, anche per quanto riguarda la poetica; il registro linguistico colto e raffinato dell’artista, così come gli scenari descritti nei brani, evocano un mondo poetico e onirico che rimanda a grandi nomi della letteratura italiana difficile da scorgere nell’attuale panorama musicale.

La campagna come locus amoenus e la visione favolistica 

Per Corsi la campagna è il locus amoenus per eccellenza; la natura georgica e bucolica ritorna spesso nella sua produzione musicale così come le immagini poetiche che rimandano a un mondo fatto di tradizione contadina. In Tu sei il mattino sfilano gli ulivi, le margherite, la neve e la dolcezza di un amore giovanile:

‘’Ho imparato come stare al mondo dagli ulivi nella rete

Che s’inchinano soltanto sotto al peso della neve

Non me ne fregava niente di Pitagora ed Euclide

Gli occhi fuggivano via dalle finestre, nei prati di margherite’’.

Cosa faremo da grandi

Un universo bucolico che ricorda Myricae di Giovanni Pascoli e le sue onomatopee, soprattutto nel disco Bestiario Musicale, dove la musica che accompagna la bellezza dei testi si fonde in una dimensione surreale. Ascoltando in cuffia L’Upupa, La Volpe, La Lepre, sembra quasi di trovarsi immersi nella macchia Toscana, di notte, mentre i rumori si rincorrono formando un’armoniosa melodia e l’odore degli alberi e della terra ulimosa penetra il proprio essere trasportando l’ascoltatore in un panismo di dannunziana memoria. La Maremma di Corsi è descritta nel suo essere brulla ma anche incantata.

Bestiario Musicale dà voce agli animali che la popolano, quegli animali che un tempo avevano molto più spazio per esprimersi e far valere il loro potere. Cosa resta, quindi, del legame dell’Uomo con il mondo animale? Sembra chiedersi e chiedere l’artista. Ma i brani sono anche un ponte che si collega al passato, a quella dimensione intrisa di leggenda e tradizione che appartiene al mondo contadino dove gli animali sono alleati, non nemici.

Corsi ha raccontato in varie interviste di quanto il brulicare di suoni appartenente al mondo animale della sua amata Maremma sia vivo, di come la genesi delle sue canzoni parta da momenti di vita vissuta, da una lepre che spunta in strada durante la notte, dalla vita invisibile ma pulsante che contorna la campagna del suo paese di origine.

In Corsi ritorna il mito bucolico della campagna, il locus amoenus che rimanda ai tipici luoghi dell’infanzia pascoliana. Il rigoglio della natura, in questo senso, diventa palcoscenico di magia e meraviglia e proprio l’ambiente pastorale rappresenta la più fulgida poetica del fanciullino, ovvero la contemplazione sensibile di fronte alle piccole cose; il «(Non omnis) arbusta iuvant humilesque Myricae» di Virgilio da cui Pascoli trae il titolo della sua raccolta Myricae per sottolineare la bellezza dell’apparente semplicità che può essere colta solo dalla purezza del fanciullo. La natura regala letizia solo a chi sa accorgersi delle piccole cose, un piccolo monito che in Bestiario Musicale è più vivido che mai.

L’Upupa di Lucio Corsi e L’Upupa di Eugenio Montale

La capacità immaginativa di Lucio Corsi è talmente potente da farlo sembrare un antico cantastorie, un folletto bucolico e bizzarro della musica che ha come cori e cantori gli elementi della natura. Il brano “Godzilla” è, per esempio, una canzone surreale popolata da falene e cimici e dalla variegata immaginazione di un bambino, o ancora ‘’Le Api’’ dove il kafkiano e il reale si incontrano sfiorandosi in una eterna danza. E poi c’è ‘’L’Upupa’’ (Bestiario Musicale, 2017) che narra di un movimento punk nato nella foresta:

‘’C’è un movimento punk nella foresta

Gli alberi con i capelli sempre verdi sulla testa

C’è un movimento punk ai limiti del bosco

Con l’upupa che canta allegra le sue origini di zebra

E se ne frega di chi la vede come un male

Di chi la vede come un ponte tra il mondo dei vivi e il mondo delle ombre’’.

Lucio Corsi restituisce una certa regalità a questo uccello mitico visto come oggetto di superstizioni e leggende e, spesso, associato alla morte e all’oscurità. E come l’artista, anche il poeta Eugenio Montale squarcia la veste ferale che la maldicenza aveva accostato al volatile nei versi di Upupa, ilare uccello ( Ossi di Seppia, 1925):

Upupa, ilare uccello calunniato

dai poeti, che roti la tua cresta

sopra l’aereo stollo del pollaio

e come un finto gallo giri al vento;

nunzio primaverile, upupa, come

per te il tempo s’arresta,

non muovere più il Febbraio,

come tutto di fuori si protende

al muover del tuo capo,

aligero folletto, e tu lo ignori.

 

La Maremma immaginata, elogio della provincia e dimensione fantastica

In più di un’intervista Lucio Corsi ha parlato dell’importanza della noia e di come la sua famiglia lo abbia fin da subito indirizzato a farci i conti, in quanto aspetto presente nella vita di ognuno. Corsi ha anche sottolineato, tuttavia, quanto il tedio sia stato motore della sua creatività; la vita di provincia può essere lenta ma proficua e ricca di insegnamenti. Il silenzio può consigliare arte e nell’apparente stasi  il brulicare di vita sussurra fantasia. Il poeta Attilio Bertolucci scriveva ‘’Il passo è quello lento e gaio della provincia’’ (Gli Anni, La capanna indiana, Firenze, Sansoni, 1951) perché la lentezza è anche prendersi il tempo per il piacere della scoperta. La bellezza del mondo fantastico di Lucio Corsi è soprattutto aver ricordato come, in un momento storico che spinge alla velocità e fa sentire fuori luogo chi non è infallibile, bisogna sempre rimanere sé stessi, non snaturandosi. E allora ecco che l’artista propone una Maremma che è scrigno di sogno: nella zona Toscana amata dallo scrittore Carlo Cassola la poetica di Corsi, dopo Bestiario Musicale, lascia il posto all’onirico e al surreale come si riscontra nel brano La gente che sogna:

’Se ne hai bisogno

Un albergo non è altro che il pronto soccorso del sonno

Dove puoi fare tutte le esperienze della vita

Senza una vittoria e senza una ferita’’.

Ma le suggestioni della Maremma sono sempre presenti nei brani di Corsi e così il carattere favolistico e visionario che si interseca a influenze glam rock e cantautoriali come quelle di Paolo Conte e Ivan Graziani. Un altro esempio è l’album, con l’omonimo brano, Cosa faremo da grandi? in cui l’artista smonta la narrazione del ‘’traguardo’’ come punto d’arrivo, evidenziando come l’azione del disfare non sia necessariamente un fallimento ma, anzi, una ripartenza perché sì, si può buttare il lavoro di anni in quanto anche da adulti è possibile cambiare visione e percorso:

‘’C’è un mistero in ogni giorno che comincia

Dopo una notte che finisce

Io non ho mai capito

Di che cosa sono fatte le conchiglie

E come fanno ad arrivare

Lungo le spiagge affollate

Se dal cielo non scendono scale

Se dal mare non arrivano strade’’.

Ascoltare i brani di Lucio Corsi è tornare con la mente a tempi lontani, al mondo dorato dell’infanzia, alla dimensione lirica e domestica degli ambienti familiari, alle sfumature crepuscolari di provincia popolate da poeti come Marino Moretti e Guido Gozzano, al giorno svanito nel tramonto e  alla ‘’pace infinita che sui fiumi stende la sera alla campagna’’ di Alfonso Gatto (Arie e ricordi, Tutte le poesie Mondadori, 2017).

Un parallelismo con il poeta Morbello Vergari

La poetica di Lucio Corsi ha ammaliato il pubblico per la sua delicatezza, l’eleganza e la cultura dell’artista. La Maremma Grossetana, luogo natio di Corsi, vanta anche i natali di un altro pregevole poeta: Morbello Vergari nato nel dicembre del 1920 e scomparso nel 1989. La sua è un’infanzia contrassegnata dalla guerra e dalla miseria, ma vicina al mondo contadino e bucolico. Durante gli anni del dopoguerra inizia a proporre i suoi testi poetici e si avvicina alla musica in quanto suona la fisarmonica. La sua prima silloge è ‘’Versacci e discorsucci’’ e nel presentare il proprio pensiero poetico Vergari scriverà:

«Non canto i cavalier, l’armi, gli onori,

come un dì fece il grande Ludovico.

Le guerre infami, i sanguinanti allori;

di tutto questo non mi importa un fico.

Ma i lavoranti, l’ape, i campi, i fiori;

le cose grandi solamente, dico.»

Proprio come Lucio Corsi, Vergari canta la normalità, la consuetudine, le piccole cose che tuttavia sono grandi. L’attaccamento alla  propria terra e la fierezza delle proprie origini è un altro punto in comune fra l’artista visionario, ponte fra presente e passato, e Morbello Vergari. Il poeta intorno agli anni ’70 aveva iniziato una ricerca sulla tradizione canora maremmana; grazie all’amicizia con la cantante folk Caterina Bueno partecipa alla serata conclusiva del Convegno sulle “Tradizioni popolari e la ricerca etnomusicale” , nel 1975 a Firenze. Successivamente, in seguito alla collaborazione con Corrado Barontini, nasce  il gruppo “Coro degli Etruschi” il cui obiettivo era riproporre i canti della tradizione; da qui il libro ‘’Canti popolari in Maremma’’.

Quello che stupisce dell’arte di Lucio Corsi non è solo una sublimazione sognante del quotidiano ma anche la mescolanza fra il surreale e il reale. In alcune interviste tratte dal periodo Sanremese Lucio ha sottolineato:

‘’Bisogna rimanere ancorati alla terra come gli alberi della Maremma’’.

La terra natale è sempre presente e così gli alberi che Lucio ama: sognare sì, tendere al cielo anche ma sempre rimanendo solidi come il paesaggio selvaggio della sua Maremma. In un’intervista risalente al 2015 su La Repubblica Lucio parla anche del suo rapporto con gli alberi:

‘’Ho un rapporto di infatuazione per gli alberi: c’è tipo una quercia vicino casa mia e ce l’ho come riferimento fin da piccino’’.

Il lirismo  di Corsi colpisce anche nelle interviste per il lessico sofisticato e il tono elegante, ma soprattutto per i contenuti consueti ma rivoluzionari. Conversare del potenziale rapporto d’amore con la natura e i suoi elementi è già poesia e Lucio ricorda a chi è preso dalla frenesia del mondo e dalla competizione quanto è bello non avere traguardi ma solo partenze e quanto è liberatorio fermarsi ad ascoltare. Come scriveva il poeta Camillo Sbarbaro, in 38, Trucioli (1914-1918):

‘’Ma ormai, se qualcuno invidio, è l’albero.

Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno. Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato.

Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!

Più che d’uomini, ho in cuore fisionomie d’alberi’’.

 

Entomologia in musica e poesia

Come si evince da alcune dichiarazioni dell’artista e dai suoi testi la passione per l’entomologia e gli insetti è abbastanza evidente. Nel brano ‘’Godzilla’’ Corsi catapulta l’ascoltatore in un universo incantato esortando, quasi, a fare un esercizio di immaginazione:

‘’Provate a mettere le ali

Provate a mettere le ali alle lumache

Diventeranno draghi’’.

Così le cimici diventano carro-armati volanti, gli insetti vedono gli alieni camminare sulla terra e le falene sono farfalle anziane in pelliccia che, alla sera, vanno a ballare. Un giovane poeta del secolo scorso, come Lucio Corsi, intesserà un rapporto profondo con l’entomologia e specialmente con le farfalle; Guido Gozzano, infatti, dedicherà dei meravigliosi versi ai lepidotteri in le ‘’Epistole Entomologiche’’.

‘’[…]Voi contemplate, amica, la farfalla

infissa da molt’anni. Ben più dolce

è meditarla viva nel suo regno

La rivedo con gioia ad ogni estate;

sfuggito all’afa cittadina, appena

giunto al rifugio sospirato, indago

con occhi inquieti lo scenario alpestre […]’’

Gozzano, come Corsi, è un cantore della provincia e delle piccole bellezze che sfuggono agli uomini assorbiti dall’escandescenza della società. Sempre come l’artista toscano che ritorna alla sua Maremma, anche nel mondo poetico di Guido Gozzano la città natale – in questo caso Torino – è al centro del suo universo letterario, culla di ricordi, lirismo e nostalgia; così come la natura che ritorna nella sua contemplazione paesaggistica e il mondo naturale popolato dai suoi elementi caratteristici.

Intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno

Le influenze musicali di Corsi, come sottolineato più volte dall’artista, sono ben note. Ma la sensibilità del cantautore, la preziosità del registro linguistico, la visione immaginifica dei testi lo collocano al centro di un mondo letterario sfavillante in cui confluiscono le poetiche di vari autori del ‘900, a ben vedere, e non solo scrittori di poesia ma veri e propri precursori di tendenze.

Il 15 ottobre 1923 nasceva Italo Calvino, il 15 ottobre 1993 Lucio Corsi; forse una strana coincidenza, o forse no. Il primo ha esplorato il neorealismo, la commedia fantasy, la fantascienza umoristica, il gusto dell’ironia la dimensione mitico-fiabesca che sotto le spoglie del sogno cela la realtà. E Corsi è un artista che sembra uscito da una fiaba, un menestrello che racconta le sue storie attraverso testi fantastici e favolistici che non tralasciano la dimensione onirica e la sfumatura fantascientifica ( si pensi all’Astronave Gira Disco o Altalena Boy, per esempio) una figura eterea, fluttuante  e incastonata in un paesaggio dai toni pastello di Hayao Miyazaki. L’amore di Lucio per gli alberi lo avvicina alle avventure arboree di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista de il Barone rampante (1957) di Italo Calvino che decide di salire su un leccio e di non scendere più, ma anche alla struttura fiabesca di Marcovaldo (1963) dove il tema urbano si interseca alla tematica del surreale e alla purezza del personaggio.

L’incredibile successo di Lucio Corsi è forse sintomo di un necessario  processo di palingenesi: l’arte, la cultura, la musica, la poesia hanno bisogno di una rinascita, una  restaurazione che non releghi i valori, le tradizioni, la normalità e la fierezza di essere sé stessi – come lo stesso Corsi canta nel brano portato al Festival di Sanremo 2025, ‘’Volevo essere un duro’’– ma si interessi all’immagine di uomini fallibili e imperfetti che sognano grazie ad alberi e prati di margherite come Lucio, che immaginino gli allunaggi delle lepri e ombre che non sono lugubri o funeree ma rappresentano lo sguardo illuminato della luna che sfugge alla notte che avanza. ‘’Sono anni che nessuno mi trasforma in qualcos’altro’’, scrive l’artista in un altro suo pezzo, ‘’Danza Classica’’, e probabilmente è stata proprio la sua resistenza al tempo e alle mode, oltre alla sua musica, ad averlo preservato in tutta la sua purezza e luminosità.

 

 

 

 

Simone Cristicchi tra intolleranza progressista e arte

In questi giorni sanremesi sta tenendo banco tra le polemicucce, quella sulla canzone del cantautore Simone Cristicchi, “Quando sarai piccola”, tacciata di paraculismo.

Al netto degli interventi di chi critica Cristicchi perché vicino agli ambienti di Pro Vita e non di sinistra, sorprende che un artista non possa parlare di temi non mortiferi, con romanticismo, senza che venga accusato di voler vincere facile. Cristicchi non apologizza l’eutanasia, non esalta i diritti civili, non spinge i diktat del progressismo più estremo. Cristicchi, che da sempre tratta temi delicati e drammatici, canta la propria esperienza, in cui molte persone si sono riconosciute.

Lasciando il patetismo a chi quest’anno a Sanremo fa la parte della vittima, riuscendo ad abbindolare anche la sala stampa, e a chi si è dato una ripulita nel look, sarebbe opportuno far conoscere a chi accusa Cristicchi di patetismo, che ad esempio un certo Eric Clapton ha scritto un capolavoro per suo figlio che è morto in tenera età; un autore, un artista prova a condividere un sentimento, un’emozione, scegliendo il modo di comunicarlo che più gli si addice.

Nelle parole di Cristicchi traspare la sofferenza e la fatica di chi si prende cura di una persona affetta da Alzheimer, sottolineando la dolcezza e la pazienza che si dovrebbe avere nell’accompagnare i propri genitori in questo drammatico cammino, e che alcune persone, purtroppo per molti, hanno.

La domanda semmai da porsi è: è una bella canzone quella di Cristicchi? Merita la vittoria? Se l’arte rientra nella capacità di trasmettere un tema, la forma è l’arte stessa, e in Cristicchi la forma c’è, e ha portato il pubblico alla commozione. Se con quella forma si riesce a toccare il cuore delle persone, l’obiettivo è centrato. L’esempio è nel festival stesso: Fedez tratta un tema importante come la depressione, eppure non ha avuto lo stesso impatto di Cristicchi.

Non è indispensabile avere un’estensione vocale pazzesca, gorgheggiare, vocalizzare, urlare, per toccare le corde più profonde dell’anima. La tecnica è fondamentale nel canto, ma non basta per poter parlare di arte o di poesia. A tal proposito, “Quando sarai piccola” non è poesia, né una messa cantata come alcuni detrattore considerano; è una bel testo, cantato con trasporto e commozione che però non ha melodia. Nonostante questo è “arrivata” al pubblico, come arrivò seconda a suo tempo “Signor tenente” di Faletti, canzone che non ha melodia, non orecchiabile, apprezzata da pubblico e critica, considerata una poesia.

Per affrontare la questione canzone/poesia, è necessario sgomberare il campo dai tanti luoghi comuni, dalle affermazioni sciatte che da decenni proliferano intorno a questo tema. Non basta liquidare la questione dicendo che i trovatori sono stati i primi cantautori della storia, che molte canzoni si ispirano alla letteratura (e qui si può stilare un elenco che va da Non al denaro non all’amore né al cielo di De Andrè a La divina commedia di Tedua), o che non è un caso che molti tra cantautori e cantautrici, parallelamente alla produzione musicale, abbiano sempre coltivato interessi puramente letterari, scrivendo romanzi (come quelli di Leonard Cohen, di Ivano Fossati), pubblicando poesie (come hanno fatto Jim Morrison, Patti Smith o Claudio Lolli).

La canzone è poesia? No. È letteratura? Certo.

Ammettendo poi che un testo letto e lo stesso testo cantato non sono la stessa cosa e, in particolare, che un testo scritto per essere letto e uno scritto per essere cantato sottintendono grammatiche differenti, si può anche arrivare a dire che una canzone che in tutto e per tutto assomiglia a una poesia in realtà non è una buona canzone. Eppure quante volte, proprio ascoltando un pezzo di musica leggera, ci capita di affermare come per Faletti o adesso per Cristicchi: questa è poesia? In quei casi è come se elevassimo la forma canzone a uno status superiore, esponendola a situazioni comunicative che trascendono ed eccedono quelle riconducibili a un brano musicale e che normalmente pertengono alle forme espressive ritenute più nobili, prima fra tutte la poesia.

Perché una canzone non può essere valida di per sé, in quanto canzone, ma deve per forza rimandare a qualcos’altro, prendere un po’ di qua e un po’ di là, simulare i modi della cosiddetta letteratura colta?

Va notato come l’influenza non sia soltanto unidirezionale: non è soltanto la poesia a ispirare le canzoni, in cui si riscontra chiaramente come talune proprietà del brano musicale abbiano esercitato un’influenza diretta sull’ideazione e sulla costruzione di testi propriamente letterari, o tranquillamente accolti come tali.

Alcune canzoni di Bob Dylan, di Fossati, di Guccini, di De André, di Battisti, ecc, sono palesemente letteratura, e come tale presuppone una consapevolezza linguistica che è propria del genere e che è giunto il momento di provare a inquadrare: di che specificità si tratta? Cos’è che in modo inconfondibile contrassegna la natura di certi testi musicali?

A questo punto bisogna accennare al fatto che la parola cantata demandi inevitabilmente parte del suo significato complessivo alla componente musicale, il che, a detta dei detrattori più tenaci, comporterebbe una insanabile ‘provvisorietà’ a livello strettamente letterario, una mancanza di esattezza che invece non si ritrova nella letteratura ‘pura’.

Semplicemente non si può valutare una canzone facendo capo ai soli strumenti della poesia. Ci si può limitare a notare come, in alcuni casi di cantautorato, una sorta di sistematica ‘disarticolazione’ della lingua cantata avvicini le parole delle canzoni a quelle del discorso poetico.

Detto ciò, Cristicchi meriterebbe la vittoria solo per il fatto di essere inviso ai progressisti, ma la sua canzone, abbastanza debole sul piano sintattico-ritmico-melodico, non fa di lui un poeta, e nemmeno un paraculo. Una cosa è certa: una canzone per essere bella e meritare la vittoria non deve essere per forza orecchiabile, vedesi la vittoria a Sanremo 2000 di Sentimento della Piccola Orchestra Avion Travel.

 

 

‘Atom heart mother’ Il concerto-evento dei Pink Floyd Legend torna a Firenze il 29 giugno 2022 al Teatro Romano di Fiesole

Tutti i concerti del tour di Atom hanno sempre incassato il tutto esauritodagli Arcimboldi di Milano allo Sferisterio di Macerata, dal Teatro Romano di Ostia Antica a quello di Verona, dalla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica di Roma al Teatro Colosseo di Torino.
Un grande successo dovuto alla realizzazione “unica e speciale” della celebre suite: dal 2012 i Pink Floyd Legend, infatti, sono i soli a portare in tour ATOM nella versione integrale accompagnati da Coro e Orchestra seguendo la partitura originale (e autografata) del compositore Ron Geesin con il quale i Legend hanno sottoscritto a Londra, anni fa, un sodalizio artistico.

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Al Teatro Romano di Fiesole l’ensemble di cento elementi sarà composto dalla Legend Orchestra, dal Coro Arkè e dai Cori Sesto in Canto e Animae Voces (questi ultimi diretti dal M° Edoardo Materassi), tutti diretti dal Maestro Giovanni Cernicchiaro.
Nel corso del concerto non mancheranno comunque i più grandi successi del gruppo britannico (da quelli degli esordi a quelli più recenti) che la formazione romana suonerà nella classica formazione.

Quella di Firenze è la prima data di un tour estivo anticipato dal concerto del 21 giugno alle ore 21, in occasione della Festa della Musica, che aprirà le celebrazioni ufficiali di #FUTURESIGHT #TorVergata40 nel 40° anniversario della fondazione dell’Ateneo e che sarà esclusivamente dedicato a tutta la comunità universitaria.
L’evento, ripreso con la regia di Maurizio Malabruzzi e presentato da Carlo Massarini vedrà i Legend accompagnati dai 17 elementi della Legend Orchestra diretta da Giovanni Cernicchiaro.

Il 28 luglio i Legend saranno poi in scena al Giardino Scotto di Pisa, insieme a Denys Ganio e ai ballerini della Compagnia Daniele Cipriani, con SHINE Pink Floyd Moon, l’opera rock del celebre coreografo e regista Micha van Hoecke scomparso un anno fa.

Dal 31 luglio al 22 agosto il tour continua con 4 date di Atom Heart Mother.
Il 31 luglio il gruppo si esibirà in Romania all’Anfiteatro Romano di Bucarest per poi tornare in Italia a Roma sul palco della Cavea del Parco della Musica, il 3 agosto, dove si esibiranno con una special guest d’eccezione come Ron Geesin, il compositore inglese della celeberrima suite di Atom.
Ad agosto i Pink Floyd Legend voleranno in Sicilia per la prima volta per due date: il 21 agosto all’Agrigento Live Festival al Teatro Valle dei Templi e il 22 agosto all’Anfiteatro Falcone e Borsellino di Zafferana Etnea (Catania)
Il 7 settembre sarà, invece, la volta del repertorio di The Dark Side of The Moon all’Anfiteatro Romano di Terni.
Atom tornerà il 9 settembre, dopo il sold out del 2018, al Teatro Romano di Verona e il 23 novembre al Teatro Augusteo di Napoli.

Tutti i concerti del tour si avvarranno di un incredibile nuovo disegno luci e laser e di sorprendenti effetti scenografici che, uniti alla fedeltà degli arrangiamenti, ai video dell’epoca proiettati su schermo circolare di 5 metri, agli oggetti di scena, ricreano quel senso di spettacolo totale per vivere un’indimenticabile “Floyd Experience”

PINK FLOYD LEGEND
FABIO CASTALDI – Basso, Voce, Gong
ALESSANDRO ERRICHETTI – Chitarra, Voce
EMANUELE ESPOSITO – Batteria
SIMONE TEMPORALI – Tastiere, Voce
PAOLO ANGIOI – Chitarra acustica, elettrica e 12 corde, Basso, Voce
con
MAURIZIO LEONI – Sassofono
NICOLETTA NARDI / SONIA RUSSINO / GIORGIA ZACCAGNI – Cori

e con
LEGEND CHOIR & ORCHESTRA
diretti dal M° Giovanni Cernicchiaro

PINK FLOYD LEGEND SUMMER TOUR 2022
Biglietti in vendita su www.ticketone.it – www.bookingevents.it

Sanremo 2022. La mistificazione della musica e della realtà. Zalone fuoriclasse

Nel 2019 fu la volta di Mahmood come il ragazzo figlio di madre italiana e padre egiziano perfettamente integrato a vincere il Festival di Sanremo con la canzone “Soldi” le cui frasi in arabo e rime furbe avevano mandato in visibilio la giuria di qualità (infima) radical chic che annullò il verdetto popolare che voleva Ultimo al primo posto, quest’anno, a Sanremo 2022 Mahmood si è presentato in coppia con tale Blanco cantando “Brividi”, canzone inascoltabile e incantabile, con scontato inserto rappato, testo debole e messaggio mainstream incorporato, la solita solfa dell’italo-immigrato e del carrozzone gender-fluid che ha fatto la differenza più che la canzone stessa e le voci lagnose dei tue interpreti, soprattutto quella salmodiante di Mahmood. Della canzone si salvano le due battute iniziali, quella senza voce, che sembrano un’introduzione Fusion.

Sanremo 2022: la canzone vincitrice

Brividi, manco a dirlo, ha vinto Sanremo 2022 suscitando polemiche, come accade da sempre alla kermesse canora (basti pensare alle edizioni più recenti: il vergognoso secondo posto del principe Filiberto, la vittoria del piccione di Povia sulla meravigliosa canzone dei Nomadi “Dove si va”), battendo la fiabesca ed eterea Elisa, che trasmette una sensazione di pace quando canta, seconda classificata con “O forse sei tu” e l’eterno ragazzo Gianni Morandi, terzo classificato con l’allegra canzone “Apri tutte le porte”.

C’erano almeno altre 5 canzoni più belle della vincitrice di quest’anno, più orecchiabili ed emozionanti, ma durante le serate del Festival sala stampa e giuria demoscopica hanno tenuto in alto Mahmood e Blanco, fino all’ultima serata che prevedeva anche il voto da casa. Segno dei nostri tempi: si deve affermare quanto più si può una ideologia, quasi a volerla installare a tutti i costi della testa dei più riottosi, retrogradi fascisti, transomofobi!

Come tante altre parate della televisione pubblica, il festival, da leggere come fatto antropologico, veicola messaggi politici e nuovi conformismi, quindi è esso stesso propaganda di opinioni e stili di vita che non hanno utili economici immediati ma di condizionamento delle masse, soprattutto dei giovani. Non sono le case discografiche a tratte profitto dal festival luogo, come tanti altri, dove si consumano markette, bensì gli sponsor.

Le presenze perlopiù da “superopsiti” di Elisa, Massimo Ranieri, Gianni Morandi, Iva Zanicchi sono servite ad alzare l’asticella del concorso, a far contenti tutti, visto che Sanremo è un festival nazionalpopolare. Si certo i suddetti cantanti non hanno bisogno di Sanremo, continuano a stare sulla scena da anni, hanno venduto e vendono dischi, fatto concerti, hanno una carriera. Carriera che molto probabilmente non avranno la maggior parte di coloro che hanno partecipato alla gara, perlopiù incapaci di cantare, “rapper” improvvisate per mascherare le proprie lacune canore.

Brividi tra qualche anno sarà dimenticata, non entrerà nel quotidiano degli italiani, nella storia del Festival, e non vincerà nemmeno all’Eurovision, le canzoni di Ranieri, Zanicchi, Morandi, Elisa e altri che magari non hanno nemmeno mai partecipato a Sanremo (Venditti, De Gregori, Guccini, che però fu escluso e De André che non amava la competizione), oppure non hanno mai vinto, invece sono entrate nel nostro cuore, sono diventate parte della nostra italianità.

La formula sanremese andrebbe ancora una volta rivista: è indecente e irrispettoso inserire all’interno della stesso gruppo quelli che una volta si chiamavano “big” e i giovani sconosciuti o usciti dai talent, le “quote Maria de Filippi” che registrano migliaia di visualizzazioni sui social e su Youtube. Si ritorni alla divisione tra big e nuove proposte, possibilmente dando più spazio alla qualità musicale piuttosto che allo show e ai pistolotti moralisti per educare il popolo incivile che non vuole adeguarsi alle ideologie e al politicamente corretto.

L’ipocrisia dei benpensanti

Del resto bisogna ricordare che nel 2019 nessuno scrisse che a vincere Sanremo era stato un rapper di nome Mahmood, tutti scrissero che a vincere era stato un italo-egiziano di nome Mahmood. E a farlo furono soprattutto i giornali di sinistra, strumentalizzando la sua vittoria per andare contro Salvini.

Non ci sarà mai integrazione se si continuerà a sottolineare in questo modo le differenze. lo stesso discorso vale anche se ci spostiamo sul terreno del gender fluid, del femminismo, del razzismo. Non si fa che parlare di inclusività; si è visto un lungo e imbarazzante monologo da parte di un’attrice italiana di colore, Lorena Cesarini, in veste di moralizzatrice tesissima e testimonial di un libro sul razzismo edito dalla Nave di Teseo, in virtù del fatto di aver ricevuto insulti razzisti sui social da qualche imbecille. Questi atti vergognosi non fanno dell’Italia un paese razzista e probabilmente certi insulti non hanno nemmeno quella matrice. Ma fa comodo pensarlo a chi si prepara la lezioncina moralistica.

Non ci sono forse anche altri preoccupanti problemi? Ad esempio la confusione nelle nozioni più semplici, il pressappochismo dialettico, l’instabilità emotiva, l’inclinazione, oltre che al narcisismo e all’omologazione, a un cripto-fascismo travestito da movimentismo progressista, che sfociare in delirio di onnipotenza, il vittimismo a prescindere, i pregiudizi al contrario, la superficialità?

I pistolotti moralistici

Il cantante Marco Mengoni nella serata finale del Festival, ha menzionato la Costituzione, facendo confusione tra minaccia ed insulto, citando alcune espressioni di utenti social, a senso, perché naturalmente le vittime sono sempre quelle categorie di persone che a quanto pare non possono essere oggetto di satira, di scherzo, perché no di insofferenza. Insofferenza dovuta al continuo martellamento mediatico su tematiche che non dovrebbero essere nemmeno tali, perché si tratta della sfera più intima della persona. A Sanremo possono partecipare tutti, purché dotati di una qualche cifra artistica, nessuno impedisce ad un omosessuale, ad un figlio di immigrati, ad un transgender, di partecipare. Perché questa ossessione? Perché nominare chi fa una critica, una battuta, come hater? Perché non dire che anche chi è ritenuto vittima a priori, si lancia in offese, praticando turpiloquio e violenza verbale?

Lucio Dalla, che amava partecipare a Sanremo, era omosessuale, ma non ne ha fatto mai una bandiera. La sua bandiera erano le sue canzoni. Promuoveva la sua arte, non una causa, una ideologia da far assimilare a tutti i costi a chi la vede in modo diverso o a chi non interessa minimamente il privato di una persona.

L’insofferenza si fa ancora più forte se si pensa al periodo storico gli italiani stanno vivendo, alle restrizioni, a chi si vede privare di veri diritti, a chi viene discriminato perché non ha un pass per andare dal tabaccaio, a chi si vede costretto a cedere ad un ricatto per non perdere il lavoro. Dal punto di vista di queste persone, vedere pontificare in tv su razzismo (inesistente) e fluidità di genere può annoiare e infastidire, non perché le persone siano tutte razziste, omofobe o perché tirino fuori il loro lato razzista ed omofobo, adagio trendy per assecondare la convinzione di chi vede questo mondo cattivo, razzista, e omofobo, contro di loro, piuttosto perché sono consapevoli di non essere fortunati quanto i fenomeni arroganti che salgono su un palco importante, dimostrando quanto siano distaccati dalla realtà e dai problemi seri della gente comune che in testa ha ben altri pensieri e che non capisce che cosa si dovrebbe dire o fare per supportare la gender fluidity stando attenti a non urtare mai la sensibilità altrui.

 

Checco Zalone: una boccata di ossigeno

A squarciare il velo dei buoni propositi e dei sentimenti nobili a Sanremo 2022 ci ha pensato Checco Zalone, un moderno Alberto Sordi che si fa beffe del famigerato uomo medio, e che pure ha suscito qualche disappunto nella comunità LGBTQ che evidentemente non ha compreso il sarcasmo di Zalone e che vorrebbe essere narrata in termini entusiastici. C’è anche chi ha etichettato il suo sketch sui trans come anti-omofobo. Insomma ognuno ci ha visto quello che voleva.

Tuttavia Zalone non ha fatto nulla di quello accennato, il comico pugliese di diverte a fare la spola a tutta velocità tra gli opposti estremismi dove risalta alla sua inimitabile maniera bipartisan di prendersi gioco di tutti, senza scadere in discorsi lacrimevoli che menzionano la parola diritti, ottenendo il risultato di far credere ogni volta a ciascuno (tele)spettatore che non sia lui, bensì il vicino di sedia, casa o di poltrona a essere preso per il sedere e svelato nella sua ipocrisia. Strepitose anche le parodie del rapper assalito dai propri demoni e del virologo di Cellino San Marco che scimmiotta Albano.

Sanremo ormai è diventato anche il festival dei meme, ma c’è ben poco di edificante e magnifico in questa mutazione virtuale; ciò dimostra che siamo una società chiusa su se stessa, legata ai video, agli smartphone, alle faccine, ai meme, dove ogni pettegolezzo di bassa bottega o pensierino da due soldi diventa virale! Si dovrebbe invece insegnare ai giovani che virale non è sinonimo di importante, rivoluzionario, eversivo e di fare di se stessi uomini e donne costruttori della Storia, imitando i loro nonni e nonne non cantanti improbabili con i capelli rosa, con la gonna e autotune. Non li rende dei geniali ribelli, semmai dei pargoli ammaestrati che pensano di fare successo senza avere talento, senza studiare, senza capire cosa sia l’Arte.
Quale sarà il prossimo step moralistico-canoro? Una canzone anti-specista? Perché no. Ambientalista? C’è già, ed è la soave “Ci vuole un fiore” di Sergio Endrigo, scritta da Gianni Rodari ben prima di Greta Thunberg e company.
Brevissima nota a margine: fanno tenerezza alcuni vecchi ed irriducibili comunisti come Vauro che si sono eccitati credendo davvero che il pugno chiuso della Rappresentante di lista alla fine della canzone Ciao Ciao fosse un riferimento alla loro ideologia. Anche Salvini ci ha creduto, e si è lamentato.
Ma come funziona esattamente il televoto? Davvero è impensabile che chi sponsorizza un artista non abbia il potere di acquistare molti voti.

 

 

 

Claudio Lolli, poeta malinconico prestato alla canzone d’autore italiana

Molti cantautori italiani sono scomparsi prematuramente. Si pensi solo a Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Rino Gaetano, Lucio Battisti. Claudio Lolli, uno dei padri della canzone d’autore italiana, è morto a 68 anni nel 2018.

È scomparso anzitempo se consideriamo l’aspettativa di vita in Italia, seppur non giovanissimo. Soltanto con la pubblicazione del suo ultimo album è riuscito a vincere la targa Tenco, nonostante avesse frequentato per anni quel palco. Ciò è il segno che la qualità del cantautorato fosse elevata, ma dimostra anche una certa incomprensione, una certa miopia nel giudicare l’arte di Lolli.

Qualcuno negli anni settanta diceva molto malignamente che Lolli istigasse al suicidio, ma era totalmente errato. Invece amava la vita. È del tutto naturale talvolta guardarsi indietro, volgersi dietro, soffermarsi a pensare al tempo trascorso. La malinconia è un sentimento universale, una costante umana e assumono una posa coloro che non ne parlano o fingono di non provarla in nome di una presunta oggettività o in nome di un posticcio stoicismo.

Lolli non era per autodistruzione ma per piacere, peraltro moderato, che amava le sigarette ed il vino. Lolli era un poeta malinconico prestato alla canzone ed ispirato da una autentica passione civile. Eppure non si riteneva un poeta. Pensava che la canzone d’autore fosse una supplente della poesia contemporanea. Era da sempre schierato contro la retorica ma anche contro la puerilità delle canzonette.

Non cercava mai formule facili né slogan politici, pur essendo dichiaratamente di sinistra. Certe sue canzoni sono dei ritratti memorabili di una Italia che non esiste più. Lolli è stato cervello acuto e cuore pulsante del movimento studentesco bolognese; mai sdolcinato, mai mellifluo, è rimasto negli anni sempre fedele a sé stesso; ha sempre saputo suscitare emozioni e sentimenti senza mai voler persuadere nessuno.

Per dirla con una delle sue ultime canzoni non è stato un uomo senza amore. I suoi testi sono sempre stati incisivi, letterari e pregnanti. Lolli ha cantato il tormento, la disillusione, l’estraneità, l’inadeguatezza della sua generazione, alternandoli a momenti di intimismo. Nonostante il riflusso ed il disastro degli anni ottanta ha continuato a descrivere i vizi e le virtù della nostra penisola. Anche musicalmente è sempre stato originale, sapendo fondere elementi di jazz con il rock progressive.

Per dirla alla Vittorini ci sono due tipi di opere creative: quelle che ci confermano il mondo come noi lo conosciamo e quelle che ci fanno vedere in modo nuovo il mondo. Ebbene Lolli aveva un suo stile unico, inconfondibile e personale. Spicca per il lirismo con cui ha cantato i giovani del ’77 e con cui ha cantato la sua Bologna.

Era per quanto possibile contro il sistema. Infatti dopo il successo chiuse i rapporti con la EMI, una multinazionale, per approdare ad una casa discografica indipendente. Insomma nessuno poteva dargli del venduto in quanto era di specchiata moralità, lontano  da ogni tipo di compromesso. Ritornando al discorso della nostalgia, tutto al più si sarebbe potuto considerare depresso ma non deprimente. Lolli aveva molto da dire e le sue canzoni lo hanno sempre testimoniato.

Lolli è stato il poeta della generazione bolognese del 1977. Ha cantato le inquietudini, le contraddizioni, le speranze, i sogni di quella generazione. Come ha detto il professor Franco Berardi, detto Bifo, quella generazione, difficilmente inquadrabile ed etichettabile, e con essa Claudio Lolli aveva il merito fondamentale di chiedersi cosa fosse la felicità. Il nostro ha frequentato ed influenzato altri cantautori impegnati.

Ha insegnato a Vecchioni a strafregarsene dei ritornelli. Si è dedicato con passione all’insegnamento ed ha lasciato una traccia indelebile nei suoi studenti. È stato un docente umano, mai fazioso o settario, sempre pronto a formare culturalmente invece che a deformare giovani menti a propria immagine e somiglianza. Era un uomo di parte ma mai fazioso e sempre aperto al confronto, al dialogo. Era perfettamente consapevole che nessuno ha la verità in tasca e che chiunque ha la facoltà di fare la propria scelta di campo.

L’insegnamento, peraltro mestiere  sempre svolto ottimamente, è stata anche una scelta obbligata per garantirsi uno stipendio fisso e per avere più libertà come cantautore.

Claudio Lolli ha raccontato di aver preso la decisione di insegnare dopo aver cantato un pomeriggio in una discoteca di Salerno. Prima ha fatto un lungo viaggio da Bologna a Salerno. Poi ha cantato davanti ad un pubblico disinteressato, impaziente di scendere in pista a fare quattro salti. Capì allora che per garantirsi un futuro doveva insegnare.

Lolli raggiunse il culmine del successo con l’album “Ho visto anche degli zingari felici”. È nella prima canzone dell’album che tratta delle conflittualità e delle incomprensioni della sua generazione e di quella dei suoi genitori, mentre propone i rom come un mondo altro, che può proporre altri valori e una altra vita.

I rom quindi come realtà alternativa da valutare seriamente e a cui guardare con interesse. Ma in quell’album c’era anche “Anna di Francia” in cui scriveva che l’alternativa non era “solo ideologia ma organizzazione”. Aveva naturalmente ragione. Si pensi a quante astruserie e quanti discorsi fumosi la classe operaia era destinata a sorbirsi quando nessun ex operaio sedeva tra gli scranni del parlamento e la vera cultura operaia era un’utopia.

Non parliamo poi di una organizzazione umana e scientifica nelle fabbriche italiane, dove si guardava ancora a Taylor e Ford negli anni settanta, negli anni ottanta si considerava solo alla produzione di massa, e le scoperte più recenti della psicologia del lavoro non venivano minimamente considerate.

Un’altra canzone che fece epoca è Michel, storia di una amicizia dalla fanciullezza alla giovinezza tra due ragazzi in cui venivano amalgamate invidia, affetto, rivalità, piccoli bisticci. È vero che gli amici di infanzia non ce  li scegliamo un poco come i parenti, ma allo stesso tempo sono figure fondamentali che hanno plasmato la nostra personalità di base e fanno parte della nostra esperienza atavica e primordiale.

Spesso sono ricordi lontanissimi, che talvolta scacciamo dalla mente, però poi ritornano quando meno ce lo aspettiamo nei nostri sogni. Michel è una storia triste con l’amico che se ne va, la sua madre che muore, l’addio alla stazione. Michel come dichiarò in una intervista Lolli era finito malandato, trasandato, povero in Francia, dalle notizie che aveva avuto.

Ma ogni volta che la cantava in un concerto era una pagina memorabile della memoria, era la rievocazione di una amicizia. In “Venti anni” Lolli testimonia la grandezza e la miseria di quell’età, la condizione esistenziale di chi era giovane allora. In “Borghesia” il cantautore bolognese aveva denunciato la piccolezza e la grettezza di quella classe sociale da cui proveniva.

In Lolli troveremo più volte nelle sue canzoni la conflittualità edipica della sua estrazione borghese e della sua formazione intellettuale progressista. Chiunque sia solo e diremmo oggi sfortunato con le donne si riconosce benissimo in “Quelli come noi”. In “Piazza bella piazza” viene trattato il tema delle stragi di stato, nel caso specifico dell’Italicus.

La rabbia di chi vive in periferia è descritta magistralmente in “Io ti racconto”. Ma il cantautore ha saputo scrivere anche delle belle poesie d’amore come “Donna di fiume” e “Vorrei farti vedere la mia vita”. Più recentemente con “Il grande freddo” ha fatto una metafora e allo stesso tempo un  resoconto di quella generazione di contestatori.

Da notare che il titolo dell’album è un riferimento al film omonimo di Kasdan, in cui degli ex liceali sessantottini si ritrovano quindici anni dopo al funerale di un loro compagno e fanno un bilancio complessivo. Ma in Lolli il discorso poi alla fine si estende a tutta l’umanità e non riguarda solo la sua generazione.

È indicativo a riguardo che il cantautore pensi all’amore perduto e sprecato sugli autobus. Oggi Lolli viene riscoperto e giustamente valorizzato però più dagli intellettuali che dai mass media. D’altronde non poteva essere altrimenti per uno che aveva come maestri Dylan, Cohen, Brel, Brassens. Recentemente Luca Carboni ha fatto una cover di “Ho visto anche degli zingari felici”.

È consigliabile però ascoltare tutte le canzoni di Lolli e  non fermarsi alle più celebri. Leggete in rete per farvi una idea della grande qualità i suoi testi. Ascoltate su YouTube le sue canzoni. Comprate i suoi CD. Si rimane stupiti della sua precocità artistica. Poco più che ventenne dimostrava già una grande maturità e una grande umanità.

Così come ha sempre impressionato la sua prolificità (più di venti album, delle raccolte di racconti, una silloge poetica, un romanzo) e il fatto che non avesse cadute di tono. Allo stesso tempo nelle sue opere troviamo un fil rouge, ma in ognuna di esse si può verificare quanto il cantautore sapesse rinnovarsi e sperimentare artisticamente.

Ogni canzone era diversa, ma aveva lo stesso imprinting e lo stesso imprimatur. Il cantautore è stato fratello maggiore, compagno, professore, amico di molti ragazzi. Recentemente hanno preparato un evento intitolato “Da Lolli e dintorni. La poesia civile di Claudio Lolli”.

 

Davide Morelli

Il fascino e l’incanto degli anni ottanta: esce il 15 ottobre il primo singolo di Giuseppe Gimmi

Giuseppe Gimmi ambisce ad essere un artista completo. Lo scorso anno ha lanciato un progetto di recupero culturale delle icone e dello stile degli anni ottanta e prosegue nel raccontare la sua vita o il suo stile di vita attraverso un adeguato discorso di creatività.

Agganciandosi a figure mitologiche ormai come Alberto Sordi, Sergio Leone, Carlo Verdone, Jerry Calà e Tommaso Paradiso, il suo discorso si dispiega con ansie cancellate dalle istanze culturali degli anni ottanta.

Gimmi ha trovato la sua salvezza che vuole condividere con la gente nel mondo incantato degli anni ottanta e ora vuole raccontarcelo con un brano musicale in uscita il 15 ottobre alle 13:30 unendo creatività e amore. Il brano apre bene col piano. La voce è sospirata. Non mente quando dice di voler affogare le ansie col patinato degli anni ottanta. Degli anni ottanta ha anche l’estrema facilità del brano, la produzione che sa di elettronica, di suoni standard, di strumenti con facili effetti. Lui si è soffermato sull’echo del sax, ma tutta la struttura del pezzo è un classicone che tocca Grignani, Tozzi e a tratti Venditti. Il testo non racconta una storia, tuttavia è molto descrittivo, essendo dedicato alla sua città natale che in questo brano ha le sembianze di una donna nella quale lui si perde in un languore melodico costruito su suoni facili.

Giuseppe Gimmi ha solo 23 anni, (classe 1997), e ha cominciato con una linea di moda, dedicata ai suoi eroi anni ottanta ai quali dedica e regala un capo di abbigliamento, una maglietta in questo caso. Il suo progetto si dispiega poi in campo musicale e cinematografico. Per cui possiamo constatare che sta scrivendo una sceneggiatura e ha, appunto, prodotto un brano musicale dal titolo: Allora lo hai capito?

Lo abbiamo incontrato telefonicamente e via web. Le sue parole sono molto chiare.

Giuseppe Gimmi è un ragazzo di Fasano e circa un anno fa ha, come dicevamo, lanciato un’idea artistica per raccontare e racchiudere la sua forte passione: gli anni ’80 attraverso cinema e musica e scrittura, e realizza una linea di maglie uniche e personalizzate, che rappresentano ciò che sceglie di scrivere la gente, trasformando tutto il materiale con forme e colori completamente anni 80, prendendo spunto da copertine di cinema o musica.
Questa idea racchiude una forma di comunicazione da e per la gente, che diventa subito protagonista, grazie alla scrittura veicolata da una suggestione (ogni maglia è un pezzo unico).

Ha realizzato e consegnato molti lavori, per citarne alcuni: a Ronn Moss, Devin Devasquez Alessandro Cattelan, Marina Di Guardo (mamma di Chiara Ferragni), Rocco Papaleo, Enrico Montesano, Alessandro Borghi, Jerry Calà, ‪Fabri Fibra, Diodato, Carlo Cracco, Stefania Casini, Igor righetti (centenario Alberto Sordi) Antonio Decaro.

E ora, in attesa del suo lavoro cinematografico, godiamoci il suo primo singolo: Allora lo hai capito?

La Notte delle Stelle all’Anfiteatro Campano. Il grande omaggio a Ennio Morricone con il concerto di Lello Petrarca

Musica, arte, enogastronomia ed astronomia. Saranno gli ingredienti di una delle “Notti delle Stelle” più speciali in programma quest’anno in Campania per San Lorenzo. La Notte delle Stelle ideata dall’Arena Spartacus Festival, la rassegna di cinema, danza, letteratura, musica e teatro che anima tutte le sere estive l’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere, il secondo più grande al mondo per dimensioni dopo il Colosseo. Il programma completo del Festival propone per lunedì 10 agosto il concerto di Lello Petrarca pianista, compositore, polistrumentista ed arrangiatore che tra le sue molteplici collaborazioni vanta quelle con Nino Buonocore, Daniele Sepe, Stefano Di Battista, Markus Stockhausen, Fabrizio Bosso, Gabriele Mirabassi e tanti altri. Sarà un viaggio musicale da “Morricone a Napoli” quello di Petrarca. Un concerto inedito che miscelerà le musiche da film del grande Ennio Morricone scomparso da appena un mese con composizioni originali e rielaborazioni dei temi più noti delle varie tradizioni musicali, a cominciare da quella partenopea.

Prima del concerto a partire dalle 20 come ogni sera nell’ambito dell’Arena Spartacus Festival sarà sempre aperta l’area caffetteria, pizzeria e ristorazione stabilmente curata da Amico Bio Arena Spartacus, che dal 2013 è il primo ristorante biologico al mondo in un sito archeologico e che in occasione del Festival propone speciali menù tematici a prezzi ridotti. Dopo il concerto l’osservazione delle stelle cadenti sul prato dell’Arena Spartacus a due passi dall’Anfiteatro Campano nella sua versione notturna illuminata.

Joe Barbieri, Daniele Sepe e Sergio Caputo nel programma musicale di Agosto sul palco dell’Anfiteatro Campano che nella sezione Teatro ospiterà anche “La guerra di Troia” del Demiurgo

La sezione musicale del Festival, diretta da Donato Cutolo, a fine Agosto, dopo i due grandi tributi a Stevie Wonder ed Ennio Morricone, metterà in campo tre calibri da 90 con i concerti di Joe Barbieri (25 Agosto) e Sergio Caputo (30 Agosto) organizzati in collaborazione con il Napoli Jazz Club e con la ‘ciurma’ guidata da Daniele Sepe che il 27 Agosto porterà sul palco dell’Arena Spartacus “Le nuove avventure di Capitan Capitone”.

Dopo le serate comiche di Luglio la sezione teatrale dell‘Arena Spartacus Festival, diretta da Maurizio Zarzaca, il 28 Agosto accenderà i riflettori sull’epica e sulla storia ospitando “La guerra di Troia” rivisitata da “Il Demiurgo”, una delle più importanti compagnie teatrali italiane del settore della narrazione teatrale all’interno dei siti culturali. Un preludio di future iniziative che la rete culturale nata attorno al Festival organizzerà anche con le scuole della Campania.

Dai film d’autore alle pellicole da Oscar musicati da Morricone: la sezione cinema ospita anche nuove uscite e anteprime nazionali come “Il delitto Mattarella” e “Crescendo #makemusicnotwar”

Cinque le serate fisse del Festival, organizzate con la direzione artistica di Nicola Grispello, stabilmente dedicate al cinema (lunedì, martedì, mercoledì, sabato e domenica). Il martedì continueranno le “Anteprime al Cinema“: pellicole mai viste al cinema causa Coronavirus, ma presentate in Premium video on demand, e riproposte ora sul grande schermo con lo scopo di riavvicinare il pubblico ad una visione collettiva del film dopo il ‘lockdown’. Come avverrà, ad esempio, martedì 11 Agosto per “Favolacce” il film dei fratelli d’Innocenzo, con uno straordinario Elio Germano, vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino per la migliore sceneggiatura. Il mercoledì saranno presentati i film Premi Oscar e vincitori di Festival internazionali. Una categoria in cui spiccano “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino premiato con l’Oscar 2020 a Brad Pitt (12 Agosto) e “Green Book” di Peter Farrelly trionfatore agli Oscar 2019 come miglior film dell’anno (26 Agosto).

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‘Born under a bad sign’ di Albert King: la fenomenale giostra di chitarre elettriche tra Manchester e Londra

La storia dell’album Born under a bad sign di Albert King, comincia con Eric Clapton che fa qualcosa di pazzesco. Pubblica tre dischi in quasi due anni esatti con tre gruppi diversi: 1). Five Live Yardbirds con gli Yardbirds, 1964; 2). Beano con John Mayall e i Bluesbreakers, 1966; 3). Fresh Cream coi Cream, appunto, nel 66 anche questo – per arrivare al 70 manca ancora qualcosa, ma poi ci saranno i Blind Faith e i Derek And The Dominos (formati durante le registrazioni di All things must pass di George Harrison). Ma il punto è che ciascuno di questi dischi, compreso quello dei Blind Faith e il primo di Derek And The Dominos, è un disco leggendario di un gruppo leggendario; e da qui in avanti la carriera di Eric Clapton camminerà da sola e per inerzia verso il paradiso – ma relativamente a questo nostro racconto a noi interessano il lavoro degli Yardbirds e quello di John Mayall (Eric Clapton is God).

Qui la faccenda s’ingrossa, allora. Perchè gli Yardbirds, infatti, Londra, sono conosciuti non solo come il gruppo che ha dato i natali alla chitarra di Eric Clapton, lo abbiamo già detto; di Jeff Beck, che formerà un suo gruppo con due favole eterne a 33rpm con Ron Wood, poi terzo chitarrista dei Rolling Stones, e Rod Stewart; e di Jimmy Page, poi coi Led Zeppelin. Laddove John Mayall, a sua volta, Manchester, è invece conosciuto per aver consacrato, sì, la sei corde di Clapton dopo gli Yardbirds, lo abbiamo già visto; quindi quella di Peter Green, poi Fleetwood Mac; e quella di Mick Taylor, che sarà con cinque dischi, se non sbaglio, protagonista di quello che con ogni probabilità è il periodo più interessante dei Rolling Stones dopo la scomparsa del loro primo chitarrista, Brian Jones, nel 1969 – e con Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck e Peter Green, sottacendo i Rolling, si consumano le dita dei nomi dei più importanti chitarristi della storia della musica contemporanea.

Riassumendo quindi in pochissime parole, a spanne si può dire che gli Yardbirds, da Londra, diventano i Led Zeppelin e i Bluesbreakers, da Manchester, i Fleetwood Mac.

A riguardo infine dei Fleetwood Mac e del loro chitarrista fondatore, Peter Green, possiamo dire che condivide molti aspetti della propra parabola artistica con Syd Barrett. Come Syd Barrett infatti forma un gruppo. Come Syd Barrett del gruppo fondato è la principale forza creativa. E proprio come Syd Barrett, chitarrista anche lui, viene allontanato dal gruppo per problemi di droga che gli hanno confuso e incasinato, diciamola con Pulp Fiction, il modo di parlare (voleva cambiare vita dopo essersi strafatto di acidi). E per cui la configurazione finale dice di due figure affatto da ripensare seriamente e da rivalutare alla grande.

A questo punto, uno dei principali artefici del revival di Peter Green e Syd Barrett è David Gilmour.
Gilmour infatti lo scorso febbraio, il 25 mi sembra proprio di aver letto, ha partecipato a una serata in onore di Peter Green tenutasi al Palladium di Londra. Per l’occasione Gilmour suona tre pezzi dei Fleetwood Mac, compreso Albatross, singolo del 68.

E qui, adesso, sul finire di questo nostro racconto, si va sul campo delle opinioni, del se, ma e forse; ma è probabile che così facendo Gilmour abbia voluto ancora una volta ricordare Syd Barrett – o comunque sull’accostamento casca subito l’occhio – e questa volta nei termini di una delle più grandi chitarre sperimentali del Regno Unito o sicuramente in grado di tenere testa a Peter Green – almeno stando al primo disco dei Pink Floyd. E in ogni caso questo fenomenale passage della musica inglese tra Manchester e Londra ci ha portati a parlare ancora una volta di Syd Barrett. E a questo punto non è ancora chiara una cosa. Non si capisce cioè per quale caspita di accidenti del pensiero, forse un rovescio neuronale temporalesco, qui si finisce sempre col parlare di Syd Barrett – e se è possibile un giudizio personale, proprio stando al primo disco dei Floyd e ai suoi due solisti, è probabile che Syd Barrett sia una delle migliori chitarre sperimentali di sempre….esattamente come Peter Green, ex Bluesbreakers, Manchester.

Comunque non ce n’è, la versione di Born Under A Bad Sign, canzone di

, la versione dei Cream, quindi, è la migliore. Una l’ha registrata anche Peter Green. Non era stato ancora detto; i Pink Floyd poi possono sicuramente distrarre e confondere, è ovvio, ci mancherebbe, cavoli, la musica psichedelica è una vera figata; si fa quindi preferire il primo dei velvet underground, ma poi the dark side of the moon è quanto di meglio abbia offerto il music business fino ad ora; ma i Cream sono imbattibili se non sono i migliori. E poi sono la miglior band di hard blues bianco elettrico. Loro sono i padri naturali dell’Hard Rock – a cui ha contribuito anche Peter Green.

 

Peter Green
29/10/46 – 25/7/20
Ad perpetuam rei memoriam

 

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