‘Atom heart mother’ Il concerto-evento dei Pink Floyd Legend torna a Firenze il 29 giugno 2022 al Teatro Romano di Fiesole

Tutti i concerti del tour di Atom hanno sempre incassato il tutto esauritodagli Arcimboldi di Milano allo Sferisterio di Macerata, dal Teatro Romano di Ostia Antica a quello di Verona, dalla Sala Santa Cecilia del Parco della Musica di Roma al Teatro Colosseo di Torino.
Un grande successo dovuto alla realizzazione “unica e speciale” della celebre suite: dal 2012 i Pink Floyd Legend, infatti, sono i soli a portare in tour ATOM nella versione integrale accompagnati da Coro e Orchestra seguendo la partitura originale (e autografata) del compositore Ron Geesin con il quale i Legend hanno sottoscritto a Londra, anni fa, un sodalizio artistico.

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Al Teatro Romano di Fiesole l’ensemble di cento elementi sarà composto dalla Legend Orchestra, dal Coro Arkè e dai Cori Sesto in Canto e Animae Voces (questi ultimi diretti dal M° Edoardo Materassi), tutti diretti dal Maestro Giovanni Cernicchiaro.
Nel corso del concerto non mancheranno comunque i più grandi successi del gruppo britannico (da quelli degli esordi a quelli più recenti) che la formazione romana suonerà nella classica formazione.

Quella di Firenze è la prima data di un tour estivo anticipato dal concerto del 21 giugno alle ore 21, in occasione della Festa della Musica, che aprirà le celebrazioni ufficiali di #FUTURESIGHT #TorVergata40 nel 40° anniversario della fondazione dell’Ateneo e che sarà esclusivamente dedicato a tutta la comunità universitaria.
L’evento, ripreso con la regia di Maurizio Malabruzzi e presentato da Carlo Massarini vedrà i Legend accompagnati dai 17 elementi della Legend Orchestra diretta da Giovanni Cernicchiaro.

Il 28 luglio i Legend saranno poi in scena al Giardino Scotto di Pisa, insieme a Denys Ganio e ai ballerini della Compagnia Daniele Cipriani, con SHINE Pink Floyd Moon, l’opera rock del celebre coreografo e regista Micha van Hoecke scomparso un anno fa.

Dal 31 luglio al 22 agosto il tour continua con 4 date di Atom Heart Mother.
Il 31 luglio il gruppo si esibirà in Romania all’Anfiteatro Romano di Bucarest per poi tornare in Italia a Roma sul palco della Cavea del Parco della Musica, il 3 agosto, dove si esibiranno con una special guest d’eccezione come Ron Geesin, il compositore inglese della celeberrima suite di Atom.
Ad agosto i Pink Floyd Legend voleranno in Sicilia per la prima volta per due date: il 21 agosto all’Agrigento Live Festival al Teatro Valle dei Templi e il 22 agosto all’Anfiteatro Falcone e Borsellino di Zafferana Etnea (Catania)
Il 7 settembre sarà, invece, la volta del repertorio di The Dark Side of The Moon all’Anfiteatro Romano di Terni.
Atom tornerà il 9 settembre, dopo il sold out del 2018, al Teatro Romano di Verona e il 23 novembre al Teatro Augusteo di Napoli.

Tutti i concerti del tour si avvarranno di un incredibile nuovo disegno luci e laser e di sorprendenti effetti scenografici che, uniti alla fedeltà degli arrangiamenti, ai video dell’epoca proiettati su schermo circolare di 5 metri, agli oggetti di scena, ricreano quel senso di spettacolo totale per vivere un’indimenticabile “Floyd Experience”

PINK FLOYD LEGEND
FABIO CASTALDI – Basso, Voce, Gong
ALESSANDRO ERRICHETTI – Chitarra, Voce
EMANUELE ESPOSITO – Batteria
SIMONE TEMPORALI – Tastiere, Voce
PAOLO ANGIOI – Chitarra acustica, elettrica e 12 corde, Basso, Voce
con
MAURIZIO LEONI – Sassofono
NICOLETTA NARDI / SONIA RUSSINO / GIORGIA ZACCAGNI – Cori

e con
LEGEND CHOIR & ORCHESTRA
diretti dal M° Giovanni Cernicchiaro

PINK FLOYD LEGEND SUMMER TOUR 2022
Biglietti in vendita su www.ticketone.it – www.bookingevents.it

Sanremo 2022. La mistificazione della musica e della realtà. Zalone fuoriclasse

Nel 2019 fu la volta di Mahmood come il ragazzo figlio di madre italiana e padre egiziano perfettamente integrato a vincere il Festival di Sanremo con la canzone “Soldi” le cui frasi in arabo e rime furbe avevano mandato in visibilio la giuria di qualità (infima) radical chic che annullò il verdetto popolare che voleva Ultimo al primo posto, quest’anno, a Sanremo 2022 Mahmood si è presentato in coppia con tale Blanco cantando “Brividi”, canzone inascoltabile e incantabile, con scontato inserto rappato, testo debole e messaggio mainstream incorporato, la solita solfa dell’italo-immigrato e del carrozzone gender-fluid che ha fatto la differenza più che la canzone stessa e le voci lagnose dei tue interpreti, soprattutto quella salmodiante di Mahmood. Della canzone si salvano le due battute iniziali, quella senza voce, che sembrano un’introduzione Fusion.

Sanremo 2022: la canzone vincitrice

Brividi, manco a dirlo, ha vinto Sanremo 2022 suscitando polemiche, come accade da sempre alla kermesse canora (basti pensare alle edizioni più recenti: il vergognoso secondo posto del principe Filiberto, la vittoria del piccione di Povia sulla meravigliosa canzone dei Nomadi “Dove si va”), battendo la fiabesca ed eterea Elisa, che trasmette una sensazione di pace quando canta, seconda classificata con “O forse sei tu” e l’eterno ragazzo Gianni Morandi, terzo classificato con l’allegra canzone “Apri tutte le porte”.

C’erano almeno altre 5 canzoni più belle della vincitrice di quest’anno, più orecchiabili ed emozionanti, ma durante le serate del Festival sala stampa e giuria demoscopica hanno tenuto in alto Mahmood e Blanco, fino all’ultima serata che prevedeva anche il voto da casa. Segno dei nostri tempi: si deve affermare quanto più si può una ideologia, quasi a volerla installare a tutti i costi della testa dei più riottosi, retrogradi fascisti, transomofobi!

Come tante altre parate della televisione pubblica, il festival, da leggere come fatto antropologico, veicola messaggi politici e nuovi conformismi, quindi è esso stesso propaganda di opinioni e stili di vita che non hanno utili economici immediati ma di condizionamento delle masse, soprattutto dei giovani. Non sono le case discografiche a tratte profitto dal festival luogo, come tanti altri, dove si consumano markette, bensì gli sponsor.

Le presenze perlopiù da “superopsiti” di Elisa, Massimo Ranieri, Gianni Morandi, Iva Zanicchi sono servite ad alzare l’asticella del concorso, a far contenti tutti, visto che Sanremo è un festival nazionalpopolare. Si certo i suddetti cantanti non hanno bisogno di Sanremo, continuano a stare sulla scena da anni, hanno venduto e vendono dischi, fatto concerti, hanno una carriera. Carriera che molto probabilmente non avranno la maggior parte di coloro che hanno partecipato alla gara, perlopiù incapaci di cantare, “rapper” improvvisate per mascherare le proprie lacune canore.

Brividi tra qualche anno sarà dimenticata, non entrerà nel quotidiano degli italiani, nella storia del Festival, e non vincerà nemmeno all’Eurovision, le canzoni di Ranieri, Zanicchi, Morandi, Elisa e altri che magari non hanno nemmeno mai partecipato a Sanremo (Venditti, De Gregori, Guccini, che però fu escluso e De André che non amava la competizione), oppure non hanno mai vinto, invece sono entrate nel nostro cuore, sono diventate parte della nostra italianità.

La formula sanremese andrebbe ancora una volta rivista: è indecente e irrispettoso inserire all’interno della stesso gruppo quelli che una volta si chiamavano “big” e i giovani sconosciuti o usciti dai talent, le “quote Maria de Filippi” che registrano migliaia di visualizzazioni sui social e su Youtube. Si ritorni alla divisione tra big e nuove proposte, possibilmente dando più spazio alla qualità musicale piuttosto che allo show e ai pistolotti moralisti per educare il popolo incivile che non vuole adeguarsi alle ideologie e al politicamente corretto.

L’ipocrisia dei benpensanti

Del resto bisogna ricordare che nel 2019 nessuno scrisse che a vincere Sanremo era stato un rapper di nome Mahmood, tutti scrissero che a vincere era stato un italo-egiziano di nome Mahmood. E a farlo furono soprattutto i giornali di sinistra, strumentalizzando la sua vittoria per andare contro Salvini.

Non ci sarà mai integrazione se si continuerà a sottolineare in questo modo le differenze. lo stesso discorso vale anche se ci spostiamo sul terreno del gender fluid, del femminismo, del razzismo. Non si fa che parlare di inclusività; si è visto un lungo e imbarazzante monologo da parte di un’attrice italiana di colore, Lorena Cesarini, in veste di moralizzatrice tesissima e testimonial di un libro sul razzismo edito dalla Nave di Teseo, in virtù del fatto di aver ricevuto insulti razzisti sui social da qualche imbecille. Questi atti vergognosi non fanno dell’Italia un paese razzista e probabilmente certi insulti non hanno nemmeno quella matrice. Ma fa comodo pensarlo a chi si prepara la lezioncina moralistica.

Non ci sono forse anche altri preoccupanti problemi? Ad esempio la confusione nelle nozioni più semplici, il pressappochismo dialettico, l’instabilità emotiva, l’inclinazione, oltre che al narcisismo e all’omologazione, a un cripto-fascismo travestito da movimentismo progressista, che sfociare in delirio di onnipotenza, il vittimismo a prescindere, i pregiudizi al contrario, la superficialità?

I pistolotti moralistici

Il cantante Marco Mengoni nella serata finale del Festival, ha menzionato la Costituzione, facendo confusione tra minaccia ed insulto, citando alcune espressioni di utenti social, a senso, perché naturalmente le vittime sono sempre quelle categorie di persone che a quanto pare non possono essere oggetto di satira, di scherzo, perché no di insofferenza. Insofferenza dovuta al continuo martellamento mediatico su tematiche che non dovrebbero essere nemmeno tali, perché si tratta della sfera più intima della persona. A Sanremo possono partecipare tutti, purché dotati di una qualche cifra artistica, nessuno impedisce ad un omosessuale, ad un figlio di immigrati, ad un transgender, di partecipare. Perché questa ossessione? Perché nominare chi fa una critica, una battuta, come hater? Perché non dire che anche chi è ritenuto vittima a priori, si lancia in offese, praticando turpiloquio e violenza verbale?

Lucio Dalla, che amava partecipare a Sanremo, era omosessuale, ma non ne ha fatto mai una bandiera. La sua bandiera erano le sue canzoni. Promuoveva la sua arte, non una causa, una ideologia da far assimilare a tutti i costi a chi la vede in modo diverso o a chi non interessa minimamente il privato di una persona.

L’insofferenza si fa ancora più forte se si pensa al periodo storico gli italiani stanno vivendo, alle restrizioni, a chi si vede privare di veri diritti, a chi viene discriminato perché non ha un pass per andare dal tabaccaio, a chi si vede costretto a cedere ad un ricatto per non perdere il lavoro. Dal punto di vista di queste persone, vedere pontificare in tv su razzismo (inesistente) e fluidità di genere può annoiare e infastidire, non perché le persone siano tutte razziste, omofobe o perché tirino fuori il loro lato razzista ed omofobo, adagio trendy per assecondare la convinzione di chi vede questo mondo cattivo, razzista, e omofobo, contro di loro, piuttosto perché sono consapevoli di non essere fortunati quanto i fenomeni arroganti che salgono su un palco importante, dimostrando quanto siano distaccati dalla realtà e dai problemi seri della gente comune che in testa ha ben altri pensieri e che non capisce che cosa si dovrebbe dire o fare per supportare la gender fluidity stando attenti a non urtare mai la sensibilità altrui.

 

Checco Zalone: una boccata di ossigeno

A squarciare il velo dei buoni propositi e dei sentimenti nobili a Sanremo 2022 ci ha pensato Checco Zalone, un moderno Alberto Sordi che si fa beffe del famigerato uomo medio, e che pure ha suscito qualche disappunto nella comunità LGBTQ che evidentemente non ha compreso il sarcasmo di Zalone e che vorrebbe essere narrata in termini entusiastici. C’è anche chi ha etichettato il suo sketch sui trans come anti-omofobo. Insomma ognuno ci ha visto quello che voleva.

Tuttavia Zalone non ha fatto nulla di quello accennato, il comico pugliese di diverte a fare la spola a tutta velocità tra gli opposti estremismi dove risalta alla sua inimitabile maniera bipartisan di prendersi gioco di tutti, senza scadere in discorsi lacrimevoli che menzionano la parola diritti, ottenendo il risultato di far credere ogni volta a ciascuno (tele)spettatore che non sia lui, bensì il vicino di sedia, casa o di poltrona a essere preso per il sedere e svelato nella sua ipocrisia. Strepitose anche le parodie del rapper assalito dai propri demoni e del virologo di Cellino San Marco che scimmiotta Albano.

Sanremo ormai è diventato anche il festival dei meme, ma c’è ben poco di edificante e magnifico in questa mutazione virtuale; ciò dimostra che siamo una società chiusa su se stessa, legata ai video, agli smartphone, alle faccine, ai meme, dove ogni pettegolezzo di bassa bottega o pensierino da due soldi diventa virale! Si dovrebbe invece insegnare ai giovani che virale non è sinonimo di importante, rivoluzionario, eversivo e di fare di se stessi uomini e donne costruttori della Storia, imitando i loro nonni e nonne non cantanti improbabili con i capelli rosa, con la gonna e autotune. Non li rende dei geniali ribelli, semmai dei pargoli ammaestrati che pensano di fare successo senza avere talento, senza studiare, senza capire cosa sia l’Arte.
Quale sarà il prossimo step moralistico-canoro? Una canzone anti-specista? Perché no. Ambientalista? C’è già, ed è la soave “Ci vuole un fiore” di Sergio Endrigo, scritta da Gianni Rodari ben prima di Greta Thunberg e company.
Brevissima nota a margine: fanno tenerezza alcuni vecchi ed irriducibili comunisti come Vauro che si sono eccitati credendo davvero che il pugno chiuso della Rappresentante di lista alla fine della canzone Ciao Ciao fosse un riferimento alla loro ideologia. Anche Salvini ci ha creduto, e si è lamentato.
Ma come funziona esattamente il televoto? Davvero è impensabile che chi sponsorizza un artista non abbia il potere di acquistare molti voti.

 

 

 

Claudio Lolli, poeta malinconico prestato alla canzone d’autore italiana

Molti cantautori italiani sono scomparsi prematuramente. Si pensi solo a Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Rino Gaetano, Lucio Battisti. Claudio Lolli, uno dei padri della canzone d’autore italiana, è morto a 68 anni nel 2018.

È scomparso anzitempo se consideriamo l’aspettativa di vita in Italia, seppur non giovanissimo. Soltanto con la pubblicazione del suo ultimo album è riuscito a vincere la targa Tenco, nonostante avesse frequentato per anni quel palco. Ciò è il segno che la qualità del cantautorato fosse elevata, ma dimostra anche una certa incomprensione, una certa miopia nel giudicare l’arte di Lolli.

Qualcuno negli anni settanta diceva molto malignamente che Lolli istigasse al suicidio, ma era totalmente errato. Invece amava la vita. È del tutto naturale talvolta guardarsi indietro, volgersi dietro, soffermarsi a pensare al tempo trascorso. La malinconia è un sentimento universale, una costante umana e assumono una posa coloro che non ne parlano o fingono di non provarla in nome di una presunta oggettività o in nome di un posticcio stoicismo.

Lolli non era per autodistruzione ma per piacere, peraltro moderato, che amava le sigarette ed il vino. Lolli era un poeta malinconico prestato alla canzone ed ispirato da una autentica passione civile. Eppure non si riteneva un poeta. Pensava che la canzone d’autore fosse una supplente della poesia contemporanea. Era da sempre schierato contro la retorica ma anche contro la puerilità delle canzonette.

Non cercava mai formule facili né slogan politici, pur essendo dichiaratamente di sinistra. Certe sue canzoni sono dei ritratti memorabili di una Italia che non esiste più. Lolli è stato cervello acuto e cuore pulsante del movimento studentesco bolognese; mai sdolcinato, mai mellifluo, è rimasto negli anni sempre fedele a sé stesso; ha sempre saputo suscitare emozioni e sentimenti senza mai voler persuadere nessuno.

Per dirla con una delle sue ultime canzoni non è stato un uomo senza amore. I suoi testi sono sempre stati incisivi, letterari e pregnanti. Lolli ha cantato il tormento, la disillusione, l’estraneità, l’inadeguatezza della sua generazione, alternandoli a momenti di intimismo. Nonostante il riflusso ed il disastro degli anni ottanta ha continuato a descrivere i vizi e le virtù della nostra penisola. Anche musicalmente è sempre stato originale, sapendo fondere elementi di jazz con il rock progressive.

Per dirla alla Vittorini ci sono due tipi di opere creative: quelle che ci confermano il mondo come noi lo conosciamo e quelle che ci fanno vedere in modo nuovo il mondo. Ebbene Lolli aveva un suo stile unico, inconfondibile e personale. Spicca per il lirismo con cui ha cantato i giovani del ’77 e con cui ha cantato la sua Bologna.

Era per quanto possibile contro il sistema. Infatti dopo il successo chiuse i rapporti con la EMI, una multinazionale, per approdare ad una casa discografica indipendente. Insomma nessuno poteva dargli del venduto in quanto era di specchiata moralità, lontano  da ogni tipo di compromesso. Ritornando al discorso della nostalgia, tutto al più si sarebbe potuto considerare depresso ma non deprimente. Lolli aveva molto da dire e le sue canzoni lo hanno sempre testimoniato.

Lolli è stato il poeta della generazione bolognese del 1977. Ha cantato le inquietudini, le contraddizioni, le speranze, i sogni di quella generazione. Come ha detto il professor Franco Berardi, detto Bifo, quella generazione, difficilmente inquadrabile ed etichettabile, e con essa Claudio Lolli aveva il merito fondamentale di chiedersi cosa fosse la felicità. Il nostro ha frequentato ed influenzato altri cantautori impegnati.

Ha insegnato a Vecchioni a strafregarsene dei ritornelli. Si è dedicato con passione all’insegnamento ed ha lasciato una traccia indelebile nei suoi studenti. È stato un docente umano, mai fazioso o settario, sempre pronto a formare culturalmente invece che a deformare giovani menti a propria immagine e somiglianza. Era un uomo di parte ma mai fazioso e sempre aperto al confronto, al dialogo. Era perfettamente consapevole che nessuno ha la verità in tasca e che chiunque ha la facoltà di fare la propria scelta di campo.

L’insegnamento, peraltro mestiere  sempre svolto ottimamente, è stata anche una scelta obbligata per garantirsi uno stipendio fisso e per avere più libertà come cantautore.

Claudio Lolli ha raccontato di aver preso la decisione di insegnare dopo aver cantato un pomeriggio in una discoteca di Salerno. Prima ha fatto un lungo viaggio da Bologna a Salerno. Poi ha cantato davanti ad un pubblico disinteressato, impaziente di scendere in pista a fare quattro salti. Capì allora che per garantirsi un futuro doveva insegnare.

Lolli raggiunse il culmine del successo con l’album “Ho visto anche degli zingari felici”. È nella prima canzone dell’album che tratta delle conflittualità e delle incomprensioni della sua generazione e di quella dei suoi genitori, mentre propone i rom come un mondo altro, che può proporre altri valori e una altra vita.

I rom quindi come realtà alternativa da valutare seriamente e a cui guardare con interesse. Ma in quell’album c’era anche “Anna di Francia” in cui scriveva che l’alternativa non era “solo ideologia ma organizzazione”. Aveva naturalmente ragione. Si pensi a quante astruserie e quanti discorsi fumosi la classe operaia era destinata a sorbirsi quando nessun ex operaio sedeva tra gli scranni del parlamento e la vera cultura operaia era un’utopia.

Non parliamo poi di una organizzazione umana e scientifica nelle fabbriche italiane, dove si guardava ancora a Taylor e Ford negli anni settanta, negli anni ottanta si considerava solo alla produzione di massa, e le scoperte più recenti della psicologia del lavoro non venivano minimamente considerate.

Un’altra canzone che fece epoca è Michel, storia di una amicizia dalla fanciullezza alla giovinezza tra due ragazzi in cui venivano amalgamate invidia, affetto, rivalità, piccoli bisticci. È vero che gli amici di infanzia non ce  li scegliamo un poco come i parenti, ma allo stesso tempo sono figure fondamentali che hanno plasmato la nostra personalità di base e fanno parte della nostra esperienza atavica e primordiale.

Spesso sono ricordi lontanissimi, che talvolta scacciamo dalla mente, però poi ritornano quando meno ce lo aspettiamo nei nostri sogni. Michel è una storia triste con l’amico che se ne va, la sua madre che muore, l’addio alla stazione. Michel come dichiarò in una intervista Lolli era finito malandato, trasandato, povero in Francia, dalle notizie che aveva avuto.

Ma ogni volta che la cantava in un concerto era una pagina memorabile della memoria, era la rievocazione di una amicizia. In “Venti anni” Lolli testimonia la grandezza e la miseria di quell’età, la condizione esistenziale di chi era giovane allora. In “Borghesia” il cantautore bolognese aveva denunciato la piccolezza e la grettezza di quella classe sociale da cui proveniva.

In Lolli troveremo più volte nelle sue canzoni la conflittualità edipica della sua estrazione borghese e della sua formazione intellettuale progressista. Chiunque sia solo e diremmo oggi sfortunato con le donne si riconosce benissimo in “Quelli come noi”. In “Piazza bella piazza” viene trattato il tema delle stragi di stato, nel caso specifico dell’Italicus.

La rabbia di chi vive in periferia è descritta magistralmente in “Io ti racconto”. Ma il cantautore ha saputo scrivere anche delle belle poesie d’amore come “Donna di fiume” e “Vorrei farti vedere la mia vita”. Più recentemente con “Il grande freddo” ha fatto una metafora e allo stesso tempo un  resoconto di quella generazione di contestatori.

Da notare che il titolo dell’album è un riferimento al film omonimo di Kasdan, in cui degli ex liceali sessantottini si ritrovano quindici anni dopo al funerale di un loro compagno e fanno un bilancio complessivo. Ma in Lolli il discorso poi alla fine si estende a tutta l’umanità e non riguarda solo la sua generazione.

È indicativo a riguardo che il cantautore pensi all’amore perduto e sprecato sugli autobus. Oggi Lolli viene riscoperto e giustamente valorizzato però più dagli intellettuali che dai mass media. D’altronde non poteva essere altrimenti per uno che aveva come maestri Dylan, Cohen, Brel, Brassens. Recentemente Luca Carboni ha fatto una cover di “Ho visto anche degli zingari felici”.

È consigliabile però ascoltare tutte le canzoni di Lolli e  non fermarsi alle più celebri. Leggete in rete per farvi una idea della grande qualità i suoi testi. Ascoltate su YouTube le sue canzoni. Comprate i suoi CD. Si rimane stupiti della sua precocità artistica. Poco più che ventenne dimostrava già una grande maturità e una grande umanità.

Così come ha sempre impressionato la sua prolificità (più di venti album, delle raccolte di racconti, una silloge poetica, un romanzo) e il fatto che non avesse cadute di tono. Allo stesso tempo nelle sue opere troviamo un fil rouge, ma in ognuna di esse si può verificare quanto il cantautore sapesse rinnovarsi e sperimentare artisticamente.

Ogni canzone era diversa, ma aveva lo stesso imprinting e lo stesso imprimatur. Il cantautore è stato fratello maggiore, compagno, professore, amico di molti ragazzi. Recentemente hanno preparato un evento intitolato “Da Lolli e dintorni. La poesia civile di Claudio Lolli”.

 

Davide Morelli

Il fascino e l’incanto degli anni ottanta: esce il 15 ottobre il primo singolo di Giuseppe Gimmi

Giuseppe Gimmi ambisce ad essere un artista completo. Lo scorso anno ha lanciato un progetto di recupero culturale delle icone e dello stile degli anni ottanta e prosegue nel raccontare la sua vita o il suo stile di vita attraverso un adeguato discorso di creatività.

Agganciandosi a figure mitologiche ormai come Alberto Sordi, Sergio Leone, Carlo Verdone, Jerry Calà e Tommaso Paradiso, il suo discorso si dispiega con ansie cancellate dalle istanze culturali degli anni ottanta.

Gimmi ha trovato la sua salvezza che vuole condividere con la gente nel mondo incantato degli anni ottanta e ora vuole raccontarcelo con un brano musicale in uscita il 15 ottobre alle 13:30 unendo creatività e amore. Il brano apre bene col piano. La voce è sospirata. Non mente quando dice di voler affogare le ansie col patinato degli anni ottanta. Degli anni ottanta ha anche l’estrema facilità del brano, la produzione che sa di elettronica, di suoni standard, di strumenti con facili effetti. Lui si è soffermato sull’echo del sax, ma tutta la struttura del pezzo è un classicone che tocca Grignani, Tozzi e a tratti Venditti. Il testo non racconta una storia, tuttavia è molto descrittivo, essendo dedicato alla sua città natale che in questo brano ha le sembianze di una donna nella quale lui si perde in un languore melodico costruito su suoni facili.

Giuseppe Gimmi ha solo 23 anni, (classe 1997), e ha cominciato con una linea di moda, dedicata ai suoi eroi anni ottanta ai quali dedica e regala un capo di abbigliamento, una maglietta in questo caso. Il suo progetto si dispiega poi in campo musicale e cinematografico. Per cui possiamo constatare che sta scrivendo una sceneggiatura e ha, appunto, prodotto un brano musicale dal titolo: Allora lo hai capito?

Lo abbiamo incontrato telefonicamente e via web. Le sue parole sono molto chiare.

Giuseppe Gimmi è un ragazzo di Fasano e circa un anno fa ha, come dicevamo, lanciato un’idea artistica per raccontare e racchiudere la sua forte passione: gli anni ’80 attraverso cinema e musica e scrittura, e realizza una linea di maglie uniche e personalizzate, che rappresentano ciò che sceglie di scrivere la gente, trasformando tutto il materiale con forme e colori completamente anni 80, prendendo spunto da copertine di cinema o musica.
Questa idea racchiude una forma di comunicazione da e per la gente, che diventa subito protagonista, grazie alla scrittura veicolata da una suggestione (ogni maglia è un pezzo unico).

Ha realizzato e consegnato molti lavori, per citarne alcuni: a Ronn Moss, Devin Devasquez Alessandro Cattelan, Marina Di Guardo (mamma di Chiara Ferragni), Rocco Papaleo, Enrico Montesano, Alessandro Borghi, Jerry Calà, ‪Fabri Fibra, Diodato, Carlo Cracco, Stefania Casini, Igor righetti (centenario Alberto Sordi) Antonio Decaro.

E ora, in attesa del suo lavoro cinematografico, godiamoci il suo primo singolo: Allora lo hai capito?

La Notte delle Stelle all’Anfiteatro Campano. Il grande omaggio a Ennio Morricone con il concerto di Lello Petrarca

Musica, arte, enogastronomia ed astronomia. Saranno gli ingredienti di una delle “Notti delle Stelle” più speciali in programma quest’anno in Campania per San Lorenzo. La Notte delle Stelle ideata dall’Arena Spartacus Festival, la rassegna di cinema, danza, letteratura, musica e teatro che anima tutte le sere estive l’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere, il secondo più grande al mondo per dimensioni dopo il Colosseo. Il programma completo del Festival propone per lunedì 10 agosto il concerto di Lello Petrarca pianista, compositore, polistrumentista ed arrangiatore che tra le sue molteplici collaborazioni vanta quelle con Nino Buonocore, Daniele Sepe, Stefano Di Battista, Markus Stockhausen, Fabrizio Bosso, Gabriele Mirabassi e tanti altri. Sarà un viaggio musicale da “Morricone a Napoli” quello di Petrarca. Un concerto inedito che miscelerà le musiche da film del grande Ennio Morricone scomparso da appena un mese con composizioni originali e rielaborazioni dei temi più noti delle varie tradizioni musicali, a cominciare da quella partenopea.

Prima del concerto a partire dalle 20 come ogni sera nell’ambito dell’Arena Spartacus Festival sarà sempre aperta l’area caffetteria, pizzeria e ristorazione stabilmente curata da Amico Bio Arena Spartacus, che dal 2013 è il primo ristorante biologico al mondo in un sito archeologico e che in occasione del Festival propone speciali menù tematici a prezzi ridotti. Dopo il concerto l’osservazione delle stelle cadenti sul prato dell’Arena Spartacus a due passi dall’Anfiteatro Campano nella sua versione notturna illuminata.

Joe Barbieri, Daniele Sepe e Sergio Caputo nel programma musicale di Agosto sul palco dell’Anfiteatro Campano che nella sezione Teatro ospiterà anche “La guerra di Troia” del Demiurgo

La sezione musicale del Festival, diretta da Donato Cutolo, a fine Agosto, dopo i due grandi tributi a Stevie Wonder ed Ennio Morricone, metterà in campo tre calibri da 90 con i concerti di Joe Barbieri (25 Agosto) e Sergio Caputo (30 Agosto) organizzati in collaborazione con il Napoli Jazz Club e con la ‘ciurma’ guidata da Daniele Sepe che il 27 Agosto porterà sul palco dell’Arena Spartacus “Le nuove avventure di Capitan Capitone”.

Dopo le serate comiche di Luglio la sezione teatrale dell‘Arena Spartacus Festival, diretta da Maurizio Zarzaca, il 28 Agosto accenderà i riflettori sull’epica e sulla storia ospitando “La guerra di Troia” rivisitata da “Il Demiurgo”, una delle più importanti compagnie teatrali italiane del settore della narrazione teatrale all’interno dei siti culturali. Un preludio di future iniziative che la rete culturale nata attorno al Festival organizzerà anche con le scuole della Campania.

Dai film d’autore alle pellicole da Oscar musicati da Morricone: la sezione cinema ospita anche nuove uscite e anteprime nazionali come “Il delitto Mattarella” e “Crescendo #makemusicnotwar”

Cinque le serate fisse del Festival, organizzate con la direzione artistica di Nicola Grispello, stabilmente dedicate al cinema (lunedì, martedì, mercoledì, sabato e domenica). Il martedì continueranno le “Anteprime al Cinema“: pellicole mai viste al cinema causa Coronavirus, ma presentate in Premium video on demand, e riproposte ora sul grande schermo con lo scopo di riavvicinare il pubblico ad una visione collettiva del film dopo il ‘lockdown’. Come avverrà, ad esempio, martedì 11 Agosto per “Favolacce” il film dei fratelli d’Innocenzo, con uno straordinario Elio Germano, vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino per la migliore sceneggiatura. Il mercoledì saranno presentati i film Premi Oscar e vincitori di Festival internazionali. Una categoria in cui spiccano “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino premiato con l’Oscar 2020 a Brad Pitt (12 Agosto) e “Green Book” di Peter Farrelly trionfatore agli Oscar 2019 come miglior film dell’anno (26 Agosto).

Scarica il Programma Agosto 2020 (1)

‘Born under a bad sign’ di Albert King: la fenomenale giostra di chitarre elettriche tra Manchester e Londra

La storia dell’album Born under a bad sign di Albert King, comincia con Eric Clapton che fa qualcosa di pazzesco. Pubblica tre dischi in quasi due anni esatti con tre gruppi diversi: 1). Five Live Yardbirds con gli Yardbirds, 1964; 2). Beano con John Mayall e i Bluesbreakers, 1966; 3). Fresh Cream coi Cream, appunto, nel 66 anche questo – per arrivare al 70 manca ancora qualcosa, ma poi ci saranno i Blind Faith e i Derek And The Dominos (formati durante le registrazioni di All things must pass di George Harrison). Ma il punto è che ciascuno di questi dischi, compreso quello dei Blind Faith e il primo di Derek And The Dominos, è un disco leggendario di un gruppo leggendario; e da qui in avanti la carriera di Eric Clapton camminerà da sola e per inerzia verso il paradiso – ma relativamente a questo nostro racconto a noi interessano il lavoro degli Yardbirds e quello di John Mayall (Eric Clapton is God).

Qui la faccenda s’ingrossa, allora. Perchè gli Yardbirds, infatti, Londra, sono conosciuti non solo come il gruppo che ha dato i natali alla chitarra di Eric Clapton, lo abbiamo già detto; di Jeff Beck, che formerà un suo gruppo con due favole eterne a 33rpm con Ron Wood, poi terzo chitarrista dei Rolling Stones, e Rod Stewart; e di Jimmy Page, poi coi Led Zeppelin. Laddove John Mayall, a sua volta, Manchester, è invece conosciuto per aver consacrato, sì, la sei corde di Clapton dopo gli Yardbirds, lo abbiamo già visto; quindi quella di Peter Green, poi Fleetwood Mac; e quella di Mick Taylor, che sarà con cinque dischi, se non sbaglio, protagonista di quello che con ogni probabilità è il periodo più interessante dei Rolling Stones dopo la scomparsa del loro primo chitarrista, Brian Jones, nel 1969 – e con Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck e Peter Green, sottacendo i Rolling, si consumano le dita dei nomi dei più importanti chitarristi della storia della musica contemporanea.

Riassumendo quindi in pochissime parole, a spanne si può dire che gli Yardbirds, da Londra, diventano i Led Zeppelin e i Bluesbreakers, da Manchester, i Fleetwood Mac.

A riguardo infine dei Fleetwood Mac e del loro chitarrista fondatore, Peter Green, possiamo dire che condivide molti aspetti della propra parabola artistica con Syd Barrett. Come Syd Barrett infatti forma un gruppo. Come Syd Barrett del gruppo fondato è la principale forza creativa. E proprio come Syd Barrett, chitarrista anche lui, viene allontanato dal gruppo per problemi di droga che gli hanno confuso e incasinato, diciamola con Pulp Fiction, il modo di parlare (voleva cambiare vita dopo essersi strafatto di acidi). E per cui la configurazione finale dice di due figure affatto da ripensare seriamente e da rivalutare alla grande.

A questo punto, uno dei principali artefici del revival di Peter Green e Syd Barrett è David Gilmour.
Gilmour infatti lo scorso febbraio, il 25 mi sembra proprio di aver letto, ha partecipato a una serata in onore di Peter Green tenutasi al Palladium di Londra. Per l’occasione Gilmour suona tre pezzi dei Fleetwood Mac, compreso Albatross, singolo del 68.

E qui, adesso, sul finire di questo nostro racconto, si va sul campo delle opinioni, del se, ma e forse; ma è probabile che così facendo Gilmour abbia voluto ancora una volta ricordare Syd Barrett – o comunque sull’accostamento casca subito l’occhio – e questa volta nei termini di una delle più grandi chitarre sperimentali del Regno Unito o sicuramente in grado di tenere testa a Peter Green – almeno stando al primo disco dei Pink Floyd. E in ogni caso questo fenomenale passage della musica inglese tra Manchester e Londra ci ha portati a parlare ancora una volta di Syd Barrett. E a questo punto non è ancora chiara una cosa. Non si capisce cioè per quale caspita di accidenti del pensiero, forse un rovescio neuronale temporalesco, qui si finisce sempre col parlare di Syd Barrett – e se è possibile un giudizio personale, proprio stando al primo disco dei Floyd e ai suoi due solisti, è probabile che Syd Barrett sia una delle migliori chitarre sperimentali di sempre….esattamente come Peter Green, ex Bluesbreakers, Manchester.

Comunque non ce n’è, la versione di Born Under A Bad Sign, canzone di

, la versione dei Cream, quindi, è la migliore. Una l’ha registrata anche Peter Green. Non era stato ancora detto; i Pink Floyd poi possono sicuramente distrarre e confondere, è ovvio, ci mancherebbe, cavoli, la musica psichedelica è una vera figata; si fa quindi preferire il primo dei velvet underground, ma poi the dark side of the moon è quanto di meglio abbia offerto il music business fino ad ora; ma i Cream sono imbattibili se non sono i migliori. E poi sono la miglior band di hard blues bianco elettrico. Loro sono i padri naturali dell’Hard Rock – a cui ha contribuito anche Peter Green.

 

Peter Green
29/10/46 – 25/7/20
Ad perpetuam rei memoriam

 

Sinatra, Elvis, Dylan, Springsteen: macroscopia di una storia leggendaria

Con Frank Sinatra si racconta una storia dei due mondi, di due epoche, quasi, del novecento; e c’è di fatti con lui un pre e un post guerra mondiale, e una visione d’insieme che va all’inseguimento del futuro da costruire consonante a nuove canzoni e melodie per nuovi altari popolari – il pop appunto, il sinonimo più trascurato di cultura di massa, dal quarto d’ora celebre per chiunque a the medium is the message, la macchina è il messaggio, la produzione, il progresso, e in questo caso la ricostruzione anche di una musica nuova; e il pop è anche un sottogenere della cultura di massa e un genere musicale con linee di confine assolutamente precise.

Il primo punto è che comunque il punto di vista è squisitamente maschilista, ma non poteva essere diversamente, perché oltre alla Monroe, Patty Smith, Madonna, Tori Amos, Cat Power qualcuna del periodo beat, o degli anni trenta/cinquanta, qui non si riesce ad andare. E allora sotto con Frank Sinatra e le bobby soxers, alle quali farà poi seguito l’hop sock dell’era del rock and roll; ma è questo un discorso, seppur interessantissimo e di costume, le calze, le calze rosse, il baseball, la nascita delle cheerleaders, non volendo entrare nello specifico di traduzioni e tradizioni d’oltreoceano, dal quale in ogni caso si sta alla larga per non dare a tutto il lavoro il tono di un’improvvisazione sul tema american music (oh, I like american music, Violent Femmes, Why do birds sing… Do androids dream of electric ships?, racconti da universi distopici).

Subito dopo gli esordi prebellici, dunque, Frank Sinatra oltre che per la sua voce, e il formidabile controllo in grado di esercitare su di essa, è conosciuto come il pack master del Rat Pack, approssimativamente Las Vegas, anni cinquanta, (Only The Lonly, 1958 e seconda metà del 2018, deluxe edition per il 60mo) in cui a volerli ricordare in blocco si raccoglievano: Errol Flynn, Ava Gardner, Nat King Cole, Robert Mitchum, Elizabeth Taylor, Janet Leigh, Tony Curtis, Mickey Rooney, Lena Horne, Jerry Lewis, Cesar Romero e i membri originali del Holmby Hills Rat Pack, la casa di Humphrey Bogart, erano Frank Sinatra, Judy Garland, Sid Luft, Humphrey Bogart, Swifty Lazar, Nathaniel Benchley, David Niven, Katharine Hepburn, Spencer Tracy, George Cukor, Cary Grant, Rex Harrison, Jimmy Van Heusen; e con questa denominazione si arriva fino agli anni sessanta con la seguente formazione: Sinatra, ancora, sempre leader con Bogart, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Peter Lawford, Joey Bishop, Marilyn Monroe, Angie Dickinson, Juliet Prowse, Buddy Greco, Shirley MacLaine; arrivando poi a the Jack Pack con JF Kennedy (al momento di scrivere, molti di questi sono solo dei nomi, ma nell’ultimo disco in uscita a momenti, Dylan dedicherà proprio una canzone a JFK; e i tre precedenti compreso il penultimo triplo sono praticamente delle raccolte di tunes già suonati e cantati dallo stesso Frank Sinatra).

In tutti i casi è evidente che anche nel caso di Frank Sinatra, come nel caso già osservato dei Velvet Underground, il cinema abbia fatto da catalizzatore di un vero e proprio movimento culturale, di una scuola di pensiero, di un’avanguardia come si direbbe in Europa, e questo lo si può constatare da Gershwin in avanti; e da Fitzgerald a scendere la storia che si propone sembra essere più o meno sempre la stessa, cinema e musica raccontano le due facce della stessa medaglia in una vera e propria e splendida configurazione multimediale – e il discorso Frank Sinatra potrebbe finire in questo istante senza nominare nemmeno una sola sua canzone.

Di fatto nessuno potrebbe negare che la carriera di Frank Sinatra sia strettamente e intimamente legata al cinema, se consideriamo che ha vinto un Oscar e un Golden Globe con From Here To Eternity e per miglior supporting actor, soprattutto.

The Song Is You, allora, è un box set di cinque CDs che raccoglie tutte le prime registrazioni di Sinatra con la Tommy Dorsey Orchestra, i suoi primi tentativi solisti come band leader, registrazioni radiofoniche varie degli esordi, il tutto proprio a partire dal 1942.

Musicalmente parlando, sperando che non sia la solita coincidenza si segnalano: Sinatra At The Sand con Count Basie e Quincy Jones (quello di Soul Bossa, uno dei produttori più importanti del music business americano), ma in questo disco si perde la metà del senso se non si capisce la lingua perfettamente: Frank Sinatra è un performer, un entertainer prevalentemente, lo stereotipo degli artisti di genere a seguire, si potrebbe dire, musica da club in qualche misura, dove la scena è prevalentemente quella di Las Vegas (è del maggio 2018 l’uscita tripla deluxe su cd e in digitale dal titolo Standing Room Only, con tre concerti: Las Vegas ’66, Philadelphia ’74, Dallas ’87); il successivo con Duke Ellington; My Way, ovviamente, 1969; eh, già…That’s Life, di tre anni prima, e della title track il testo è quasi lo stesso di Helter Skelter – ed evitiamo di commuoverci: si va avanti – ; Strangers In The Night, che risulta essere anche questo del 1966; e, siamo in tempi di fusion, non solo con Miles Davis e Bob Dylan, tempi di globalizzazione dei generi (Masoko Tanga, The Police, una delle conclusioni più di pregio), il disco di bossa nova appunto con Antonio Carlos Jobim del ‘67, complementare alla registrazione di Gilberto/Getz.

Arrivati a questo punto, in attesa di sapere qual è la “Best Band You Never Heard In Your Life”, tra quella di Imaginari Diseases, The Petit Wazoo del 1972; The Mothers 1970, cd quadruplo che esce adesso; The Mothers 1971 al Fillmore east; Live In NY 78; Roxy And Elsewhere, 1974; You Can’t Do That On Stage Anymore (volumi vari); Joe’s Camuflage, addirittura sui rehearsals e basta del 75, con lo scheletro di Any Dawners? che verrà pronto per You Are What You Is; Broadway the hard way, 1988, The Best Band You Never Heard, appunto, sul 1988 anche questo, band di dodici pezzi che durò meno delle Mothers 1970, in cui se stupisce la perfetta resa musicologica di Stairway to heaven, con la sua Purple Haze in medley con Sunshine of your live sembra già di sentire qualcosa di Pork Soda….con modi già sperimentati con The Torture Never Stops, versione Thing-Fish, pezzo con cui stava vincendo un Grammy alla prima cerimonia degli stessi… favoloso Frank Zappa, petit wazoo, Grand Wazoo, Waca Jawaca, Chunga’s Revenge, Drawing Witch, Them Or Us, Apostrophe…..Zoot Allure…..Overnite Sensation, You Are What You Is, e possiamo andare avanti all’infinito, e chissà quale altro miracoloso live di Zappa con l’ennesimo fantassolo esiste da far uscire; e poi c’è Joe’s Garage – e quando lo si ascolta per intero Joe’s Garage? – che oltre che ricordarci che un ragionamento sul music business Zappa lo aveva già fatto subito agli esordi con We’re Only In It For The Money, è da ascoltare assieme a The Wall di cui è a conti fatti la versione allegra… per cui Frank Zappa….che tra tutti è sempre un po’ quello più difficile da mettere da parte…e in attesa di una risposta o di uno studio chiarificatore, si diceva, poi ti casca l’occhio su John McLaughlin che pubblica con la sua Mahavishnu Orchestra The Inner Mounting.

Cioè McLaughling non ha colpi pop tipo Camarillo Brillo, Sharleena, Be In My Video, Disco Boy, ma alla fine chi è meglio McLaughlin o Frank Zappa?, ascoltiamo Noonword Race, ascoltiamo i Deep Purple,  McLaughlin è poi il chitarrista della svolta elettrica di Miles Davis con cui Zappa compete alla grande, e con McLaughlin Miles Davis pubblica Bitches Brew (Tomago Rat?) che fa cinquant’anni quest’anno – ma il discorso di fusione è “gioco vecchio oramai”, e comunque, attenzione, sono ben cinque in meno di Subterranean Home Sick Blues di Bob Dylan e dell’esplosiva propulsione elettrica con la quale si apre Bringing It All Back Home (1965), l’album della svolta elettrica o della confutazione folk dello stesso Dylan, che traghettando in direzione rock a partire da ambienti affatto folk e tradizionali, precorre anche Hot Rats e di ben quattro anni e il video è una gran bella botta – strepitoso Dylan – e tutto questo per dire solo che tre sono i grandi discorsi di fusion o di integrazione di genere che si possono fare, quindi: uno con Zappa, uno con Dylan e uno con Miles Davis; e il primo in battuta è proprio Bob Dylan con la doppia uscita del 1965: Bringing It All Back Home e Higway 61 Revisited. E il discorso, cioè, a voler solo sottolineare la portata colossale di Bob Dylan, questo lo si può proprio finire qui.

Si segnala: degli anni ottanta l’uscita clamorosa Dylan & The Dead coi Grateful Dead, e loro poi sono tra i migliori a suonare Bob Dylan dal vivo (meglio anche dei Birds; si veda Postcards Of The Hanging); il documentario di Martin Scorsese sul tour Rolling Thunder Revue; e il Nobel vinto per la letteratura – e tutti i discorsi cominciano da qui, e qui si chiude il discorso sulla fusion con la giusta dignità, con una citazione sulla doppia dorsale dell’abiura di Syd Barrett in Jugband Blues e della confutazione di John Keats e di una delle sue odi: “Information is not knoweledge. Knoweledge is not wisdom. Truth is not beauty. Beauty is not love. Love is not music. Music s the best”, Packard Goose, Frank Zappa, Joe’s Garage – ma c’è un errore ancheadesso: tutti i discorsi iniziano qui: Elvis Presley, ed Elvis, si sa, è il numero uno. Ma anche qui è contesa tra Beatles e Presley su chi sia il numero uno: Elvis alla fine è un po’ un tipo alla Frank Sinatra perfettamente conteso e condiviso tra musica e cinema.

Invece la discografia del piccolo collezionista dopo 33 anni con Bruce Springsteen si è fermata alle Seeger Sessions: di Magic si apprezza l’immensa Radio Nowhere, ma mancano: Wrecking Ball, Working On A Dream, Magic, appunto, High Hopes, ma questo è un disco a parte, e si riprende con Western Stars, vero ritorno alla grandezza originaria del Boss – Bruce Springsteen è al colonna sonora di una vita intera, e Blinded By The Light è un film evidentemente tratto da una storia vera. Springsteen inoltre si è reso protagonista di un show&tell per alleggerire con Calvin&Hobbes, sold out per quasi due anni ininterrotti, a Broadway, ma il Boss è il Boss, ragazzi, non c’è niente da fare. Il 99 segna l’anno della rinascita con i concerti di reunion della E Street Band culminati nel bellissimo Live in NYC del 2001 soprattutto in DVD. Poi ci sarà lo strepitoso The Rising, e il resto non è nemmeno più storia ormai, ma si divide tra mito&leggenda dei giorni nostri.

Ad ogni modo il postulato di estetica abbracciato da Keats e confutato in Joe’s Garage – la bellezza è verità – era già stato messo in discussione dagli U2 in The Playboy Mansion, 1998. Springsteen invece si è allineato alle intenzioni filosofiche di Kant in qualche maniera, arrivando a dire in No Surrender: I wanna sleep beneath peaceful skies in my lover’s bed, with a wide open country in my eyes and these romantic dreams in my head…il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.

While singin’ the blues, allora, a real Bob Dylan experience – e a scanso di equivoci, per non sbagliare, è meglio che ti fai una big babol: “the pump don’t work ‘cause the vandals took the handle” – Subterranean Homesick Blues, Bob Dylan, 1965.

 

Fonti: https://le-citazioni.it/frasi/176448-frank-zappa-informazione-non-e-conoscenza-conoscenza-non-e/

sinatra.com

elvis.com

zappa.com

bobdylan.com

brucespringsteen.net

Charlie Parker, John Coltrane, Wayne Shorter: Miles Davis & the saxophones

La paranoica fissazione con un genere musicale contemplato ed esplorato nella sua più totale e completa complessità porta inevitabilmente alla ricerca di tutto ciò che gli sta attorno configurando un continuum fenomenale di genere a intermittenza di suoni dai più disparati insiemi musicali. Dal ’69 al ’74, da In a Silent Way a Get Up With It, il protagonista del racconto è più doverosamente John McLaughling, un chitarrista inglese, laddove nei sogni, nei desideri di partenza, nei progetti e nelle idee iniziali, questa figura musicale avrebbe dovuto combaciare con le fattezze artistiche di Jimi HendrixMiles Davis aveva un progetto musicale che contemplava l’introduzione della chitarra di Hendrix, ma quello che ne è venuto fuori fu solo un chiacchierato pastiche sentimentale a tre tra Miles, Jimi, e la signora Mabry Davis, Mademoiselle Mabry, come nell’ultima traccia di Filles De Kilimanjaro, suite orchestrale di oltre un quarto d’ora del 1968, Miles Davis, e al sax c’era già Wayne Shorter che chiudeva lo storico periodo del secondo grande quintetto, e che lo accompagnerà fino agli sviluppi più estremi del progetto di fusione elettrica tra musica jazz e musica rock – e questa è la seconda volta in quattro anni che la chitarra elettrica fa scalpore, fa scandalo, fa impazzire il pubblico; ed era già successo con Bob Dylan nel ‘65 quando il cantautore si presentò al Newport Folk Festival con una Stratocaster a tracolla e si beccò gli insulti e lo sdegno del pubblico (quella chitarra è stata venduta all’asta attorno al 1992 o giù di lì, per duemilioni di dollari).

Il protagonista sarebbe più doverosamente John McLaughing, è vero, ma coi saxophoni di Miles Davis si costruisce comparativamente una storia maggiore.

In realtà, ma sono probabilmente molteplici i prototipi del genere di fusione, la prima botta – e fa male ancora adesso quel disco – arriva da Duke Ellington nel 1962, con una scarpata blues d’altri tempi, un blusaccio primordiale, con uno degli egregi, dei molto onorevoli, per dirla con Joyce, senza il coraggio di dire il preferito da queste parti, della musica mondiale: Money Jungle con un trio pazzesco formato dallo stesso Ellington al piano, Max Roach alla batteria, già visto con Davis nella birth, in studio, ‘49-‘51 ca., of the cool e pre-birth of the cool, Live At The Royal Roost, NYC del settembre del 48 col celebre noneth detto la tuba band, come da note di copertina della premiata stampa della Durium, collana Jazz Live, note di Sandra Novelli – tutto comunque documentato nell’uscita del ‘57 a cura della Capitol dal titolo appunto The Birth Of The Cool – e, risalendo a Money Jungle, Charles Mingus al basso, un acidissimo Charlie Mingus e molto libero, free, al basso, contrabbasso.

Non è stato ancora detto niente di né di Charlie Parker né di John Coltrane, e con Shorter appena appena accennato, si va già verso l’ennesima nuova era del jazz, ulteriore capovolgimento di fronte capitanato da Miles Davis; e tutto sommato in qualche misura vengono tralasciati proprio Jerry Mulligan e Lee Konitz tra gli altri, i primi due sax del dopo Charlie Parker, la nascita del cool come già detto, anche perchè il disco esce postumo nel ’57, e si va verso il Miles Davis Quintet come atto primo del post Charlie Parker, al quale viene apposto Walking, anche questo senza John Coltrane – ma John Coltrane sarà presente in Kind Of Blue, il disco jazz più venduto in assoluto, o in qualche modo, il corrispettivo di The Dark Side Of The Moon in ambito jazz.

John Coltrane è dunque il sassofonista del dopo Charlie Parker, del primo Miles Davis Quintet, degli anni cinquanta, delle registrazioni della Prestige (The Legendary Prestige Quintet Sessions), del Caffè Bohemia; John Coltrane è il sassofonista che ha preso il posto di Sonny Rollins nel gruppo per far uscire Milestones, Round About Midnight, Cookin’, Steamin’, Relaxin’, Workin’ e poi nel 1959 ci sarà Kind Of Blue: Miles Davis, John Coltrane, Cannonball Adderley, Bill Evans, Winton Kelly, Paul Chambers, Jimmy Cobb – nel mezzo ci stà Walkin’ con un’altra formazione: un attestato di leggendaria sicurezza.

La storia ad ogni modo, quasi tutta quanta dall’inizio alla fine, si svolge quasi completamente a NYC, o lì ha più di un suo centro, e questa di John Coltrane in particolare attorno al Bohemia Cafè che ha recentemente riaperto.

E questi sono gli anni successivi a quelli in cui è ambientato On The Road, e i beatnik, allora, sono a un passo, la beat generation era già quasi tutta lì, e curiosità vuole che proprio The New Bohemia sia il titolo di un libro che descrive alla perfezione i contorni del new cinema americano, la sua natura underground, da cui letteralmente i Velvet Underground, e di cui lo stesso Andy Warhol faceva parte o vi era in misure diverse coinvolto, lui come Nam June Paick, Rauschenberg, Jones, Oldemburg, Kelly, Indiana, per dirne alcuni; ma per quel che riguarda il solo Andy Warhol, lui di fatto nasce come grafico anche di copertine di dischi di musica jazz, e forse nelle Metamorfosi c’è qualcosa di vero, Ovidio aveva ragione, magari la reincarnazione esiste, la resurrezione è verità, e se non esiste la reincarnazione, il darwinismo ne ha dimostrato la felice intuizione – Prestige, ad ogni buon conto, e questo è il seguito, e si va verso l’ennesima metamorfosi del jazz e la controcultura americana degli anni sessanta dei tempi a venire (è Jack Kerouac a dircelo che sono adiacenti) e Miles Davis, Wayne Shorter al sax, cavalca alla perfezione la chitarra elettrica: dopo E.S.P., Miles Smiles, Sorcerer, Nefertiti, Miles In The Sky, Filles De Kilinajaro, entrano In A Silent Way, Bitches Brew, e Jack Johnson, poi esce Wayne Shorter e l’elettricità corre sola sul filo fino a On The Corner, Big Fun, Get Up With It, e poi il silenzio fino agli anni ottanta, fino al magico EP Rubberband stampato lo scorso anno per la prima volta.

Ma alla fine chi era Charlie Parker, allora? Charlie Parker era un sassofonista americano. Nell’autobiografia di Miles Davis occupa tutta la prima parte, e di John Coltrane praticamente e di Wayne Shorter non c’è traccia nella seconda parte. Nella sua autobiografia, Miles Davis passa la metà del tempo a insultare Charlie Parker in tutti i modi, a glorificarlo, ad amarlo e a odiarlo. Charlie Parker muore nel 1955, un anno dopo la nascita del rock&roll, un anno dopo la consacrazione della chitarra elettrica, e per scoprire cosa sono tutti quegli assoli del rock&roll, è sufficiente ascoltare un disco di Charlie Parker e sostituire il sax con la chitarra elettrica, quello che di fatto è successo con il Miles Davis dell’ ”ultima” metamorfosi del jazz, con tempi più soft e cool, parlando di Miles, rispetto alla frenesia di Charlie Parker.

Nella sua autobiografia Miles Davis descrive Charlie Parker come un frenetico strafatto di eroina che si ingozzava di pollo fritto e suonava da dio: buttandola lì per chiudere, saltando lo swing, il boogie, e il rithm&blues, giocando a una vanitosa rivendicazione jazz, il rock&roll è il be bop suonato con la chitarra elettrica – Charlie Parker è per estensione il prototipo del chitarrista solista.

Di John Coltrane e Wayne Shorter si segnalano rispettivamente Giant Steps e Blue Train dall’una parte e Schizophrenia e i Weather Report dall’altra (Black Market).

Chi era Charlie Parker lo ha già documentato ampliamente Jack Kerouac, e la sua vita sarà uno standard per le avanguardie future verosimilmente spericolate come James Dean che muore nel suo stesso anno.

Un ultima curiosità ci spinge a notare che le prove generali di Bitches Brew, a tutti gli effetti il primo album elettrico di Miles Davis, si sono per così dire tenute al Fillmore East, sempre da quelle parti, NYC, l’equivalente del Blue Note per il jazz, nel marzo del 1970 la stessa sera in cui Neil Young & The Crazy Horse registrano uno dei più formidabili live albums di sempre con una rendition elettromagnetica di Cawgirl In The Sand. Poi ci sarà l’isola di Wight per Miles Davis e per la sua band, e seicentomila persone di gloria finalmente tutta intera per il jazz e la sua storia.

 

Fonte: tidal.com e le sue liner notes for liquid music.
Photo: http://birkajazz.se/archive/blueNote1500.htm

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