Sticky Fingers: il torbido rock degli Stones

Sticky Fingers è, forse, l’album nel quale gli Stones fanno davvero gli Stones. Il titolo, letteralmente “dita appicicose” riflette perfettamente la cifra musicale raggiunta da Jagger & Co. e rappresenta egregiamente ciò che effettivamente stavano facendo. Si stavano letteralmente sporcando le mani. Con cosa? Con una miriade di generi musicali, dal blues al rock, al country. Suoni grezzi, sporchi, distorti, testi sudici, depravati, pieni di allusioni a sesso e, soprattutto, droga ma certamente pieni di pathos e fascino. Una copertina leggendaria, ideata da Andy Warhol, in cui si vedono dei jeans con una vera chiusura lampo che nascondono una evidente erezione, lascia poco spazio all’immaginazione su quale sia il contenuto del disco.

“Sovversivi? Certo che siamo sovversivi. Ma se qualcuno crede davvero che si possa iniziare una rivoluzione con un disco si sbaglia. Mi piacerebbe poterlo fare. Siamo più sovversivi quando ci esibiamo dal vivo”. (Keith Richards 1969)

L’attacco micidiale di Brown Sugar, chitarre distorte su un testo che snocciola tutto il sapere degli Stones su droga, sesso interraziale, e lussuria. Rock al massimo grado. Il cantato ciondolante di Sway, la disperazione e la poesia nell’epica ballata Wild Horses, il grandioso riff di Can’t You Hear Me Knocking, il blues alcolico ed acustico di You Gotta Move, la cattiveria di Bitch, la malinconia crepuscolare di I Got The Blues, il dramma della tossicodipendenza di Sister Morphine, il country-divertissement di Dead Flower e la magnifica Moonlight Mile, rappresentano l’apice creativo del duo Jagger e Richards mentre il gruppo raggiunge un feeling senza precedenti anche grazie all’innesto di musicisti esterni quali il sassofonista Bobby Keys e Jimmy Miller. Gli Stones dimostrano di aver metabolizzato bene la lezione della grande musica americana e di averci aggiunto quel pizzico di peperoncino tipico del loro stile rendendola praticamente immortale ed internazionale. Ovviamente il successo di pubblico è enorme, al di la e al di qua dell’oceano, ed anche la critica non risparmia elogi a quello che può essere considerato il disco dei Rolling Stones per eccellenza. Nonostante prevedibili problemi con la censura Brown Sugar diventa un singolo spacca classifiche e le Pietre Rotolanti diventano finalmente superstar libere di esprimersi ai massimi livelli e finalmente libere dall’eterno confronto con i Beatles. Il rock non è mai stato cosi affascinante e gli Stones non sono mai stati più in forma di così….e forse non lo saranno mai.

“Band On The Run”: l’apice degli Wings

Dopo lo scioglimento dei Beatles, nell’aprile del 70, la pubblicazione di due album solisti bellissimi ma interlocutori (McCarteney e Ram), la fondazione di un nuovo gruppo, the Wings, con l’ausilio della moglie Linda che scatena inevitabili paragoni con il gruppo precedente, Paul McCartney capisce che è venuto il momento di rilanciare pesantemente. Per trovare la giusta ispirazione prende armi, bagagli, moglie e quello che resta dei Wings, il solo Danny Laine, prende un aereo e parte per la Nigeria dove, negli studios dell’amico Ginger Baker, inizia a lavorare su del materiale inedito che andrà a costituire la spina dorsale di Band On The Run. Nonostante le enormi difficoltà tecniche e personali (attrezzature non all’avanguardia, furti, minacce da parte di Fela Kuti), il buon Paul riesce a trovare la quadratura del cerchio e a produrre un disco meraviglioso.

“Con la possibile eccezione di Plastic Ono Band di John Lennon, è il miglior album mai realizzato da uno dei quattro musicisti che una volta si chiamavano Beatles” (Rolling Stone-1973)

Si tratta di un lavoro essenzialmente rock, potente e vigoroso, che però lascia spazio a malinconiche ballate e sogni traslucidi che rivelano la ritrovata capacità dell’ex Beatle di spaziare con estrema disinvoltura tra le varie pieghe della musica. I sentori dell’Africa e le atmosfere di Abbey Road, la giungla ed il cemento, sono magistralmente mescolati in dieci memorabili brani di una bellezza assoluta. Le accelerazioni ed i cambi di tempo della title track, i possenti ottoni e le distorsioni di Jet, l’onirica delicatezza di Bluebird, l’enorme giro di basso di Mrs. Vandebilt, le tremolanti tastiere e gli attacchi sghembi di Let Me Roll It, danno la misura del grado di ispirazione e qualità compositiva che McCartney ancora possiede. Si prosegue con la delicatissima e quasi acustica Mamunia, forse la più “africana” delle canzoni presenti nel disco, per poi passare alla corale No Words e alla malinconica Picasso’s Last Word (Drink To Me) ispirata alla morte del celebre pittore avvenuta pochi mesi prima, in cui vengono riprese in maniera geniale due brani precedenti, Jet e Mrs. Vandebilt. La salva finale è affidata al rock di Nineteen Hundred and Eighty-Five la cui lunga coda strumentale, riprendendo la melodia di Band On The Run, chiude definitivamente il cerchio. Ovviamente il disco si rivela un trionfo sia dal punto di vista delle vendite che della critica. La celebre copertina in cui figurano, tra gli altri, gli attori Christopher Lee e James Coburn, staziona per mesi nei primi posti delle classifiche contribuendo a fare dei Wings una delle band più celebri e acclamate del pianeta. Persino gli altri ex Beatles inaspettatamente riconoscono la bellezza e la qualità del disco. Certamente rimane uno degli album più importanti degli anni ’70 ed una dimostrazione tangibile che anche dopo lo scioglimento dei Beatles, Sir Paul McCartney conosceva molto bene il significato della parola rock.

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In ricordo di Luigi Tenco a cinquant’anni dalla sua morte

Sembrava andare tutto secondo copione quella sera del 1967 al Festival di Sanremo. La diretta televisiva mostrava volti sorridenti e star brillantinate che si esibivano seguendo un ordine prestabilito. L’ultimo cantante in gara, che chiudeva la seconda serata del festival, era Luigi Tenco, ma ad ammirarlo potevano esserci solo gli spettatori del Casinò perché la diretta televisiva era stata interrotta per lasciare spazio ad un documentario intitolato “Un giorno alle corse”.

Il brano di Tenco è bello, un grande affresco sugli addii, sull’abbandono, sulle tradizioni. Ma è troppo per un festival legato a strutture melodiche preimpostate e che accetta malvolentieri canzoni impegnate fuori dagli standard. Così “Ciao Amore, Ciao”, cantata anche da Dalida è eliminata e non viene neanche ripescata dalla giuria di esperti più orientata a mantenere equilibri tra le etichette discografiche che a valutare serenamente il pezzo.

Secondo le versioni ufficiali dopo l’esibizione Luigi Tenco, deluso e amareggiato per l’eliminazione, si sarebbe suicidato nella sua camera d’albergo. A distanza di cinquant’anni, però, il condizionale resta d’obbligo perché le circostanze precise che lo hanno condotto alla morte non sono ancora chiare. Che si sia trattato di suicidio o di omicidio resta però il fatto che quel venerdì 27 gennaio 1967 ci ha lasciato uno dei più grandi innovatori della musica leggera italiana.

Tenco insieme a Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Gino Paoli e Umberto Bindi era tra gli esponenti della scuola genovese che, con riferimenti dal gusto internazionale, ha cambiato radicalmente l’approccio della canzone sui temi impegnati. Il sociale, l’individuo, l’ideologia e tanti aspetti della vita quotidiana cominciano ad invadere le melodie di questi cantautori.

Luigi Tenco ha però qualcosa in più. È un sassofonista, il jazz gli è familiare, e da questo genere acquisisce lo spirito di libertà che riecheggia anche nei suoi testi. Tenco riesce a combinare lo spirito rivoluzionario e i sentimenti in un tormentato e struggente racconto della sua contemporaneità che assume toni di sublime poesia.

Forse è arrivato il momento di dire con forza a Luigi, in un dialogo impossibile, ti vogliamo bene e ti ringraziamo per le parole che ci hai lasciato. Il Festival è stato ingrato nei suoi confronti ma, si sa, lo show deve andare avanti. Chissà se oggi a distanza di cinquant’anni Carlo Conti non vorrà rendergli giustizia dedicandogli lo spazio dovuto.

Probabilmente aveva ragione Donatella Rettore che in un celebre pezzo cantava È morto un artista, e invece di piangere fanno festa!. Le parole più belle però sono quelle che gli dedica Faber nella “Preghiera in gennaio”, uno dei brani più struggenti scritti da De Andrè.

A noi non resta che ascoltare e assaporare le note di questi grandi artisti perché, in realtà, Tenco è immortale e ogni volta che riascoltiamo le sue parole torna a vivere nello splendore dei suoi ventotto anni.

“Disraeli Gears”: il blues psichedelico e onirico dei Cream

Psychedelic blues, un connubio interessante, insolito, tra la ferrea logica del blues e le divagazioni oniriche dei trip acidi. Un esperimento riuscito a pochissimi nella storia del rock; Jimi Hendrix, ad esempio, che in brani come Hey Joe o Little Wing, riesce a prendere il suono tradizionale della “musica dell’anima” ed a convertirlo in qualcosa di mai udito, ne prima ne dopo, ancorandolo nel contempo alla realtà storica in cui vive. Altri campioni a cui è riuscito un simile esperimento sono stati i Cream, power trio formatosi nel 1966 e  composto da tre assi della musica: Eric Clapton alla chitarra, Jack Bruce la basso e Ginger Baker alla batteria.

Tre musicisti molto diversi tra loro, tre personalità gigantesche, tre insuperabili performer che grazie alle loro peculiari caratteristiche (l’estrazione tipicamente blues di Clapton, la formazione classico/jazzistica di Bruce e la fascinazione per le percussioni africane di Baker) riescono a dar vita ad una miscela sonora praticamente unica ed inimitabile. Traghettano il blues del Delta negli anni ’60 grazie a memorabili cover (vedere il trattamento riservato alla celeberrima Crossroads di Robert Johnson o a Spoonful di Wille Dixon) facendolo apprezzare alle nuove generazioni ma, soprattutto, riescono trasformarlo in qualcosa di assolutamente nuovo contaminandolo con suoni modernissimi e di grande impatto.

«L’unica buona musica è quando dei buoni musicisti suonano l’uno per l’altro. Credo che questo sia ciò che ha reso i Cream così differenti dagli altri gruppi rock.». (Jack Bruce)

La testimonianza più compiuta di quanto appena detto si ha con il secondo album dei Cream, Disraeli Gears, forse il lavoro più famoso e riuscito in cui convivono tranquillamente brani come l’infuocata ed immortale Sunshine Of Your Love e la narcotica We’re Going Wrong. D’altro canto già la copertina “pepperiana” del disco, eccessiva ed ipercromatica, lascia intuire l’intenzione della band di proporsi come alternativa valida al suono di San Francisco, all’epoca dominante, ma con l’aggiunta di quell’inconfondibile sentore british. La chitarra acida e distorta di Clapton, il basso poderoso di Bruce e le percussioni torrenziali di Baker si fondono a meraviglia in capolavori quali Strange Brew, World Of Pain, nel blues “fatto” di Blue Condition, Outside Woman Blues e Take It Back, nel rock infuocato di SWLABR ed ancora nelle dilatate Dance The Night Away, We’re Going Wrong e Tales Of Brave Ulysses. Il risultato è talmente strabiliante che il disco supera il milione di copie vendute, diventa una pietra miliare conferendo alla band lo status di “supergruppo” ed accrescendo a dismisura la fama e la leggenda di singoli componenti. In accordo con l’atmosfera da “acid trip” che si sprigiona dai microsolchi, i concerti dei Cream diventano delle performance uniche che possono raggiungere una durata considerevole in cui viene lasciato grande spazio all’improvvisazione e allo sballo generale.

Le voci di Bruce e Clapton che si amalgamano a meraviglia o si alternano nel cantato, la batteria a doppia cassa di Baker che tuona come una tempesta, il basso pulsante e gli assoli stratosferici di chitarra che dal vivo assumono dimensioni ancora più mastodontiche, influenzano schiere di musicisti a venire quali Black Sabbath, Van Halen, White Stripes e Queen. La magia è, tuttavia, destinata a durare poco. Nel 1968, ad appena due anni dalla formazione, la band dei Cream si scioglie consensualmente con un live memorabile alla Royal Albert Hall ed un disco intitolato significativamente Goodbye. Le personalità molto forti dei tre componenti rendevano quasi impossibile una convivenza pacifica ed una comunità d’intenti, ma nonostante la parabola molto breve i Cream sono stati in grado di lasciare un’impronta indelebile nel mondo della musica con quattro album permeati di grande fascino e perizia tecnica in cui lo zoccolo duro del blues viene contaminato con il blues, il rock, la psichedelia ed anche il brit pop illuminando una miriade di possibilità ed aprendo un varco nel futuro.

Baustelle: l’amore e la violenza in chiave esistenziale

L’amore e la violenza, ovvero l’oscenamente pop secondo i Baustelle. Un pop, a dire il vero dal sapore poco popolare, che fonde con sapienza suoni vintage e campionature, musica colta e melodie kitsch, amore e morte.

Il pezzo forte dei Baustelle, come ormai da tradizione, sono i testi scritti da Francesco Bianconi che, in un clima di contaminazioni dimostra di trovarsi a proprio agio costruendo delle composizioni capaci di mescolare emozioni e suggestioni che oltrepassano la temporalità.

Ne nasce un lavoro sulla condizione umana sospesa tra i confini dell’amore e della violenza e la cui comprensione e definizione risulta essere irraggiungibile. Lo so, la vita è tragica,/ la vita è stupida, / però è bellissima, / essendo inutile. / Pensa a un’ immagine, a un soprammobile:/ pensare che la vita è una sciocchezza aiuta a vivere recita il testo de “La vita”. Siamo ben oltre il nichilismo, ci affacciamo in una dimensione post spirituale che trova la proprio ragion d’essere proprio nella consapevolezza del non significato.

È un pezzo importante del puzzle dell’Amore e la violenza che, non riconoscendo la presenza di un senso, spinge a infrangere il muro invisibile del dovere. Non esiste un aspetto morale, un imperativo categorico. Però allo stesso tempo ci lascia lo spazio di capire che questa cosa incomprensibile è bellissima.

All’improvviso si passa all’idea originale che la morale possa essere sostituita dall’estetica, dal contemplare la bellezza di ciò che non ha senso. Ha dichiarato Bianconi che questo album per lui è estremamente colorato ed effettivamente è così, anche se i colori sono foschi, non ben delineati. Ed in questa scia si sviluppano i brani dell’intero disco che racconta esistenze, amori, incomprensioni, idiozie, identità, guerre, terrorismo, con citazioni che abbracciano la musica e la letteratura.

L’amore e la violenza è un album da ascoltare e assaporare, ma si ha la sensazione che non siamo ancora giunti ad una definizione precisa, c’è ancora qualche tessera mancante nell’universo metropolitano dei Baustelle. È giunto il momento, in particolare per Bianconi, di accettare che la dimensione dell’esistenza non possa essere analizzata ancora con categorie ormai scadute.

L’impressione è che questo album sia stato scritto nel cuore di una notte agitata. Il passo successivo, che speriamo giunga il prima possibile, è accettare il dato di fatto che, nonostante tutto, il sole poi spunta e per i Baustelle è arrivato il momento di uscire e di osservare il mondo con la luce naturale e non esclusivamente al riverbero di un neon.

Una sfida per il futuro perché, come dice lo stesso Bianconi, il (tuo) pessimismo da quattro soldi/ chiaramente aveva fatto proseliti.

L’ultimo Natale di George Michael, gigante del pop

A volte il destino sa essere proprio beffardo e crudele, soprattutto quando i suoi piani vengono ad incrociarsi col mondo della musica. Per George Michael questo è stato l’ultimo Natale, the Last Christmas, parafrasando una delle sue canzoni più famose. Questa assurda e tragica coincidenza potrebbe quasi strappare un sorriso se questo 2016 non fosse stato cosi devastante per l’universo rock. Cominciato maledettamente male con la perdita di David Bowie e proseguito con l’addio di Glenn Frey, Prince, Leonard Cohen, solo per citarne alcuni, questo ennesimo ultimo lutto sembra essere la ciliegina sulla torta di un anno decisamente da dimenticare. Anche perché la perdita è grossa, di quelle che pesano e si farà terribilmente sentire. George Michael, nato a Londra il 25 giugno del 1963, era, infatti, un gigante del pop. Con oltre 100 milioni di dischi venduti in tutto il mondo è uno degli artisti britannici di maggior successo ed il protagonista di alcune delle performance live più esaltanti di sempre.

“Non mi è mai dispiaciuto essere considerato una pop star. La gente ha sempre pensato che volevo essere visto come un musicista serio, ma io no. Io volevo solo che la gente sapesse che prendevo assolutamente sul serio la pop music”  (George Michael)

Questa frase coglie perfettamente il senso della sua filosofia musicale. Del resto fare del pop, del buon pop, è molto difficile, una vera forma d’arte, poiché si deve, in tre minuti di canzone, riuscire a toccare il cuore ed i sentimenti della gente fino a diventare l’essenza stessa di un ricordo o di un momento. Questo George Michael lo sapeva bene fin dagli esordi folgoranti risalenti agli anni 80 quando, in coppia con Andrew Ridgley, faceva strage di cuori di ragazzine adolescenti e dominava le classifiche con lo storico marchio Wham!

George Michael e Andrew Ridgley – The Wham!

Sono gli anni dei capelli meshati e dei completi bianchi, dei videoclip e dei paninari, ma anche gli anni di canzoni immortali quali Wake me up before you go go, Freedom, Careless Whisper, Everything she wants che fanno di Make It Big un million seller. La parabola Wham! dura poco. Nel 1986 il duo si scioglie dopo aver pubblicato The Final, doppio album contenente tutti i loro successi con l’aggiunta di alcuni inediti tra cui l’arcinota Last Christmas. Ma mentre Ridgley scompare definitivamente dalle scene, Michael si reinventa proponendo un pop ancora più accattivante unitamente ad una immagine molto più trasgressiva e sessualmente accattivante. Sono gli anni di Faith, altro clamoroso successo, in cui oltre alla title track sono contenute le epocali  I Want Your Sex, Father figure, One more try Kissing a fool. Nel frattempo diviene una richiestissima guest star arrivando cosi a duettare con mostri sacri quali Aretha Franklin (I knew you were waiting (for me)), Elton John (Don’t Let The Sun Go Down On Me), i Queen (Somebody To Love). Non contento del successo mondiale cambia nuovamente pelle rivelandosi un autore maturo e raffinato anche se sempre in possesso di quella vena di trasgressione che l’ha reso famoso.

George Michael in un’immagine recente

Il disco Older, datato 1996, contiene brani molto più complessi come la splendida Jesus To A Child o  FastloveSpinning the wheelOlderStar people ’97 e You have been loved che lo consacrano superstar e nel contempo ne consolidano un’immagine meno glam e più matura. Il successo viene confermato dalla raccolta Ladies & Gentlemen – The Best of George Michael trascinata dall’autobiografica Outside (il cui video ironizza sulla sua accusa di atti osceni in luogo pubblico in un bagno di Beverly Hills). Come ogni rockstar che si rispetti, infatti, George Michael non si è fatto mancare vari arresti e processi per droga, guida in stato di ebbrezza e omosessualità (famoso il suo coming out del 1998), ma la forza della sua musica andava ben oltre queste vicende umane. Ormai a suo agio nei repertori più disparati pubblica nel 1999 Songs from the Last Century, in cui ripropone una sua personalissima versione di classici di Nina Simone, Frank Sinatra, Police e U2, tra le quali spicca la magnifica Roxanne. Dopo l’album Patience del 2004 dirada sempre più le uscite discografiche ma rimane costantemente in tour anche se la sua vita è tormentata da problemi fisici e personali. Tuttavia il Symphonica Tour, in cui vengono riproposti tutti i più grandi successi della sua carriera rivisitati con l’ausilio appunto di un’orchestra sinfonica, dura dal 2011 al 2014 riscuotendo il sold out in tutti i paesi del mondo. Una dimostrazione di affetto da parte di migliaia di fan che quest’anno hanno forse ricevuto il regalo peggiore, ossia la morte inaspettata di uno dei più grandi performer di sempre che con i suoi brani ha accompagnato la vita di almeno due generazioni. Forse da oggi Last Christmas avrà tutto un altro sapore.

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“A Singer Must Die”: in ricordo di Leonard Cohen

Citando il titolo di una canzone contenuta nell’album New Skin for the Old Ceremony del 1974, A Singer Must Die, in cui dice “a singer must die for the lie in his voice”, Leonard Cohen se n’è andato lo scorso 7 novembre. Nell’anno in cui la canzone d’autore ha ottenuto il massimo riconoscimento, grazie al Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan, si paga al contempo un prezzo altissimo, forse il più alto. A poche ore dalla scomparsa, la sua assenza pesa come un macigno.

Ma a chi manca Leonard Cohen? A tutti coloro che amano la musica, la poesia, la letteratura e hanno ritrovato nei sui versi un briciolo di se stessi. Ma cosa manca di Leonard Cohen? Mancano i suoi silenzi, la sua voce roca e baritonale, le sue malinconie, il suo erotismo, la sua religiosità, il suo disagio, le sue imperfezioni, il suo mal d’amore e le sue grandi canzoni. Se proprio si vuole tracciare un paragone (ingeneroso) con Dylan si può dire che mentre “Mr Tambourine Man” cercava di cambiare il mondo con le sue canzoni attraverso un impegno sociale molto spiccato (basta ricordare Blowing In The Wind, Hurricane, A Hard Rain Is Gonna Fall, The Times They Are A Changin’ solo per citarne alcune), “Mr Suzanne” cercava solo di analizzare l’animo umano con uno sguardo critico sulle mille sfaccettature che lo compongono cercando di fare chiarezza sulle tensioni interne e sulle pulsioni che tutti noi abbiamo, sperando di renderci migliori.

“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce” (Leonard Cohen)

In questa citazione è contenuto tutto l’universo poetico del maestro canadese: l’imperfezione come simbolo di rinascita, miglioramento e speranza. Anche lui era imperfetto e lo sapeva benissimo. Dotato di una voce non proprio cristallina e di una conoscenza musicale limitata, afflitto da depressioni e dubbi, ha avuto durante la sua quarantennale carriera numerosi detrattori che lo accusavano di essere poco commerciale, pesante, pessimista, depressivo, eppure non si poteva fare a meno di ascoltarlo. Il perché è semplice: era umano dannatamente umano. Parlava un linguaggio universale attraverso le sue emozioni e la sua influenza  tocca musicisti di ogni età e latitudini diverse. Da Lou Reed a Jeff Buckley (la cui splendida versione dell’Hallelujah è scolpita nella mente di tutti noi), da Nick Cave a Willie Nelson, dagli U2 ai REM, tutti ne hanno riconosciuto la grandezza proponendo sentite cover dei suoi brani più famosi. Perfino in Italia, solitamente ostica nei confronti della musica transoceanica, Leonard Cohen ha trovato illustri estimatori che lo hanno eletto come fonte d’ispirazione per lo stile poetico e tematico. De Andrè (che ha splendidamente tradotto e ricantato Suzanne, Jeanne D’Arc e Seems So Long Ago, Nancy), De Gregori (sua la cover di Tonight Will Be Fine resa come Un Letto Come Un Altro), Ornella Vanoni (The Famous Blue Raincoat divenuta La Famosa Volpe Azzurra), Mimmo Locasciulli (The Future trasformata in Il Futuro), hanno reso famoso il canzoniere coheniano anche  tra le nostre mura al pari solo di Dylan e Brassens. Ora che è scomparso, con lui se ne va un poeta oltre che un grande autore, capace di giocare con le parole come pochi altri al mondo, capace di tratteggiare in poche strofe concetti difficili da rendere come la malinconia, il dolore, la felicità e l’amore. Un poeta/cantante il cui ascolto è obbligato se si vuole capire qualcosa in più di se stessi (suggerisco il Gretaest Hits che raccoglie tutti i periodi attraversati dal musicista, da quello cantautoriale a quello rock a quello più sperimentale) o se comunque si vuole conoscere il percorso artistico e umano di un gigante della cultura occidentale, che è stato capace di andarsene con la classe che lo ha sempre contraddistinto, lasciando che siano le sue parole a ricordarlo in eterno.

‘Smile’: Il fantasma dei Beach Boys

Capita molto raramente di vedere dei fantasmi, ma in campo musicale qualche volta succede ed il “fantasma” più famoso del rock è senza dubbio SMiLE, il leggendario album dei Beach Boys, cancellato improvvisamente a pochi giorni dalla pubblicazione dall’autore Brian Wilson e rimasto inedito per più di quarant’anni. Negli anni la fama di “capolavoro perduto”, di “opera maledetta”, ne ha accresciuto enormemente il fascino facendogli assumere contorni mitici, alimentando, cosi, l’affannosa ricerca di collezionisti e la continua pubblicazione di bootleg contenenti stralci di quelle fantastiche sessions. Nel 2011 il mistero è stato svelato. Le SMiLE Session sono state pubblicate (lo stesso Wilson ne aveva riproposto una sua versione “solista” nel 2003 ma si stratta di tutta un’altra cosa), la scaletta originaria è stata ricostruita svelando l’incredibile bellezza e complessità di un album magnifico e geniale. Difficile anzi difficilissimo, un caleidoscopio di colori e note in cui nulla è casuale ma collocato nel punto esatto in cui era previsto che fosse, seguendo un preciso percorso sonoro ben stampato nella mente dell’autore. Vi si possono trovare suoni “insoliti”, pezzi di altri brani, armonie vocali, struggenti ballate, testi visionari e lisergici, surf e malinconiche ballate, in un mosaico apparentemente senza senso ma che dopo il primo ascolto assume un disegno ben preciso.

“Una sinfonia adolescenziale diretta a Dio”. (Brian Wilson-1966)

Il livello raggiunto in Pet Sounds, viene ampiamente superato attraverso l’ideazione e la composizione di un album in forma di una lunga suite, contenente brani scritti appositamente ed incisi con tecniche innovative, per poi venir legati tra loro con grande forza concettuale ed abilità musicale. Un lavoro monumentale che avrebbe dovuto essere la risposta americana a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles e che avrebbe dovuto proiettare la musica pop in un’altra dimensione.

Our Prayer ed il doo-wop di Gee, per la loro breve durata e mancanza di testo, possono considerarsi l’introduzione ad Heroes And Villans, uno dei pezzi cardine del disco  caratterizzato da continui cambi di tempo e partiture impossibili. Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock) riprende il refrain del brano precedente per poi fondersi senza soluzione di continuità con i raccordi di I’m In The Great Shape e Barnyard in cui vengono ospitati versi di animali. Una rivisitazione psichedelica e lisergica di You Are My Sunshine (classico della tradizione americana), intitolata My Only Sunshine (The Old Master Painter/My Only Sunshine), porta a Cabin Essence, altra canzone incredibile, dove alla strofa molto dolce e delicata si contrappone un ritornello martellante e “ondulatorio”.

SMiLE-Capitol Records

La meravigliosa Wonderful, con il suo tono sognante e l’inconfondibile suono del clavicembalo, la scherzosa Look (Song For The Children), la quasi strumentale Child Is The Father Of The Man, l’incredibile Surf’s Up (una delle migliori interpretazioni di Wilson), le divagazioni di I Wanna Be Around/Workshop (con tanto di suoni da falegnameria!), gli ortaggi sgranocchiati di Vega-Tables, il cui ritornello è una delle migliori composizioni dei Beach Boys, l’assurda Holidays, le rarefatte atmosfere di Wind Chimes, la delirante The Elements: Fire (Mrs. O’Leary’s Cow), le pause di Love To Say Dada, il capolavoro indiscusso Good Vibrations ed la deliziosa You’re Welcome, brano di chiusura dell’album, sono tutte parti di un arazzo musicale che prende forma ad ogni microsolco. Un album assurdo, irripetibile che mette in evidenza tutto il genio musicale di Wilson ma anche tutta la sua fragilità psichica che lo porta ad abbandonare il progetto (anche per l’ostilità degli altri membri del gruppo a pubblicare un disco cosi difficile) e lo costringerà ad anni di paranoia e depressione. Non capito, ripudiato, SMiLE viene smembrato ed i suoi pezzi vengono riciclati per dare sostanza a lavori francamente trascurabili (da Smiley Smile a 20/20) scempiandone le intenzioni artistiche e la qualità intrinseca. Ora la domanda è: chissà come sarebbe cambiato il mondo musicale se fosse stato pubblicato nel 1967…

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