L’ultima cena woke, l’ignoranza social e la violenza simbolica alla fede

Il web è straordinario: dopo la cerimonia olimpica di Parigi, l’indignazione di molti esponenti del mondo cattolico per la parodia dell’Ultima cena in salsa queer/woke, e le dichiarazioni degli organizzatori sulla loro non volontà di deridere il capolavoro di Leonardo, molti sui social si sono improvvisati esperti di arte e iconografia, facendo circolare decine di opere che in qualche modo richiamano al banchetto dionisiaco dello show olimpico che purtroppo per loro non sono nemmeno mai state nella mente e nelle intenzioni di chi ha messo in piedi lo spettacolo. Quasi sicuramente il direttore artistico, che si è limitato ad eseguire delle direttive politiche, non sa nemmeno dell’esistenza di queste opere. Il suo compito è stato quello di provocare.

Nei Baccanali tuttavia non esiste un’iconografia con Bacco cinto di aureola sopra la testa, di un Gesù donna al centro della scena, impersonato dal Barbara Butch.

E peccato che, nonostante il tentativo di metterci una pezza, onde evitare problemi con sponsor e istituzioni cattoliche davanti al mondo, la stessa drag queen Piche su BFMRMC Sport, ha ammesso che si è trattato proprio di una rappresentazione dell’Ultima Cena.

Inoltre prima delle polemiche post cerimonia Liberation, aveva descritto la rappresentazione per quello che è stata: “Barbara Butch nel Gesù Cristo queer accompagnata dai suoi apostolo LGBTQ”.

Butch che su IG ha confermato che si trattava di Ultima cena postando il messaggio: “Oh sì! Oh sì! Il Nuovo Testamento gay!”. Un boomerang, devono averle fatto notare, tant’è che la rapper ha prontamente cancellato tutto.

Si è espressa anche la direttrice della comunicazione Anne Descamps: “La nostra intenzione non era quella di mancare di rispetto ad alcun gruppo religioso. Al contrario, era quella di mostrare tolleranza e comunione. Se le persone si sono sentite offese, ci scusiamo”.

Comunione dove non sono pervenuti etero, bensì una bambina il cui ruolo sfugge.

Il messaggio dello show è stato chiaro e in linea con i dettami woke e progressisti: della storia cristiana della Francia non ce ne facciamo nulla, la nuova religione è queer e green, il dio della natura Dioniso ha sconfitto il Dio cristiano attraverso la Rivoluzione francese. Non certo quello di una inclusione che prevede rispetto reciproco.

La Francia è stata coerente con l’unica storia che essa vuole riconoscere: l’illuminismo con il quale le nascenti élites finanziarie hanno scalzato le aristocrazie cattoliche europee e l’economia terriera.

Nel frenetico e confuso festival delle contraddizioni, ricco di luci ed effetti speciali ma poverissimo di contenuti e lampi di genio, si è inserita la parodia woke dell’Ultima Cena di Leonardo, con alcune variazioni grottesche, frutto di un pensiero debole che per sembrare potente deve insistere, (urge intervento della psicologia se non della psichiatria), fino a provocare reazioni per poi fare le vittime dei cattivi omofobi che seminano odio.

Un tentativo poco originale di inserire anche la tradizione cristiana nelle diversità da accogliere sulla base di un neo-illuminismo improbabile e confuso? Una rilettura delle dinamiche relazionali degli apostoli secondo una banalizzazione delle logiche queer? Si è chiesto qualcuno. No, probabilmente è più semplice: come già accennato: la nuova religione è woke e queer, di quella vecchia ci si fa beffe e la si assoggetta alle proprie ideologie. Persino il comunista Melènchon si è espresso in questi termini:

Non mi è piaciuta la presa in giro dell’Ultima Cena cristiana, perché pur evitando di parlare di “blasfemia, [perché] questo non riguarda tutti” Mélenchon si chiede anche “perché rischiare di ferire i credenti” anche se lo stato di fatto è “anticlericale. Quella sera stavamo parlando al mondo [e] tra i miliardi di cristiani – si chiede – quante persone coraggiose e oneste [ci sono] che a cui la fede aiuta a vivere e sanno partecipare alla vita di tutti, senza dare fastidio a nessuno.

Ma tornando alla cerimonia di apertura, urge ragionare sul rapporto tra arte e fede: se è vero che il dipinto di Leonardo non rappresenta effettivamente la cena di Gesù con i suoi apostoli, motivo per cui i i fedeli che si sono sentiti offesi, non sarebbero dei veri cristiani, o comunque dei cristiani ignoranti, secondo alcuni intellettualoidi, è altrettanto vero che la creazione artistica è la via per raggiungere l’infinito e la trascendenza.

Credere e creare sono due atti fondamentali che l’uomo adotta per raggiungere la trascendenza, come affermava il poeta Paul Valéry, quando scriveva nei Cattivi pensieri che «il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà». A questo futuro perfetto, all’assoluto cercato dall’uomo la fede dà il nome di Dio che talora è esplicitamente riconosciuto come propria meta anche dallo stesso artista. Bach, sommo musicista e grande credente, non aveva dubbi quando poneva in capo alle sue partiture la sigla SDG, Soli Deo gloria, e dichiarava: «Il finis e la causa finale della musica non dovrebbero mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente». Lapidario Hermann Hesse nel suo saggio su Klein e Wagner: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».

Significative anche le parole di Kafka nei suoi Preparativi di nozze in campagna: «L’arte vola attorno alla verità… e il suo talento consiste nel trovare un luogo in cui se ne possano potentemente intercettare i raggi luminosi».

La polemica contemporanea, secondo la quale l’arte dev’essere libera da ogni messaggio per non essere asservita a nessuna ideologia, spesso merita il giudizio sferzante di Borges che, in Altre inquisizioni, ironizzava: «Chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito a dottrine contrarie alle sue».

Insomma L’Ultima cena per molti cristiani è un richiamo alla fede, a Dio, alla spiritualità, sebbene non si tratti strettamente di arte sacra e non racconti esattamente una verità teologica. Si tratta di fede dei semplici, preziosa risorsa per la Chiesa, che i Professoroni farebbe bene a tenere in considerazione. C’è stata una vera violenza simbolica: la parodia woke francese ha affermato la propria libertà di espressione “a prescindere’, cosa che sempre produce violenza. Per di più, nel clima contemporaneo che si presenta segnato da conflitti sempre più drammatici, dissacrare l’iconografia si pone come un atto particolarmente irresponsabile.

 

 

‘Le braci’, il senso della vita secondo Sándor Márai

Le braci, romanzo dell’ungherese Sándor Márai edito per la prima volta nel 1942, racconta la storia dell’amicizia tra due uomini, Henrik detto “il Generale” e Konrad, e di come essa abbia avuto fine in seguito al tradimento del secondo. Il punto di partenza è l’incontro tra i due, che, a distanza di quarantun anni, ha lo scopo di far finalmente luce sugli avvenimenti che li hanno separati.

La prima parte, che coincide con l’attesa di Konrad da parte di Henrik, è occupata dal racconto degli anni della loro amicizia; la seconda, invece, quella dell’incontro, da un lungo dialogo (a dire il vero, più un monologo del Generale) sulle circostanze in cui si è interrotta.

Le braci è uno dei cinque testi Adelphi più venduti di sempre. Un romanzo che è teatro, un dialogo lungo per i canoni del realismo, un alternarsi di due voci tese mentre i sigari dei colonnelli ungheresi scorrono davanti alle immagini di tradimenti impossibili, di tradimenti scampati.

Prosa delicata, linguaggio ricco ed elegante senza mai sembrare nel ridondante. Un lungo monologo del generale Henrik che rivanga le sue memorie e torna indietro di quarant’anni per avere una risposta definitiva a quello che lo tormenta da allora. In mezzo sono infilate lì tante perle sul significato di amicizia, amore, passione, destino che rendono questo libro di sole 180 pagine ricco di riflessioni profonde:

“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che ogni giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, e non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione?”

Marai fa rivivere in ogni attimo gli eventi descritti, creando atmosfere e descrivendo perfettamente i sentimenti di ognuno dei tre protagonisti (Henrik, Konrad e La moglie di Henrik). Ognuno ama e continuerà ad amare gli altri fino al giorno della sua morte, con sfumature e trasporto differenti.

L’autore nomina ripetutamente tutti i personaggi presenti in “Le braci”: Konrad, Kristina, Nini; tutti, a parte il suo protagonista Henrik, che nomina giusto un paio di volte, ma chiamandolo “generale” in tutte le altre occasioni.

Come se Marài volesse mettere in risalto la differenza tra quest’ultimo e gli altri: uomo a cui è stata affibbiata un’etichetta, una posizione sociale fin dalla nascita; status che pare anche gratificarlo abbastanza. Tuttavia, pare che questo lo ponga a un livello inferiore rispetto agli altri, indegno anche di essere chiamato per nome; incarnazione di una figura incolore che quasi non possa essere considerato un essere umano, in cui non arde il fuoco dell’anima come arde nella figura dell’artista, di quel suo amico che, tuttavia, coi suoi modi di fare mostra alcuni dei lati peggiori dell’essere umano.

Chi è più umano, dunque?

A questa e ad altre domande attende la risposta il lettore, così come i protagonisti  attendono la risposta a quella che reputano la domanda essenziale della propria esistenza. Ma una volta che arriva il momento decisivo, nessuna di queste pare essere esaustiva; perché l’esistenza appare davvero come un caso irrisolto.

“Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.”

Le braci si configura come un thriller filosofico che però ad un certo punto vira in un’altra direzione: dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, rievocando i fatti principali, Heinrich si accinge finalmente, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, si congeda dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, senza svelare il segreto.

Il lettore ne resta sconcertato: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, di chi ha visto un’Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale, tutto  svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca.

L’enigmatico finale de “Le braci” è di natura scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la sola risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo.

L’autore

Sándor Károly Henrik Grosschmid, questo è il vero nome di Sàndor Màrai. Nato nell’Aprile del 1900 nella città di Kassa (odierna Kosiche) nell’Ungheria settentrionale, il suo è un tipico caso di scrittore del post decadentismo che vive l’afflizione del distacco dalla sua terra unitamente alla delusione politica dei  totalitarismi del XX secolo.

A soli vent’anni, in piena rivoluzione (erano gli anni delle rivolte organizzate da Béla Kun e della fondazione della Repubblica Sovietica Ungherese), Màrai collaborava come giornalista ed opinionista per una  rivista studentesca ma già qualche anno prima, 1917, aveva dato prova di talento con la raccolta di poesie “Il libro dei ricordi”. Su decisione dei genitori fu mandato ad approfondire i suoi studi di giornalismo in Germania spostandosi tra Lipsia, Monaco e Berlino e diventando una delle firme delle pagine culturali del Frankfurter Zeitung su cui pubblicò tra una recensione teatrale o un articolo di cronaca, approfondimenti critici di opere di Kafka.

 

Le braci – Sandor Marai – Recensioni di QLibri

‘Pastorale americana’ di Philip Roth. Il grande romanzo americano per eccellenza?

Pastorale Americana è un romanzo di Philip Roth del 1997, uno scrittore statunitense, considerato uno dei più importante scrittori contemporanei. Era nato a Newark, nel New Jersey da una famiglia di origine ebraica. Interessante della sua produzione letteraria è che, i suoi romanzi tendono ad essere autobiografici e, in tal senso, Roth creò una sorta di suo alter ego: Nathan Zuckerman, uno scrittore, come lui, attraverso cui cerca di portare nei suoi libri i profondi problemi della sua comunità, l’America lontana dai riflettori, l’America provinciale fatta di famiglie immigrate.

Vincitore premio Pulitzer per la narrativa 1998, Pastorale e americana, come si sa, è un libro che demolisce ogni stereotipo sulla grandezza dell’America e getta una luce sinistra sui suoi valori fondanti. La guerra, la famiglia, il fanatismo, la crisi, sono raccontati da Philip Roth con profondo acume. Un libro che è stato definito da tutti “Il grande romanzo americano”.

Pastorale americana: trama e contenuti

Il cuore di Pastorale americana è ambientato negli anni ’60, con varie digressioni temporali, e narra la storia di Seymour Levov, detto lo Svedese, un idolo per la comunità della sua città, Newark, la stessa Newark che Philip Roth ben conosceva, abitata da americanizzati figli di immigrati che si sono “spaccati la schiena” cercando di emergere nella terra che doveva dar loro nuove possibilità, l’America, e che realizza quel sogno americano fatto di fatica, impegno ma anche soddisfazioni, almeno apparenti. Lo Svedese è un uomo dall’indole buona, perfettamente realizzato, o almeno cosi appare agli occhi di Nathan Zuckerman, che lo ricorda come il più popolare della sua scuola e un idolo per la comunità di ebrei, il loro orgoglio per i suoi successi sportivi.

Nathan ripercorre i ricordi che ha dello Svedese, ci racconta la sua storia, quella reale, di quando faceva sognare la comunità con i suoi successi sportivi, di quando entrò nei marines e anche di quando, con orgoglio, Levov l’aveva chiamato Skip. Nathan, che andava fiero di quel soprannome, ci racconta di un suo incontro con lo svedese dopo molti anni, un incontro casuale a cui ne seguirà un altro; Nathan viene chiamato dallo stesso Svedese perché, in apparenza, interessato a scrivere un racconto su suo padre chiedendo a Nathan, scrittore, un aiuto, ma al loro incontro lo Svedese non riprende questo argomento, piuttosto parla solo di sé e della sua meravigliosa famiglia e con orgoglio dei suoi tre figli maschi. Nathan rimane perplesso, non può credere che in tutti quegli anni quell’uomo, che lui aveva mitizzato, potesse essere così pateticamente ottuso da riuscire solo a vantarsi, tuttavia questo non intacca la figura del suo mito.

“La vita di Ivan Il’ic, scrive Tolstoj, era stata molto semplice e molto comune, e perciò terribile. Forse. Forse nella Russia del 1866 […] La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente in linea con i valori dell’America.

Tutto, però, cambia una sera quando, ad una festa di ex studenti di scuola, incontra il fratello dello svedese, Jerry, un uomo duro, arrogante che parla del fratello, nel frattempo morto, con rabbia e rancore e da quel dialogo Nathan scopre che lo Svedese aveva anche una figlia maggiore, Merry, avuta dalla prima moglie Dawn, ex miss New Jersey, che aveva distrutto la vita di suo padre mettendo una bomba nell’ufficio postale e dove un uomo era rimasto ucciso: la vita pastorale dei Levov è definitivamente distrutta per una realtà di sofferenza e vergogna. Dall’incontro con Jerry, Nathan inizia a riscrivere la sua storia dello Svedese, storia fatta di qualche ricerca e molta emotività.

Immagina lo svedese come un padre modello dietro a sua figlia piccola, una bimba insicura e balbuziente, si tormenta al pensiero di un bacio strappatole quando era adolescente, ricorda di quando la ragazzina era rimasta terrorizzata ma poi affascinata dai monaci buddisti in Vietnam, che per protesta si davano fuoco senza ricevere l’aiuto dei loro confratelli. Immagina la vita dello svedese come finalizzata alla felicità della sua famiglia e a portare avanti la ditta di guanti di famiglia, una società fondata con grande sforzo e lavoro suo padre, un uomo duro, un ebreo con saldi principi a cui, invece, suo fratello Jerry si ribella continuamente.

La figlia imperfetta

La vita dello svedese inizia ad avere i primi problemi quando la figlia inizia a crescere e a frequentare persone di estrema sinistra, la parte violenta dell’America, quella fazione politica che negli anni ’60 compie attentati in nome della pace, che protesta contro la guerra in Vietnam, e disprezza la borghesia arrivista rappresentata proprio da famiglie come i Levov.

Lo svedese e sua moglie non riescono a mettere un freno a questa ragazza che sembra quasi odiarli, soprattutto sua mamma, la miss bellissima e perfetta a cui Merry non potrà mai somigliare: l’epilogo di questi contrasti è nella bomba e nell’uccisione di un uomo. Merry scappa e lo svedese non la vedrà per 5 anni, la cercherà, cadrà nelle mani di una donna misteriosa- su cui comunque
non riusciremo a sapere la verità- fin quando riuscirà a riabbracciare sua figlia, di nascosto da Dawn che, nel frattempo aveva passato turbe psicologiche e rifatta il volto, come se cancellare le sofferenze dal viso, fosse cancellarle dall’anima.

Merry l’imperfetta figlia in realtà è l’unica ad avere una visione chiara sin da subito “la vita è quel breve periodo nel quale siamo vivi” e prova a trasmettere il suo malessere in ogni modo fino ad arrivare a far esplodere delle bombe o perfino al gesto estremo dell’autolesionismo lento e inesorabile che la porterà inevitabilmente alla morte per inedia, ottenendo nel padre un effetto deflagrante ben più grande degli atti terroristici, attaccandolo su un terreno per lui incomprensibile, alzando il velo della pastorale dei suoi ideali così ordinati e falsamente perfetti e mostrando tutto l’orrore, il caos la rabbia della vita e il senso di profonda solitudine che si celano
sotto ad esso.

I rapporti umani tra la quotidianità e la grande storia

Pastorale americana è pervasa dalla difficoltà che caratterizza ormai i rapporti tra le persone, se si esclude una forma di relazione formale e menzognera in cui tutto è narrato come si vorrebbe che fosse, oppure è taciuto. Ma il romanzo è anche lo spaccato di un momento storico che toccò tutta la società americana, coinvolgendo ogni strato sociale e ogni gruppo etnico: gli anni che impegnarono lo Stato nella guerra in Vietnam.

Queste le componenti che incidono maggiormente sulla vita del protagonista, Seymour Levov, di origine ebraica, ma detto lo Svedese per il suo aspetto fisico. E “ordigno dirompente” nella sua vita sarà la figlia Merry che, proprio negli anni del Vietnam, diventerà militante e terrorista, sbalzando fuori lo Svedese dalla “tanto desiderata pastorale americana” e catapultandolo “nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America”. Tutta la storia è narrata dal tradizionale alter ego dell’autore, Nathan Zuckerman, attraverso una analisi complessa dei fatti e dei comportamenti che devia il romanzo verso una sorta di psicoanalisi della società americana contemporanea.

Pastorale americana. Una narrazione inattendibile?

Zuckerman, nel libro, è il narratore extra omodiegetico, oltre che la maschera di Roth, tuttavia, dopo l’incontro con Jerry Levov, diviene un narratore extra eterodiegetico; la focalizzazione è interna, anche se l’autore si avvale dello spostamento di focalizzazione tra Zuckerman e Jerry durante il loro incontro al raduno di ex allievi. Un narratore inattendibile Zuckerman perché narra la storia dello Svedese contornata da quell’alone di mitizzazione con cui l’aveva sempre visto, alla luce di ciò non può essere obiettivo verso Levov; inoltre, il lettore si trova a dover ricostruire la storia da due descrizioni differenti della vita dello Svedese, appunto quella mitizzata
di Zuckerman e quella cruda e quasi rancorosa di Jerry Levov.

Il lettore può ricostruire la sua propria storia portando avanti alcuni punti non chiariti, questo perché il romanzo segue una delle
caratteristiche della letteratura contemporanea: la multilinearità, una storia con molti plot può avere molti narratori, e, quindi, lettori che possono seguire diverse storie riscrivendole. Ad esempio non sappiamo perché Seymour aveva voluto incontrare Zuckerman: voleva scrivere un libro su suo padre? Avrebbe voluto scriverne uno in omaggio a sua figlia? O magari una propria
autobiografia? Siamo certi che quello che raccontano sia Roth che Zuckerman sia la verità? O l’America è ancora più complessa come le relazioni umane?

In Ho sposato un comunista, romanzo di Roth, si legge: «Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature?» Sfumature alle quali Roth non ha rinunciato, ma siamo certi che lo scrittore sia riuscito davvero a mediare tra realtà e verità?

‘Racconto d’autunno’ di Tommaso Landolfi. Il rapporto impossibile tra sfondo resistenziale e sfera del fantastico

Il romanzo Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi è stato pubblicato nel 1947 a Firenze dall’editore Vallecchi, ed era stato scritto l’anno precedente nella villa familiare di Pico, luogo di nascita dell’autore. A livello autobiografico la vicenda potrebbe rappresentare il difficile rapporto di Landolfi col padre e la morte prematura della madre, ma soprattutto il suo rapporto con la guerra, durante la quale Landolfi fu incarcerato per attività antifascista e la sua casa di famiglia “sventrata”1 dalla guerra come la villa del Racconto.

Racconto d’autunno: tra storia e fantasia

A livello di testimonianza storica, quindi, il romanzo si ambienta nel contesto della Seconda guerra mondiale, e le vicende si situano nel tempo della guerra, ma il Racconto tratta solo marginalmente di vicende belliche, mentre il combattente (protagonista del romanzo) vive le vicende che lo segnano di più non in battaglia, ma dentro il rifugio della villa, in cui si inseriscono elementi appartenenti al genere del fantastico: Maria Antonietta Grignani ha pensato che Racconto d’autunno potesse rappresentare “il rapporto impossibile tra sfondo resistenziale e sfera del fantastico”.

In particolare, si può suppore una volontà di rifacimento da parte dell’autore del genere del romanzo gotico e romantico, pervenendo però a fatti e ambientazioni vicini al surreale. Tuttavia, dato il contesto realistico, è possibile che Racconto d’autunno abbia dei legami con il coevo movimento del Neorealismo, i cui romanzi erano ambientati in contesti di resistenza e guerra partigiana, anche se Landolfi si volle distanziare da questo movimento, presentando piuttosto tematiche perturbanti e inattuali.

Nonostante il fatto che l’ambientazione nell’avvio del romanzo sia realistica, le circostanze temporali e storiche rimangono volutamente nell’indeterminato: è presente lo spettro di una guerra, sia nell’iniziale ricerca di un rifugio da parte dell’uomo (<<due eserciti si scontravano sul nostro suolo […] coloro che ne avevano la possibilità si erano organizzati per una resistenza armata o
addirittura per l’offesa, altri resisterono almeno passivamente alle imposizioni degli invasori, altri infine badarono soltanto a togliersi dal folto della mischia” dove gli invasori corrispondono ai tedeschi>>), sia nella tragica conclusione della morte della ragazza.

Se dovessimo collocare il Racconto d’autunno in un genere letterario dovremmo tenere conto della volontà di Landolfi di inserire in un contesto realistico elementi sovrannaturali e tinte fosche e di concentrarsi soprattutto su aspetti perturbanti e di mistero della vicenda; questa commistione di aspetti mi ha fatto propendere a pensare che Landolfi si sia voluto avvicinare a un rifacimento del genere gotico ottocentesco.

La presenza di una iniziale ambientazione realistica della storia, potrebbe accostare il romanzo alla categoria critica di “fantastico d’imposizione” formulata da Francesco Orlando in Il soprannaturale letterario, che riscontrava in molti testi novecenteschi elementi sovrannaturali che si impongono al lettore fuori da un contesto tradizionalmente fantastico (fiaba, mito, epica), ma immersi in un contesto ordinario e realistico, come quello di Racconto d’autunno. Il romanzo presenta tuttavia, numerosi riferimenti e topoi danteschi e mitologici.

La solitudine di Landolfi

Per tutta la vita Landolfi si sentì un uomo fuori dal suo tempo, un aristocratico borbonico nato in un tempo non suo, il Novecento, di cui volle dare un punto di vista inattuale, anche nelle scelte linguistiche e lessicali, aventi la funzione di un rifugio rispetto alle mode e ai movimenti letterari del suo tempo, per questo definita “lingua pelle”.

L’intera narrazione è pervasa da un’ossessione descrittiva; questa ipertrofia descrittiva non ha però la funzione di chiarificare quanto descritto, ma di renderlo più vago e a volte labirintico, come nel caso della descrizione della casa, vero e proprio labirinto, di cui invano il protagonista tenta di afferrare l’interezza.

Il periodare, infatti, ha un andamento piuttosto ampolloso e ricercato, di sapore ottocentesco, caratterizzato da una maggioranza di frasi ipotattiche, lunghe, complesse, che presentano spesso incisi, alternate a frasi brevi, anche di una sola parola, nei momenti di maggior effetto o tensione. La prima parte si presenta come più ampollosa, digressiva e caratterizzata dal dialogo interiore, fino al climax, dopo il quale, nella seconda parte, sono presenti più dialoghi.

Le scelte lessicali sono quasi manieristiche, in stile arcaizzante e ottocentesco: si evidenziano parole antiche fuori dall’uso comune (“scalpiccio”,” zolfanello”, “fucile a focone” “strenna francese”, “pugnale o stocco damascati”, “doppieri d’argento”, “zoppa consolle”, “amoerro”) o in forme desuete (“laberinto”, “Affrica”). Nel complesso le scelte lessicali di Landolfi, spesso ossessivamente ricercate e
manieristiche, sono state definite come quelle di “un autore novecentesco, ossessionato fino alla nevrosi dalla insufficienza e opacità del mezzo linguistico rispetto a un’intangibilità del reale.

 

BIBLIOGRAFIA

Tommaso Landolfi, Opere, I, 1937-59, Rizzoli, Milano, 1991.

Francesco Orlando, Il soprannaturale letterario, Einaudi, Torino, 2018.

Maria Antonietta Grignani, L’espressione, la voce stessa ci tradiscono. Sulla lingua di Tommaso
Landolfi, Bollettino ‘900, 2005.

 

‘Il libro dell’inquietudine’, lo Zibaldone di Pessoa. Vivere di pura visione

Scrivere del Libro dell’inquietudine (1982) che è stato definita a ragione “il più bel diario del secolo” non è facile proprio per la singolarità stilistica del grande poeta e prosatore Fernando Pessoa. Pessoa, il cui cognome in italiano significa persona, nacque a Lisbona nel 1888 e lì morì nel 1935. Passò la giovinezza in Sudafrica, a Durban, perché il suo patrigno era console del Portogallo e rientrò a Lisbona nel 1905 dove lavorò come impiegato in una ditta di import-export in forza della sua ottima conoscenza dell’ inglese appreso in Sudafrica.

Che cos’ è il il Libro dell’ Inquietudine? Si può dire che è un’ opera aperta, in itinere, che secondo le intenzioni dell’ autore, non avrebbe dovuto essere conclusa. Ancora in questi ultimi anni è oggetto di studio, di ricerca, concentrandosi su quello che è definito il “Baule” cioè tutta la mole degli scritti finora ritrovata. La particolarità di questo diario è la presenza degli Eteronimi, ossia personaggi altri non pseudonomi dell’autore bensì dotati di nome, cognome, con vita propria, autonomi. Ad esempio i più noti sono tre, dato che se ne contano circa  una settantina: Alberto Caero, Riccardo Reis, Alvaro de Campos, il quarto è Bernardo Soares che è un semieteronimo in quanto è quello più vicino a Pessoa, la sua proiezione.

Pessoa è l’autore  del ‘ 900 che più di tutti ha frantumato l’unità del soggetto. Bernardo Soares, come detto, è un personaggio fittizio, un contabile come appunto Pessoa, un suo doppio, parzialmente eteronimo. Qual è quindi l’ origine di questi personaggi altri? Perché l’ esigenza di moltiplicare il proprio io? In una lettera ad un amico Pessoa scrive:

“L’origine dei miei eteronimi è il tratto di isteria che esiste in me. Non so se sono proprio un isterico o un istero-nevrastenico. Propendo per questa seconda ipotesi perché in me ci sono fenomeni di abulia. Come che sia, l’ origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Essi esplodono verso l’ interno e io li vivo da solo con me stesso”.

Ciascuno dei personaggi di Pessoa vive a sua volta come una privazione, una mancanza. Careiro ha una salute precaria e scarsa istruzione e scrive il portoghese peggio di Pessoa, mentre Reis lo scrive meglio di lui e tende ad un eccessivo purismo. Soares è un Pessoa con poco raziocinio e affettività. Questa aspetto significa che l’ortonimo Pessoa ha un’ incapacità ad esprimersi compiutamente in tutte le possibilità  e quindi deve creare figure fittizie, finzioni. In questo senso celebri sono i versi tratti da Autopsicografia:

“Il poeta è un fingitore/ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente”. Tutto ciò porta a una sorta di “ Male” cioè il “ Desassossego” ossia una perdita, una privazione, mancanza di  sossego, di quiete, tranquillità. Ancora: “ Il mio carattere è tale che detesto il principio e la fine delle cose chè sono punti definiti. Mi sconvolge l’ idea che si trovi una soluzione ai problemi della scienza, della filosofia..”. Arriviamo al punto nodale che peraltro fin qui si è cercato di esplicitare e cioè che lo scrittore in realtà vive davvero fra la vita e la coscienza di essa, fra il reale che guarda e il reale che riproduce nello scrivere. Soares-Pessoa è come in uno stato di veglia, infatti scrive: “ E’ meglio scrivere piuttosto che osare vivere”, ciò vuol dire che la creazione letteraria è uno spazio sì fittizio ma per luivera vita per sfuggire , come scrive, “ all’ incompetenza verso la vita”. Ancora: “ Rifiuto la vita reale come una condanna, rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale e vivo la parte più intensa e più costante del sogno”. Dice : “ Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno è incarnato in un’ altra persona che inizia a sognarlo e non sono io”.

Pessoa ama con lo sguardo, non con la fantasia. “ Io vivo di pura visione” dice, il che non vuol dire essere visionari ma saper osservare, cogliere i dettagli.

“Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Per creare mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi”.

I pensieri racchiusi ne “Il libro dell’inquietudine” sono pura poesia. Versi malinconici intrisi di sentimento che affasciano e al contempo disturbano il lettore. Le emozioni si dimostrano nate  dall’intelletto e non dall’esperienza di vita. Da ciò quest’ultima è percepita quale falsa, perduta, affetta dalla noia; anche il dolore che viene provato lo è. Perché il novellatore è fingitore e per convivere con il proprio malessere deve autoconvincersi che anche questo assunto non è verità.

Le riflessioni di Pessoa contengono una possibilità religiosa e la certezza della pochezza della natura umana:

“Ho considerato che Dio, pur essendo improbabile, potrebbe anche esistere e che, pertanto, si poteva adorare; ma che l’Umanità, essendo una mera idea biologica, e non significando altro che la specie animale umana, non era degna di adorazione più di qualsiasi altra specie animale. Questo culto dell’Umanità, con i suoi riti di Libertà e di Uguaglianza, mi è sempre parso una reviviscenza di culti antichi, in cui degli animali erano come dèi, o gli dèi avevano teste di animali.”

La stanchezza e lo sconforto di Pessoa non sono depressione, ma rimpianto, nostalgia e consapevolezza di essere diverso dagli altri e forse di non essere amato nel suo essere diverso, alla ricerca dell’equilibrio perduto.

 

Pasquale Ciaccio

‘Avventure della ragazza cattiva’ di Vargas Llosa. Ossessione d’amore tra Europa e America Latina

Nella prima parte è un continuo procedere per accumulo, non ci sono sviluppi nel romanzo del 2006, Avventure della ragazza cattiva dello scrittore peruviano naturalizzato spagnolo Mario Vargas Llosa, a metà fra il picaresco e la storia d’amore. Solo nella seconda parte ci si appassiona alle vicende di Lily, femme fatale trasformista e di Ricardo, anonimo interprete peruviano, un uomo medio senza ambizioni.

Nel 1950 il giovane Ricardo scopre di essere innamorato di una ragazza cattiva, una niña mala che lo fa impazzire con il suo charme ma gli dice sempre di no. Quando le loro strade si separano, Ricardo si trasferisce a Parigi. Ma anche qui la niña mala riappare, in una nuova versione: una militante del Mir in partenza per Cuba, dove verrà addestrata alla guerriglia. Da allora, nella vita di Ricardo, si alternano il lavoro di interprete e i tormenti che la ragazza cattiva gli infligge, in un crescendo che porterà il protagonista ad affrontare il suo vero sogno: scrivere. Un ritratto palpitante del mondo europeo e latinoamericano, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, un’ispirata rievocazione condotta senza nostalgie ma con lucida intensità, sostenuta da una scrittura che si fa sempre piú limpida e rarefatta. Con protagonisti ed eventi reali e altri di fantasia, che insieme congiurano a creare l’affresco illuminante di un’intera stagione.

Stai diventando una huachafita [donnetta sentimentale, n.d.r.] anche tu, niña mala, – la baciai sulle labbra. – Dimmene un’altra, un’altra, per favore.

Lily, però, non giganteggia su Ricardo, non ha fascino e carisma perversi, risulta ripetitiva e prevedibile nella sua inaffidabilità. Ed è proprio quo che risiede l’aspetto più sorprendente e riuscito del romanzo: il premio Nobel Losa non rende la protagonista l’eroina della storia, semmai il personaggio più riuscito risulta Ricardo, con la sua umanissima e comprensibile debolezza, con la sua pazienza, col suo amore che sembra non subire mai un rallentamento. Ricardo è umile, è un uomo che lavora per vivere, che ama la letteratura e le lingue straniere, soprattutto il russo. È un uomo non bello, ma costante e stabile. E sembrano risiedere proprio qui la sua forza e straordinarietà che fa da contraltare alla “banalità” della cattiva ragazza che intontisce l’uomo ordinario, destinato prima o poi a soccombere.

Vargas Llosa riesce a costruire un intreccio narrativo di grande effetto puntando sulla personalità dei personaggi, in cui lo stesso Ricardo, il Niño Bueno, racconta in prima persona le proprie pene d’amore, la sua vita costellata dalla presenza-assenza della femme fatale (“Ero sicuro che l’avrei amata sempre, per mia felicità ed anche per mia infelicità”).

L’autore peruviano tuttavia non si limita a raccontare una storia di amore e di ossessione, inducendo il lettore ad empatizzare con il protagonista, evidenzia infatti la sua capacità di emersione dalle “paludi” di un paese dell’America Latina, il Perù, ancora molto, troppo povero, afflitto da tensioni e instabilità politiche tali da non garantire condizioni di vita dignitosi per il suo popolo, arricchendo così il contenuto di questa opera di riflessioni extra sentimentali.

Llosa infatti conduce il lettore in un’Europa in pieno fermento, partendo da Parigi, città affascinante e piena di opportunità, centro nevralgico della vita culturale europea e culla delle rivolte studentesche sessantottine, per poi spostarsi in oltremanica, in una Londra hippie anni settanta, centro di avanguardia artistica, capitale mondiale di una rivoluzione psichedelica fatta di droga, rock’n’roll e amore libero, passando per per Tokio, dove all’ordine e al rigore che traspaiono dalle strade durante il giorno, si contrappone la perversione della vita notturna. Nei cangianti (come le identità di Lily), contesti storico-geografici si muovono le disavventure amorose di due protagonisti legati da un rapporto viscerale tra Europa e America Latina.

‘Lettera al mio giudice’, il femminicidio raccontato da Georges Simenon

Opera del 1947 dalla scrittura sobria, atmosfere parigine come quelle di film quale “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, pellicola del 1938, Lettera al mio giudice di Georges Simenon è un libro dalla narrazione sempre tesa, anche perché, dopo l’introduzione, è il protagonista stesso che racconta via via ciò che vive – azioni, pensieri, sentimenti – un protagonista peraltro singolare nella sua assoluta “normalità” borghese.

Di grandissima attualità, Lettera al mio giudice è uno dei più famosi di Simenon, e racconta quel che oggi è chiamato femminicidio, e un femminicidio messo in atto per una forma malata di amore: da un lato quella dell’uomo che aspira a possedere la totalità della “sua” donna, anima e corpo, passato e presente, fantasie sentimenti pensieri, innanzitutto quelli relativi alla sfera sessuale, a fare di lei un oggetto conforme ai propri desideri, e dall’altro quella della donna che, incapace di difendere la propria integrità psicologica prima ancora che fisica, si sottomette a lui e si sente tanto più amata quanto più la smania di possesso di lui si fa violenta: soffre non sentendomi tutta tutta sua, quindi mi ama davvero. Non casualmente lei è povera, di scarsa cultura e non particolarmente intelligente: inferiore a lui e dunque vulnerabile, insomma.

Quanto a lui, egli ha inconsapevolmente maturato nel tempo un desiderio di rivalsa nei confronti de “la donna”, ossia la madre, alle cui aspettative egli si è adeguato, innanzitutto ascendendo ad un livello culturale e socio-economico superiore a quello delle sue origini, e poi la seconda moglie, Armande, da cui si è sempre sentito diretto tanto da non sentirsi veramente “in famiglia” con lei e le due figlie.

Attraverso le parole di lui seguiamo dunque la progressiva riduzione della libertà di lei e l’estendersi del dominio dell’uomo sulla donna fino all’irrimediabile atto finale. Simenon dà infatti la parola direttamente all’assassino, il dottor Charles Alavoine, notabile in una cittadina di provincia, e ci mostra il percorso tortuoso che la sua mente compie per arrivare ad uccidere la donna amata  – non la moglie poco amata e spesso detestata -,  non per punirla di un qualche tradimento, come per esempio avviene ne “La sonata a Kreutzer” di Tolstoj, ma come gesto estremo d’amore.

Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei

Qual è l’infingimento, il sofisma, l’alibi cui la sua mente … no, la sua affettività malata ricorre per giustificare la propria furia distruttrice nei confronti della poveretta? “Liberarla” da quelli che chiama i suoi  – suoi di lui –  “fantasmi”, che poi sono la consapevolezza che lei ha già fatto l’amore con altri uomini, uomini raccattati nei bar che ama frequentare (e a proposito di bar, Simenon li ama perdutamente come ama tutti i territori “ai margini” e ha un suo tipico modo di rappresentarli che porta una chiara impronta esistenzialista).

Perché Alavoine scrive una lettera al suo giudice e non per esempio un diario? E perché prima dell’esito del processo? Perché è convinto  – non si sa se a torto o a ragione – , che egli capisca e anzi intuisca le sue ragioni grazie ad una superiore sensibilità rispetto a tutti gli altri, i quali hanno visto nel suo atto l’esito di una gelosia giustificata dai trascorsi della vittima, la quale in passato aveva avuto molteplici relazioni anche prostituendosi, tanto giustificabili  – quella gelosia e perciò l’assassinio –  che la moglie si dichiara persino pronta a riaccogliere il marito se assolto.

Se Alavoine si suicida e  senza nemmeno aspettare il verdetto, che potrebbe anche non essergli sfavorevole, non è solo perché la vita senza Martine non avrebbe senso, non è solo per seguirla nella morte, ma perché la sua eventuale assoluzione o la riduzione della pena, significherebbe avallare l’idea che  ella fosse una donna di poco valore, indegna del suo amore. E questo lui non lo vuole. In un certo senso, è così che l’uomo le dimostra il suo amore.

Non sono pazzo. Sono soltanto un uomo, un uomo come gli altri, ma un uomo che ha amato e sa cos’è l’amore. Vivrò in lei, con lei, per lei, finché mi sarà possibile, e se mi sono imposto questa attesa, se mi sono imposto quella specie di farsa che è stato il processo, è perché lei deve continuare a vivere in un altro, a qualsiasi costo.

 

 

 

Il mondo tradizionale di Tolkien e i maestri censori della mostra a lui dedicata

Pochi giorni fa si è inaugurata la mostra su Tolkien e il giudizio dei Maestri Censori oscilla tra questi due anatemi.
Molti si formarono sul Signore degli Anelli, basti pensare agli impresari e divulgatori del tolkenismo nostrano; a partire da Alfredo Cattabiani che lo pubblicò da Rusconi, Elémire Zolla che lo propose, Gianfranco De Turris che ne è il vicario nostrano e Oronzo Cilli che ha curato la mostra.

Negli anni ’50-’60, Il Signore degli Anelli era una specie di Bibbia favolosa per i giovani di destra in libera uscita dalla storia; ma era anche un nuovo libro Cuore per la formazione dei ragazzi al tempo degli anni di piombo. Era un breviario per la gioventù tradizionalista, che piaceva sia ai cattolici che ai neopagani; quei ragazzi si allontanavano dalla mitologia fascista per abbracciare una nuova mitologia fuori dalla storia e dall’ideologia. Una mitologia mite, ecologista, nutrita di boschi e di pacifici hobbit, creature piccole, buffe, inoffensive. Certo, poi c’erano i maghi che erano la trasposizione in fiaba degli Evola e dei Guénon, c’erano i guerrieri che lottavano con la Compagnia dell’Anello.

Quel viaggio fantastico tra gli Hobbit disarmava l’egoismo, la brama di potere, la volontà di potenza. Una teologia primordiale e puerile, una specie di scoutismo eroico e magico, dove si intrecciano elementi celtici e pagani ed elementi cristiani, e dove si contrappongono in modo netto le forze del bene e le forze del male. Con gli hobbit e l’eroic fantasy molti giovani di destra cercavano la loro rivincita dal regno storico dei vinti.

La sinistra reputava il tolkenismo di destra un’oasi di ricreazione del nazismo, quasi l’asilo nido per la militanza fascista.
Anche chi non ama particolarmente gli Hobbit, trova piacevole il ripiegamento nella dimensione fiabesca del fantasy e dei mezzi uomini dai piedi pelosi: una fuga dalla realtà, frutto dell’incapacità di affrontare il mondo, preferendo rifarsi delle sconfitte storiche rifugiandosi nei castelli della fantasia. Tolkien dava una rappresentazione fiabesca del Mondo della Tradizione; quasi un rifugio in un mondo magico di eroi, maghi e demoni e la realtà della vita quotidiana. Tolkienismo, malattia infantile del tradizionalismo.

Ma gli hobbit e gli elfi nel frattempo hanno colonizzato l’immaginario globale, sono esplosi al cinema e tra le masse. Quei giovani sognatori di Frodo erano gli ignari precursori di un bisogno profondo, diffuso e insoddisfatto. Come può una saga priva di storie d’amore, di sesso, priva di storia, di modernità, perfino priva di scarpe, suscitare una così accesa passione planetaria? C’è qualcosa che sfugge alle contabilità del nostro tempo.

La fuga dal presente cresceva anche a sinistra, ma anziché inseguire tempi favolosi e medioevi dello spirito, come facevano i ragazzi di destra, inseguivano miti esotici e rivoluzioni premoderne, ondeggiando tra Mao, Hochimin e il Che. L’altrove della destra era fuori dal tempo; l’altrove della sinistra rivoluzionaria era fuori dallo spazio capitalistico-occidentale. Gli uni a cavallo, gli altri in bicicletta. L’unico Medioevo che si affacciò poi a sinistra fu quello del Nome della rosa; ma il loro Tolkien era l’Eco dell’illuminismo e del progressismo. A destra, Tolkien ridava invece fiato all’immaginario simbolico del Graal, di Re Artù e perfino alla Divina Commedia col suo cammino iniziatico dagli inferi al cielo.

Il sacro si incontrava con il santo, il mito con la storia sacra, e gli elfi apparivano un po’ angeli e un po’ déi, tra fate e madonne in una rappresentazione infantile e manichea della lotta tra il Bene e il Male. Nessuno più ricorda i libri di culto della sinistra giovanile negli anni settanta mentre è ancora vivo oggi il librone che piaceva ai ragazzi di destra. Come mai la colta sinistra ha ceduto il Libro all’incolta destra dei boschi? Perché il bisogno di coltivare mondi ulteriori, di viaggiare in dimensioni fantastiche, di passare dall’inferno al paradiso, ce lo portiamo dentro di noi, sempre.

Il Signore degli Anelli è un romanzo d’eccezione, al di fuori del tempo: chiarissimo ed enigmatico, semplice e sublime. Esso dona alla felicità del lettore ciò che la narrativa del nostro secolo sembrava incapace di offrire: avventure in luoghi remoti e terribili, episodi d’inesauribile allegria, segreti paurosi che si svelano a poco a poco, draghi crudeli e alberi che camminano, città d’argento e di diamante poco lontane da necropoli tenebrose in cui dimorano esseri che spaventano solo al nominarli, urti giganteschi di eserciti luminosi e oscuri; e tutto questo in un mondo immaginario ma ricostruito con cura meticolosa, e in effetti assolutamente verosimile, perché dietro i suoi simboli si nasconde una realtà che dura oltre e malgrado la storia: la lotta, senza tregua, fra il bene e il male. Leggenda e fiaba, tragedia e poema cavalleresco, il romanzo di Tolkien è in realtà un’allegoria della condizione umana che ripropone in chiave moderna i miti antichi.

Il mito abita dentro la nostra anima, e niente può sfrattarlo; il senso del sacro è una dimensione radicale, costitutiva del nostro essere uomini. Possiamo figurarlo in modi diversi, ma non sopprimerlo. Da quando il mondo ha scoperto di essere dentro un’unica dimensione globale, si avverte ancor più il bisogno di abitare un’altra città non dominata dalla tecnica e dall’economia. Una città dell’anima e dei sogni, dove abitano i desideri e le pulsioni, i sentimenti e i valori negati nella realtà: è il bisogno di connettersi a un’altra dimensione, la necessità di trascendere il nostro io piccino e quotidiano, il nostro presente meschino e profano. Non sappiamo vivere senza un aldilà.

Oltre la fisica cerchiamo una metafisica. Anche puerile, anche impraticabile, e fantasiosa; ma ne abbiamo bisogno come il pane; anzi il lembas, il pane degli elfi, indigesto alla sinistra e a certi giornali che parlano di Tolkien di Stato. Polemiche che probabilmente rivelano una determinata propensione da parte della sinistra ad etichettare tutto ciò che non appartiene alla loro cultura, come estrema destra o fascista.

Tolkien è riuscito intelligentemente a dare ad ogni archetipo una profondità e una solidità fuori dal comune, raccontando per ognuno di loro una storia che è rappresentativa del clan a cui appartiene. Il passato di Aragorn, ad esempio, parla non solo di lui ma di tutti i Raminghi.

Probabilmente la più grande impresa di Tolkien è quella di aver scritto un romanzo epico che sembra del tutto pertinente alla realtà dell’epoca in cui viviamo. Quando leggiamo storie medievali del medesimo genere, per quanto piacevoli le possiamo trovare, siamo talvolta tentati di domandare al Cavaliere Errante: la tua missione è così importante? Ma forse la sinistra mal tollera le storie medievali scritte da un cattolico, da un conservatore, perdipiù caratterizzate da uno spiccato ambientalismo (sano).

 

Perché Tolkien ammaliò i ragazzi di destra  

Exit mobile version